Edicola – Opinioni

Una scossa da realizzare con serietà

Una scossa da realizzare con serietà

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Fosse solo una partita di poker, tra lanci e rilanci, sarebbe divertente. Ma non lo è. La posta in gioco è tremendamente più seria e cruciale: la ripresa di un Paese stremato e il suo rapporto con l’Europa e con i mercati. Dietro e davanti l’annuncio del premier Matteo Renzi di una legge di stabilità da 30 miliardi senza aumenti fiscali; la spending review per 16 miliardi; l’abbattimento dell’Irap per 6,5 miliardi; il taglio per 3 anni dei contributi per chi assume a tempo indeterminato; la possibilità di ricevere il Tfr in busta paga ci sono questi numeri e questa impostazione. Mix che se confermato in modo chiaro nel testo di legge può segnare la svolta attesa. Oppure, in caso contrario, aprire una finestra sul burrone.

Renzi ha messo sul piatto la credibilità sua e della terza economia dell’Eurozona. Lo ha fatto tirando dritto su una strada dove non mancano le curve pericolose (a partire dall’esame non scontato dell’Europa sulla deviazione dal pareggio di bilancio) e che può essere attraversata da molte incognite. Le preoccupazioni formulate da Bankitalia hanno un loro spessore di veridicità e sarebbe un errore non tenerne in debito conto. Sarebbe sbagliato sottovalutare anche le contestazioni. Infine, ieri come oggi, non è possibile trattare il tema delle coperture finanziarie con un’alzata di spalle. D’altra parte gli impegni assunti dal premier suonano con toni diversi da quelli di uno spot di giornata. Al contrario. La strategia d’attacco prospettata indica una scelta di politica economica e non un compromesso dove tutto “si tiene”. Di queste mezze soluzioni inservibili ne abbiamo collezionate a bizzeffe e l’Italia ha pagato un prezzo altissimo. Se ne ricordi, domani, il Governo.

L’ora degli esami per il premier

L’ora degli esami per il premier

Michele Brambilla – La Stampa

Domani il governo approverà la manovra. Vedremo come sarà. Da essa dipenderà, certamente, il futuro della nostra economia (almeno per i prossimi mesi): ma, probabilmente, anche quello del premier. Matteo Renzi sta infatti governando grazie a una formidabile apertura di credito ricevuta da una parte del Paese ben più numerosa di quella riferibile all’elettorato del suo partito. C’è tutto un mondo che per la prima volta, alle scorse europee, ha messo la ics sul simbolo del Pd nella convinzione che Renzi sia l’uomo giusto per dare il via a una serie di riforme di stampo liberale. Questo mondo finora ha dimostrato di saper aspettare, di non pretendere da Renzi, in pochi mesi, risultati che altri non hanno conseguito in decenni. Ma quanto durerà la pazienza? Insomma quanto durerà questa «apertura di credito»?

Prendiamo il Veneto, esempio perfetto. Da sempre è stato un feudo del centrodestra: nel 2010, Pdl e Lega insieme raggiunsero il 59 per cento. Quest’anno, in maggio, alle europee il centrosinistra ha vinto per la prima volta. Il Pd ha toccato il 37,52 per cento, contro il 21,6 di appena un anno prima (alle politiche): da solo, ha avuto più consensi di Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e Ncd messi insieme. Non occorre un mago dei flussi elettorali per comprendere che una simile rivoluzione ha un nome e un cognome: Matteo Renzi. Il leader di centrosinistra che, alle orecchie degli imprenditori del Nord-Est, finalmente parla il loro linguaggio, e non quello di una vecchia sinistra, che è poi quella che ieri a Bergamo l’ha contestato.

Nei giorni di quell’exploit renziano, Luca Zaia disse: «La luna di miele tra Renzi e il Veneto finirà prima che arrivino le regionali». Ebbene, in questi giorni la Swg ha fatto un sondaggio appunto sulle prossime regionali, che si terranno in primavera, e i numeri direbbero che Zaia è in vantaggio di quindici punti sulla probabile candidata del centrosinistra, Alessandra Moretti, che pure nel maggio scorso, alle europee, aveva preso 230.000 preferenze, un’enormità. Non solo: il sondaggio darebbe il Pd attorno al 30 per cento, sette punti in meno rispetto a cinque mesi fa. Vero che il sondaggio è stato commissionato dalla Lega: ma il direttore scientifico della Swg, Enzo Risso, ha detto ieri al quotidiano L’Arena di Verona che un lavoro analogo gli è stato commissionato anche dal Pd, facendo capire che i risultati sono gli stessi.

Ora, è fin troppo banale sottolineare che le elezioni europee sono una cosa, e le regionali un’altra; che Zaia ha un seguito personale fortissimo, eccetera. Ovvio. Tuttavia, è innegabile – come filtra da ambienti di Confindustria Veneto – che tra gli imprenditori un po’ di impazienza cominci a circolare: «Renzi è venuto più volte qui in Veneto facendo grandi promesse, ora deve stare attento a non deluderle. La sua idea sul Tfr in busta paga, ad esempio, ha fatto venire molti mal di pancia». «Tra gli elettori passati dal centrodestra a Renzi comincia a montare qualche insofferenza», conferma Francesco Jori, scrittore veneto, autore di saggi sulla Lega. L’ex sindaco di Oderzo Bepi Covre, uno degli imprenditori leghisti che hanno votato per Renzi, dice che continua ad avere fiducia nel premier, ma pure che un cambio di passo non è rinviabile: «Il Pil Veneto nel 2014 sarà del più 2,5: come la Germania. Ma la media del Paese porterà a un meno 0,3 o 0,4: è chiaro che non si possono dare le stesse medicine per malattie diverse. Il governo deve restituire competitività alle piccole e medie imprese abbassando il cuneo fiscale. Più soldi in busta paga e meno tasse». Ieri a Bergamo Renzi ha promesso agli imprenditori proprio questo: meno tasse, almeno per chi assume. Non solo in Veneto, ma in tutta Italia, c’è tutto un mondo che lo giudicherà sulle sue parole.

La pubblica amministrazione è già fallita, l’Agenzia Digitale lo certifica

La pubblica amministrazione è già fallita, l’Agenzia Digitale lo certifica

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Come può essere definita una pubblica amministrazione che non è in grado di gestire l’attuazione delle sue riforme organizzative più recenti adottate per favorire la modernizzazione dei propri processi operativi? Probabilmente come una organizzazione già fallita nella sua capacità di restare agganciata alla modernità, come un soggetto sopravvissuto al suo passato quindi una sorta di armadillo o di ippopotamo della peggiore burocrazia, bloccata dai cavilli prodotti dalla sua incapacità di gestire i bisogni dell’oggi.

Il business case, tanto caro a coloro che si formano nei corsi di Mba anglofoni, offerto dall’Agid, l’Agenzia per l’Italia digitale, è, da questo punto di vista, esemplare. Un caso vivente, quindi studiabile nella sua attualità comportamentale, di cosa significhi per una grande economia del pianeta avere una pubblica amministrazione inadeguata. Inventata, addirittura per dl nel giugno del 2012 dal governo emergenziale di Mario Monti, da quando è nata non ha prodotto praticamente nulla, come certificato dalla stessa Corte dei conti. Anche se, in tempi di sempre annunciata spending review, l’Agid costa ai contribuenti: la spesa pubblica corrente per mantenere un organico di 130 persone è di circa 10 mln di euro.

Ma c’è qualcosa di specifico che rende assolutamente paradossale la situazione. Neppure il governo in carica riesce a mandare a regime il Comitato di indirizzo, perché lo statuto dell’Agid non è intellegibile. Figlio di un processo di produzione di leggi e regolamenti sfuggito a ogni controllo di razionalità e di competenza, adesso gli uffici tecnici di Palazzo Chigi non sanno cosa fare con questa frase: «Dai membri del Tavolo permanente per l’innovazione e l’Agenda digitale italiana». Non è chiaro che cosa si intenda e sono possibili tre interpretazioni: a) ci devono essere in tutto due rappresentanti designati dalla Conferenza unificata e dai membri del Tavolo; b) devono essere due rappresentanti più due; c) ci devono essere tutti i membri del Tavolo (una decina). Discussioni di cavilli, si dirà e quindi non così importanti. Ma non essere in grado di mandare a regime una struttura che dovrebbe occuparsi della modernizzazione della Pa certifica, quasi senza ulteriori commenti, la irriformabilità della stessa macchina pubblica. L’immagine della rottamazione che si interrompe perché cioè che andrebbe rottamato lo è già.

La morale è che le riforme della burocrazia italica, anche quando partono con le migliori intenzioni, producono solo dei mostri. Dei pericolosi carrozzoni che affondano la già scarsa competitività e fanno fuggire il miglior capitale umano e gli investitori. Carrozzoni digitali.

Renzi alla conquista delle imprese

Renzi alla conquista delle imprese

Stefano Menichini – Europa

Dalle tartine confindustriali Matteo Renzi si tiene lontano, ma ormai è chiaro chi siano i veri referenti dello sforzo comunicativo nel quale impegna se stesso in persona. Da settimane il premier batte gli stabilimenti industriali, quelli afflitti dalla crisi e quelli salvati da oculate scelte di nicchia, quelli enormi come la Fiat Chrysler e quelli più piccoli in Puglia o nel Bergamasco. Dopo la prova di forza sull’articolo 18, le contestazioni dirette organizzate dalla Fiom hanno preso il posto delle proteste legate a situazioni locali. Ma Renzi non si fa dissuadere, la campagna continua e agli operai si rivolge in maniera indiretta, attraverso i loro datori di lavoro: sono loro, gli imprenditori piccoli, medi e grandi, il target del tour renziano. E del resto sono loro, messa in sicurezza l’operazione 80 euro, i destinatari delle misure della legge di stabilità e del decreto sblocca-Italia. E, di nuovo, sono loro – con artigiani, commercianti, professionisti – il bacino elettorale fin qui irraggiungibile per la sinistra nel quale il Pd sta crescendo negli ultimi mesi secondo le ricerche più aggiornate.

Le anticipazioni sulla legge di stabilità fornite ieri a Bergamo faranno discutere per tre motivi. Perché le cifre sono ingenti, 30 miliardi di euro di manovra ma con ben 18 miliardi di tagli di tasse rispetto allo scorso anno: dove saranno reperite le risorse? Poi perché il testo è in realtà lontano dall’essere completato, ancora oggetto del consueto andirivieni tra palazzo Chigi e ministero dell’economia. Infine, perché le indicazioni di Renzi appaiono decisamente pro-business, orientate a soddisfare antiche e recenti richieste delle imprese (innanzi tutto sul taglio dell’Irap per la parte legata al lavoro) in cambio dello sblocco delle assunzioni, con l’obiettivo di muovere un mercato molto più fermo di quanto il governo sperasse ancora agli inizi dell’estate. Tre anni di totale decontribuzione per le assunzioni a tempo indeterminato causeranno uno stress alle casse previdenziali: è lo shock che Renzi ritiene necessario, misure più blande non hanno sortito effetti. Il menu delle misure è condito dalle spezie anti-establishment e anti-burocrazia: imprenditori veri quelli che danno il buon esempio, non quelli che partecipano ai seminari; le opere di manutenzione del territorio che danno più lavoro agli avvocati che ai manovali (come a Genova). È il preannuncio di nuovi tormentoni utili a far passare il messaggio. Il Jobs Act pare già alle spalle, come cosa fatta.

Coraggio, tagli senza illusioni

Coraggio, tagli senza illusioni

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Matteo Renzi dice che «sarà la più grande opera di taglio delle tasse mai tentata». Non possiamo che augurargli (e augurarci) successo. Ma abbiamo il dovere di chiedere chiarezza su certi numeri. La manovra da 30 miliardi con riduzione di imposte per 18 sarà finanziata allargando i cordoni della borsa? O ridimensionando in modo deciso e intelligente la spesa pubblica improduttiva, come sarebbe doveroso? Il sospetto che prevalga la prima ipotesi non può essere scartato. Spiega il premier che la spending review prevede tagli per 16 miliardi. Ed è proprio questo il punto più delicato: si ha la sensazione che dietro a quel numero ci sia ben poco.

Alla notizia che Cottarelli avrebbe gettato la spugna, Renzi era rimasto impassibile. Promettendo: «La spending review la faremo anche se lui va via». E aggiungendo: «Abbiamo una strategia». Ma quale fosse non è mai stato chiarito. Il piano che avrebbe dovuto far risparmiare 34 miliardi in tre anni è finito in chissà quale cassetto. Mentre arriva semmai qualche segnale opposto e disarmante. Le famose partecipate, per esempio. Punto qualificante della spending review di Cottarelli era il taglio della pletora di società pubbliche spesso tenute in vita solo per assicurare poltrone a ex politici, amici e sodali. Con il risultato di portarle dalle attuali 8 mila a circa mille, ottenendo risparmi miliardari. Obiettivo sacrosanto condiviso da Renzi in pubbliche dichiarazioni. Intanto però il solito deprecabile andazzo proseguiva. Qualche caso? In agosto la Sogesid, società che nonostante 118 dipendenti nel 2013 ha pagato 380 consulenze spendendo 8,5 milioni e che il governo Monti avrebbe voluto chiudere ritenendola inutile, è stata rianimata e affidata a una vecchia conoscenza: il supercasiniano Marco Staderini.

Un mesetto prima l’ex deputato del Pd Pier Fausto Recchia, rimasto senza seggio, era diventato ad di Difesa servizi: spa inventata dall’ex ministro La Russa fra le feroci contestazioni della sinistra. Oggi, magicamente svanite. Sempre in agosto ecco alla presidenza di Mistral Air, compagnia aerea delle Poste di cui si ipotizzò lo scioglimento in Alitalia, un altro ex onorevole pd cessato dal mandato nel 2013: Massimo Zunino. La storia si ripete. E il verso, lo diciamo con amarezza, sembra sempre lo stesso.

Il governo ha sbagliato i conti: sui marcati c’è aria di tempesta

Il governo ha sbagliato i conti: sui marcati c’è aria di tempesta

Renato Brunetta – Il Giornale

Chissà perché le stesse agenzie di rating che nell’estate-autunno del 2011 erano tanto loquaci, anche oltre il lecito, visto che presso la procura di Trani è in corso una serissima indagine sui loro comportamenti, oggi tacciono? Lo scorso venerdì né Moody’s né Standard & Poor’s hanno aggiornato il loro giudizio sull’Italia. Non hanno nulla da dire o c’è dietro altro? Per Moody’s l’ultimo rating emesso è del 14 febbraio, proprio il giorno delle dimissioni del governo Letta, poi il calendario non è stato più rispettato: nessun aggiornamento il 13 giugno e nessun aggiornamento neanche il 10 ottobre. Che strano: Moody’s non si pronuncia più sull’Italia da quando c’è il governo Renzi. O in questi mesi il giudizio è cambiato talmente poco da essere irrilevante (il che vuol dire che anche l’azione di questi mesi del governo ha prodotto effetti minimi, addirittura impercettibili), oppure il giudizio è talmente grave che renderlo pubblico destabilizzerebbe non solo l’Italia, ma l’intera area dell’euro. In entrambi i casi siamo davanti a una manipolazione del mercato bella e buona, come fu manipolazione, nel senso diametralmente opposto a quello attuale, appena esposto, quella del 2011. Manipolazione che, in quel caso, portò alla caduta di un governo legittimamente eletto dal popolo, e a comportamenti speculativi i cui effetti devastanti hanno messo in ginocchio l’Europa. Ma di questo ci darà conto il tribunale di Trani. Certo, la coincidenza dell’inizio del silenzio da parte delle agenzie di rating con l’insediamento del governo Renzi desta più di qualche dubbio.

Tempesta perfetta in arrivo?
Fino ad oggi i gestori (soprattutto grandi banche d’affari e hedge funds americani) hanno avuto un eccesso di liquidità da investire, per effetto delle politiche di allentamento monetario della Fed. L’acquisto di titoli di Stato italiani è stata una strategia ragionevole: sono titoli meno rischiosi e con un rendimento conveniente. La situazione cambierà invece con la fine del Quantitative Easing della Fed. Con meno soldi in circolazione le scelte dei gestori saranno più selettive e i primi titoli di cui si disferanno saranno quelli italiani se per allora il nostro Paese non avrà dimostrato di aver fatto le riforme necessarie. Ai mercati basterà poco per cambiare atteggiamento.Tutto potrebbe precipitare di nuovo, con un rapporto debito/Pil fuori controllo, oltre il 140% nel 2015. A ciò si aggiunga che poco meno di tre anni fa le banche italiane hanno preso in prestito oltre 200 miliardi di liquidità dalla Bce per il tramite della Banca d’Italia, fornendo in garanzia dei titoli del Tesoro. Tra poco queste operazioni saranno definitivamente chiuse e i Btp o i Ctz potrebbero essere svincolati. Ne deriva che, aumentando l’offerta di titoli sul mercato, diminuirà il prezzo e aumenteranno i rendimenti (le due grandezze sono inversamente proporzionali). Con le conseguenze che tutti conosciamo sugli spread. Se la tempesta perfetta arriva, spazza via tutto. E tutti.

È credibile la finanza pubblica?
Il documento più recente ufficiale del governo è la Nota di aggiornamento al Def, approvata dal Consiglio dei ministri il 30 settembre, che rappresenta una completa riscrittura del precedente documento di aprile, dimostrazione evidente del fallimento della linea di politica economica fin qui seguita da Matteo Renzi. Errate si sono dimostrate le scelte finora compiute, a partire dal bonus di 80 euro; errati i presupposti analitici su cui quella politica si è fondata. A dimostrazione di questo assunto basta considerare lo scarto nella previsione di crescita del Pil (dal +0,8% di aprile al -0,3% di settembre): 1,1 punti di Pil di differenza. Scarto che supera di gran lunga tutta l’esperienza storica più recente. Senza considerare il grado di realismo (basso) implicito nell’ultima previsione di -0,3%. A giustificare un simile scarto previsionale, in corso d’anno, non si è verificato alcun elemento traumatico. Al contrario si è seguito solo il trend a ribasso degli anni precedenti: -2,4% nel 2012, -1,9% nel 2013. Per ritrovare il segno più negli andamenti del Pil italiano bisogna risalire al 2010 (+1,3%) e al 2011 (+0,4%), quando il governo del paese era affidato a un’altra maggioranza.

Secondo i dati dell’Eurostat il reddito nominale dei Paesi dell’eurozona nel 2013 è stato del 4% superiore ai livelli pre-crisi. In Italia siamo invece ancora ben lontani dal raggiungere quell’obiettivo, e in termini reali la perdita di Pil resta ancora superiore ai 9 punti. Nelle previsioni per il 2015, inoltre, il nuovo Def ipotizza una crescita del Pil pari allo 0,6%. A questo obiettivo dovrebbe contribuire soprattutto la domanda interna, che subirebbe un balzo di un punto di Pil passando da -0,3%, nel 2014, a +0,7% nel 2015. Questo passaggio non è ulteriormente motivato, né si considera l’effetto di trascinamento della brusca caduta dell’anno precedente.

Nella logica del documento del governo, infine, le previsioni di crescita rappresentano il floor su cui calcolare l’impatto delle possibili riforme. Rispetto al tendenziale sarebbero destinate a determinare una crescita del potenziale produttivo pari in media allo 0,2% in tre anni. Spiccioli. L’effetto lordo delle riforme, infatti, è compensato dall’onere recato dalle misure di salvaguardia, poste a difesa del rispetto dei parametri del deficit. Misure che potrebbero scattare a partire dal 2016, per importi predeterminati fin da ora e pari a 12,6 miliardi nel 2016; 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. Con conseguente aumento della pressione fiscale, che si stabilizza a un livello superiore al 44% del Pil. Ipotesi da scongiurare.

Un sentiero impervio
L’insieme di questi dati, al di là dell’eleganza formale dei ragionamenti del governo, dimostra quanto sia ancora impervio il sentiero per uscire dalle secche della crisi. Questi dati rappresentano perfettamente il “circolo vizioso” dell’economia italiana: gli investimenti privati non crescono a causa dei ridotti margini aziendali; quelli pubblici non decollano a causa delle cattive condizioni di finanza pubblica; di conseguenza l’economia ristagna, mentre lo spiazzamento competitivo derivante dal combinarsi di una bassa produttività aziendale con un’altrettanta limitata “produttività totale dei fattori” allontana il nostro paese dal resto dell’eurozona. Per non parlare della concorrenza che deriva dalle economie emergenti. Il governo stesso si è reso conto di questi pericoli allorquando ricorda “la delicatezza della fase attuativa che ha spesso deluso in passato le aspettative degli italiani e degli investitori stranieri”. Preoccupazione assolutamente condivisibile, subito disattesa, tuttavia, dai suoi comportamenti effettivi. Del resto, lo scarto tra preposizioni teoriche e comportamenti effettivi è la vera cifra che caratterizza l’intera azione del governo.

L’attuale quadro dei conti pubblici italiani appare, pertanto, venato da profonde incertezze programmatiche e dalla profonda discrasia tra il “dire” e il “fare”. Esso è reticente nell’individuare i veri punti che sono all’origine dello shock endogeno che persiste nell’economia italiana, intimamente legato alla sua bassa produttività. È il riflesso di un quadro politico incerto, in cui persistono linee divergenti, segnato da fratture difficilmente conciliabili, che riducono la capacità operativa del governo e lo costringono a defatiganti azioni di mediazione, allungando i tempi della decisione politica. Il tutto in aperto contrasto con le esigenze di chiarezza richieste dai mercati e dalla Commissione europea, che non perde occasione per far conoscere le proprie riserve, lanciando ripetuti avvertimenti.

Si rende oggi quanto mai necessario, dunque, un più intenso dialogo intereuropeo al fine di dare a quel semestre di presidenza italiano, fin troppo scialbo, l’occasione di un rilancio. Dobbiamo sgombrare il campo dall’ipotesi che l’accento riposto sulla necessità dello sviluppo sia un alibi per continuare nelle vecchie abitudini di sempre. Al contrario, occorre rafforzare la posizione negoziale dell’Italia per costringere anche gli altri, soprattutto la Germania, a fare la propria parte. Allo stato attuale, però, l’Italia manca di credibilità sul piano internazionale e dei mercati. La finanza pubblica è fuori controllo e le previsioni del governo appaiono agli occhi degli osservatori spesso fin troppo ottimistiche. L’esecutivo, infine, si regge su una maggioranza di partito e non su una maggioranza parlamentare. Dopo i governi non eletti, Monti e Letta, con Matteo Renzi l’Italia si trova al suo punto minimo di credibilità economica e democratica. Tutti questi fattori, deflagranti in caso di tempesta sui mercati, rendono l’Italia il paese più debole nel contesto europeo. Continuare a fare finta che non sia così è da irresponsabili.

Non arrendiamoci al mal di testa da depressione

Non arrendiamoci al mal di testa da depressione

Daniele Manca – Corriere economia

Il mondo sta crescendo del 3 per cento all’anno. «Poco» ci viene detto dagli analisti del Fondo monetario internazionale, come pure dagli economisti in genere. Ma. a ben guardare, non siamo molto distanti dalla media alla quale il mondo cresceva agli inizi degli anni Ottanta e Novanta, come notava nei giorni scorsi il «Financial Times». Ma in quegli anni non avevamo ancora i postumi del mal di testa da grande crisi del 2008. E ci accontentavamo. Si sperava solo di crescere di più negli anni a seguire. Il mal di testa sembra impedire a governi, imprese e cittadini di reagire. Soprattutto in Europa. La Cina, che ha contribuito alla crescita mondiale per il 30%. nel 2014, si spera continui a correre a ritmi medi del 7,5% . L’America sta provando seriamente a fare la sua parte. Non è difficile capire di chi sia la colpa se, come riportato da Martin Wolf sempre sull’Ft, il 70% delle economie emergenti cresce nel 2014 a tassi più bassi della media pre-crisi. E se questo circolo di mancata contribuzione da parte dell’Unione europea allo sviluppo, e quindi di crescita meno forte delle economie emergenti, dovesse avvitarsi il futuro potrebbe davvero essere molto triste.

Inutile però sperare che la spinta arrivi da possibili allentamenti di patti o flessibilità più o meno risolutive. Possono aiutare sicuramente ma, fatto 100 la domanda nell’eurozona nel 2008, oggi siamo a quota 95. Gli Stati Uniti sono a 106. Analogo l’andamento del Pil. E allora la Bce può aiutare, Bruxelles anche, ma, se nei singoli Paesi non riparte la domanda interna, c’è poco da sognare. Ci si potrà accusare l’un altro, la Germania perché ha un surplus commerciale troppo alto, Francia e Italia perché in ritardo sulle riforme per aumentare produttività e competitività. Ma è necessario che ognuno faccia la sua parte. Noi la nostra. I cittadini aspettano solo questo. Le attività finanziarie delle famiglie erano a marzo pari a 3.858 miliardi di euro. Pari a quelle del periodo pre-crisi. Il segnale più evidente che stiamo risparmiando. Intimoriti sul futuro. Ma anche che, appena le condizioni dovessero mutare e potessimo tornare a investire, non saremo certo in difficoltà a farlo.

L’innovazione può aprire nuove opportunità

L’innovazione può aprire nuove opportunità

Giuliano Noci – Il Sole 24 Ore

Chiunque lavori con il mondo industriale italiano rileva, in questi ultimi anni, un crescente interesse per la Cina, invocata come investitore risolutivo dei problemi di casa nostra e come mercato capace di risolvere i problemi della nostra domanda interna. Il mercato cinese è per molte categorie merceologiche il primo al mondo, per i numeri della sua popolazione e di una classe media che ormai veleggia verso i 200 milioni di persone (con proiezioni di raddoppio nei prossimi dieci anni). In verità, le nostre imprese hanno colto solo in parte questo potenziale; competitivi nel fashion e in alcuni specifici comparti dell’automazione, abbiamo ancora molto da migliorare (e imparare) nei settori a più alto contenuto di tecnologia. Esportiamo in Cina un terzo di quanto fa la Germania (13 miliardi di dollari) e il 20% in meno della Francia per quanto riguarda i macchinari elettrici. Anche in un’eccellenza “nascosta” come il biomedicale i dati potrebbero essere migliori: esportiamo più di 750 milioni di dollari contro i 2,4 miliardi della Germania e i 5 del Giappone; siamo meglio di Francia e Spagna, ma esportiamo meno della Russia (1,2 miliardi). Vanno meglio le cose nei macchinari per l’agroalimentare: nel 2013 le nostre imprese hanno esportato macchinari per il food processing per oltre 40 milioni di dollari, contro i 130 milioni della Germania, ma più di Francia, Spagna e Regno Unito. È però emblematico che la Germania esporti in Cina oltre 30 milioni di dollari in macchinari per la produzione di spaghetti e prodotti da forno, mentre noi solo 7 milioni.

A qualcuno potrebbe venire in mente che questo deficit di competitività commerciale non sia tutto sommato così penalizzante. Al contrario: la Cina si sta trasformando in modo molto significativo: in particolare, ha un enorme bisogno di aumentare la sua produttività (i costi del lavoro non sono più competitivi con quelli di Indonesia, Thailandia eccetera), di investire in tecnologie ambientali – per far fronte ai gravi danni arrecati in questi decenni all’eco-sistema locale -, deve realizzare un piano energetico in grado di far fronte all’enorme crescita dei consumi interni e molto altro. Si aprono, dunque, nuove prospettive e mercati per il nostro export proprio per l’attenzione che la Cina sta dedicando al tema dell’innovazione.

Se l’Italia vuole allora sperare di poter annoverare il mercato cinese tra quelli di riferimento – e lo deve fare – deve cambiare passo per colmare quel gap di competitività commerciale che caratterizza i nostri settori a più alto contenuto tecnologico. Politica e mondo industriale debbono viaggiare sempre di più a braccetto; fare business in certi settori in Cina (l’energia, per esempio) richiede in primo luogo che il Governo “apra la strada” dal punto di vista politico alle nostre imprese. È necessario, nella logica di focalizzazione degli sforzi, che si individuino le priorità: tecnologie agro-alimentari, aerospazio, ambiente ed energia, design, architettura, sanità e tecnologie per l’automazione industriale. È ugualmente importante che la politica investa sulle università italiane assegnando a quelle meritevoli il ruolo di ambasciatori delle nostre tecnologie: da oltre quarant’anni la Germania ha aperto centri di ricerca e università in partnership con i cinesi e ora molti laureati dell’ex Impero di Mezzo comprano tecnologia tedesca.

Occorre, infine, tener presente che in Cina non funziona la politica dei piccoli progetti; occorre pensare in grande ed essere ambiziosi, facendo leva sulle eccellenze industriali e tecnologiche che il nostro Paese riesce a esprimere. Il Governo cinese ha varato un piano da 400 miliardi di dollari sulle smart grid; l’Italia deve proporsi come partner tecnologico per la progettazione e realizzazione di queste reti intelligenti. Pensando al tema ambientale, deve portare le sue esperienze di trattamento dell’aria e di gestione dei rifiuti per contribuire ad affermare un nuovo modello di urbanizzazione sostenibile, molto importante per i cinesi.

Ce la possiamo fare? Ritengo di sì; negli ultimi mesi il ministero degli Affari esteri, d’intesa con il Miur e sotto la regia del Governo, ha avviato un tavolo con le università italiane per la redazione della strategia nazionale di cooperazione scientifica e tecnologica con la Cina, nella prospettiva di generare ricadute industriali al nostro sistema. Una ripartenza che verrà suggellata il 16 ottobre al Forum dell’Innovazione che si terrà al Politecnico di Milano e vedrà la presenza del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e del primo ministro cinese, Li Keqiang. Occorre, ora, non mollare la presa.

Il tfr di Pantalone

Il tfr di Pantalone

Tito Boeri – La Repubblica

In queste ore il governo sta decidendo se varare l’operazione Trattamento di fine rapporto in busta paga. Nell’ambito di una legge di stabilità che si annuncia di basso profilo (solo 5 miliardi dalla spending review al posto dei 20 annunciati!), questo potrebbe essere l’unico provvedimento di un certo rilievo. Servirebbe per rilanciare i consumi rimpinguando gli 80 euro in busta paga. Il tutto con effetti contenuti sul disavanzo, destinato già ad aumentare fino a sfiorare il vincolo “invalicabile” del 3 per cento. Insomma, sembra la famosa quadratura del cerchio. Purtroppo non è così. Prima di spiegare perché e cosa si può fare in alternativa, bene chiarire quali sono le ipotesi allo studio, scusandoci in anticipo col lettore perché sono molto complicate.

Il Tfr lasciato in azienda è una fonte di finanziamento a basso costo per le imprese. Le aziende maggiormente coinvolte in questa operazione hanno meno di 50 dipendenti e sono quelle che hanno più problemi di accesso al credito. Per evitare di sottrarre loro liquidità, il governo intende chiedere alle banche di versare questi soldi ai lavoratori utilizzando a tal fine i fondi presi a prestito dalla Bce a tassi TL-TRO cioè uLTRavantaggiosi, diventando così creditrici delle imprese, al posto dei lavoratori. Si pensa inoltre di dare ai lavoratori la facoltà di scegliere se incassare questi soldi oppure lasciarli in azienda o presso il fondo istituito presso l’Inps per replicare i rendimenti del Tfr. Non avrebbero invece questa facoltà i lavoratori che hanno dirottato il trattamento di fine rapporto verso la previdenza integrativa.

Il Tfr esiste dal 1942 e non è certo la prima volta che un governo accarezza l’idea di cambiarne la destinazione d’uso per sostenere la domanda. Ma questa volta si fa sul serio e proprio a ridosso di una riforma che ha deciso che il Tfr doveva servire per alimentare la previdenza integrativa. Di più, i lavoratori che hanno messo i soldi in fondi pensione, seguendo i suggerimenti degli stessi partiti che oggi appoggiano Renzi, sono trattati peggio. Infatti non viene loro offerta la possibilità, concessa invece agli altri lavoratori, di attingere a questi accantonamenti, in caso di bisogno. Perché li si esclude? Apparentemente per non contraddire troppo la riforma del 2007. Ma ci si dimentica che questa scelta spingerà altri lavoratori a non alimentare col Tfr la previdenza integrativa. La liquidità è un bene prezioso, soprattutto di questi tempi. La prospettiva di investimenti molto liquidi rischia di dissuadere i giovani, destinati ad avere pensioni pubbliche molto più basse di chi si ritira oggi dalla vita attiva, dall’investire nella previdenza integrativa. In un Paese che ha smesso di crescere, la previdenza integrativa è ciò che può tutelare le pensioni future dei giovani. Negli ultimi 13 anni i fondi negoziali hanno offerto un rendimento cumulato nominale del 49% contro il 30% circa offerto dai contributi alle pensioni pubbliche; negli ultimi 3 anni, poi, il rendimento più basso offerto da un fondo pensione negoziale è stato del 4,5% (comparto garantito), mentre i contributi previdenziali sono stati virtualmente capitalizzati a meno dell’1 per cento.

Non pochi lavoratori che hanno sin qui optato per tenere il Tfr in azienda lo hanno fatto perché il trattamento di fine rapporto è un deterrente ai licenziamenti. Un’impresa che deve scegliere chi licenziare presumibilmente opterà per il lavoratore al quale non deve versare la liquidazione, soprattutto se le imprese faticano a finanziarsi. Coinvolgendo un terzo attore, le banche, che dovrebbero ereditare il debito dell’impresa verso il lavoratore, questo deterrente, che risponde alla logica delle compensazioni monetarie a chi perde il lavoro anziché della reintegra che il governo intende abolire, viene a cessare. Il tutto in virtù di un sostegno pubblico, non di un accordo fra una banca e un’impresa privata. Infatti il governo, per invogliare le banche a partecipare a questa operazione, dovrà offrire loro la garanzia che, in caso di fallimento dell’impresa, sarà Pantalone a farsi carico del debito contratto dall’azienda nei confronti dell’istituto di credito. È una garanzia che rischia di essere molto costosa perché saranno soprattutto i lavoratori di imprese che stanno per portare i libri in tribunale a optare per incassare subito il Tfr.

Per queste ed altre ragioni (ricapitolate su lavoce.info) non si vede perché mettere in piedi un’operazione intricata – che coinvolge banche, Bce e Cdp – per modificare nuovamente le norme sulla previdenza integrativa rendendole (credevamo non fosse possibile) ancora più complesse di prima. Il tutto con il rischio di apparire come un governo che non esita a rendere più facili i licenziamenti e ad approfittare delle documentate scarse capacità degli italiani di pianificare i loro risparmi, pur di incassare tasse più alte dal Tfr (il prelievo su rendimenti finanziari dei fondi pensione è dell’11,5% mentre il Tfr in busta paga verrebbe tassato mediamente al 23%). Se, come crediamo, il vero intento dell’esecutivo è quello di sostenere la domanda, bene che sia consapevole del fatto che i soldi dati in busta paga verranno spesi solo se percepiti non come un dono effimero, destinato a essere ripagato un domani con tasse più alte, ma come un aumento permanente del reddito disponibile. Con tutta la buona volontà, è difficile credere che un’architettura così bizantina come quella allo studio possa reggere nel tempo.

Se proprio si vogliono mettere più soldi in busta paga, meglio piuttosto ridurre i contributi dei lavoratori dipendenti all’Inps. Si può, ad esempio, abbassarli di cinque punti, portandoli ai livelli del lavoro parasubordinato. Servirà anche a riequilibrare il sistema previdenziale tra pubblico e privato. Non è un’operazione che aumenti il debito pubblico perché ormai tutti versano in un sistema contributivo in cui minori entrate oggi nelle casse dell’Inps saranno un domani compensate da spese più basse. La Commissione Europea, che ha più volte elogiato il nostro sistema contributivo lamentando semmai il fatto che sia entrato in vigore troppo tardi, potrà accettare un disavanzo oggi più alto che viene automaticamente coperto da minori disavanzi futuri. Tra l’altro, tagliando in modo equo le pensioni più alte per fiscalizzare i contributi dei lavoratori con salari più bassi, come già proposto su queste colonne, si otterrà il duplice effetto di contenere gli effetti temporanei sul deficit e salvaguardare le pensioni più basse. Il tutto in modo sostenibile, dunque credibile, e senza mettere di mezzo la Cassa Depositi e Prestiti.

Limbo-rating

Limbo-rating

Davide Giacalone – Libero

Siamo entrati nel limbo-rating, fra color che son sospesi. Venerdì doveva arrivare il giudizio di Moody’s sui conti italiani e la sostenibilità del debito, ma lo hanno rimandato. Ci si dorme lo stesso, ma un filo d’inquietudine m’ha preso quando ho sentito che il ministro dell’economia è tranquillo. Considerato che hanno declassato la Finlandia (da tre a due A), far spallucce non aiuta. L’inquietudine è cresciuta quando un rating è arrivato, accolto da un coro festoso: confermato il giudizio sull’Italia. Peccato sia una previsione negativa. L’agenzia canadese Dbrs è la più generosa con l’Italia, considerandoci ancora a livello A, sebbene “A-Low”, ma l’outlook, la previsione per il futuro è infausta. Dice che andremo peggio. La preoccupazione aumenta ancora una volta sentito il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, che è sicuro del consenso che la Commissione europea accorderà alla nostra legge di stabilità. Potremmo star sereni, se non fosse che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ci avverte che la legge italiana non può essere già stata bocciata, dato che non è ancora stata scritta. Tradotto: stiamo trattando. E pensare che qualche illuso, lasciatosi affascinare dal dinamismo apparente, gli aveva suggerito di anticiparla all’estate. Macché, ci stiamo attardando, fino all’ultimo istante. Chissà che non sia anche per questo che Moody’s rinvia.

Non divinizzo certo i responsi delle agenzie, dopo avere collezionato dileggi per averne messo in luce conflitti d’interesse, scarsa credibilità e necessità di svincolare le decisioni sugli investimenti da quegli indici. Erano i mesi in cui ogni loro parola era considerata sentenza inappellabile e indicazione politica. Non dai (mitici) “mercati” o dalla speculazione: dalla sinistra. Che persi gli idoli ideologici s’era acconciata ai feticci mercanti. Non cambio giudizio, solo che i dubbi sul futuro sono quelli di cui qui scriviamo costantemente. Ci si trastulla con le parole, mentre i fatti marciano in altra direzione.

Sono mesi che si parla di tagli alla spesa pubblica, sostanza annunciata della legge di stabilità. Carlo Cottarelli ha preparato un piano, che non è stato neanche pubblicato. Il silenzio del commissario alla spending review ha accompagnato il suo ritorno al Fondo monetario internazionale, con una nomina voluta dal governo che gli chiedeva di tacere. Scambio occulto? Macché: baratto palese. Fin troppo. Alla fine, comunque, i tagli reali dovrebbero essere di 4 miliardi, altro che 10, o 20, come si vaneggiò nella calura.

Sono anni che si discute sul modello delle necessarie dismissioni per abbattere il debito pubblico, che intanto cresce per i fatti suoi, mentre i modelli sfilano ignudi di credibilità. Per passare ai fatti c’era il tempo conquistato dalle iniziative della Bce. Cosa siamo riusciti a fare? Abbiamo messo in difficoltà e attaccato la Bce. Ma non basta, perché il governo italiano stima il nostro debito pubblico al 131.6% del prodotto interno lordo, mentre il Fondo monetario internazionale lo colloca al 136.4, salvo correggersi e aggiornarlo al 136.7. Lavorano su dati diversi? Sarebbe davvero curioso.

Non siamo gli unici a fare i furbi con i conti, è che siamo fra i pochi a farlo da fessi. Il debito pubblico tedesco è all’80% del loro pil, ma fanno finta di non sapere che dovrebbero sommare anche quello della KfW (Kreditanstalt für Wiederaufbau), la Cassa depositi e prestiti di colà. E questo è niente, perché non un antipatizzante della Germania, bensì uno dei loro più validi industriali, Michael Mertin (Jenoptik), calcola che il debito pubblico “se si considera quello totale, includendo le pensioni, gli stipendi dei dipendenti pubblici e altre passività future del governo, sale al 285% del pil”. E se calcolassimo il debito aggregato, mettendo assieme quello pubblico e quello privato, sia industriale che familiare, in relazione al patrimonio finanziario, scopriremmo che i debiti italiani e quelli tedeschi non hanno significativa differenza di affidabilità. Salvo un dettaglio: la lucidità e continuità della classe dirigente. Politica e non solo.

Non siamo gli unici ad avere conti ballerini, ma proviamo gusto nel vestirli con il tutù e farli danzare al ritmo di discussioni sempre uguali e sempre oziose. Sono lustri che parliamo dell’articolo 18, lo abbiamo anche cambiato, nessuno se ne è accorto e replichiamo sempre la stessa scena. A stupire è che qualcuno ancora ci creda. Moody’s già ci colloca ai margini bassi dell’affidabilità (Baa2). Fra due settimane sarà il turno di Fitch. Prima di Natale arriverà Standard & Poor’s. La sostenibilità del debito è un problema dell’intera area dell’Euro, che si ostina a non federalizzarlo, rendendolo sicuro e meno costoso. Noi abbiamo un problema in più: credere che si possa continuare a perdere tempo.