Edicola – Opinioni

Se Berlino approva investimenti «con rigore»

Se Berlino approva investimenti «con rigore»

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Esce la Commissione di José Manuel Barroso, entra quella di Jean-Claude Juncker. Due ex primi ministri, due popolari, uno portoghese, l’altro lussemburghese. Il cambio della guardia si celebrerà il 1° novembre. Sarà vera svolta? È il grande interrogativo che pesa sul nuovo quinquennio europeo che va a incominciare e alla vigilia di un nuovo vertice Ue che domani e venerdì a Bruxelles, nel mezzo di una congiuntura sempre più negativa, dovrebbe parlare di crescita e investimenti e invece quasi certamente ripiegherà sui soliti mantra del rigore e delle riforme strutturali, dei patti di stabilità quali veri e unici motori di uno sviluppo sano.

Da anni la chiave di tutte le scelte europee sta a Berlino dove regna Angela Merkel, la cui proverbiale cautela è sempre più condizionata da destra, da Alternativa per la Germania che erode ai fianchi la Cdu-Csu, invece che dai socialisti della Spd, i suoi partner nel governo di grande coalizione. A favorirne una benefica sterzata di sicuro non aiuta l’incomunicabilità crescente con la Francia di François Hollande, che sfida apertamente le regole Ue pur professando al contempo il proposito di rispettarle… con il tempo. Né aiuta l’altrettanto crescente divaricazione del credo e delle ambizioni di popolari e socialisti, i due maggiori partiti europei, alfieri gli uni di un’assertiva politica di risanamento e modernizzazione dei vari sistemi-Paese e gli altri di un grande piano europeo di investimenti capace di rimettere in moto crescita e occupazione, come complemento indispensabile della dottrina dei sacrifici e delle riforme.

La plateale cacofonia programmatica tra i due fronti, che del resto ricalca quella franco-tedesca, alla lunga rischia non solo di far saltare la grande coalizione che oggi governa anche l’Europarlamento ma di mettere alle corde la nuova Commissione Juncker e i suoi margini di mediazione in casa e fuori. Il tutto in un clima di ambiguità fatto apposta per aumentare la confusione sugli obiettivi condivisi e paralizzare una macchina decisionale già molto complessa. Del resto quando, per superare l’esame delle audizioni parlamentari, il socialista francese Pierre Moscovici, nuovo commissario agli Affari economici, invece di difendere, alla luce dei guasti indotti dall’austerità eccessiva, in modo forte e chiaro l’urgenza dello sviluppo nell’interesse collettivo e della tenuta dell’euro, ha preferito dissimulare le sue convinzioni facendo il “tedesco” tutto d’un pezzo, come sperare in un’Europa diversa e migliore?

Nel grande malessere che contrassegna il principio del nuovo quinquennio c’è però anche dell’altro. C’è l’ignavia di Francia e Italia, seconda e terza economia dell’euro: non brillano per coerenza e serietà nel rispetto di regole e impegni europei eppure non esitano a contestarli in nome della causa giusta della crescita, che però diventa inevitabilmente meno giusta alla luce delle rispettive e incontestabili inadempienze. C’è la sfiducia della Germania circa le reali intenzioni dei suoi maggiori partner, tanto profonda da indurla al pareggio di bilancio nel 2015 invece di rilanciare domanda e investimenti: prima di tutto nell’interesse della sua economia che frena in modo sempre più allarmante. E poi nel suo ricorrente auspicio di una politica monetaria della Bce meno sensibile ai problemi del Sud e più favorevole agli interessi tedeschi, per esempio a ritrovare tassi di interesse più remunerativi per il risparmio di una popolazione che invecchia. C’è infine la stanchezza tra i tradizionali alleati di ferro di Berlino, come Austria, Finlandia, Olanda e Belgio, che pur non misconoscendo, al contrario, il valore aggiunto di conti in ordine e riforme, invocano con insistenza una spinta a crescita e occupazione. «La sollecitazione di Bruxelles a raggiungere il pareggio di bilancio nel 2015 è un’opinione interessante che non condividiamo. La frugalità è una cosa buona ma l’austerità non serve per stimolare l’economia» ha dichiarato il cancelliere austriaco Werner Faymann. Insomma il rigore va bene ma non al punto di fermare gli investimenti necessari alla ripresa.

Nel suo testardo rifiuto di una politica espansiva che altro non sia che il meritato premio di sacrifici, cure dimagranti e riforme, la Germania appare autolesionista e sempre più isolata, con il solo conforto di Paesi come Portogallo, Spagna, Irlanda che sono passati e usciti dal calvario della troika e ora pretendono che a nessuno sia risparmiato. Il prossimo giudizio sulle varie leggi di bilancio nazionali appena consegnate a Bruxelles, il modo con cui sarà reso e articolato dirà molto presto se in Europa esiste ancora e fino a che punto lo spazio per venirsi incontro, per arrivare a ragionevoli compromessi. Al momento appare molto stretto. Strappare però la corda tra gli opposti estremismi in campo, rischiare la rottura con la Francia equivarrebbe a un salto nel buio. Il cancelliere Helmut Kohl amava ripetere al presidente francese François Mitterrand: «Per fare una buona politica europea devo prima vincere le elezioni». Angela Merkel ne ha già vinte tre ma ancora non ci riesce. Forse non ha la stoffa né il coraggio dei grandi leader.

L’alto risparmio italiano è ormai solo un’illusione

L’alto risparmio italiano è ormai solo un’illusione

Pietro Reichlin – Il Sole 24 Ore

Si dice spesso che l’Italia può contare su un’alta propensione al risparmio delle famiglie. Si tratterebbe di una garanzia di stabilità finanziaria a fronte di un debito pubblico elevato e di un persistente disavanzo dello Stato. Almeno dal 2000 tale affermazione non è più corrispondente alla realtà. Se nel 1997-98 il tasso di risparmio delle famiglie era ancora intorno al 20% (un primato tra i paesi Ocse), oggi il valore è sceso all’8-9%. Il fenomeno è certamente una conseguenza della recessione: quando il reddito personale cala, si risparmia meno per evitare un calo eccessivo dei consumi. Ma non possiamo escludere un cambiamento strutturale. Già dal 2000, infatti, il saggio di risparmio degli italiani si è allineato ai valori degli altri paesi europei, attestandosi tra il 15 e il 16 per cento del reddito disponibile.

La caduta del risparmio delle famiglie non è solo un problema per quanto riguarda la dinamica della ricchezza finanziaria (sia pure ancora elevata in rapporto al Pil), ma è principalmente un freno alla dinamica degli investimenti. È noto che il nostro paese ha una scarsa capacità di attrarre capitali dall’estero e, quindi, la crescita dello stock di capitale, da cui dipende la produttività e il reddito futuro, è fortemente correlata con il risparmio nazionale. La riduzione del saggio di risparmio delle famiglie ha infatti contribuito notevolmente alla discesa degli investimenti e del risparmio nazionale dal 1997 al 2012, diminuiti di 4,8 punti in rapporto al Pil. Si tratta di uno dei risultati peggiori tra i paesi dell’Ocse.

Eppure, questo calo è circa la metà di quello subito dal saggio di risparmio delle famiglie nello stesso periodo, che è stato di oltre 9 punti percentuali. Dai dati del 2013, si evince che il risparmio complessivo delle famiglie costituisce circa il 6% del Pil e, poiché il risparmio del settore pubblico è quasi nullo (-0,3% del Pil), ciò significa che il risparmio societario è arrivato al 12-13 per cento. La conseguenza è che oggi il risparmio delle famiglie italiane rappresenta non più di un terzo del risparmio nazionale. Questo quadro getta qualche ombra sulla possibilità di uscire dalla crisi con un aumento dei consumi (cioè un’ulteriore caduta del saggio di risparmio familiare) e sull’efficacia di altri stimoli al credito bancario in un’economia in cui la dinamica degli investimenti deriva in misura sempre maggiore dagli utili non distribuiti.

La crescita del risparmio societario, a decorrere dalla crisi del 2008, è un dato comune ai principali paesi industrializzati. Si tratta di una reazione di carattere precauzionale, determinata dalla caduta dei profitti avvenuta nel 2008-2009 e dalla maggiore incertezza, ma anche la conseguenza di un processo di risanamento dei bilanci, cioè dell’uso dei risparmi per ripagare debiti pregressi. Il credito netto delle imprese, cioè la differenza tra risparmio societario e investimenti, è diventato positivo dopo il 2008 in Canada, Germania, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti. In questo modo le imprese sono riuscite a risanare velocemente i propri bilanci recuperando la caduta degli investimenti che si è verificata immediatamente dopo la crisi. In Italia questo processo avviene con maggiore ritardo. Fino al 2012 il credito netto delle imprese è rimasto negativo, con un ulteriore aumento dell’indebitamento ed una caduta più accentuata degli investimenti fino al periodo corrente.

La conclusione è che le famiglie italiane risparmiano sempre meno, a causa della caduta dei redditi, e le imprese ricorrono con sempre maggiore frequenza alle risorse interne per ristrutturare i bilanci. Poiché i profitti sono deboli, ciò ha conseguenze negative sugli investimenti e ritarda la ripresa economica del paese. Adottare misure per aiutare le imprese a consolidare la propria posizione finanziaria e affrontare le ristrutturazioni produttive potrebbe essere più efficace che puntare ad una ripresa dei consumi.

Troppa confusione sui servizi alla natalità

Troppa confusione sui servizi alla natalità

Il Sole 24 Ore

In attesa del testo definitivo della legge di Stabilità valgono alcune prime considerazioni sul nuovo fondo per la maternità da 500 milioni di euro del Governo Renzi. La prima: lo soglia di 26mila euro Isee (e senza limiti dal quinto figlio) individuata è molto elevata per un paese nel quale ci sono 1,4 milioni di minori in povertà assoluta e per i quali ancora non esiste una misura universale di assistenza. Basti ricordare che l’attuale social card da 40 euro al mese va a beneficiari con un Isee non oltre i 6mila euro. Così si rischia, come avvenuto in passato, di dare soldi a mamme che non ne hanno alcun bisogno. Seconda considerazione: nel resto d’Europa le politiche per il sostegno della natalità si fanno con i servizi sul territorio, non con trasferimenti monetari. Terzo: attualmente esistono già cinque istituti che destinano risorse per 15 miliardi con criteri del tutto scoordinati e che potrebbero essere razionalizzati. Insomma la confusione è ancora tanta, speriamo che nelle prossime ore e durante l’iter parlamentare ci siano i margini per rimediare.

Tasse retroattive, il vizio dei governi

Tasse retroattive, il vizio dei governi

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

Il tempo, per il Fisco, assomiglia a una sorta di variabile indipendente. E il calendario, a pensarci bene, può persino girare al contrario. Dicembre, novembre, ottobre, settembre. Accade spesso, anzi troppo spesso che, per esigenze di bilancio, si decida di spostare all’indietro le lancette dell’orologio. E introdurre così aumenti delle tasse con effetto retroattivo. Un vizio comune a tutti i governi degli ultimi anni e che ha contagiato lo stesso Parlamento. Un giochetto (di prestigio) che consente, in pratica, di concedere sgravi a qualche contribuente, penalizzandone, però, altri. O di tappare, per questa via, improvvise falle nei conti pubblici.

L’ultimo esempio è quello dell’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive. Nella legge di Stabilità è appena stato deciso di alleggerirla per chi farà nuove assunzioni, soprattutto con contratti a tempo indeterminato, con una riduzione dell’aliquota dal 3,9 al 3,5%. Peccato che ci sia l’altro lato della medaglia: per tutti gli altri imprenditori, che non assumeranno, non perché sono cattivi ma perché non possono, l’imposta torna al livello precedente, al 3,9%. Da quando? Non dall’entrata in vigore della legge di Stabilità fissata per gennaio 2015 – dopo, probabilmente un estenuante dibattito parlamentare e la stesura di un maxi emendamento -, ma da gennaio scorso. Sì, da gennaio 2014, con dodici mesi d’anticipo.

Si dirà che anche i vantaggi sono retroattivi, ma in questo caso, come accade con il Codice penale, la norma dovrebbe essere favorevole al reo (in questo caso il cittadino-imprenditore). Retroattivi, ad esempio, sono stati i tagli ad alcune detrazioni fiscali (polizze vita). Come gli aumenti delle addizionali locali del 2011. Retroattivo rischia di essere anche l’incremento dall’11,5% al 20% del prelievo annuo sui rendimenti dei fondi pensione. E, quando non si aumentano le tasse, si cambiano le regole del gioco. A vantaggio dell’Erario, ovviamente. Si calcola che, solo nel biennio 2011 e 2013 siano state approvate imposte retroattive per un valore di circa 5,5 miliardi.

Viene quindi da chiedersi quale validità abbia ancora lo Statuto del contribuente, varato nel 2000 e presentato come il provvedimento che avrebbe reso più equilibrato e corretto il rapporto tra il Fisco (lo Stato) e i cittadini. Lo Statuto, articolo 3, stabilisce che «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo. Relativamente ai tributi periodici le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d’imposta successivo». Ma questa norma viene spesso bypassata spiegando che si tratta di un’eccezione.

Secondo lo Statuto, le leggi che trattano un argomento diverso da quello tributario non possono intervenire in materia fiscale, se non per la parte di stretta pertinenza. E invece le tasse si moltiplicano proprio là dove non dovrebbero esserci e dove nessuno se le aspetta. Un esempio? Il taglio alla deducibilità dei costi delle auto aziendali introdotto per finanziare la legge Fornero sulla riforma del mercato del lavoro. All’articolo 4 si stabilisce che non si può disporre con decreto-legge l’istituzione di nuovi tributi né prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti. Mentre molte imposte sono state introdotte proprio con decreto legge. Perché? Siamo in emergenza.

E così, di eccezione in eccezione, lo Statuto del contribuente è stato violato innumerevoli volte dal legislatore. Almeno qualche centinaio di volte. E non solo sulla retroattività. Uno statuto con i buchi, insomma. Un provvedimento che fa ancora la sua bella figura nella vetrina del Fisco made in Italy. Ma dagli effetti pratici quasi nulli. La trasformazione da sudditi a cittadini, che doveva avvenire proprio grazie allo Statuto, non è stata ancora completata. E sono già passati 14 anni.

Legge di stabilirà

Legge di stabilirà

Davide Giacalone – Libero

Più che una legge di stabilità si avvia a essere una legge di stabilirà. Nel senso che si modella e adatta con il passare delle ore. Il tempo passato dall’annunciazione alla presentazione è servito anche per far tesoro dello sgomento suscitato nel sentir dire alcune cose. Per esempio: la decontribuzione annunciata, sulle assunzioni a tempo determinato, era di 6200 euro, ma trattavasi di un errore, perché già ci sono aziende che avrebbero diritto a una decontribuzione superiore, sicché nel testo che sarà presentato in Parlamento (dove ancora neanche c’è) quel limite sarà alzato a 8060. Vedremo cosa combineranno con il Tfr, i cui errori sono stati qui illustrati per tempo.

Originale la teoria illustrata da Yoram Gutgeld, consigliere economico di Matteo Renzi: se le norme esistenti si dimostrassero più convenienti di quelle che stiamo preparando, il contribuente potrà attenersi a quelle che preferisce. Lui si riferisce alle agevolazioni per le partite Iva, ma, certo, ha tutta l’aria d’essere un bislacco principio generale: noi ideiamo agevolazioni, che annunciamo a raffica, ma se, eventualmente, la legge preesistente fosse migliore di quella da noi magnificata, niente paura, potrete continuare a usarla. In espansione, se non altro, c’è la fantasia.

Direi che dalla scuola alla giustizia la nouvelle vague governativa s’è l’asciata un po’ prendere la mano dall’ebrezza della consultazione popolare: noi annunciamo una cosa, stilando un menù che non comporta scelte, e voi siete liberi ciascuno di dire la propria. Tanto nessuno sta a sentire. In campo fiscale sembra ci sia un salto di qualità: mettiamo in parallelo un paio di sistemi e voi scegliete quello in cui vivere. La legge di stabilirà. Intanto, per non rendere noiosa la vita, continua la serrata campagna degli annunci. Immagino che al Quirinale si siano domandati: ma se ci hanno appena consegnato il testo della legge di stabilità, perché l’idea degli 80 euro alle mamme non c’è e sono andati a illustrarla in un salotto televisivo? Non so cosa si siano risposti. Di certo, un tempo erano più arcigni e meno comprensivi.

Una cosa buona, comunque. O no? No, non lo è. È una roba demagogica e controproducente. Lasciando da parte la fissazione per il numero 80, che non si capisce per quale logica quantifica i regali governativi, è bene rendersi conto che questa perversione laurina comporta una concezione della società come fossimo tutti minorenni, pronti a gioire per le mance temporanee. In una società maggiorenne le famiglie hanno bisogno dei servizi che le affianchino nella gestione dei bambini, a cominciare dagli asili nido. In una società maggiorenne la fiducia nel futuro discende dalla crescita economica, quindi dalla ragionevole certezza che lavorando si possa giovarsene. Mentre è tipico di una società minorenne il supporre che si possa dare e prendere senza che questo sia legato al produrre. Certo che 80 euro, al mese, tornano utili quando si affrontano le spese per un bambino, e certo che prendere gli applausi è cosa piuttosto semplice, annunciandoli, ma il bambino sopravvive ai tre anni e se non ci sono asili a sufficienza si perde partecipazione al lavoro degli adulti. Poi supera i sei anni, e se nelle scuole trova gli stabilizzati anziani avrà un’istruzione carente. E se lo mandiamo in scuole analogiche, con testi stampati e senza digitalizzazione non solo gli rubiamo capacità, ma rubiamo soldi alle loro famiglie, come capita anche quest’anno. Poi supera i diciotto, e se si trova in università chiuse alla concorrenza e autoreferenziali nell’assegnazione delle cattedre diventerà un analfabeta laureato. Ci sono toghe che non compitano nell’italico idioma. A quel punto che gli diamo, il contributo per disadattamento al lavoro e al mondo?

Quando i soldi sono troppi può capitare di contrarre i vizi dell’agio e dell’improduttività. Ma ora i soldi sono pochi e spenderli fuori dal rilancio di istruzione e produzione è un delitto. Salvo prendere applausi, per la legge che solo poi stabilirà

Bonus ricerca&innovazione, Renzi ha fatto meno di Letta

Bonus ricerca&innovazione, Renzi ha fatto meno di Letta

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Dopo tanti annunci e tante promesse la montagna della legge di Stabilità ha partorito meno di un topolino. Il governo Renzi è tornato indietro perfino rispetto a quanto prodotto dall’esecutivo Letta in materia di credito di imposta per la ricerca. Così da un biennio l’Italia, in piena crisi da mancanza di investimenti privati e da competitività dell’offerta, non ha una bonus che incentiva gli investimenti in ricerca ed in innovazione.

L’ultimo intervento in materia è stato quello del governo Berlusconi che aveva introdotto una vera discontinuità per l’Italia: un credito di imposta pari al 90% degli investimenti fatti nel biennio 2011-2012 con università o enti di ricerca, recuperabile per quote paritetiche in tre anni. I 155 milioni di euro a suo tempo stanziati in bilancio non sono stati neppure tutti utilizzati dal mondo produttivo, a riprova che i timori della Ragioneria spesso cozzano con la realtà della recessione. Prima il bonus fiscale, sempre deciso dal governo Berlusconi, era stato commisurato al valore complessivo degli investimenti fatti dalle imprese: il 10%.

A fine 2013 Enrico Letta vara un credito di imposta pari al 50% delle spese incrementali in ricerca a partire dall’esercizio 2014. La burocrazia ha lasciato la norma inattuata e così le imprese che hanno creduto nella serietà della Repubblica italiana e hanno fatto nel corso del 2014 investimenti in ricerca confidando nel credito di imposta si ritrovano oggi con un deficit di cash flow da dover finanziare. In pieno credit crunch non è un gap facile da chiudere attingendo al credito bancario.

Ora la legge di Stabilità cambia nuovamente le carte in tavola: credito di imposta dimezzato al 25%, sempre solo per gli investimenti incrementali e con effetti che si produrranno, ragionevolmente, solo a partire dalla seconda parte del 2016 quando i bilanci saranno stati depositati. Sarebbe stato molto più serio, onde evitare di impattare nuovamente sulle aspettative delle imprese, lasciare la norma Letta invariata e non eliminare il 2014, esercizio ormai chiuso e quindi con effetti risibili sui conti pubblici, dall’applicazione della norma. In questo modo si potevano premiare in pochi mesi le imprese che, nel corso del 2014, hanno avuto il coraggio di investire mentre il pil crollava e la deflazione prendeva il largo, cioè già il prossimo maggio.

In Francia per il triennio 2013-2015 il Cir, il credito di imposta per la ricerca francese, varato nel 1983, è stato dotato di un fondo annuo di 5 miliardi di euro perché raddoppiato dal presidente François Hollande. La legge di Stabilità di Renzi è stata coraggiosa sull’Irap e sugli 80 euro ma troppo timida sulla ricerca.

Capezzone: «Manca una vera proposta di destra»

Capezzone: «Manca una vera proposta di destra»

Goffredo Pistelli – Italia Oggi

Daniele Capezzone non s’arrende alla deriva del centrodestra. L’uomo che fu decisivo, con le battaglie sull’Imu e su Equitalia, nella grande ricorsa di Silvio Berlusconi alle politiche del 2013, s’è messo a lavorare di buzzo buono, con la pazienza e il metodo dei radicali. Da tempo pungola tutti. Pochi giorni dopo la débacle alle europee di maggio, s’era inventato il «software liberale», un ebook in cui mette in file un po’ di idee degne del 1994, anno della rivoluzione berlusconiana mancata. Sabato scorso s’è infilato nella Leopolda blu, raduno milanese di chi vuol riaggregare a destra.

Capezzone, com’è andata a Milano?
«Intanto mi faccia ringraziare chi ha organizzato, a partire da Lorenzo Castellani (una delle anime di Formiche.net, ndr), perché ho trovato molto azzeccate le scelte di fondo».

Vale a dire?
«Che in attesa di altre primarie, quelle politiche, si comincino almeno con le primarie delle idee. L’unica cosa di cui aver paura è l’assenza di un dibattito sulle proposte. E poi, molto giusta mi pare l’indicazione di un modello stile Partito repubblicano americano, con l’ambizione di individuare poche cose ma che possano davvero unire per un’alternativa alla sinistra. Su tutto il resto, poi, ognuno resta con la propria cultura, i libri che preferisce, il background cui è affezionato. Insomma che “i cento fiori fioriscano”».

Come disse il grande nocchiere Mao Tse Tung…
«Sì, per indicare un metodo, anche se questa prassi è molto anglosassone».

Le sue, quali sono?
«Il centro sta nella questione fiscale. E non lo dico per passione liberale, quanto per il bene del Paese. Se ha tempo le do qualche numero con cui, chiunque faccia politica, oggi si deve confrontare».

Avanti…
«Sono dati della Banca mondiale sul Total tax rate, ossia l’indice che riguarda l’imposizione fiscale delle imprese. Bene l’Italia è al 65%, Francia 64%, Spagna 58%, Germania 49, la media europea 41, Gran Bretagna 34 e la Croazia 19».

Beh, cifre impressionanti…
«Aspetti. Ora le do quelle sui fallimenti del primo semestre di quest’anno: sono stati il 10% in più dello stesso semestre 2013. E, se si considera l’ultimo trimestre di quel periodo, cioè aprile, maggio e giugno 2014, quella percentuale sale al 14%».

Dal che, se ne deduce?
«Che ci vuole uno shock fiscale e il centrodestra si deve ripensare su questo. A Matteo Renzi potrei fare mille critiche: ha aumentato le tasse sulla casa, sul risparmio, ora sui fondi pensione e, quando nei prossimi giorni avremo la legge di stabilità troveremo setto-otto tasse occulte…».

E invece, dove lo critica?
«Sulla cosa migliore che farà, se fosse vera, ossia l’intervento sull’Irap, annunciato intorno ai sei miliardi».

Infatti, è sorprendente. E perché lo critica?
«Perché quell’intervento rischia di fare la fine degli 80 euro e cioè di non essere incidente. Mi spiego: gli 80 euro magari sono finiti in affitti arretrati, multe da pagare, conti in sospeso, anziché nei consumi».

E l’Irap in meno?
«Idem, perché gli imprenditori sono già molto in difficoltà. Per questo le dico che quella misura non basta, che ci vuole ben altro. Forza Italia e il centro destra prendano questa bandiera: “Giù le tasse”. E non come parola d’ordine, cui siamo meccanicamente affezionati ma vera esigenza del Paese».

Senta, però per far manovre simili si deve tagliare la spesa clamorosamente, mentre uno dei vostri potenziali alleati, la Lega, vuol addirittura abolire la legge Fornero…
«Dobbiamo decidere se vogliamo solo una curatela fallimentare del centrodestra o il rilancio. Il rischio c’è. Per noi di Forza Italia, per esempio, la tentazione è la gestione dell’esistente. Per il Carroccio, che se la passa meglio, il successo nella marginalità cioè accontentarsi di fare quello che faceva Rifondazione ai tempi del centrosinistra, arrivando sino al 9%, ma scegliendo l’opposizione perenne e rinunciando all’alternativa. Oggi inveece, grazie a B., siamo al bipolarismo».

E cioè?
«Oggi si deve stare o di qua o di là. Anzi, siamo quasi alla referendizzazione del voto: c’è una parte importante che può votare da una parte e poi, la volta dopo, su certi temi, andare dall’altra. Io dico: mettiamo al centro di uno schieramento la proprietà privata, la casa, il risparmio, le tasse e la diminuzione della spesa pubblica e costruiamo l’alternativa a Renzi».

Su questi temi lo battete?
«Già ora. Perché non sta tagliando abbastanza sulle municipalizzate, sugli acquisti dei beni e servizi, su costi standard. E delle tasse le ho già detto».

Capezzone, però voi potete fare le leopolde blu ed elaborare progetti, però dovete fare i conti col «fattore B»., come la vicenda di Raffaele Fitto, che il Cavaliere ha quasi cacciato dal partito.
«Io dico che nelle scelte Fitto ci sia una grande novità positiva. Domandiamoci chi è Fitto?».

Risponda lei…
«È uno che è stato davvero vicino a Berlusconi nelle ore difficili, quando non era facile, non era comodo. Altri, tipo Gianfranco Fini, se ne andarono picconando un governo di centrodestra. Oppure, tipo Angelino Alfano, lo abbandonarono, per mantenere la poltrona ministeriale. Fitto è stato e starà dentro, a fornire idee e proposte. E poi vorrei dire un’altra cosa».

Prego…
«Mi viene in mente Proust, quando parla di quel rimorso che prende scendendo le scale, dopo un incontro, quando non si è detto tutto quello che si pensava. Non dobbiamo aver quel rimorso: ognuno deve offrire tutta intera la propria opinione.

Cioè, lei dice che il Cavaliere accetterebbe…
«È una persona lungimirante e rispettosa, molto di più dei consiglieri che ha intorno. Rifletterà su questi temi e vedrà che ha ancora una missione da compiere: costruire il partito gollista in Italia. D’altra parte, essendo colui che ha reso fisicamente possibile il bipolarismo, può dare un contributo anche qui».

Però c’è il nodo del Patto del Nazareno. Lei pensa che non esista, come dice Giuliano Urbani, e che B. veda davvero in Renzi un continuatore di certe sue idee, vent’anni dopo?
«Non sono interessato ai retroscena, meno che mai a letture maliziose, maligne o malpensanti. Dal punto di vista di Renzi starei attento però: rischia di essere egemone ma, per le ragioni economiche richiamate prima, rischia di esserlo fra le macerie. Come diceva Rino Formica, c’è qualche intrattenimento del pubblico e il Paese va come va».

Qualche problema, questo premier ve lo crea, non lo neghi.
«È evidente che non è facile avere a che fare con un leader diverso, che ci sfida in campo più moderno dei suoi predecessori. Prima la sinistra era solo tasse, Cgil e manette. Ora c’è un leder che si tira fuori da quella trimurti, anche se magari, a guardar bene, non sempre e non del tutto. Però, a maggio del 2014, ci sono stati nove milioni di italiani che non ci han votato più o si sono astenuti: partite Iva, imprenditori, professionisti che riconoscono in Renzi uno che ha archiviato il Pci ma che voterebbero una proposta di destra, subito».

Lei dice bene, ma intanto domenica Renzi ha fatto il pieno di audience nell’ammiraglia di Mediaset, Canale 5, in una delle trasmissioni che più berlusconiane non si può, il salotto di Barbara D’Urso, con una proposta che piace tanto a moltissimi vostri elettori: il bonus bébé.
«Che le devo dire, spero solo che prossimamente a Renzi non si affidata anche la conduzione del Tg5 delle 20».

Caustico, lei.
«Ma no, è un battuta. Il lavoro che vogliamo fare va aldilà dell’episodio di giornata. Ricordo anche io prime pagine del Giornale inneggianti a Renzi e delle reti Mediaset abbiamo sorriso anche in una recente riunione di presidenza di Forza Italia».

In che senso?
«Nel senso che ho ricordato al presidente come i tg di Mediaset avessero fatto cronaca politica quest’estate».

Ce lo ricordi…
«Un servizio di 2-3 minuti sulle attività del governo, quindi il pastone politico di tutti e poi, in coda, 15 secondi ad esponenti di Forza Italia che dicevano, in pratica, di essere lieti protagonisti dell’azione governativa e di dialogare con Renzi».

E Berlusconi?
«Ne ha riso anche lui. Con una copertura così, c’è solo da stupirsi che il premier non sia più alto nei sondaggi. Ma il tema non è la rivendicazione centimetrica di pagina di giornale o spazi tv. Bisogna fare come Andrea Pirlo».

Pirlo?
«Massì, alzare la testa, guardare il gioco. Qui si tratta dei prossimi cinque o dieci anni. Merito a Fitto, allora, di aver posto la questione, merito alla Leopolda Blu d’aver iniziato il dibattito».

In questo nuovo centrodestra, c’è posto anche per Corrado Passera che, nel frattempo, se ne è autoproclamato guida?
«Chiunque è il benvenuto. Nessuno può dire «no tu no» a nessuno. Quelli che lo dicono alla Lega, a Fratelli d’Italia, a Passera non hanno capito niente. Ma guai a fare, verso Renzi, l’errore che ha fatto la sinistra verso B. e cioè fare solo a tavoli, in stanzette chiuse, con dieci partitini che partoriscono non si sa cosa».

I quattro filtri

I quattro filtri

Giuseppe Turani – La Nazione

Il premier Renzi è uno che corre veloce, e infatti anche la sua Legge di Stabilità è arrivata in perfetto orario. Adesso, però, la corsa rallenta obbligatoriamente: infatti l’aspettano ben quattro filtri importanti. Il primo è quello della coerenza delle cifre. Si sa che Renzi ha molta voglia di fare e quindi è possibile che da qualche parte si sia stati un po’ larghi. Oggi, però, c’è il testo definitivo e chiunque (opposizione compresa) potrà valutare se c’è coerenza fra quello che si promette di spendere e quello che si spera di incassare. È un esame che sarà fatto da economisti, giornali, opinione pubblica: tutta gente che non ha ruoli istituzionali ma che conta in un paese in cui tutti si sentono commissari tecnici della Nazionale e primi ministri.

Il secondo  filtro sarà probabilmente il più severo. Si tratta infatti dei guardiani dell’Unione europea fra cui spiccano tedeschi e esponenti dei paesi nordici. In pratica dei puritani del bilancio pubblico in ordine. Si può star certi che nei confronti della prima Legge di Stabilità di Renzi saranno attentissimi. E non disposti a fare sconti. È vero che il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan dovrebbe rappresentare un buon scudo. Oltre a essere un uomo di riconosciuta prudenza e ben noto negli ambienti internazionali, tutti sanno che non avrebbe mai firmato una legge tenuta insieme con lo spago e gli elastici. Però questa Legge è, in buona sostanza, un bilancio di previsione: sta insieme se le previsioni che si sono fatte, a proposito ad esempio della crescita economica (e quindi delle entrate fiscali) sono ragionevoli. In questi ultimi anni l’Italia è diventata famosa per mettere nero su bianco previsioni di crescita manicomiali: a un certo punto si era persino detto che quest’anno avremmo avuto una crescita dell’l,1 per cento. Invece andremo indietro dello 0,3 per cento, ma c’è anche chi parla dello 0,4 per cento. Su questo punto, che poi è il cuore della Legge di Stabilità, si può stare certi che il confronto con di Bruxelles non sarà semplice.

Il terzo filtro è rappresentato dal Parlamento. E qui la faccenda si complica. Per due motivi. In primo luogo c’è che i deputati approfittano sempre dell’arrivo della Legge di Stabilità per cercare di infilarvi dentro qualcosa per i loro protetti. Ma c’è un altro aspetto parlamentare da tener presente. Non è un mistero che a molti deputati e senatori questa manovra non piace. Inoltre c’è una certa quota di onorevoli che farebbe qualunque cosa pur di vedere Renzi ruzzolare insieme alla sua Legge di Stabilità. Il confronto parlamentare, quindi, sarà una prova politica fra le più difficili per il premier.

Infine c’è l’ultimo filtro: i sindacati. Renzi ha dato l’impressione, fin qui, di non curarsene molto, a causa della loro relativa impopolarità presso gli elettori. Però, se alla fine ci si trova davvero con un milione di persone in piazza e con la prospettiva di uno sciopero generale, bisognerà inventarsi qualcosa. Non sono più i tempi del governo Rumor, quando bastava l’annuncio di uno sciopero generale per provocare le dimissioni del governo. Però, insomma, non si potrà nemmeno cavarsela con due battute e tre tweet. Oggi nessuno può dire che cosa resterà della Legge di Stabilità dopo il passaggio in questi quattro filtri. Si sa solo che “qualcosa” entro la mezzanotte del 31 dicembre va approvato.

L’Europa eviti la deriva “dogmatica”

L’Europa eviti la deriva “dogmatica”

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Il documento programmatico di bilancio 2015 (Dpb-2015, fondamento del disegno di legge di stabilità) dovrà superare due ostacoli. Quello del Parlamento italiano e quello delle Istituzioni Europee. L’Italia sta concludendo il sesto anno di crisi nel cui ambito gli ultimi tre anni sono stati di recessione piena. Intanto abbiamo cambiato quattro governi. È ora di rendersi conto che una delle condizioni necessarie per superare la nostra crisi è quella di mostrare la massima coesione all’Europa e ai mercati. Speriamo quindi che le rappresentanze istituzionali, economiche e sociali italiane sappiano guardare all’interesse nazionale tenendo conto delle scelte innovative del Governo in termini di spinta fiscale (unita a riforme) agli investimenti, alle imprese, all’occupazione. La Francia ha deciso di disattendere i parametri di bilancio europei e di premere, come pare, con qualche margine di successo, sulla Germania perché, ai tagli di spesa richiesti agli altri, affianchi in pari misura suoi investimenti infrastrutturali. L’Italia rispetta invece nella sostanza (salvo che per il debito) i parametri europei ma la sua strada non sarà tutta in discesa.

Rigore e sviluppo
Nel DPB-2015 inviato dall’Italia alla Commissione europea si pone un problema cruciale: come evitare che l’Eurozona affondi nella recessione-deflazione riprendendo invece a crescere creando occupazione nella stabilità. Il Presidente Napolitano, il presidente Renzi, il ministro dell’Economia Padoan si sono molto impegnati per mobilitare la fiducia e la responsabilità dell’Europa. Parlare, come fa la cancelliera Merkel, di compiti che vari Paesi (tra cui l’Italia) devono fare a casa, è per noi una banalizzazione di fronte a più di 18 milioni di disoccupati della Uem e a più di 3 milioni del nostro Paese. Questo spiega perché personalità tedesche autorevoli, tra le quali di recente Joschka Fischer, stiano criticando senza sconti la Merkel e il suo ministro delle Finanze. Le forze del rilancio, comprese quelle imprenditoriali europee, devono però essere più coalizzate non contro qualcuno ma per lo sviluppo. Anche il Parlamento europeo (ai cui vertici l’Italia conta parecchio) va valorizzato appieno perché lo stesso si è dimostrata in passato assai più lungimirante della Commissione e del Consiglio europeo. Bene fa perciò il DPB-2015 a sottolineare: che la crisi europea ha intaccato la fiducia di imprese e consumatori; che la politica monetaria non basta pur avendo evitato il peggio; che le necessarie riforme strutturali nei singoli Paesi producono effetti differiti mentre in recessione ci vogliono interventi ad effetto rapido; che senza crescita anche l’innovazione e la competitività si attenuano e la stessa sostenibilità dei debiti pubblici ne risente. La critica al rigore che genera crescita è chiara e su questa si innesta il programma italiano. Lo stesso coniuga una politica di bilancio euro-compatibile, che stimoli nel breve termine investimenti ed occupazione, con delle riforme strutturali che nel medio (1.000 giorni) e nel lungo termine generino più competitività e produttività del sistema Italia.

Riforme e crescita
Il DPB-2015, già approfondito su queste colonne, si fonda inoltre su un concetto centrale. Le riforme (con sostegni di bilancio rispettosi del vincolo europeo del 3% di deficit su Pil), generano crescita che favorisce il miglioramento nel tempo nei rapporti del deficit e del debito pubblico sul Pil. Questo concetto poggia su due basi. La prima base è sostanziale e riguarda le riforme strutturali sempre richieste dalla Ue all’Italia (pubblica amministrazione e semplificazione, giustizia, competitività e fiscalità, mercato del lavoro) per gli effetti sulla crescita, sull’occupazione e sulle finanze pubbliche. In termini di Pil, le misure che hanno costi di finanza pubblica (taglio Irap, bonus Irpef, jobs act e azzeramento triennale contributi, crediti di imposta per R§S), dovrebbero generare entro il 2018 un incremento cumulato di 0,7 punti percentuali che rimane poi incorporato nella dinamica del reddito nazionale specie per gli aumenti di investimenti e occupazione. L’effetto cresce considerando anche le riforme non meno importanti (semplificazioni e giustizia, fonti di potenziali risparmi e a costo zero) che avranno tuttavia forti resistenze e quindi effetti difficilmente misurabili. Quanto al debito pubblico sul Pil già dal 2016 sarebbe più basso di quello conseguibile “risparmiando” gli 11 miliardi che il DPB-2015 destina alla crescita . Quindi la minore correzione fiscale nei prossimi tre anni verrebbe presto compensata dalla crescita del Pil. La seconda base è istituzionale e riguarda il rispetto delle prescrizioni europee nel loro insieme. Il DPB-2015 argomenta da un lato che la grave recessione in atto (che peggiorerebbe con ulteriori rigidità fiscali) e dall’altro che le riforme in cantiere consentono il posponimento del pareggio strutturale di bilancio. Anche perché in tal modo migliora la sostenibilità di lungo periodo del debito pubblico sul Pil.

Una conclusione euro-italiana
L’Italia non “sfida” perciò l’Europa ma le chiede una lettura non dogmaticamente formale della situazione con l’uso di una razionalità politica ed economico-fiscale. Sono le argomentazioni condivisibili del DPB-2015 alle quali andrebbe sempre aggiunta quella, non meno importante, del rilancio degli investimenti infrastrutturali europei finanziati su scala europea con l’uso di europroject bond o eurounionbond. Strategia che si connette sia a quella del presidente della Commissione europea Juncker per il suo piano da 300 miliardi di investimenti in 3 anni sia ai gradi di libertà di cui potrà fruire Draghi per canalizzare liquidità agli investimenti. Quanto al nostro Governo, senza rinunciare alle critiche costruttive (su cui ritorneremo), crediamo si debbano attendere le prove dei fatti dando alle innovazioni aperture di credito come quelle di Moody’s e Financial Times. Due valutatori non abituati a fare sconti, specie all’Italia.

Per le imprese l’incognita dell’imposta versata dalla PA

Per le imprese l’incognita dell’imposta versata dalla PA

Matteo Mantovani e Benedetto Santacroce – Il Sole 24 Ore

La lotta alle frodi Iva si arricchisce di un nuovo strumento: lo split payment nelle operazioni effettuate con la Pa. Il Ddl di Stabilità 2015 prevede, in estrema sintesi, che l’imposta venga versata dal soggetto pubblico che acquista un bene o un servizio da un privato. Il fornitore, pertanto, riceve dal cliente l’importo fatturato al netto dell’Iva. Il meccanismo serve a inibire le frodi basate sul missing trader, in cui il debitore dell’imposta, dopo averla riscossa dal proprio cliente, omette di versarla per poi “scomparire”. Lo split payment riguarderà solo i rapporti di fornitura (di beni e servizi) con lo Stato, gli organi dello Stato e, in generale, con tutti gli enti pubblici, laddove l’operazione non sia assoggettata al reverse charge. La Pa, pertanto, assume il ruolo istituzionale di collettore del gettito Iva verso l’erario.

Non mancano, però, le incognite. Sia perché il sistema – solo tratteggiato nel Ddl – non sarà implementabile se non previa autorizzazione dell’Ue e le modalità tecniche di funzionamento saranno dettagliate in seguito con un decreto ministeriale. Sia perché rischia di creare complicazioni ai fornitori sotto il piano degli adempimenti e su quello finanziario. Il fatto che il cedente/prestatore emette nei confronti della Pa una fattura con Iva esposta (come sembra emergere dalla relazione al Ddl Stabilità) crea il problema di come gestire contabilmente tali documenti. Le imprese saranno chiamate a modificare i sistemi informatici tenuto conto che alla rivalsa dell’Iva non conseguirà un’entrata finanziaria e la relativa imposta (solo esposta) non andrà computata a debito nella liquidazione di periodo. Sarebbe più semplice consentire la fatturazione senza Iva, ma oggi manca un valido titolo per non applicare l’imposta.

Sul versante finanziario, lo split payment porta coloro che lavorano prevalentemente con la Pa a trovarsi in una costante situazione di credito Iva. Certo, a tali soggetti è esteso il diritto al rimborso, sia annuale che trimestrale, dell’eccedenza a credito. Tuttavia, il rimborso è vincolato al trascorrere di tempi tecnici: ciò può condurre a squilibri nei flussi di cassa, con la conseguente necessità per le imprese di rivedere la gestione della tesoreria. Inoltre il Dlgs semplificazioni (atteso all’approvazione definitiva del Governo dopo il secondo parere parlamentare) mira a facilitare la procedura di rimborso Iva eliminando la prestazione delle garanzie: questo in parte mitiga l’onerosità della procedura ma non risolve il problema legato ai tempi. Del resto, le difficoltà dello split payment sono state segnalate anche a livello comunitario. La comunicazione sul futuro dell’Iva – Com(2011)851 – riporta che la proposta di implementazione di tale sistema ha suscitato reazioni tendenzialmente negative da parte di imprese e consulenti, preoccupati dell’impatto che lo split payment può produrre sul flusso di cassa e sui costi di conformità.