Edicola – Opinioni

Allargare i diritti, ma quali?

Allargare i diritti, ma quali?

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Non c’è stato nessuno, nei media, che abbia chiesto a qualche esponente della minoranza del Pd: «Quali diritti intendeste allargare? Sostenete che invece di toccare l’art. 18 dobbiamo allargare l’area dei diritti dei lavoratori, spiegateci in cosa consiste la vostra proposta». Secondo me, l’interpellato farfuglierebbe qualche parola in puro politichese. Infatti, si tratta di una bugia bella e buona, annunciata con aria pensosa, proprio per confondere le acque di una discussione che, in realtà, è abbastanza semplice e riguarda l’allentamento delle rigidità dello statuto dei lavoratori, che impediscono all’imprenditore di avere fiducia e di assumere.

I diritti dei lavoratori sono diritti di libertà (sindacale e politica), di sicurezza sociale (assenze pagate), di retribuzione. Tutti, proprio tutti comportano costi per le aziende. «Allargare i diritti dei lavoratori», quindi, significa aggravare i costi del lavoro. Punto. Basterebbe questa constatazione per tappare la bocca ai confusi esponenti delle varie minoranze del Pd, in concorrenza tra loro, pronte, in alcuni casi, a ingrossare le file del vincitore. Alle loro spalle c’è il colosso d’argilla, l’organizzazione che da condizionata dal partito, ne è diventata la condizionatrice: la Cigl. Essa, è il riferimento politico e organizzativo di gran parte della minoranza del Pd, legata mani e piedi al sindacato e alla congerie di soggetti che fanno capo a esso, compresa la cooperazione. Come dimostra la posizione del «riformista d’un mese» Giuliano Poletti, ministro del lavoro e delle politiche sociali.

L’allargamento dei diritti, in un periodo di drammatica crisi come l’attuale, allontanerebbe ogni idea di ripresa, a meno che, scartellando da ogni impegno europeo lo Stato non si desse ad assumere, caricando, ulteriormente, sulla collettività i costi del disastro. Del resto, lo stolido Cofferati si dichiara in questi giorni neokeynesiano e propone un vasto piano di investimenti per recuperare posti di lavoro e rilanciare l’economia. Non lo sfiora il dubbio che i soldi non ci sono; se ci fossero mancano i progetti; e se tutto fosse pronto e disponibile dovremmo muoverci negli angusti spazi concessici dall’Unione europea.

A nessuno al mondo che abbia avuto esperienze produttive, in qualsiasi posizione, verrebbe in mente di rendere ancora più problematiche le assunzioni, lasciando a spasso, senza speranze, per le nostre piazze i giovani, poco qualificati dalla scuola, che vi soggiornano. A nessuno, sano di mente, verrebbe in mente di allargare il ruolo dell’autorità giudiziaria (che è il garante dei diritti) dandole ulteriori facoltà di intervenire nelle gestioni aziendali. Se, quindi, è così intuitivo che «allargare i diritti» è una formula senza costrutto, una follia comunicazionale, perché gente che, per altri versi, conosciamo come ragionevole e posata, la adotta come una bandiera?

Pensiamo a Bersani, solido, spietato burocrate dell’ex Pci, dotato di una naturale bonarietà. Pensiamo al raziocinante Cuperlo, prezioso consigliere alla presidenza del consiglio in anni non lontani, e a tanti altri che si prodigano su questo terreno dichiarando a destra e a manca che il problema non è l’abolizione dell’art. 18, ma, appunto, l’allargamento dei diritti. Se questo accade, non accade per caso. Dalle parti della sinistra Pd, si è capito che quella sull’art. 18 è la madre di tutte le battaglie del renzismo. La sua vittoria determinerebbe la fine di quel poco o tanto di potere che la Cgil esercita ancora nelle aziende, e, per li rami, le possibili influenze che gli eredi di quella che fu una grande armata, il Pci, riescono ancora ad avere sul mondo produttivo nazionale. Probabilmente, lo sa anche la massa dei disoccupati che l’«allargamento dei diritti» è una bugia che può solo prolungare il loro tragico stato rendendolo permanente. Meglio spazzarla via dalla scena il prima possibile.

Sorpassati dalla storia

Sorpassati dalla storia

Giuseppe Turani – La Nazione

Mentre prosegue il braccio di ferro sull’articolo 18, in giro per l’Italia sindacati e lavoratori firmano per lavorare anche alla domenica. È difficile non notare un contrasto stridente: il mondo va in una direzione, a dispetto di sindacati, minoranza Pd e di quelli saliti sulla barricata dell’articolo 18. Qualche tempo fa persino un uomo certamente di sinistra (anche se un po’ disastroso) come Fausto Bertinotti ha detto che la Cgil, ad esempio, aveva sbagliato nel non ritirare volontariamente i suoi dirigenti che risultavano in permesso sindacale, ma che erano pagati dalla pubblica amministrazione: in tempi di austerità e di difficoltà il sindacato avrebbe dovuto farsi avanti per primo. Invece ha aspettato che Renzi lo imponesse, e poi ha pure protestato.

La battaglia intorno all’articolo 18 ha un po’ lo stesso sapore di grave ritardo rispetto alla storia. E comunque la si pensi, non è il vero problema e nemmeno la minaccia più grande per il sindacato. La minaccia grave per il sindacato è quello che sta avvenendo a Bologna e altrove: lasciando perdere tutti i grandi dibattiti nazionali, politici e quasi filosofici, i lavoratori (dove c’è lavoro) puntano a prenderselo senza fare tante storie e a farsi pagare. Com’è giusto che sia. Poiché stiamo andando (anzi ci siamo già) verso un’economia che presenterà profonde differenze da settore a settore, da area geografica a area geografica, se il sindacato non cambia strada in fretta rischia di vedere che ‘sotto di lui’ il mondo del lavoro si organizzerà e contratterà le proprie retribuzioni. E rischia, quindi come in parte sta già accadendo, e come Renzi sembra aver capito benissimo, l’irrilevanza.

I tempi in cui i governi non usavano emanare nemmeno un decreto sul prezzo del pesce senza consultare prima i sindacati sono finiti. E quindi anche il tempo dei sindacati ‘quasi partiti’. Adesso, bisogna ritornare sul territorio e cercare, dove si può, di strappare condizioni di vita e salari migliori. Altrimenti la gente farà per conto proprio, città per città, fabbrica per fabbrica.

I lavoratori meritano molto di più

I lavoratori meritano molto di più

Gaetano Pedullà – La Notizia

Ora o mai più. Per il sindacato italiano oggi c’è la più grande occasione per lasciarsi alle spalle una cultura ottocentesca nella tutela del lavoro. Ieri a sorpresa Raffaele Bonanni ha annunciato l’addio alla segreteria della Cisl. La guidava dal 2006. Il 21 novembre prossimo, dopo 14 anni, toglierà il disturbo anche il leader della Uil, Luigi Angeletti. Una penosa storia di fondi sottratti al sindacato ha fatto fuori invece l’ex numero uno dell’Ugl, Giovanni Centrella. Resta al suo posto, al comando della Cgil, solo Susanna Camusso. Rieletta segretario generale con una maggioranza bulgara, appena qualche mese fa, qui non è la sua poltrona che traballa ma l’intera organizzazione, riuscita a perdersi per strada persino il suo storico partito di riferimento.

Questo giornale dal primo giorno – quando dedicammo un’inchiesta agli affari della Cisl Spa – denuncia l’arretratezza del sindacato italiano. La Camusso per questo ci ha querelato e se i giudici le daranno ragione dovremo chiudere e mandare a casa tutti i giornalisti. Altri posti di lavoro inceneriti da chi dovrebbe sostenere l’occupazione e invece ha una responsabilità storica del disastro in cui viviamo.

Tutelare il lavoro è però un compito nobile e necessario. Soprattutto in un mercato che sta cambiando profondamente. Di questo, un sindacato moderno deve prima di tutto rendersi conto. Continuare a difendere i privilegi di chi un posto fisso ce l’ha, a costo di chiudere la strada ai tanti che potrebbero trovare un lavoro solo a patto di accettare nuove forme di impiego – precario, a progetto, interinale, autoimprenditoriale, ecc. – significa non capire che il passato è passato e il futuro non può più aspettare. Il sindacato italiano saprà diventare più moderno? Le premesse non sono buone. Ma la speranza è l’ultima a morire.

Cento giorni per mettere in rotta la barca Italia

Cento giorni per mettere in rotta la barca Italia

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Il peggioramento dello scenario economico e il modesto risultato dell’ultima iniezione di credito della Bce hanno suggerito a molti analisti che si stia avvicinando il momento in cui la Banca centrale europea debba ricorrere all’acquisto di titoli sovrani dell’area euro. Sarebbe un errore pensare che l’eventuale intervento della Bce sia il capolinea delle preoccupazioni italiane e che sia sufficiente galleggiare fino ad aggrapparsi a quel salvagente. Infatti, se dietro l’aspettativa dell’intervento della Bce c’è una logica economica abbastanza lineare, perché questa logica prevalga è necessario che si realizzi in Europa un equilibrio politico molto delicato a cui l’Italia dovrà dare un proprio contributo decisivo entro i prossimi cento giorni.

La logica economica è semplice: gli ultimi dati segnalano un nuovo rallentamento nell’attività delle imprese manifatturiere europee. Si spiega così la debole domanda di credito e quindi, in parte, anche lo scarso successo dell’offerta di prestiti della Bce. È poco probabile che le condizioni dell’economia cambino radicalmente entro dicembre quando la Bce offrirà nuovi prestiti a basso costo. Questo fa prevedere che la Banca debba ricorrere in ultima istanza all’acquisto di titoli sovrani con l’obiettivo di modificare la composizione del portafoglio delle banche. Sostituendo i titoli pubblici con nuova liquidità, si porterebbero le banche a utilizzare la liquidità per attività più rischiose come i prestiti alle imprese. In un’analisi pubblicata dalla Sep (Luiss), Lorenzo Bini Smaghi prevede che la domanda di fondi delle banche europee resterà modesta nel medio termine e che ciò comporti una riduzione tendenziale delle dimensioni del bilancio della banca centrale. Come abbiamo osservato venerdì scorso, l’annunciato programma di acquisto di titoli con collaterale (Abs) non servirebbe a incrementare granché il bilancio della Bce.

Il recente rifiuto di Francia e Germania di offrire una garanzia pubblica sulle componenti più rischiose degli Abs riduce sensibilmente, infatti, l’ammontare di titoli che la Bce può acquistare sul mercato aperto. In sostanza, l’unico modo di riportare il bilancio della Bce alle dimensioni del 2012 sarebbe di acquistare titoli di Stato, altrimenti l’impronta della politica monetaria resterebbe ancora restrittiva in una fase di prezzi calanti e lontani dall’obiettivo del 2%. Esistono tuttavia serie obiezioni giuridiche all’acquisto di titoli sovrani da parte della Bce. La minaccia di farle valere davanti alla Corte costituzionale è spesso evocata a Berlino anche da esponenti di governo per giustificare la contrarietà tedesca a nuove azioni della Bce. I vincoli sono in ultima istanza di natura politica: anche se la cancelliera Merkel può godere di una pausa insolitamente lunga nel ciclo elettorale tedesco, la pressione del partito anti-europeo è sempre più forte. “Alternativa per la Germania” si è ormai stabilizzata sopra l’8%, ma può pescare in un bacino del 20-25% dell’elettorato tedesco. Non a caso il “circolo di Berlino”, costituito da “neo-con” della Cdu, spinge il partito della Merkel a rincorrere “Alternativa”, la quale a sua volta si sta spingendo su posizioni ancora più radicali selezionando i nuovi parlamentari regionali tra gli esponenti della destra estrema.

È possibile che all’ultimo momento la cancelliera, come ha già fatto nel 2012, si schieri con la Bce anziché con la Bundesbank e con gli euro-scettici, riconoscendo la necessità che la Banca centrale difenda la stabilità dei prezzi contro il rischio di deflazione. Ma resteranno pur sempre da superare gli ostacoli giuridici, cioè l’obiezione che gli acquisti di titoli pubblici rappresentino un finanziamento degli Stati vietato dai Trattati. Per superare questi ostacoli, in passato la Bce ha potuto intervenire solo quando la crisi era diventata così grave da mettere in pericolo la stabilità dell’area euro nel suo complesso. Solo in tali circostanze, diventano giustificabili interventi che estendono l’interpretazione letterale del Trattato e fanno prevalere l’obbligo di difendere la stabilità della moneta, sia in osservanza dello statuto della Bce, sia per rispettare il requisito posto dalla Corte tedesca alla partecipazione della Germania all’euro e cioè che appunto l’euro fosse una moneta stabile.

Perché le obiezioni politiche e giuridiche siano superabili, in quello che rappresenta un po’ il “mezzogiorno di fuoco” della crisi europea, è necessario che l’Italia si presenti in condizioni coerenti prima dell’acuirsi della crisi. Un Paese incapace di tagliare la spesa e fare le riforme renderebbe insormontabili le obiezioni politiche e quelle giuridiche. Draghi nell’audizione di lunedì al Parlamento europeo ha osservato che in passato gli interventi della Bce sono stati sprecati dagli Stati: la spesa pubblica non è diminuita come doveva e le riforme non sono state realizzate. Uno studio della Dg Ecfin sull’impatto delle riforme osserva che lo slancio dei governi italiani per le riforme si è fermato a metà 2013, nemmeno un anno dopo il primo “salvataggio” di Draghi, e che successivamente si sono visti annunci nella direzione giusta, ma pochi fatti. Il paradosso è invece che per arrivare all’ultima spiaggia bisogna prima mettere la barca in condizioni di navigare, se l’Italia non fosse in grado di sfruttare gli interventi della Bce per ritrovare la crescita, avrebbe sprecato anche l’ultima carta. Ma prima di verificare se la Bce interverrà o meno sui titoli di Stato, dovremo comunque attendere dicembre e gli effetti della prossima tranche di prestiti a lungo termine. È il tempo a disposizione per rimettere a posto la barca. A occhio quindi non abbiamo mille giorni, ma forse poco più di cento.

La priorità trasversale chiamata burocrazia

La priorità trasversale chiamata burocrazia

Lello Naso – Il Sole 24 Ore

Risorse? Riforme? Progetti di sviluppo che non ci sono? Non c’è dubbio che l’Italia abbia un deficit di competitività che deriva dall’arretratezza del sistema nel suo complesso, dalla crisi congiunturale e dalla mancanza endemica di risorse. Ma la lezione che arriva dalla vicenda del pagamento dei debiti della pubblica amministrazione è che in ogni occasione il nodo più duro da sciogliere è quello della burocrazia. Nonostante la buona volontà del premier Renzi, che ci ha messo la faccia, e del Governo, nonostante la disponibilità degli uffici, e nonostante, presumiamo, la massima volontà di tutti i creditori di incassare le somme dovute, più di un terzo delle imprese è ancora insoddisfatto. Eppure, attenzione, le risorse erano e sono tutte disponibili.

Il motivo è molto semplice. Ogni qualvolta si attiva una procedura,la complicazione è sempre in agguato. Il labirinto di norme, il cavillo, l’elenco, la procedura da attivare, la certificazione. Molto è indispensabile, non c’è dubbio. Molto, invece, è frutto di un sistema normativo ipertrofico e complicato in cui norma chiama norma, regolamento chiama regolamento, cavillo chiama cavillo. Ecco perché non si può che partire dalla riforma della burocrazia. La priorità trasversale. Ecco perché non ci si possono permettere errori. Neanche minimi.

L’anagrafe che divide

L’anagrafe che divide

Michele Ainis – Corriere della Sera

L’Italia è unita, gli italiani no. Si dividono per tifoserie politiche, per sigle sindacali, per corporazioni. Li separa la geografia economica, dato che il Pil del Mezzogiorno vale la metà rispetto al Settentrione. Sui temi etici restano in campo guelfi e ghibellini. Ma adesso s’alza un altro muro, il più invalicabile: l’anagrafe. Quella delle idee, con la crociata indetta dal premier contro ogni concezione ereditata dal passato. Dimenticando la massima di Giordano Bruno: «Non è cosa nova che non possa esser vecchia, e non è cosa vecchia che non sii stata nova». E quella, ahimè, delle persone. Distinte per i capelli bianchi, anche nel loro patrimonio di diritti.

Da qui la trovata che illumina il Jobs act : via la tutela dell’art. 18, ma solo per i nuovi assunti. Per i vecchi (6 milioni e mezzo di lavoratori) non si può: diritti quesiti, come ha precisato il leader della Uil. Curiosa, questa riforma che taglia in due il popolo della stessa azienda, mezzo di qua, mezzo di là. Riforma parziale, un po’ come una donna parzialmente incinta. Doppiamente curioso, l’appello ai diritti quesiti. A prenderlo sul serio, quando entrò in vigore la Carta repubblicana avremmo dovuto mantenere lo Statuto albertino per tutti i maggiorenni.

E a proposito della Costituzione. Nel 1970 lo Statuto dei lavoratori – di cui l’art. 18 rappresenta un caposaldo – fu salutato come il figlio legittimo dei principi costituzionali. Così, d’altronde, viene ancora definito nella letteratura giuridica corrente. Poi, certo, non ha senso discutere di garanzie quando manca il garantito: il diritto al lavoro esiste soltanto se c’è il lavoro. E a sua volta ogni Costituzione può essere applicata in varia guisa. Anche riconoscendo ai lavoratori licenziati un indennizzo, anziché il reintegro nel posto di lavoro. Ciò che tuttavia non si può fare è d’applicare contemporaneamente la stessa norma costituzionale in due direzioni opposte. Lo vieta la logica, prima ancora del diritto. Tanto più se il criterio distintivo deriva dall’età, di cui nessuno ha colpe, però neppure meriti.

Ma il Jobs act non è che l’ultimo episodio della serie. Le discriminazioni anagrafiche condiscono sempre più frequentemente la pietanza delle nostre leggi, ora a danno dei più giovani, ora degli anziani. Così, nel giugno 2013 il governo Letta decise incentivi per l’assunzione degli under 30. E i cinquantenni che perdono il lavoro? Perdono anche il voto, o quantomeno lo dimezzano, secondo la proposta di legge depositata da Tremonti nel 2012: voto doppio per chi è sotto i quarant’anni. Invece nella primavera scorsa la ministra Madia ha tirato fuori la staffetta generazionale nella Pubblica amministrazione: tre dirigenti in pensione anticipata, un giovanotto assunto. Dagli esodati agli staffettati. Tanto peggio per i vegliardi, cui si rivolgono però in altre circostanze i favori della legge, dalle promozioni automatiche all’assegnazione degli alloggi popolari, dalle pensioni sociali al ruolo di coordinatore nell’ufficio del giudice di pace (spetta al «più anziano di età»: legge n. 374 del 1991).

No, non è con queste medicine che possiamo curare i nostri mali. Occorrerebbe semmai una medicina contro ogni discriminazione basata sul certificato di nascita. Gli americani ne sono provvisti dal 1967 (con l’Employment act), gli inglesi dal 2006. Mentre dal 2000 una direttiva europea vieta le discriminazioni anagrafiche nel mercato del lavoro. In attesa d’adeguarci, non resta che il soccorso d’una (vecchia) massima: i diritti sono di tutti o di nessuno, perché in caso contrario diventano altrettanti privilegi.

Non date più soldi all’Opera di Roma

Non date più soldi all’Opera di Roma

Paolo Conti – Corriere della Sera

Il Teatro dell’Opera di Roma, cioè l’antico Costanzi. Ovvero il luogo in cui il sindacalismo capovolge con arroganza, e spesso con violenza, qualsiasi elementare regola: una minoranza che impone il proprio diritto di sciopero e nega alla maggioranza il proprio, di diritto: voler lavorare. II Teatro Costanzi, l’unica realtà musicale al mondo capace di disgustare un protagonista della scena internazionale come Riccardo Muti, prima nominato direttore artistico a vita e poi costretto a subire rabbiose rivendicazioni, autentici assalti personali tanto umilianti quanto impensabili in qualsiasi altro teatro d’opera al mondo.

Scena iniziale, siamo a febbraio nelle convulse ore della prima di Manon Lescaut, poi fortunosamente rappresentata. Muti è nel camerino, una dozzina di musicisti aderenti alla Fials e alla Cgil entrano urlando e senza chiedere alcun permesso: «Deve dire se lei sta con noi o contro di noi!». Non è il film di Fellini sulla Prova d’Orchestra ma pura realtà. Ancora, sempre nei giorni della Manon Lescaut . Alla prova anti generale l’orchestra proclama un’assemblea selvaggia e improvvisa. Muti attende il ritorno dei musicisti. Un’attesa di quasi mezz’ora. Poi gli orchestrali tornano. I macchinisti, dal palcoscenico, protestano gridando: «Vergognatevi, tornate a lavorare» . Altro che la necessaria concentrazione per una prova delicata e importante. E infine l’oltraggio dei venti musicisti, incluso il primo violino, che si rifiutano di seguire Muti nella tournée in Giappone tre mesi fa.

In qualsiasi altro teatro al mondo, i Maestri dell’orchestra avrebbero fatto a gara per il privilegio di partire con lui e rappresentare una capitale in un importante Paese così importante, per di più pieno di melomani appassionati. Muti lascia Roma e col suo gesto svela ciò che è già chiarissimo. Un teatro lirico capitolino, certo non tra i più stimati nel mondo, che riesce a perdere un vero Maestro per di più ribaltando qualsiasi regola democratica: la minoranza che ha la meglio sulla maggioranza. Trenta-quaranta orchestrali che bloccano il lavoro di cinquecento persone, proclamando scioperi che poi impediscono il compenso alla maggioranza che li ha subiti.

Carlo Fuortes, che dal 2003 amministra con successo l’Auditorium Parco della Musica progettato da Renzo Piano, vive una condizione schizofrenica da quando, nel dicembre 2013, è stato chiamato con urgenza dal sindaco Ignazio Marino a governare l’Opera. All’Auditorium convive con l’Orchestra di Santa Cecilia che rispetta impegni e programmi, mai si sognerebbe di organizzare incursioni nel camerino di un grande direttore e soprattutto non proclama assemblee che mostrano una concezione dittatoriale del sindacalismo. Dall’altra si ritrova nel caos dell’Opera, sovvenzionato con ben 18 milioni dalle disastrate casse del Campidoglio, dove qualsiasi accordo viene negato il giorno dopo mostrando una concezione distruttiva della rappresentanza sindacale.

C’è infatti da chiedersi se Fuortes non avesse davvero ragione già a luglio quando parlò di una possibile chiusura e liquidazione dell’Opera: Fials e parte della Cgil avevano rimesso in discussione l’intesa, appena raggiunta, sul piano industriale. La stessa idea di sindacalismo distruttivo è tornata pochi giorni fa, quando la solita minoranza ha boicottato il referendum sul piano industriale, dichiarandolo illegale. Perché l’assurdo è che Muti viene costretto ad andarsene mentre l’Opera sta riuscendo faticosamente a risanare il proprio devastato bilancio grazie alla legge voluta, alla fine del 2013, dall’allora ministro Massimo Bray.

Ora l’Opera resta senza Muti ma è costretta a tenersi la minoranza antidemocratica che paralizza il teatro. Le domande si accumulano: il Teatro dell’Opera di Roma è irriformabile? Chi e come potrà mai, in simili condizioni, proporre un nuovo progetto di rilancio dopo il caso Muti? È giusto che la collettività continui a sostenere economicamente una struttura incapace non di imitare modelli europei ma semplicemente di comportarsi come l’orchestra di Santa Cecilia? Il ministro Dario Franceschini e il sindaco Ignazio Marino hanno materia sulla quale riflettere, dopo la vicenda Muti. Anzi, dopo il vero e proprio scandalo di questo addio.

Articolo 18: a Renzi non andrà come a D’Alema con Cofferati

Articolo 18: a Renzi non andrà come a D’Alema con Cofferati

Fabrizio Rondolino – Europa

Lo scontro fra sinistra riformista e burocrazia sindacale non è una novità di questi giorni: è stata, al contrario, una costante della sinistra europea da Tony Blair in poi, e in Italia risale agli albori della Seconda repubblica. In Europa prima o poi hanno sempre vinto i riformisti, da noi finora hanno sempre vinto i conservatori. Tornare al 1997, ai primi mesi del primo governo di centrosinistra, aiuta a comprendere quanto indietro sia rimasto il nostro paese, e quanto tempo la sinistra e l’Italia abbiano perduto.

Il 23 febbraio 1997 Massimo D’Alema, allora segretario del Pds e azionista di maggioranza del governo Prodi, conclude il congresso del suo partito con un discorso memorabile sull’innovazione e sulla modernità, dedicando al sindacato un passaggio esemplare. Ad un segretario della Cgil «più chiuso e più sordo all’esigenza di una riflessione critica», D’Alema oppone la necessità di un profondo rinnovamento non soltanto del sindacato, ma «di tutta la sinistra», perché «anche noi ci sentiamo sfidati dalla realtà». E la realtà del lavoro, spiega il leader del Pds, è fatta di «mobilità e flessibilità»: non soltanto perché la «fabbrica fordista» è al tramonto, ma anche perché le nuove generazioni vedono nella flessibilità e nella mobilità una sfida e persino un’occasione. Perché «questa società più aperta» non generi «insicurezza», bisogna «rinnovare profondamente gli strumenti della contrattazione» e «costruire nuove e più flessibili reti di rappresentanza e di tutela». In caso contrario, ammonisce D’Alema, «rappresenteremo soltanto un segmento del mondo del lavoro, quello che sta in mezzo, fra chi è sufficientemente bravo per negoziare da solo e chi, in basso, vive di lavoro nero, non tutelato e precario. Ma quelli che stanno in mezzo sono sempre di meno». Poi, l’affondo: «Nel Mezzogiorno ci sono due milioni di lavoratori in nero: ma se li facessimo emergere, avremmo un milione di disoccupati in più. Non chiedo al sindacato di legalizzare il lavoro nero e il lavoro precario: ma dovremmo preferire essere lì con quei lavoratori e negoziare, anziché restare fuori da quelle fabbriche con in mano una copia del contratto nazionale di lavoro». La platea applaudì convinta, i giornali celebrarono con entusiasmo la svolta, Cofferati sibilò freddo: «Il segretario del mio partito ha idee diverse dal sindacato».

Quelle idee, purtroppo, durarono poco. Meno di un mese, ad essere precisi. Il 19 marzo D’Alema partecipò ad una tavola rotonda con il leader della Cgil. L’intenzione era quella di mantenere la posizione aprendo però un dialogo con il sindacato. Il risultato fu catastrofico. D’Alema ribadì alcune verità («La spesa sociale non va ai più poveri», «Il blocco sociale tutelato dal nostro Welfare è diventato una minoranza», «Una sinistra che non guarda in faccia i problemi non serve a nulla»), ma le accompagnò ad un’excusatio non petita che somigliava tanto ad un’inversione di rotta: «Forse al congresso sono stato ingeneroso nel non riconoscere alla Cgil un impegno assai più avanzato nello sforzo di governare la flessibilità… Non c’è stata alcuna frattura tra il Pds e la Cgil».

Lo scontro con Cofferati si chiuse definitivamente il sabato successivo, 22 marzo, quando D’Alema decise di partecipare alla manifestazione “per il lavoro” indetta dai sindacati confederali. Era di fatto una manifestazione contro il governo, e sembrò bizzarro che il segretario del maggior partito della maggioranza vi partecipasse. Letteralmente circondato da un robusto servizio d’ordine che impediva a chiunque anche soltanto di avvicinarsi, D’Alema sfilò in testa al corteo insieme a Cofferati. Il quale, come ogni vincitore che si rispetti, si mostrò magnanimo: «Una forza politica che ha insediamenti radicati nella società sa che l’occupazione e il lavoro sono un’esigenza profonda per tutti’». Peccato che proprio D’Alema avesse dimostrato giusto un mese prima come quell’“esigenza profonda” non potesse più essere soddisfatta dal sindacato e dal suo sistema di relazioni, protezioni, leggi e burocrazie. Quel triste 22 marzo 1997 si chiude, simbolicamente e praticamente, la stagione riformista della sinistra italiana.

Gli storici discuteranno sui motivi di una sconfitta così veloce e bruciante, se cioè sia dipesa dai rapporti di forza allora dominanti (Prodi si reggeva su Bertinotti, e il suo modello di relazioni sociali è sempre stato quello della concertazione), o dalla mancanza di coraggio politico di D’Alema. Quel che è certo è che siamo ancora lì – salvo che i “garantiti” sono ormai non più di un quarto di chi lavora. Spetta dunque a Renzi completare l’opera, o per meglio dire mettere finalmente al centro la grande questione dell’uguaglianza e dei diritti sociali, oggi calpestati da un sistema di cui il sindacato è parte integrante. E c’è da scommettere che gli andrà meglio.

Gli irriducibili del posto fisso

Gli irriducibili del posto fisso

Giancarlo Mazzuca – Il Giorno

Il Belpaese sembra, in questi giorni, spaccato in due tra i sostenitori dell’abolizione di quell’articolo, il 18, che è sulla bocca di tutti, e tra coloro, guidati dai redivivi Camusso e Bersani che dicono.«Non passa lo straniero!». Che, nella fattispecie, ha le sembianze di Matteo Renzi. L’aspetto paradossale della vicenda è che molti non sanno neppure cosa nasconda davvero questo famigerato articolo e trattano della materia come se discettassero sul sesso degli angeli. Ma, al di la di questa specie di derby tra favorevoli e contrari, cosa ne pensano realmente gli italiani?

Renato Mannheimer mi ha girato un sondaggio molto interessante. Anche gli interpellati dalla ricerca si dividono a metà ma, soprattutto tra i giovani, prevalgono coloro che dicono “niet” all’abolizione. Se il 45% dei nostri connazionali è, infatti, contrario alla cancellazione dell’articolo, i pareri negativi salgono al 55% nella fascia d ‘età compresa tra i 25 e i 34 anni. Ancora: se il 43% è d’accordo sul fatto che l’eliminazione delle rigidità contrattuali agevolerebbe la ripresa economica, il 47% non è per niente convinto. Non solo: l ‘idea che la misura di Renzi possa favorire l’assunzione delle nuove leve trova oppositori soprattutto al Sud, dove i tassi di disoccupazione giovanile sono maggiori.

E allora? L’impressione è che si faccia tanto polverone sul nulla o quasi. Al di là della battaglia ideologica, che si sia combattendo anche all’interno del Pd, non sembra proprio che l’abolizione sia in grado di fare voltare pagina al Paese. Se è vero, infatti, che il 39% degli interpellati dall’Ispo sostiene che il provvedimento permetterebbe di compiere passi avanti, il 48% è di parere esattamente opposto. La percentuale dei fans alla fine del «18» cresce al 46% a patto che la misura abrogativa venga sostenuta da validi ammortizzatori sociali per i licenziati. Ma anche in questo caso, i contrari al provvedimento di Renzi si attestano al 40%. Insomma, il mito del «posto fisso» resta più che mai intatto. Soprattutto, strano a dirsi, tra le nuove generazioni.

Come riscrivere l’articolo 18 senza ideologie

Come riscrivere l’articolo 18 senza ideologie

Massimo Baldini – Il Secolo XIX

L’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 serve davvero per aumentare l’occupazione? Oppure avverrà l’esatto contrario, visto che gli imprenditori saranno liberi di licenziare? Rispondere a queste domande è difficile, anche perché la riforma che pare il governo abbia in programma non riguarda solo l’articolo 18, ma tutta la normativa su rapporti di lavoro e ammortizzatori sociali.

Nel nuovo sistema, per i nuovi assunti vi sarebbero solo due contratti di lavoro dipendente: a termine e a tempo indeterminato a tutele crescenti. Con il primo si pagherebbero contributi più alti, cosi da limitarlo ai soli casi in cui vi siano ragioni effettive per un rapporto di durata fissa. Peraltro, si prevede una prima fase di ampia flessibilità. Passato un certo numero di anni, le tutele aumentano, e il punto è proprio questo: tra le tutele deve esservi anche l’articolo 18? Oppure in caso di licenziamento c’è solo (oltre al sussidio di disoccupazione) un indennizzo monetario?

L’articolo 18 è già stato modificato due anni fa dal governo Monti: in breve, oggi non si può licenziare per motivi discriminatori (sesso, opinioni politiche o sindacali, ecc.), ma se vi sono ragioni economiche il licenziamento è ammesso pagando un indennizzo (da 1 a 2 anni di stipendio). Il lavoratore può ricorrere al giudice, il quale può imporre la reintegra al lavoro se ritiene falso il motivo economico. La riforma del 2012 ha sicuramente ampliato la possibilità di licenziare, ma si ritiene che vi siano ancora molti margini di ambiguità nella norma che rendono incerto l’esito di un contenzioso. Molti quindi suggeriscono di precisare meglio nella legge cosa si intenda per motivo economico, in modo da ridurre l’incertezza interpretativa.

Qualsiasi riforma dovrà comunque mantenere la possibilità di ricorso al giudice, come in tutti i Paesi europei, per ottenere il reintegro se davvero c’è discriminazione o puro arbitrio. Si tratta quindi di scrivere meglio una norma ancora confusa, avendo comunque in mente che quando ci sono valide ragioni (un cambiamento della domanda, la necessità di una diversa competenza) è sbagliato e miope cercare di salvare con una sentenza un posto di lavoro non più giustificato da esigenze effettive dell’azienda. Riscrivere la norma in questo senso è sicuramente difficile, e richiede anche il contributo dei sindacati, ma vi sono margini per farlo in modo da soddisfare tutte le sensibilità della maggioranza. Invece sembra si preferisca usare l’articolo 18 per l’ennesimo scontro interno al Pd.

La modifica dell’articolo 18, da sola avrà effetti modesti. È solo un ingrediente, per quanto importante, di un ben più ampio insieme di riforme per un mercato del lavoro più moderno (ed anche più equo), dalla semplificazione dei contratti all’allargamento degli ammortizzatori, alla fine degli eccessi della cassa integrazione in deroga, le quali a loro volta si inseriscono in un processo di cambiamento che deve rendere il Paese più favorevole all’attività imprenditoriale e al lavoro. Oggi solo 56 persone su 100 tra 15 e 64 anni hanno un’occupazione, quasi 10 punti in meno della media europea. Se vogliamo aumentare questa percentuale servono all’Italia sia politiche per aumentare la domanda che riforme. Quella del mercato del lavoro è una delle più importanti, e sarebbe un peccato se finisse travolta da polemiche ideologiche.