Edicola – Opinioni

L’articolo 18 protegge anche fannulloni e ladri

L’articolo 18 protegge anche fannulloni e ladri

Massimo Tosti – Italia Oggi

Coloro i quali hanno superato i 60 probabilmente ricorderanno un film (del 1970) intitolato comma 22, tratto da un romanzo di successo. Un capitano dell’aviazione americana impegnata nel Mediterraneo durante la Seconda guerra mondiale (sconvolto dalla morte di tanti compagni d’armi, e non trovando alcun senso nella guerra) tenta di farsi esonerare dal servizio, facendosi passare per pazzo, ma viene bloccato dal Comma 22 del regolamento che recita: «Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo». Ecco, capita qualcosa del genere con l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che prevede il reintegro dei licenziati in Italia. Le aziende in difficoltà non possono licenziare nessuno (neppure gli assenteisti cronici), ma senza questa possibilità molte aziende oggi sono in affanno e, fra l’altro, non riescono a sostituire i fannulloni (o i ladri) con uno dei milioni di giovani condannati alla disoccupazione perenne. Il cane si morde la coda, esattamente come nella regola prevista nel film.

L’articolo 18 che affida ai giudici la decisione di reintegrare i reprobi nel posto di lavoro è oggetto di scontri viscerali dal 1970 (l’anno in cui lo Statuto dei lavoratori divenne legge dello Stato). Quel comma è un totem (e un tabù) da allora. Oggi, sull’articolo 18, si giova il futuro del Pd (e dell’Italia). L’anima (di minoranza) del Partito democratico che rivendica le proprie origini comuniste ha annunciato una possibile scissione anti-Renzi. Alle prossime elezioni il Pd nostalgico del passato potrebbe coalizzarsi con Sel e spezzoni di 5 Stelle, mentre quello renziano potrebbe rinforzare il patto con il centrodestra (inclusa Forza Italia). Il risultato (probabile) è che il vecchio Pd perda le elezioni lasciando campo libero a Renzi per realizzare le sue riforme, lo «svolta» Italia e lo «sblocca» Italia. Rosy Bindi ha lanciato l’anatema contro il premier, definendolo l’erede di Margareth Thatcher e dimenticando (di proposito) Tony Blair, il laburista che seguì il percorso avviato dalla lady di ferro. Perché altrove la sinistra ha saputo rinnovarsi, abbandonando i totem e le ideologie spazzate via dalla storia.

I soldi del diavolo

I soldi del diavolo

Marco Buticchi – La Nazione

Agli studenti di economia insegnavano che il bilancio è un artificio contabile. Vi confesso che mi suonava strano che l’incontestabile risultato a consuntivo di un’azienda potesse essere assimilato all’espediente tirato fuori dal cappello di un illusionista per raggiungere il proprio fine. Terminati gli studi, il vocabolo ‘artificio ‘passa nel dimenticatoio, estinguendosi poi come le molte nozioni con cui ci hanno riempito la gioventù. Il termine mi è tornato improvvisamente in testa poco tempo fa quando, nel bilancio della nostra augusta Nazione, ci hanno infilato il fatturato delle prostitute e ogni più turpe commercio illecito al grido di «tutto quanto fa PIL». Ancor più vibrante l’artificio si ripresenta oggi che, tirando i conti e le percentuali come la pelle di un pollo e alla luce dei fatturati non trascurabili dell’illecito, dal cappello dell’illusionista saltano fuori tre miliardi di dobloni.

Benedetto il ritornello di una vecchia canzone di Fabrizio de Andrè: «Ad ogni fine di settimana sopra la rendita di una p…». Risulta, però, troppo facile fare dell’ironia e, per evitare brutte parole, ci limiteremo a dire che tutto sta andando a… scatafascio. Per restare coi piedi per terra e scavare questa manna melmosa e illegale che, ahinoi, riabilita persino i conti della Repubblica, se tanto mi dà tanto, che succederebbe se marchette e traffici illegali venissero tassati? L ‘Italia riuscirebbe forse a rimettere a posto i suoi dissestati conti in un battibaleno? Resterebbero dei problemi di coscienza nei cittadini, ai quali si è sempre insegnato che solo il malaffare più bieco vive su certi proventi. Ma, si sa, davanti al vile dio denaro le asperità si smussano e le coscienze si rimpinzano. Sarà, forse, il primo passo per spostare l’esattore dalla malavita allo Stato?

Un’ultima cosa: i miei vecchi mi ripetevano spesso che i soldi del diavolo – ovvero quelli non guadagnati col sudore della fronte – vanno bruciati in fretta, senno il diavolo se li riprende. Prima che il diavolo si riprenda il suo tesoretto, esperti degli artifici contabili e dei proventi illeciti, spendetelo in fretta e spendetelo bene.

Domani ricomincia la guerra dell’art. 18, la priorità è il lavoro

Domani ricomincia la guerra dell’art. 18, la priorità è il lavoro

Walter Passerini – La Stampa

E così domani ricomincia in aula al Senato la battaglia dell’articolo 18. Sembrava impossibile, invece si ritorna a guerreggiare. Chissà se si arriverà a una sana mediazione, il buon senso e il Paese la reclamano. Uno scontro produrrebbe solo vincitori e vinti. Strano destino quello del simbolo di un’epoca che è radicalmente mutata. Tra l’altro ogni anno sulle 8 mila cause a favore dei lavoratori dedicate al tema due terzi si concludono con il risarcimento e solo tremila con il reintegro. Il pasticcio poi sarebbe quello di avere nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti, senza o con l’articolo 18 alla fine dei 36 mesi, e la massa dei lavoratori che sono tutelati dalle vecchie regole, quindi con l’articolo 18 (un’abolizione tout court sarebbe impossibile). I lavoratori protetti dalla formula oggi sono 6,5 milioni (aziende con oltre 15 dipendenti), meno di un terzo delle forze di lavoro.

Le priorità
Lo scontro al capezzale dell’articolo 18 ha incendiato la politica e le relazioni sindacali, in un momento in cui la priorità è il lavoro. E così il falò delle vanità lascerà solo cenere e macerie e non creerà neanche un posto di lavoro. Con la stessa passione ed energia dovremmo invece discutere di futuro e di come creare occupazione e sviluppo con un orizzonte da qui al 2020. Ai 3,2 milioni di disoccupati ufficiali, ai 3,3 milioni di inattivi rassegnati (non cercano più il lavoro perché pensano di non trovarlo), ai tanti giovani, alle donne, agli over 50 licenziati, ai cassintegrati, dovremmo dire che cosa si sta facendo per farli entrare o rientrare nel mondo del lavoro. C’è una frattura che va ricomposta. Dalla riforma Treu, passando dalla Biagi, alla Fornero, in questi vent’anni non abbiamo visto il baratro che si stava aprendo tra lavoratori adulti e giovani, tra piccole e grandi aziende, tra industria e servizi, tra occupazione strutturale e al margine. E così, abbiamo perso la battaglia della produttività. Avremmo dovuto completare il disegno con uno Statuto dei Lavori universale, uguale per tutti, per tutelare l’esercito dei precari. Ora la deflazione ci ha regalato il record di peggior paese dell’Ocse e ha messo a nudo le nostre debolezze e le nostre vergogne.

Troppe formule
Speriamo di non dover assistere nei prossimi giorni a una tragedia, a una pièce da tre soldi, a una commedia all’italiana, ma a una dimostrazione di orgoglio e di condivisione delle priorità. Per molti l’introduzione di un contratto, non unico, ma prevalente, a tutele crescenti è una mediazione intelligente, soprattutto se estesa a tutte le nuove assunzioni, e non solo ai contratti di primo inserimento. Non è un contratto in più, perché in contemporanea andrebbero rivisitate e ridotte le troppe formule di assunzione, che lasciano spazio a furbizie ed abusi. Avere trentasei mesi di conoscenza reciproca tra datore di lavoro e lavoratore permette di fare investimenti sulle risorse umane e di consolidare un fidanzamento in un matrimonio. E se a quel punto scattasse una crisi di rigetto, ci sarebbero le condizioni per un onorevole divorzio. La modifica dell’applicazione dell’articolo 18 ha già avuto una mediazione nel 2012, quando, fatti salvi i licenziamenti discriminatori e le ritorsioni, ha tolto l’automatismo e ha rimesso nelle mani del giudice la decisione tra reintegro e risarcimento per un licenziamento individuale avvenuto senza giusta causa. Del resto, anche con la complicità della crisi, sono state pochissime come abbiamo visto le cause di questo tipo negli ultimi due anni, segno che le imprese hanno ben altri problemi a cui pensare. Ora, intestarsi una vittoria o gridare alla sconfitta riporta al clima di sangue e di vendetta di cui non si sentiva la mancanza, tanto più che i decreti attuativi lasceranno spazio alla gestione e all’interpretazione. Non vorremmo però che le ambiguità della norma producessero lavoro solo per gli avvocati. Salvo la minaccia di un decreto annunciata da Renzi e dai suoi ministri Poletti e Boschi), l’iter normativo durerebbe comunque un anno.

Creare lavoro
Nel frattempo dovremmo riportare la barra verso le priorità. Come creare lavoro e dare ossigeno a una nuova crescita, che tutele offrire a chi rischia di giocare solo in serie B, quali politiche attive produrre (la Garanzia giovani insegna), quali servizi al lavoro pubblici e privati avviare e irrobustire, che sostegno dare alle imprese che vogliono assumere. Alcuni imprenditori temono un “matrimonio indissolubile”. Chi perde il lavoro teme di finire nel girone infernale dei disoccupati di lunga durata (più di 12 mesi), che oggi sono 2 milioni. Se un senza lavoro non trova chi lo aiuta e lo orienta, non c’è ammortizzare sociale che tenga, altro che modello danese. E’ questo il patto del lavoro che bisogna stilare: perdere il posto può capitare, non è il capriccio di un sadico né una vendetta sociale, ma può essere una tappa, insieme al rilancio della domanda, per ripartire e rientrare, grazie a servizi professionali e tutele universali esigibili indipendentemente dal contratto di cui si è titolari.

Nuove imprese straniere, neanche una nell’ultimo anno

Nuove imprese straniere, neanche una nell’ultimo anno

Paolo Baroni – La Stampa

Certo, c’è l’articolo 18 ed uno dei sistemi del lavoro più complicati del mondo. Ma poi ci sono gli eccessi della burocrazia, i tempi eterni della giustizia e le tasse troppo alte, ovvero tutti quei fattori, o meglio «mali storici», che da anni ci condannano alla parte bassa di tutte le classifiche mondiali sulla competitività. Epperò negli ultimi tempi, dopo i crolli del 2008 e del 2012, una certa attenzione nei confronti dell’Italia è tornata. Nei primi sei mesi dell’anno oltre metà delle operazioni di acquisizione e fusione porta la firma di investitori esteri, dai russi che entrano in Pirelli alla People bank of China che investe in Fiat, Generali e Telecom, sino a Electrolux che rileva Merloni. Si tratta di 5,7 miliardi di euro su un totale di 10, +81% sul 2013.

E gli investimenti industriali? Invitalia su 36 «Contratti di sviluppo» ne ha siglati 15 con società straniere, per un controvalore di circa 750 milioni. Si va da Bridgestone a Denso, da Stm a Whirlpool e Sanofi. Progetti anche importanti, ma si tratta sempre e solo di ampliamenti di impianti già esistenti, soprattutto al Sud. Investimenti che invece partono da zero, i cosiddetti «greenfield» (a prato verde) come li chiamano gli esperti? Se ci eccettua quello annunciato a gennaio da Philip Morris, che a Bologna investirà 500 milioni di euro creando 600 nuovi posti, non c’è nulla. Nessuna impresa o gruppo straniero nell’ultimo anno e anche di più, ha avuto il coraggio di investire in un nuovo impianto industriale di dimensioni significative sul suolo italiano. «Siamo a zero», conferma a malincuore Guido Rosa, presidente dell’Aibe, l’associazione delle banche estere che operano in Italia e interlocutore naturale di molti potenziali investitori esteri.

«Il problema fondamentale, come emerge anche dal nostro osservatorio sull’attrattività del Paese, è che il sistema Italia in una scala da zero a cento si colloca appena a quota 33,2. Un livello davvero troppo basso». E oggi, ovviamente, sorprende una forbice così ampia tra investimenti finanziari in forte ripresa e investimenti industriali al palo. «Questo è certamente il dato più rilevante», spiega Nicola Rossi, economista, ex senatore Pd. «Dopo un forte calo è tornato ad esserci un certo movimento sul fronte delle acquisizioni, ma di “greenfield” non si fa nulla. Da molto tempo. E questo la dice lunga sui problemi dell’economia italiana». Che anche in questo campo continua a perdere terreno: in 10 anni, tra il 1994 ed il 2013, l’Italia ha attratto investimenti diretti esteri (finanziari e industriali), i cosiddetti Ide, per un totale di 290 miliardi di dollari, contro i 567 della Spagna, gli 800 e più di Francia e Germania. Quanto basta per far calcolare al ministro dello Sviluppo Guidi un margine netto di crescita, a regime, di almeno 20 miliardi all’anno. Con quello che significa anche in termini di nuova occupazione.

Inutili fino ad oggi le tante iniziative messe in campo negli ultimi tempi, dal decreto «Destinazione Italia» varato da Letta al più recente «Sblocca Italia»? «È il caso di dire troppo tardi, troppo poco – sostiene Nicola Rossi -. Non sono iniziative sbagliate, ma è poca roba rispetto a quello che sarebbe necessario fare. E poi serve tempo per farle assimilare agli investitori esteri». Quantomeno gli ultimissimi interventi sono serviti a fare un po’ d’ordine, chiarire che la promozione e le trattative coi partner esteri spettano all’Ice, che a Invitalia va la gestione degli insediamenti sul territorio e che «Desk Italia», che fino a ieri fungeva da struttura di raccordo, non serve più e va soppresso. Ma l’ultimo decreto in materia sta ancora in Parlamento in attesa di conversione e la nuova struttura non è ancora partita. Per non parlare dei fondi per la promozione ancora insufficienti: appena 400mila euro contro i 15 milioni dei francesi.

Il cahier de doléances è infinito. Rosa: «C’è tutto un sistema che non funziona: dalla burocrazia alla giustizia, al fisco. Ma la cosa peggiore è l’incertezza totale che avvolge il tutto: è la cosa che gli stranieri non possono sopportare. Chiedono trasparenza, chiarezza e norme stabili nel tempo, non regole che continuano a cambiare e che alcune volte diventano pure retroattive. Un malvezzo pazzesco questo, che i nostri governanti non si rendono conto di quanti danni produca!». Di fatto, spiega a sua volta Nicola Rossi, in questo modo «addossiamo all’impresa molti rischi che vanno oltre il normale legittimo e doveroso rischio di mercato: il rischio fiscale, perché non si sa quante imposte dovranno pagare e come; quello amministrativo, perché non si ha certezze sulle autorizzazioni e sulle date entro cui arrivano; e ancora gli addossiamo rischi sul personale, perché con l’attuale configurazione dell’art. 18 c’è sempre un terzo, il giudice, che si può incuneare nel rapporto a due imprenditore-dipendente. È chiaro che in queste condizioni nessuno viene in Italia a investire davvero. Già il rischio di mercato basta e avanza…».

Come dice Licia Mattioli, presidente del Comitato tecnico per l’internazionalizzazione e gli investitori esteri di Confindustria, «fare impresa in Italia non è facile». «Ma ora ci sono tutte le condizioni perché gli investimenti “a prato verde” siano il prossimo step del ritrovato interesse verso l’Italia degli investitori esteri. Perché da noi ci sono sia competenze estremamente interessanti, sia tecnologie e servizi molto sviluppati. Per questo ora occorre avviare una fase di grandissima attenzione verso l’industria, a cominciare dalle regole sul lavoro». «Tutti guardano come molto interesse e molta attesa al programma di riforme di Renzi, dipende però da quanta strada riuscirà a percorrere. Ed è questo che ora preoccupa», aggiunge Rosa. Che di suo è abbastanza pessimista: «L’Italia ormai da anni è un Paese incapace di modificare alcunché, una paese incredibilmente conservatore».

L’amaca

L’amaca

Michele Serra – La Repubblica

Molti storcono il naso per il ‘ricalcolo’ del prodotto interno lordo comprensivo dei proventi illeciti (prostituzione, droga, malavita), sia pure calcolati in modo presunto. Effettivamente, anche se non è quella l’intenzione, l’effetto è di oggettivo sdoganamento di attività non solo fuori legge, ma spesso violente e umilianti. Ma specie in un paese come il nostro, qualcosa ci dice che il concetto di “ricchezza nazionale” non può essere misurato solo compulsando scartoffie: e in questo senso anche il precedente Pil “pulito” non era meno discutibile di quello nuovo e “sporco.

La vita delle persone, il loro benessere, la loro salute fisica e mentale, la loro sopravvivenza alla penuria e alla crisi non sono una somma di numeri. Sono un intreccio di quantità e di qualità poco percepibili con la mera misura economica. Eppure la misura economica, così arbitraria, è ciò che regola da molto tempo, con ferrea determinazione, le scelte politiche dei governi nazionali e dell’Europa. Nessun altro criterio sembra poter fare breccia, tanto che la crisi della politica è riassumibile soprattutto nella sua totale impotenza di fronte all’economia. E dunque non è una cattiva notizia che criteri considerati aurei e intoccabili, come quelli utilizzati per calcolare il Pil, siano soggetti a possibili variazioni. È una morsa che si allenta. Un Verbo che diventa un po’ meno dogmatico.

Per l’articolo 18 sarà un lungo addio, l’apartheid tra i contratti durerà un decennio

Per l’articolo 18 sarà un lungo addio, l’apartheid tra i contratti durerà un decennio

Federico Fubini – La Repubblica

Seguaci di Margaret Thatcher contro fedeli della bocciofila. Rottamatori contro custodi di una visione che in Germania fu superata nel 1959, a Bad Godesberg, quando la socialdemocrazia accettò l’Occidente. E via con gli scambi di accuse. Non appena si tocca il tema del lavoro in Italia, i decibel salgono al punto da coprire qualunque altro segnale. Le proposte assumono un significato che, sul momento, sembra superare il loro impatto concreto. In questo l’idea di introdurre un contratto permanente a tutele progressive, ma senza diritto di reintegro per via giudiziaria, non fa eccezione.

I semplici numeri alla base di questa ipotesi però raccontano una situazione diversa. Questa riforma non ha l’aria di segnare una svolta radicale, ma un’evoluzione (quasi) cauta rispetto all’aggressività con cui avanza il male italiano. Il tutto, sullo sfondo di sistema di welfare ormai talmente ingiusto verso i più deboli che, visto nei dati reali, grida al cambiamento. Le statistiche su cui il ministero del Lavoro sta misurando gli effetti reali della riforma sono quelle sui nuovi contratti di lavoro. E quanto a questo, i dati segnalano un fenomeno crescente: ai ritmi attuali, le nuovi assunzioni a tempo indeterminato rischiano di diventare una specie in via di estinzione. Nel 2011 sono state 1,8 milioni, nel 2012 sono scese a 1,7 milioni e l’anno scorso si sono ridotte a 1,5 milioni. Non c’entra solo la poca disponibilità di posti di lavoro, perché i contratti coperti dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, un tempo la norma, calano molto più in fretta degli altri. Negli ultimi tre anni sono passati dal 20% al 16% di tutti i nuovi contratti. È una tendenza al declino che continua e trova la sua contropartita nella crescita dei contratti a tempo: erano il 63% del totale nel 2011 e sono saliti al 68%. Malgrado un crollo dell’economia del 5% intervenuto nel frattempo, ne sono stati firmati ben 6,5 milioni sia quattro anni fa che l’anno scorso.

Se questi sembrano numeri elevati per un Paese così affamato di lavoro, è perché gli stessi precari firmano più contratti brevi in un solo anno. Ma le statistiche del ministero del Lavoro rivelano anche un’altra conseguenza della riforma voluta da Matteo Renzi: molto probabilmente, al premier serviranno non meno di sette o anche dieci anni per cambiare a fondo il rapporto fra le imprese e i loro dipendenti permanenti. Più che una rivoluzione, sembra una trasformazione progressiva.

Possibile? L’idea del premier sulle tutele crescenti ricorda un aspetto del modello iberico, da Renzi spesso deprecato. In Spagna le tutele crescenti valgono per tutti, perché l’indennizzo in caso di licenziamento per motivi economici vale per qualunque dipendente a tempo indeterminato. Per i giovani il governo di Mariano Rajoy propone qualcosa di simile a ciò che ora vuole fare Renzi: incentivi fiscali o contributivi sui primi due anni per le imprese che li assumono con contratti permanenti. In questo l’Italia cerca di applicare una versione di ciò che la Spagna fa già.

L’impatto però sarebbe graduale, perché la riforma non si applica ai contratti esistenti ma solo alle nuove assunzioni a tempo indeterminato. Queste ultime in Italia sono state due milioni nel 2011 e 1,5 milioni nel 2013, risulta al ministero del Lavoro. Ma poiché l’Istat registra circa 14,5 milioni di dipendenti assunti in modo permanente, l’attrito dei nuovi contratti fa sì che la scomparsa dell’attuale tutela dell’articolo 18 prenderebbe gran parte del prossimo decennio. Un effetto collaterale può verificarsi subito: certi lavoratori potrebbero diventare riluttanti a cambiare azienda, perché non avrebbero più la protezione di cui godono oggi in caso di licenziamento. Con il vecchio contratto potrebbero contare su un giudice del lavoro che li rimette al loro posto, se l’azienda vuole cacciarli; con il nuovo avrebbero diritto solo a un indennizzo. Dunque la coesistenza dei due regimi può bloccare gli ingranaggi di un normale mercato del lavoro, perché pochi avranno ancora voglia di muoversi.

L’altro punto critico riguarda il sostegno ai disoccupati. Chi resta senza cassa integrazione o mobilità, perché era precario o perché è a casa da troppo tempo, oggi può contare solo sull’assistenza sociale dei comuni. Di qui la povertà estrema che si sta diffondendo in molte parti d’Italia, specie fra chi vive in comuni rimasti senza soldi. Finisce così che il welfare è più ricco dove serve di meno, ma miserabile dove sarebbe più drammaticamente necessario. A dati Istat, nel 2011 la spesa per abitante in interventi sociali ha superato i 250 euro in Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta, ma è stata di 25 euro in Calabria e di 45 in Campania. Non è un caso: grazie al loro statuto speciale, Trentino e Valle d’Aosta ricevono dallo Stato oltre il doppio dei trasferimenti, sempre per abitante, rispetto alle regioni del Sud. Questo non è un welfare possibile nel terremoto prolungato che il Paese sta vivendo. Renzi ha trovato una parola per definirlo, e i numeri gli danno ragione. Apartheid.

L’ottobre nero dei nostri conti, su fisco e lavoro tempo scaduto

L’ottobre nero dei nostri conti, su fisco e lavoro tempo scaduto

Renato Brunetta – Il Giornale

Fino a che punto i mercati avranno fiducia nell’Italia, dopo il taglio delle previsioni di crescita del Pil da parte dell’Ocse e del Fondo Monetario Internazionale? Fino ad oggi i gestori (soprattutto grandi banche d’affari e hedge funds americani) hanno avuto un eccesso di liquidità da investire, per effetto delle politiche di allentamento monetario, ancorché in diminuzione, della Federal Reserve. Siccome «non sanno più dove mettere i soldi», l’acquisto di titoli di Stato italiani ha rappresentato ancora una strategia ragionevole: sono comunque titoli meno rischiosi di quelli dei paesi emergenti e garantiscono un rendimento conveniente.

La situazione cambierà invece con la fine del Quantitative Easing della Fed (Taper off già previsto per ottobre) e la conseguente riduzione di liquidità a livello internazionale. A quel punto, con meno soldi in circolazione, le scelte di portafoglio dei gestori dovranno essere più selettive e i primi titoli di cui si disferanno saranno proprio quelli italiani se, per quella data, ben più vicina dei mille giorni di Matteo Renzi, il nostro paese non avrà dimostrato di aver fatto le riforme necessarie. Ai mercati basterà poco per cambiare atteggiamento. E, in assenza di decisioni concrete da parte del governo o, peggio, di crisi all’interno del più grande partito della maggioranza che governa il paese, tutto potrebbe precipitare di nuovo, con un rapporto debito/Pil fuori controllo, oltre il 140% nel 2015.

E l’allarme crescita, in Italia e in Europa, è stato al centro anche degli incontri dei ministri dell’Economia e delle finanze e dei banchieri centrali dei paesi del G20 riuniti a Cairns, in Australia. Proprio nei giorni in cui un altro quotidiano inglese, il Financial Times, pubblicava l’indiscrezione secondo cui il membro belga del Consiglio direttivo della Bce, Benoït Cœuré, e Jörg Asmussen, ex Bce, ora vice-ministro del Lavoro tedesco, hanno chiesto al governo di Angela Merkel di ridurre le tasse sul lavoro e aumentare gli investimenti pubblici, fino a 18 miliardi nel 2015 e 10 miliardi nel 2016 (rimanendo, quindi, ampiamente nel rispetto dei parametri europei in termini di rapporto deficit/ Pil) per fare da traino alla crescita in Europa. In altri termini: reflazione. Lo scriviamo da 3 anni. Significa aumento della domanda interna tedesca, quindi dei consumi, degli investimenti, dei salari, delle importazioni e, di conseguenza, della crescita, per la Germania e per l’intera area dell’euro.

Rispetto alla situazione interna ed europea/internazionale descritta fino ad ora, il Partito democratico spaccato sulla riforma del mercato del lavoro introduce un ulteriore elemento di instabilità, di cui l’Italia proprio non aveva bisogno. Il presidente del Consiglio e segretario del Pd, Matteo Renzi, deve, pertanto, fare chiarezza subito. Deve fare delle scelte. E non solo sul lavoro, ma anche sul fisco, sulla burocrazia, sulla politica economica, sulla giustizia, sull’Europa. Da che parte sta? Ce lo dica. O di là, o di qua. Di là c’è il corpaccione del Pd parlamentare, della Cgil, dei poteri forti finanziari e delle Coop. Di qua c’è la maggioranza del paese, ci siamo noi, c’è il centrodestra: brutto, sporco e cattivo, ma dalla parte giusta. Dalla parte degli italiani.

Se qualche dubbio resta, basta considerare le diagnosi avanzate dai principali Organismi internazionali. Dopo l’Ocse della scorsa settimana, che ha bruciato gli ottimismi di Matteo Renzi, proprio il giorno prima di recarsi in Parlamento per spiegare il suo programma dei mille giorni, è stata la volta del Fondo monetario internazionale. Anche per Washington previsioni al ribasso. Da un iniziale 0,6% di crescita per il 2014, si passa a un meno 0,1%. Ma non è questa la cosa, almeno per noi, sorprendente. Ciò che non quadra è che il Fondo Monetario ha lasciato inalterate le previsioni di crescita per gli anni successivi. Come se il 2014 fosse una semplice parentesi e non avesse un impatto negativo almeno per il 2015.

Per il resto la previsione è nera. Un debito che sale fino al 136,4%, ma che rischia, in caso di choc esterni, di raggiungere il 150%: l’anticamera del default. Un deficit nominale che difficilmente riuscirà ad allontanarsi dal tetto del 3%, trascinando con sé un deficit strutturale, corretto, cioè, per l’andamento del ciclo, troppo alto per lasciare intravvedere una possibile correzione della traiettoria del debito. Mentre il tasso di disoccupazione resterà inchiodato a quel 12,6% che toglie il respiro.

Il possibile miglioramento è affidato a ricette discutibili per le loro contraddizioni in termini. Una manovra per il 2015 di circa 27,2 miliardi di euro al fine di riportare il deficit strutturale dallo 0,8 allo 0,3% del Pil (8 miliardi), di ridurre il cuneo fiscale (14,4 miliardi), di aumentare le spese per le scuole (4,8 miliardi). Con forme di copertura a carico soprattutto dei contribuenti: riducendo le agevolazioni fiscali (12,8 miliardi), introducendo una nuova tassa sulla ricchezza (4,8 miliardi) e sulle rendite finanziarie (i Bot?), con un introito di 3,2 miliardi. Mentre dalla Spending review, altro che i 13 miliardi previsti nell’ultimo Def, o i 20 miliardi sbandierati da Renzi: si avrebbero risparmi pari a solo 4,8 miliardi.

Morale della favola: un aumento netto della pressione fiscale di 6,4 miliardi. Nuovo capitolo della saga dell’austerity. L’insistere sulle vecchie pratiche del passato (manovre correttive) dimostra che quegli insegnamenti non sono serviti. L’Italia conserva il triste primato della maggiore lontananza dai valori antecedenti la crisi del 2007. Mentre la maggior parte dei Paesi europei è riuscita a recuperare quel gap, il nostro scarto supererà alla fine dell’anno i 9,5 punti di Pil. Su questo dato di fondo dovrebbe concentrarsi l’attenzione per acquisire una consapevolezza nuova.

Gli interventi di tipo macroeconomico (leggi manovre a ripetizione) sono ormai più un vincolo che non una risorsa. I margini si sono progressivamente prosciugati, senza che vi sia stato un reale beneficio in termini di sviluppo o di benessere collettivo. Lo dimostrano gli scarsi successi conseguiti nel campo della politica monetaria. Nonostante i lodevoli sforzi di Mario Draghi e le difficoltà incontrate nel vincere le resistenze (soprattutto) tedesche, i risultati, almeno, finora sono stati deludenti. Il cavallo – le richieste solvibili delle aziende – continua a non bere. Forse è ancora troppo presto; sta comunque il fatto che le erogazioni della Bce, per mancanza di domanda, sono state di gran lunga inferiori alle aspettative.

Sono queste le considerazioni che ci fanno insistere in modo particolare sull’importanza di due riforme: mercato del lavoro e fisco. Almeno in questo siamo d’accordo con il giudizio dell’FMI. Per quella cruna dell’ago passa la spinta ad una maggiore produttività aziendale, che non è una concessione a favore del padronato. Ma lo strumento attraverso il quale si crea maggiore ricchezza. Che, a sua volta, è presupposto di un benessere da ripartire seguendo criteri di equità. Da questo punto di vista la sopravvivenza dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, così come è ora, è un macigno insormontabile. Non solo non abbiamo nulla contro i lavoratori, ma vogliamo supportare il loro sforzo individuale per migliorare le proprie condizioni di vita, in una partecipazione attiva al processo produttivo.

Queste sono le implicazioni della battaglia di ottobre e dei prossimi 100 giorni. Contro le pigrizie, soprattutto, intellettuali. Il semplice quieto vivere in un mondo che cambia a ritmi impressionanti. Discorso che vale per il privato, ma soprattutto per il pubblico, dove quelle stesse tutele: il posto fisso sempre, si sono trasformate in un privilegio inaccettabile. Ed ecco allora la saldatura. Vogliamo ridurre il carico fiscale proprio per tagliare l’erba che alimenta il tran tran parassitario e sottrae risorse per completare una modernizzazione finora dimezzata, come il celebre visconte della trilogia di Italo Calvino. Impegno che richiede, indubbiamente, una gran fatica. O di qua o di là. O con la vecchia guardia dei conservatori (Pd in testa), o con chi vuole cambiare e salvare l’Italia. Non c’è più tempo.

Stavolta si deve passare, sul lavoro schizzò il sangue dell’ideologia: basta!

Stavolta si deve passare, sul lavoro schizzò il sangue dell’ideologia: basta!

Giuliano Ferrara – Il Foglio

Lo scontro con i sindacati e con le sinistre classiste e d’apparato è la regola dei governi. Almeno dopo la fine del regime democristiano, che sapeva come fare: rinviava, faceva debito, garantiva la democrazia dell’indecisionismo, e prosperava su quel nulla opulento e affidato all’estro della società (una soluzione, intendiamoci, ma autarchica, incompatibile con la concorrenza e i mercati aperti nel mondo, incompatibile con la moneta unica, insomma fuori della storia). Craxi sfidò la Cgil e fu sfidato dai sindacati, da pezzi ingenti di padronato e di establishment politico, sulla scala mobile, oltre che dalle Brigate rosse molto impegnate nella questione del diritto del lavoro e del salario (Ezio Tarantelli). Berlusconi fece il patto per l’Italia con Cisl e Uil, e fu tramortito dalla diserzione dei padroncini all’italiana, i grandi sculettatori opportunisti che vanno sempre dietro a chi pensano possa vincere e distribuire piccoli vantaggi, e dalla battaglia d’arresto di Cofferati nel Circo Massimo mediatico-sindacale, e dalle Brigate rosse sopravvissute agli anni Ottanta (Marco Biagi, oltre alle molotov per quel pover’uomo di Pezzotta della Cisl eccetera). D’Alema ci provicchiò, ma essendo piccino e parvenu, fu un coito interrotto prima che si passasse dai preliminari all’atto, e comunque ci fu chi pagò per lui (Massimo D’Antona).

È la volta di Renzi. Non pensavano a questa sorpresa. Uno scout di trent’anni. Uno con una sua squadra postideologica. Il nemico delle fregnacce d’antan. Il giovane uomo di governo fattosi da sé senza troppa malizia, solo con quel tanto di expertise politica, che gli appartiene, necessaria a rottamare le vecchie cariatidi che furono protagoniste delle antiche battaglie di retroguardia. I magistrati lo puntano, come al solito via famigliari e amici, e tutto il resto del mondo di ieri, quello torvo, gli fa contro il comizio demagogico. Ma stavolta trovano duro. Ha il 41 per cento alle europee. Berlusconi lo appoggia. Era anche lui un osso duro, ma era il capo di una coalizione un po’ merdosa, esposto al tradimento, alla cultura democristiana del suo consigliere politico, il grandissimo Gianni Letta. Renzi invece un Letta piccolissimo l’ha licenziato, senza nemmeno aver ancora riformato l’articolo 18, ed è dunque meglio “posizionato”, come si dice tra noi commesse dell’informazione. Ce la farà? Non ce la farà? Monti fece retromarcia, e la brava Fornero non dovrebbe ora uscire dal magnifico riserbo in cui è entrata dopo che le imposero la rima baciata con Cimitero. Non importa se Renzi ce la possa fare o no, importa che combatta a viso aperto, e che molto dantesco sangue si sparga per l’Arbia. Quelli che ci hanno sempre preso da dietro, e che ce l’hanno messo in quel posto a tradimento, stavolta devono pagare il fio, vendetta, tremenda vendetta, della loro malaccorta e fessa gigionaggine di difensori dei lavoratori.

Renzi ai lavoratori dipendenti ha dato il più forte aumento contrattuale degli ultimi trent’anni: il beneficio fiscale diretto degli 80 euro. E la Camusso deve ancora imparare il mestiere, mentre Landini deve finirla di ammannire in televisione i suoi comiziacci, si guardi le Iene dove si dimostra che oltre a evasori, esportatori di capitali, imprenditori pigri che non investono, politici incapaci di pianificazione industriale, ci sono a carico dei lavoratori parecchi sindacalisti, spesso della pubblica amministrazione ma non solo, che si inventano le pensioni integrative privilegiate e lucrano su lavoro mai lavorato a spese nostre, fiscalità generale e contributi onestamente versati. Si occupi della società, visto che di economia e mercati capisce un tubo vuoto. E date il sindacato alla giovane Sorrentino, una che (mi pare di aver capito) sa di che cosa parla, non tira fuori lo spettro della Thatcher, benedetta rivoluzionaria che la Camusso le sue realizzazioni per il popolo e il ceto medio e i pensionati e i lavoratori se le sogna, allo scopo di colpire con un colpo basso il capo del Pd e premier del governo italiano.

Giù le mani dai nazareni! Insisto. La Confindustria si dia una mossa, oppure facciamo manifestazioni di populazzo liberalmercatista sotto le sue sedi, mobilitiamo i giovani precari non contro lo stato, o il governo, che non c’entrano, ma contro il sistema grandi-imprese-grandi-banche che li opprime con la complicità dei sindacati e dei direttori di giornale e giornalisti che lavorano per loro. Fanculo, stavolta si deve passare. Basta. Non voglio morire di sindacalese e di noia mortale, e il paese merita di vivere creando convenienza per l’assunzione, per il lavoro vero, per quel che si può ottenere da un paese così scassato come questo, e non da Renzi.

Perché l’articolo 18 gioca contro crescita e welfare

Perché l’articolo 18 gioca contro crescita e welfare

Oscar Giannino – Il Mattino

Alla politica piace ragionare per slogan. Sulle intenzioni di Renzi sul Jobs Act, e in particolare sulle modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, fioccano i “timbri”. C’è chi l’ha avvicinato alla Thatcher, chi a Blair, o a Craxi. Il traslato è un modo per non parlare della realtà, ma per definire a prescindere – con giudizi “valoriali” – le intenzioni di modificarla. Un serio riformismo dovrebbe usare un altro metodo. Partire dai fatti: cioè valutare oggettivamente quali effetti reali ha provocato una certa norma, e che cosa determinerebbe invece la sua modifica. Dopodiché, ma solo “dopo” e non “prima”, ciascuno resta libero di giudicare secondo le proprie idee, che in Italia sono ancora quasi sempre “ideologie”.

Se analizziamo oggettivamente le disfunzionalità del mercato del lavoro, si dovrebbe partire dalla bassa occupazione, e dalla bassa produttività. Sulla prima questione, ricordiamo che tra i 15 e i 64 anni, a fine 2013 il tasso di occupazione italiano era al 49,9%, quello tedesco al 72,3%. Sulla seconda: se guardiamo alla manifattura italiana e considerando base 100 il 2000, la produttività oraria è salita al 2013 solo verso quota 110 mentre i salari orari sono arrivati oltre quota 155; nell’eurozona nel frattempo la produttività oraria è passata da 100 a 140 e i salari a 145. Una buona riforma del lavoro dovrebbe deve unire l’identificazione e rimozione sia degli ostacoli all’occupabilità, sia di quelli alla produttività. Ma non è di queste macro disfunzionalità che si parla, purtroppo. Bensì, ancora una volta, dell’abolizione eventuale del reintegro giudiziario in caso di licenziamenti economici, nei nuovi contratti triennali a tutele crescenti che il governo vuole introdurre. Per evitare la divisione “ideologica” di una scelta favorevole o contraria in via pregiudiziale, cerchiamo di capire gli effetti determinati dall’articolo 18.

L’Ocse valuta ogni anno in termini comparati le diverse forme nazionali delle restrizioni ai licenziamenti individuali e collettivi: l’Italia dopo decenni di stabilità a quota 2,76 è scesa con la riforma Fornero a quota 2,51, ma il confronto è con la media Ocse a 2,04, UK a quota 1,03, Svizzera 1,60, Spagna a 2,05, Francia a 2,38. Tutti dunque più flessibili di noi. Solo la Germania ci supera, a quota 2,87. I vincoli al licenziamento assicurano il lavoratore contro le fluttuazioni del mercato del lavoro, ne trasferiscono l’onere sull’impresa, che dovrebbe fronteggiarne gli effetti con maggiore facilità. Ma in concreto, la tutela più forte come modifica il comportamento delle imprese?

Per rispondere a questa domanda, c’è una copiosa letteratura di ricerche comparate in sede Ocse. Maggiore è la protezione, minori risultano i flussi da occupazione a disoccupazione, e viceversa. È il classico effetto di tutela dell’occupazione stabile: da noi amplificata col sistema CIG. Le imprese razionalizzano prodotti e sistemi produttivi meno rapidamente di quanto dovrebbero fare inseguendo le curve di costo e domanda; si abbassa l’utilizzo degli impianti, salvaguardando piante organiche lasciate in CIG ma alzando il costo fisso del capitale fisico e finanziario; e infine la variabilità della domanda di lavoro si risolve con contratti a tempo determinato – i precari a minori tutele come capita in Italia da molti anni, bruciando generazioni intere di più giovani. Ridurre la velocità di distruzione di posti di lavoro sembra una cosa positiva: ma si accompagna alla riduzione di velocità della creazione di quelli nuovi.

Tanto è vero che gli studi comparati Ocse rivelano che maggiore è la protezione dell’occupazione, con limiti a licenziamento e reintegri giudiziali, peggio va per donne e giovani, sia in termini di minor occupazione sia di maggior disoccupazione. Tutto ciò con effetti quantitativamente ancor più negativi quanto più forte è il livello di contrattazione collettiva, cioè quanto i salari fanno più difficoltà a variare tanto verso l’alto se le cose vanno bene, quanto verso il basso se vanno male. In presenza di protezione dell’occupazione le imprese diventano inoltre più selettive, e assumono con maggiore probabilità lavoratori più istruiti. Mentre quando si riduce la protezione dell’occupazione le imprese iniziano a sostituire contratti temporanei con contratti permanenti. Cioè più persone vengono assunte con contratti a tempo indeterminato.

Sin qui, appare evidente dagli studi comparati che esiste uno “scambio” tra protezione al licenziamento ed effetti collettivi positivi se il primo si attenua, quando i benefici verificati della tutela superano i costi privati e pubblici. Ma cerchiamo di capire anche se studi seri sono stati fatti in Italia, sugli effetti dell’articolo 18. Molte ricerche si sono incentrate sull’effetto-soglia. Se cioè la tutela per i lavoratori sopra le 15 unità di dipendenti per impresa rappresentasse un freno alla crescita dimensionale delle aziende italiane. Quasi tutte le ricerche – di Garibaldi, Pacelli, Schivardi, Torrini – concordano che l’effetto soglia esiste, ma è meno rilevante di quanto spesso si creda. Non spiegherebbe che il 2% delle decisioni di non crescere. Piuttosto, anche le imprese italiane analizzate sotto i 15 dipendenti hanno manifestato effetti importanti sui flussi di lavoratori in entrata e in uscita. Assunzioni e licenziamento nei contratti a tempo indeterminato sono calati nelle imprese piccole rispetto alle grandi, sostituiti anche qui dal ricorso massiccio dei contratti a tempo determinato. Tutto ciò ha in sostanza allungato i tempi di attesa verso “posti protetti” nella vita di ogni lavoratore.

Ci sono poi altri due effetti, ai quali i più non guardano. Quello dell’articolo 18 sui salari, e quello sulla produttività. Le ricerche italiane mostrano che le imprese traslano l’effetto-assicurazione al posto fisso – quella che in gergo tecnico si chiama job property – riducendo i salari settimanali: solo che la rigidità dei contratti nazionali di categoria per la parte salariale garantisce anche qui i già tutelati, e la riduzione comparata di salario va a carico dei contratti a tempo determinato che dalle tutele sono esclusi. L’apartheid di cui parla Renzi non è solo quella tra chi è tutelato dall’articolo 18, una minoranza secca dei 22,4 milioni di lavoratori italiani, e chi no. C’è anche quella dovuta al fatto che gli oneri assicurativi a favore dei tutelati, in una stessa impresa si traduce in minori salari di chi la tutela non ce l’ha. Stiamo parlando di minori salari tra il 10 e il 15%, a seconda dei diversi settori, e una quota di questo gap si deve proprio alla copertura degli oneri di licenziamento dei “tutelati” a tempo indeterminato. Infine, la produttività. La tutela elevata ai licenziamenti induce le imprese anche a un minore stock di capitale per unità di lavoro. C’è chi ha stimato che la riduzione della tutela al licenziamento verso il coefficiente OCSE della Danimarca – 2,20 rispetto al nostro 2,53 – produrrebbe negli anni un incremento dell’11,2%, degli investimenti, e del 7% della produttività del lavoro.

Analizzati tutti questi effetti, la soluzione obbligata è riscrivere il trade off tra tutela al licenziamento ed esternalità negative che ne vengono all’occupabilità e alla crescita della produttività. La soluzione dell’equazione non si fa solo abolendo il reintegro giudiziale, ma con una seria riforma contestuale degli ammortizzatori sociali, del sistema di intermediazione tra domanda e offerta del lavoro, e con più contrattazione decentrata al posto di quella nazionale. Giudicate voi, ora, se il Jobs Act su cui Pd e sindacati si accapigliano proceda secondo questi criteri.

La tassa-fantasia ha bisogno di una bussola

La tassa-fantasia ha bisogno di una bussola

Mauro Meazza e Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Se la fantasia si traducesse in decimali di Pil, basterebbe la dotazione schierata per Imu e Tasi a farci agganciare il treno della crescita. Le migliaia (sì, migliaia) di variabili che governano le detrazioni per la Tasi dimostrano quanto potenziale immaginativo possa farsi sentire in un terreno che si penserebbe povero di stimoli, come quello del Fisco.

In realtà, la fantasia impositiva dei Comuni viene da lontano ed è stata alimentata soprattutto da due fattori: le strette da parte dello Stato e il continuo traballare delle regole di prelievo. Se partiamo dalla prima Imu (dicembre 2011), non c’è stato un versamento che abbia seguito le stesse regole di quello precedente. Ma la danza era già cominciata con l’Ici, a onor del vero, chiamata ad aggirare la prima casa ma a garantire contemporaneamente gettito sufficiente per i municipi. Primi e pallidi segnali, se guardiamo al pasticcio in cui siamo finiti ora. Tanta fantasia (statale prima e locale poi) non solo non porta decimali alla crescita, ma anzi rischia di sottrarne. Perché, tanto per fare un esempio banale, chi non sa quanto deve spendere per le tasse può prudentemente scegliere di spendere meno per altre voci. L’incertezza costa, è nemica della fiducia e quindi anche delle speranze di ripresa dei consumi.

Nelle prossime settimane, mentre cittadini e professionisti affonderanno nei calcoli della Tasi, ministri e parlamentari saranno chini sui testi della nuova legge di stabilità, che tornerà a occuparsi del fisco del mattone. I pasticci da risolvere sono tanti, a partire dal fatto che senza correttivi la Tasi 2015 sulla prima casa può arrivare al 6 per mille senza detrazioni, polverizzando ogni confronto con la vecchia Imu. Il premier Renzi ha già annunciato un nuovo «tetto», che è indispensabile ma non basta. Quest’anno si è discusso per mesi di limiti pensati con il bilancino in una lotta estenuante fra sindaci e governo, e i risultati si vedono. Nello scrivere le nuove regole, la politica si faccia una domanda: fa più danni al Pil (e ai voti) il conto della Tasi o la montagna di regole cervellotiche che dobbiamo scalare per calcolarlo?