Edicola – Opinioni

La scorciatoia miope di spronare i consumi con i risparmi di domani

La scorciatoia miope di spronare i consumi con i risparmi di domani

Alessandro Pansa – Corriere della Sera

Meglio un uovo oggi che una gallina domani. Con il trattamento di fine rapporto (Tfr) in busta paga e l’aumento delle imposte sui rendimenti dei fondi pensione e degli enti di previdenza, la legge di Stabilità privilegia i consumi a scapito dei risparmi. E poco importa se chi si anticipa la liquidazione paga più tasse diventando complessivamente più povero, o se in Europa tutti i Paesi tranne la Norvegia non tassano i redditi della previdenza. La crescita non c’è? Sproniamola con i soldi di domani. Al contrario, l’Italia ha bisogno di risparmi ed investimenti per gestire la profonda crisi in cui è precipitata e dalla quale uscirà con difficoltà, sacrifici e tempi lunghi. Le leggi per la crescita servono a poco e l’ottimismo degli annunci è controproducente. Anche perché il governo, per ora, di questa crisi non porta la responsabilità.

Il quadro è impressionante. I posti di lavoro disponibili nell’industria sono scesi, in dieci anni, di oltre il 15 per cento; la quota dei beni ad alto contenuto di conoscenza prodotti dalle imprese italiane si è ridotta di oltre il 30 per cento dal 2000; il divario (gap) tecnologico con i Paesi emergenti – cioè il tempo che occorre a questi ultimi per costruirsi una tecnologia simile alla nostra – è crollato da undici a sette anni dal 2004 ad oggi; la maggiore sensibilità (gli economisti direbbero elasticità) delle esportazioni ai prezzi si accompagna al ritiro dell’industria dai settori dove c’è più domanda di conoscenza e di occupazione qualificata; ci siamo mangiati, a partire dagli Anni 90, più del 30 per cento dello stock di capitale accumulato nei decenni passati: senza capitale non crescono produttività ed occupazione, qualsiasi siano le leggi. Se poi dovesse continuare l’uscita di capitali – 70 miliardi netti in due mesi – si indebolirebbe la struttura finanziaria.

Non è colpa del governo Renzi, né di quelli prima di lui. Dal 1989 abbiamo scelto di aderire progressivamente ad un sistema fondato su libertà di movimento dei capitali, cessione di sovranità monetaria e trasferimento di consistenti quote di potere ai mercati. Condivisibile. Di più: necessario, per l’Italia di allora. Ma, a differenza di altri Paesi europei – la Germania ha puntato sulla resilienza della manifattura, la Francia sull’alta tecnologia e la Gran Bretagna sul dominio della finanza – l’abbiamo fatto senza creare né valorizzare vantaggi competitivi, che pure c’erano. Venticinque anni dopo, ci interroghiamo sul costo della liquidazione dell’Ente partecipazioni e finanziamento industrie manifatturiere (Efim); ci domandiamo se abbiamo fatto bene a cancellare l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri); scontiamo privatizzazioni condotte senza modelli industriali definiti; rimpiangiamo di aver ostacolato la creazione di grandi imprese nei settori agroalimentare, elettronico, farmaceutico, delle infrastrutture di telecomunicazione.

Vogliamo continuare ad illuderci delle «magnifiche sorti e progressive» dell’Italia? O non sarebbe meglio raccontarci la verità? La verità è rivoluzionaria, diceva Gramsci; a chi vuole fare la rivoluzione converrebbe partire da lì. Gli 80 euro, il Tfr in busta paga, il bonus alle neo mamme sono misure che potranno, forse, soccorrere la congiuntura: ma l’assenza di un sistema produttivo in grado di trarne vantaggio le rende irrilevanti rispetto ad una crisi strutturale. Il sistema in cui siamo – per fortuna! – integrati, ci obbligherà ad affrontare un doloroso processo di ristrutturazione, qualcuno lo chiama svalutazione interna: compressione dei consumi, riduzione del valore degli asset, aumento del ritorno sugli investimenti e della produttività del lavoro. Più tardi accadrà, peggio sarà. Il nostro tenore di vita dovrà ridursi sino a quando il risparmio domestico e di capitali esteri faranno crescere gli investimenti, l’occupazione, i salari. Ed il Paese riguadagnerà competitività sui mercati e ruolo nel mondo. Non è roba da gufi, è la sola possibilità per dare una prospettiva alle prossime generazioni, cui non abbiamo il diritto di negare il futuro visto che il nostro ci è stato servito sul piatto d’argento del benessere e della sicurezza, e l’abbiamo in parte buttato via.

Ma il governo? Aiutare i cittadini a prendere coscienza della realtà e gestire questa «traversata nel deserto» come opportunità di rinascita nazionale costituirebbe un merito enorme. Lo potrà fare favorendo il risparmio di oggi e gli investimenti di domani, adeguando i sistemi di welfare, sostenendo lo sviluppo tecnologico ed incalzando gli imprenditori a rafforzare le loro aziende. I politici che hanno condiviso con i propri cittadini «lacrime e sangue» si sono guadagnati un posto nella storia. Chi non ha avuto il coraggio di farlo e ha scelto la politica del «bagnasciuga» è finito nel dimenticatoio della cronaca.

I “bersagli” mancati dalla manovra del governo

I “bersagli” mancati dalla manovra del governo

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Il disegno di Legge di stabilità è finalmente giunto all’esame del Parlamento, dopo alcune giornate in cui giravano, su Internet, varie bozze, accompagnate da annunci di aggiunte, integrazioni e modifiche e mentre a Bruxelles si stava redigendo una lettera piuttosto pesante in base alla documentazione (peraltro molto scarna) ricevuta il 15 e il 16 ottobre. I dieci giorni di “vaglio parlamentare” che si sono perduti rendono più difficile il ruolo delle Assemblee di migliorare il testo con emendamenti. Rendono, però, più facile quello dei commentatori di approfondire gli aspetti fondamentali e della proposta e del modo in cui è stata presentata.

Il Governo – lo sappiamo – si è posto due obiettivi principali, tenendo conto di un vincolo anch’esso principale. In termini matematici, è una funzione di massimizzazione vincolata. I due obiettivi principali sono: riportare il Paese a un tasso di crescita compatibile con una demografia e una struttura produttiva anziana (ossia 1,3% per anno, secondo le stime del “potenziale” italiano di crescita di Bce, Ocse e Fmi) e migliorare la distribuzione del reddito. Il vincolo consiste mantenere l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni al di sotto del 3% del Pil.

È rispetto a questi obiettivi vincolati che si deve analizzare un disegno di legge, diventato un po’ come un albero di Natale a ragione di un aspetto non economico ma puramente politico: il Presidente del Consiglio, a torto o a ragione, si considera in campagna elettorale permanente e, quindi, un provvedimento che dovrebbe essere semplice e lineare viene utilizzato per accontentare una vasta platea di “clientes”, come d’altro canto fatto da numerosi suoi predecessori. Eloquente l’inchino alle concessionarie autostradali.

I due obiettivi vengono visti dal Governo (o almeno da alcuni dei suoi principali consiglieri) come strettamente interconnessi. Si può essere d’accordo o meno con la visione secondo cui l’aumento dei consumi delle fasce più basse di reddito è leva essenziale per la crescita. È un approccio sostenuto da numerosi economisti, principalmente da quelli di scuola neokeynesiana ma anche da numerosi di orientamento neoclassico. Tra gli obiettivi principali non viene inclusa la riduzione dello stock di debito pubblico, né in termini assoluti, né in rapporto al Pil. Anche questa è materia opinabile perché, pur se i lavori econometrici sinora effettuati non hanno precisato “di quanto” la crescita è frenata dal fardello del debito, verosimilmente si perde tra lo 0,5% e l’1% di Pil l’anno portando il “potenziale” di espansione tra lo 0,3% e lo 0,8% del Pil.

In questo quadro, chiediamoci asetticamente se il disegno di legge raggiunge gli obiettivi nel rispetto del vincolo. La riduzione complessiva delle entrate (ossia del carico tributario e contributivo) sarebbe appena dello 0,1%, assumendo che si realizzino tutte le ipotesi alla base del provvedimento (anche quelle che in passato si sono sempre mostrate aleatorie, quali le entrate aggiuntive dovute alla lotta all’evasione). È molto più verosimile, come già evidenziato dal Centro Studi Impresalavoro, che la pressione fiscale e parafiscale aumenti a ragione dello “scattare” delle “clausole di salvaguardia” che comportano un aggravio dell’Iva di un punto percentuale, penalizzando, principalmente, tutte quelle fasce a reddito basso. Le entrate, poi, crescono principalmente per l’imposizione sul Tfr in busta paga, sempre che i lavoratori scelgano questa opzione (che li danneggerà sia ora, sia in futuro). Il disavanzo, poi, verrebbe contenuto in un po’ più di 7 miliardi, rispetto agli 11 mostrati nelle slides presentate il 15 ottobre. Data la deflazione in atto, è probabile che sarà molto più elevato (e per questo motivo si dovrà aumentare l’Iva).

Indubbiamente le imprese utilizzeranno al meglio le opportunità loro offerta dalla riduzione parziale dell’Irap. Ciò non basterà però a stimolare la ripresa. Anche perché, il grande maestro della comunicazione (il Presidente del Consiglio Matteo Renzi) ha commesso errori cruciali di comunicazione. E la comunicazione può incidere sull’andamento dell’economia, come dimostrato non solo da due libri di alcuni anni fa della Scuola nazionale dell’amministrazione (parte integrante della Presidenza del consiglio), ma anche da lavori accademici recenti dell’Union des Banques Suisses e della britannica Brunei University. Il primo è stato il senso generale di sciatteria (con numeri che ballavano sino a dieci giorni di una scadenza rispettata dai partner europei). Il secondo è costituito da diverse comunicazioni controproducenti: ad esempio, l’annuncio sullo spostamento della data di pagamento delle pensioni ha portato almeno 15 sui 26 milioni di pensionati a rivedere i loro programmi di spesa anche per consumi essenziali, accentuando le spinte che ci stanno portando verso una deflazione sempre più pericolosa. In barba agli 80 euro per i redditi bassi e al “bonus bebè” diretto essenzialmente all’elettorato del ceto medio.

Sec-cati

Sec-cati

Davide Giacalone – Libero

Se i governanti leggessero, oltre a parlare, ci eviteremmo qualche fastidio. David Cameron è andato su tutte le furie quando la Commissione europea gli ha notificato che gli inglesi dovranno scucire maggiori contributi, all’Ue, per 2,125 miliardi. Non voleva crederci. Matteo Renzi gli è andato subito appresso, visto che a noi italiani toccherebbe pagare 340 milioni in più: siete matti, siete burocrati, quei soldi non li avrete. Tanta indignazione e tanto stupore, però, sono mal riposti, giacché le cose vanno esattamente come qui avevamo previsto e scritto: con la rivalutazione del prodotto interno lordo dei singoli paesi, frutto della nuova contabilità Sec 2010, comprendente anche l’economia nera e parte di quella criminale, il solo risultato che si otterrà è quello di vedere crescere i contributi di ciascuno verso l’Unione europea. Ed ecco arrivato il conto.

Non è che noi si sia fatta chissà quale divinazione, ci eravamo limitati a leggere le istruzioni del nuovo gioco: rivaluta il pil e contabilizza spacciatori e mondane. Non è una questione morale, avvertimmo, ma contabile. Se fate i gradassi e fate crescere troppo il pil, tanto quelle voci sono basate su delle stime (perché se avessimo le cifre puntuali non si capirebbe perché non arrestare tutti i delinquenti), non guadagnerete nulla in termini di sostenibilità del debito e del deficit, dato che chi presta i soldi si basa su quelli che i governi riescono a spremere dai cittadini onesti, non su quelli che sfuggono a cura di quelli lesti, ma, in compenso, vedrete crescere il montante da consegnare alla Commissione europea, per finanziare le spese comuni. È puntualmente avvenuto.

Su un punto, però, mi sbagliavo. E quando sbaglio non mi limito ad ammetterlo, ma lo ricordo a tutti. Questa volta con gusto, perché sostenni che il pil della Germania, ricalcolandolo, sarebbe cresciuto più di quello nostro. Il ragionamento è: non hanno alcun limite all’uso del contante, quindi è ovvio che dalle parti loro ci siano più transazioni in nero. Errore. Non il ragionamento, che confermo, ma il risultato, perché i crucchi non sono fessi e hanno largamente sottovalutato l’apporto criminale, mentre manco hanno pubblicato la cifra della supposta economia sommersa. Sono affari nostri, sostengono. Farsi fare il gioco delle tre carte in tedesco, diciamolo, è da cadere in depressione profonda. Risultato: la Germania non solo non deve pagare di più, ma deve avere 779 milioni indietro, mentre la Francia (che ha fatto una cosa diversa ma analoga, varando una doppia contabilità) punta a riavere 1,2 miliardi.

In quanto ai signori della Commissione, comunque, sono effettivamente ottusi. Perché solo a patto di non ragionare si può supporre che quelle cifre debbano essere pagate il primo di dicembre. Aggiungendo che si rendono conto potrebbero esserci dei problemi di bilancio. Ma va?! E solo a patto di avere un orrido senso dell’umorismo si può pensare di chiedere alla Grecia 89,4 milioni in più, come se da quelle parti non si soffra già abbastanza. Ottusi, certamente. Ma mai dimenticare che la Commissione è un organo esecutivo. Quelli che comandano sono i capi di Stato e di governo, riuniti in Consiglio. Sono stati loro a far passare quelle regole, loro a non capire dove avrebbero portato, loro a fare i magnifici con le stime. Non tutti, come sempre, difatti tedeschi e francesi oggi reclamano, more solito, il rispetto delle regole. E neanche hanno torto. Solo che chi protesta dovrebbe, prima di tutto, prendersi a schiaffi davanti a uno specchio.

Un diktat che merita solo un bel vaffa

Un diktat che merita solo un bel vaffa

Vittorio Feltri – Il Giornale

La lettera minatoria che il presidente della Commissione europea, Barroso, ha inviato a Palazzo Chigi è la dimostrazione plastica che Bruxelles considera l’Italia una scolaretta negligente e, pertanto, ritiene lecito tirarle le orecchie e prenderla a bacchettate con disinvoltura. Può darsi che in assoluto noi meritiamo simile trattamento, perché da anni giuriamo di stare in riga e invece, passando da Berlusconi a Monti e da Enrico Letta a Renzi, non abbiamo fatto altro che sbandare, come certificano i dati economici degli ultimi tre anni, andati via via peggiorando rispetto a quelli registrati in epoca di centrodestra.

Ammesso e non concesso che siamo asini, non si capisce comunque perché l’Ue si arroghi il diritto di darci la pagella secondo pregiudizi, e non giudizi, che prescindono dalla conoscenza dei fatti. In altri termini, più crudi, se la Germania e i suoi camerieri scodinzolanti non apprezzano la politica romana sono liberi sì di criticarci e, al limite, di buttarci fuori dal club burocratico in cui guazzano, ma non di recapitarci una missiva dai toni ultimativi, sgradevoli, maleducati e arroganti, degni del Quarto Reich, anzi del Terzo. Essi ci hanno invitato perentoriamente a rispondere entro 24 ore al loro diktat in cui si dice che la nostra manovra (legge di stabilità) fa praticamente ribrezzo ed è quindi necessario correggerla, altrimenti…

Altrimenti che? Cosa fate, ci cacciate? Provateci, fessacchiotti. Senza Italia nel mucchio selvaggio di 28 Paesi, in cerca di una unione fittizia, salterebbe per aria non solo la Ue, ma anche la moneta unica difesa con spocchia dagli affamatori del popolo, cioè banchieri, finanzieri e loro utili idioti, tra cui economisti da talk show. Ecco perché ci auguriamo che Matteo Renzi (costretti ad affidarci a lui, già siamo nelle sue mani, oddio in che mani siamo), attingendo una tantum all’aulico linguaggio di Beppe Grillo, e rivolgendosi a Barroso e complici, pronunci il classico vaffanculo. Quando ci vuole, ci vuole.

Non ci vengano a dire lorsignori di Berlino e Bruxelles che se disubbidiamo agli ordini saremo commissariati, come se il nostro Paese fosse una colonia dei tognini. Manderanno in trasferta a Roma i commissari? Li accoglieremo nel migliore albergo. Va bene l’Excelsior di via Veneto? Ok. Qui rimpinzeremo gli ospiti di spaghetti all’amatriciana e di pizza e, l’indomani, li caricheremo sulle auto blu invendute rispedendoli a casa, oltre frontiera. Ce la siamo sempre cavata da soli nei momenti più tragici, compresi due dopoguerra mondiali e una tentata rivoluzione dei brigatisti rossi (indimenticabili quanto portentosi coglioni), vi pare che ci possano far tremare le ginocchia quattro contabili avvezzi a misurare la lunghezza degli zucchini e a disporre la distruzione delle arance siciliane? Andate all’inferno.

Noi con la politica dei piccoli passi (da gambero) ci eravamo guadagnati una buona posizione, poi siete arrivati voi menagramo con l’euro fasullo e coniato non per aiutare il popolo europeo, che non esiste (esistono tanti popoli europei privi di un denominatore comune), e ci siamo lasciati infinocchiare, affascinati dall’idea di appartenere a una élite che avesse in tasca le stesse banconote. Prodi e Ciampi, nel predisporci a essere presi in giro, ci misero del loro, ma sorvoliamo per rispetto della terza età (cui mi avvicino). Constato che Renzi non usa le buone maniere ma preferisce la pressa delle rottamazioni rapide. Lo preghiamo vivamente di non intimidirsi davanti a un portoghese (vocabolo che da noi ha un significato giustamente sinistro) e di apprestarsi piuttosto a mandarlo a quel Paese, il suo, dove troverà altri portoghesi più malleabili di noi. Chiaro il concetto?

Caro presidente Renzi, lei che ha fatto fuori le cariatidi del Pd in pochi mesi, non faticherà a far secco anche questo intruso, Barroso, un nome che evoca quello di un calciatore, anzi di vari calciatori, tutti modesti. Ci aspettiamo da lei un atteggiamento dignitoso, un atto di coraggio che riaffermi la nostra sovranità nazionale a costo di sfidare il Quarto Reich che, senza di noi, farebbe la fine del Terzo, sul serio. Un’ultima osservazione prima di chiudere. L’Ue si è risentita perché Padoan, ministro dell’Economia, ha pubblicato la lettera minatoria sul sito del proprio ministero. Ma da quando in qua gli atti ufficiali in democrazia rimangono segreti? Ha fatto benissimo Padoan a divulgarla. Chi lancia il sasso e nasconde la mano è un vile; chi ambisce perfino a nascondere il sasso è un pistola.

P.S.: Presidente Renzi, le rammento che nel 2011 Berlusconi ricevette una lettera dalla Ue e, non avendola rispedita al mittente con un circostanziato vaffa, fu sfanculato. Politico avvisato, mezzo salvato.

L’austerità e i ministri di Pulcinella

L’austerità e i ministri di Pulcinella

Gaetano Pedullà – La Notizia

L’Europa vuol continuare a bastonare l’Italia. E non si deve nemmeno sapere. Che brutta uscita per Barroso, il presidente di una Commissione che ha governato gli anni più bui dell’Unione. Dopo averci spedito una lettera che apre di fatto il contenzioso tra Bruxelles e Roma sui conti pubblici, il capo dell’esecutivo comunitario in cerca di un nuovo ruolo politico a Lisbona se l’è presa con Renzi per aver divulgato la missiva. Come se fosse un segreto quello che hanno fatto Bruxelles e Strasburgo, Berlino e Francoforte per metterci in ginocchio. Austerità, politiche del rigore, una Banca centrale che si è mossa con colpevolissimo ritardo di fronte alla tempesta degli spread: c’è bisogno di custodire altri segreti di Pulcinella per oscurare il disastro che ci è stato procurato? Se l’Italia affonda – ribatteranno le anime belle – è perché non abbiamo fatto i compiti, siamo un Paese con regole bizantine e le riforme attendono da secoli. Vero. Ma il colpo di grazia non ce lo siamo dati da soli. E il tentativo di questa Europa nel coprire le sue responsabilità è la pistola fumante che inchioda l’assassino.

Per creare lavoro una legge non basta

Per creare lavoro una legge non basta

Massimo Riva – L’Espresso

Dice il ministro dell’Economia che le novità previste con la legge di Stabilità dovrebbero portare a 800 mila nuove assunzioni nel corso del prossimo triennio. Ne saremmo tutti oltremodo felici, anche perché l’Istat ha appena certificato che dal 2008 ad oggi sono andati perduti oltre due milioni di posti di lavoro soltanto nella fascia di età fra i 25 e i 34 anni. Riassorbirne cosi tanti nell’arco di trentasei mesi si offre come una prospettiva entusiasmante. Forse anche un po’ troppo. perché c’è il rischio di alimentare speranze che potrebbero rivelarsi illusioni con ricadute negative sulla credibilità di un governo che, in realtà, qualcosa di buono e di utile per il rilancio della crescita economica sta facendo.

È fuor di dubbio, infatti, che almeno un paio di novità introdotte nella manovra per il 2015 dovrebbero avere effetti positivi in termini di creazione di posti di lavoro. Non solo i nuovi assunti a tempo indeterminato costeranno meno quanto a oneri contributivi ma le imprese potranno anche godere di un robusto sgravio dell’Irap proprio sul versante del lavoro. Perciò è senz’altro ragionevole pensare che il combinato disposto di queste due misure possa schiudere in ingresso quei portoni di fabbriche e uffici che da tempo sono aperti soltanto in uscita. Ma declamare cifre così imponenti come fa il governo è operazione politica temeraria anche perché l’esperienza storica indica che un rientro significativo della disoccupazione è possibile soltanto quando il tasso di crescita annuo si avvicina ad almeno un paio di punti percentuali, non agli stentati decimali previsti per l’anno venturo e seguenti. Non c’è impresa disposta ad assumere lavoratori perfino a costo zero se il mercato dei suoi prodotti non si rianima. In altre parole, se la domanda per consumi non riprende a ritmi vivaci.

E qui siamo a un primo punto dolente. L’orso della crisi dell’occupazione si sta rivelando un animale sempre più difficile da addomesticare con gli strumenti tradizionali e da parte di un singolo domatore. immaginare che oggi il mercato del lavoro possa essere rilanciato soltanto con interventi legislativi su fiscalità e oneri contributivi significa non aver compreso appieno la vastità e la profondità del problema. Per carità, in momenti difficili tutto serve: a cominciare da un buon bricolage legislativo come quello proposto dal governo. Ma con queste riforme si adempie una prima condizione, sicuramente necessaria e però anche del tutto insufficiente. In un sistema economico esposto alla combinata minaccia di una recessione sommata alla deflazione non si esce da una simile tenaglia – mortale per l’occupazione – senza produrre sforzi rilevanti sul versante degli investimenti, dapprima pubblici e a seguire privati.

E qui siamo al secondo, essenziale, passaggio. Oggi non esiste l’ipotesi di perseguire efficacemente la crescita economica da soli e in casa propria: non lo consente l’integrazione con il mercato unico europeo e ancor più la globalizzazione economica planetaria. Ovvero: l’Italia può risalire la china solo all’interno di un concerto europeo nel quale la musica deprimente del mero rigore contabile venga sostituita da uno spartito che preveda un piano di grandi investimenti collettivi e di rilancio della domanda interna.

Conta, dunque, poco che Parigi si ribelli al limite del tre percento sul disavanzo o che Roma voglia procrastinare l’ingresso nella gabbia del pareggio di bilancio. Fino a quando si incrociano le armi attorno alla maggiore o minore sacralità dei vincoli europei si continua a restare dentro il gioco degli idolatri di un codice di regole concepito e sottoscritto in tempi (ormai lontani) di benessere crescente per tutti. Oggi l’orizzonte è cambiato. L’obiettivo degli 800mila posti di lavoro declamato dal ministro Padoan può diventare realistico a una condizione su tutte prevalente: che qualcuno in Europa riesca a rovesciare il tavolo di una politica economica che, dietro il vessillo dell’euro forte e dell’austerità, sta rendendo tutti più poveri.

Stress test

Stress test

Enrico Cisnetto – Il Foglio

La Banca dei Regolamenti internazionali ha calcolato che attualmente nel mondo ci sono derivati per 710 trilioni di dollari, oltre 9 volte l’ammontare del pil planetario, di cui circa 300 allocati nelle prime cinque banche americane (quelle “too big to fail”). Se si pensa che nel 2007, subito prima che a partire dallo scoppio della bolla dei mutui subprime Usa si innescasse la grande crisi finanziaria mondiale, l’ammontare di questo tipo di strumenti era di 530 trilioni di dollari, e che solo due anni fa era meno di 470 trilioni di dollari, questo dà la misura del grado di pericolo che tutti noi corriamo di ritrovarci nel pieno di una bufera finanziaria epocale, con in più l’aggravante di non aver ancora smaltito, specie in Europa – e in Italia in particolare – le conseguenze, soprattutto recessive e deflattive, della crisi precedente. Naturalmente, questi numeri indicano il valore nominale dei derivati in circolazione, mentre il rischio sottostante è inferiore. Ma è altrettanto vero che essendoci oggi il 25 per cento in più di questi strumenti rispetto al 2007, il pericolo non può che essere aumentato.

Dico questo non per menar gramo, ma per misurare la distanza siderale che c’è tra il rigore dei controlli sulle banche europee che in queste ore, con gli stress test del duo Bce-Eba, stanno facendo tremare i polsi di molti banchieri – e che dovrebbero fare lo stesso effetto agli uomini di governo, se solo avessero contezza della minaccia sistemica che pende sui loro paesi – e l’allegra spensieratezza che, specie oltreoceano, spinge i grandi istituti all’azzardo senza che nessuno intervenga. E già, perché queste verifiche sulla congruità patrimoniale delle banche – che tra l’altro ha generato una speculazione borsistica (e non solo) sugli esiti dei test che definire scandalosa è poco – sono state costruite all’insegna della più assoluta intransigenza, mentre nessun organismo, né nazionale né sovranazionale, ha aperto bocca di fronte al fenomeno della moltiplicazione dei derivati. Non solo.

Come sette anni fa, anche questa volta è sui mercati anglo-americani che si sono prevalentemente sviluppate attività che possano generare titoli tossici, ma anche questa volta, se la storia dovesse ripetersi, sarebbe l’Europa – dove, a parte un caso, non ci sono istituti ingolfati di derivati – a pagare il prezzo più alto. Allora, francamente non si capisce perché accanirsi sulle banche continentali – siamo alla terza tornata di stress test dal 2010 – tra l’altro appena reduci da ristrutturazioni pesanti e massicci aumenti di capitale (complessivamente sono stati chiesti al mercato 70 miliardi, di cui 10 solo in Italia). E se fosse vera la cifra di cui si parla in questa tormentata vigilia (domenica saranno ufficialmente annunciati i risultati dell’asset quality review), e cioè 50 miliardi di ulteriore fabbisogno patrimoniale, si capirebbe che trattasi di puro masochismo.

Si dice: ma così si assicura la stabilità finanziaria europea, indispensabile sia per poter realizzare l’Unione bancaria sia per dare corpo alla ripresa economica. Può darsi, è sperabile. Ma intanto si è ottenuto il risultato di tenere sotto pressione per un anno 130 banche, commerciali e d’investimento, proprio nel momento in cui avrebbero dovuto dedicarsi totalmente al rilancio degli impieghi, e di aver offerto una clamorosa occasione di guadagno alla peggiore speculazione, che ha approfittato per lanciare rumors di ogni genere facendo in molti casi letteralmente crollare il corso dei titoli di diverse banche. Ma questo, paradossalmente, è niente se pensiamo a quale valore di affidabilità si possa assegnare a graduatorie che pretendono di essere uniformi ma sono stilate sulla base di regole nazionali del tutto diverse tra loro. Non sfuggirà, infatti, che chi fosse eventualmente bocciato – e dunque costretto a prevedere nuove ricapitalizzazioni – si troverebbe facilmente preda di banche straniere. E aggregazioni cross-border figlie di asimmetrie normative sarebbero il modo peggiore per costruire un sistema bancario europeo integrato. Cosa abbiamo speso a fare?

È per queste considerazioni che ritengo che la questione doveva e dovrebbe essere affrontata dai governi europei. E in particolare da quelli di paesi, come l’Italia, che potrebbero ricavare maggior danno da questa “giostra”. Per carità, le authority è giusto che abbiano la loro autonomia, ma quando le scelte che esse fanno hanno ricadute sistemiche, allora è necessario che i governi si prendano le loro responsabilità. Il credito è troppo importante per lasciarne i destini in mano – con tutto il rispetto – al signor Andrea Enria (presidente dell’Eba, italiano) e alla gentile signora Daniele Nouy (responsabile della Vigilanza della Bce, francese), Anche perché, uno si domanda, a suo tempo cosa abbiamo speso a fare un mucchio di quattrini per evitare che le nostre banche facessero la stessa fine della Lehman, se poi i governi le lasciano dipendere da improbabili pagelle redatte da maestri (?) totalmente privi di responsabilità pubblica?

Conti, non è questione di spiccioli

Conti, non è questione di spiccioli

Antonio Polito – Corriere della Sera

C’è lettera e lettera. Quella «strettamente confidenziale» che trovate oggi su tutti i giornali, inviata dalla Commissione europea all’Italia, è severa nella forma; ma è niente a cospetto dell’altra ben più drammatica spedita nel 2011 dalla Bce, che fu l’inizio della fine dell’era Berlusconi (e infatti quella il governo la tenne riservata; questa invece è stata subito resa pubblica, con grande irritazione di Bruxelles). La lettera è dunque innanzitutto l’occasione per riflettere sui progressi fatti grazie ai sacrifici degli italiani, durante i governi Monti e Letta: se Renzi può permettersi oggi una «deviazione» dalle norme europee è solo perché l’Italia è uscita dalla procedura d’infrazione e ha riconquistato un minimo spazio di manovra. Meglio non dimenticarlo e non renderlo vano.

Che la «significativa deviazione» dalle regole ci sia, è del resto fuori discussione. E la Commissione, in quanto «guardiana dei Trattati», non può non segnalarla, come ha fatto anche con Parigi. Quindi il problema sono le regole. Il governo Renzi ritiene che rispettandole aggraverebbe la spirale recessiva. Non avendo la forza di cambiarle, prova a forzarle, sperando che basti per invalidarle. È probabile che ci riesca, magari pagando un obolo (i 3,4 miliardi tenuti da parte servono a quello): la confusione è oggi grande sotto il cielo dell’Europa, tutto dipende dalle previsioni macro-economiche di novembre. Ma non è detto che evitando la bocciatura di Bruxelles il problema sia risolto. Perché se ricominciamo a indebitarci ma il Pil non riparte, allora la sanzione potrebbe arrivare dai nostri creditori sui mercati.

Nella manovra ci sono circa 18 miliardi di minori tasse destinati a rilanciare la crescita. I dieci investiti per gli 80 euro finora non hanno funzionato, speriamo nel taglio Irap e negli incentivi alle assunzioni. Ma basta un colpo di vento nelle Borse, un’entrata che non entra (tipo la lotta all’evasione), o un altro tuffo del Pil, e una scommessa politica può trasformarsi in un azzardo. Ecco perché il governo deve rispondere alle richieste di chiarimenti con precisione e pubblicamente. Non basta dire, «ci mettiamo due miliardi e affare fatto».

La deviazione «si giustifica se i margini di manovra saranno utilizzati per innalzare il potenziale di sviluppo», ha scritto ieri Bankitalia; dobbiamo dunque spiegare esattamente con quali misure, per essere credibili. Renzi sta provando a scavare una galleria sotto una montagna di più di duemila miliardi di debiti, per vedere la luce. Ma basta una mossa falsa, e la montagna viene giù. E allora pioverebbero pietre, altro che lettere.

Ultimo tango a Bruxelles

Ultimo tango a Bruxelles

Mario Lavia – Europa

Agli sgoccioli della sua decennale presidenza della Commissione europea Josè Barroso ha deciso di non fare sconti all’Italia e di svolgere quel ruolo da protagonista che in questi 10 anni purtroppo ha mancato spesso e volentieri. Lui s’inalbera con chi dice che si stia esibendo in questo ultimo tango con un occhio alla sua rentrée politica in Portogallo. Ma è del tutto naturale che Renzi guardi non a Barroso ma a Juncker, come l’interlocutore con cui fare seriamente i conti. Dietrologie a parte, resta il fatto che con la lettera di ieri il vertice uscente della Commissione segnala al governo italiano una pesante criticità, ed è a questo che bisognerà rispondere. E nessuno dubita che il governo, con l’accurata regia di Padoan, saprà dire la sua nel merito dei problemi. Pubblicamente. Perché è chiaro che quella tra Bruxelles e Roma è una partita ormai squadernata. E delicata per tutti. Per la buona ragione che scatenare un conflitto con l’Italia potrebbe far riesplodere turbolenze sui mercati. Ma Barroso ha voluto comunque mettere sotto la lente l’Italia, l’Austria, e anche quella Francia che i Trattati ha deciso di violarli alla grande.

Ora, può benissimo darsi che la lettera brussellese divulgata ieri avrà una replica e la cosa potrà chiudersi lì. L’impressione però è che ormai Renzi voglia fare con l’Ue quello che in vario modo ha fatto con il senato, i professoroni, il Pd, le Regioni: affrontare tutti senza complessi di inferiorità. Si è capito che la sua tattica è sempre questa: più è attaccato più alza la voce. Colpendo duro. Con i senatori ha fatto così: e la riforma è passata proprio a palazzo Madama. Così con i partiti: e si sta verificando con un certo ottimismo (vedi Berlusconi di ieri) l’intesa con Forza Italia sulle riforme. Così col suo partito, il Pd: e la minoranza è andata in difficoltà. Così con le Regioni: e la notizia è che si sta mediando positivamente. Vedremo con l’Europa se riuscirà a rovesciare un rapporto finora subalterno. Se riuscirà a svecchiare modalità, procedure, ritualità e anche contenuti. È una proiezione della sua aggressiva battaglia “italiana”. È una linea, questa del premier, non un omaggio al suo esprit fiorentino. Rischiosa, ma forse è l’unica.

Sulla legge di stabilità un normale caos legislativo

Sulla legge di stabilità un normale caos legislativo

Marco Bertoncini – Italia Oggi

Il tira e molla sulla stabilità rientra nelle usuali riscritture di disegni di legge o addirittura di decreti-legge. Risultano deliberati in una seduta governativa, ma sono generici articolati da completare. È accaduto che siano perfino passate due settimane fra il voto in Consiglio dei ministri e la pubblicazione in Gazzetta di un decreto-legge: l’intervallo di per sé nega la sussistenza del requisito dell’urgenza.

Il dinamismo annunciatorio di Matteo Renzi contribuisce ai pasticci. Il bonus bebè è apparso d’improvviso, a qualche giorno dalla deliberazione del governo; alcuni tratti annunciati sono stati ridimensionati, poi, secondo un meccanismo a fisarmonica caratteristico della legislazione nostrana, riapparsi. I pasticci sono stati accresciuti dalle difficoltà frapposte dalla Ragioneria generale. È sempre avvenuto che il governo assumesse decisioni “salvo intese”, vale a dire riservandosi di approfondire specifici aspetti. Peccato che spesso si tratti di questioni tutt’altro che insignificanti. È avvenuto qualcosa del genere pure col disegno di legge di stabilità: dilatazione delle uscite prive di copertura, ricorso all’indebitamento, velati (ma non tanto) intendimenti tassatori.

Nel parlar corrente continuiamo, anche per ovvie esigenze di sintesi, a riferirci alla “legge” di stabilità. Di fatto, abbiamo avuto più stesure di un “disegno di legge”. Possiamo poi presumere che, com’è avvenuto ieri con la fiducia sul processo civile e con la posizione di fiducia sullo sblocca Italia, le modifiche apportate dalle Camere (e le nuove riscritture dello stesso governo) renderanno solo in parte riconoscibile il testo originale. Meglio: il testo annunciato in origine (senza avere un compiuto provvedimento).