Edicola – Opinioni

Politica fiscale per battere la depressione

Politica fiscale per battere la depressione

Guido Tabellini – Il Sole 24 Ore

La decisione della Bce, di far scendere ancora i tassi di interesse e soprattutto di avviare l’acquisto di titoli emessi dalle banche, è una svolta importante. Ma perché la Bce ha aspettato così tanto e non si è mossa prima? E saranno sufficienti i provvedimenti annunciati per scongiurare la deflazione e sostenere la crescita nell’Eurozona? La risposta ufficiale alla prima domanda l’ha data il presidente Mario Draghi in conferenza stampa. La politica monetaria ha reagito a due eventi: un peggioramento congiunturale di tutta l’area Euro che è diventato particolarmente evidente durante l’estate; e una tendenza al ribasso delle aspettative di inflazione di medio periodo, anche questa accentuatasi di recente.

La risposta non è molto convincente, tuttavia. Come ben sanno i banchieri centrali, la politica monetaria ha effetti dilazionati nel tempo. Aspettare di osservare variazioni congiunturali nei dati di contabilità nazionale o di produzione è una sicura ricetta per essere in ritardo. E le aspettative di inflazione devono essere guidate dalla politica monetaria, e non viceversa. È diversi trimestri che osserviamo una continua contrazione della base monetaria e dell’offerta di credito e il progressivo rallentamento dei prezzi. La capacità inutilizzata nell’Eurozona rimane elevata, sia nell’industria che nei servizi, ed è circa un anno che ha praticamente smesso di ridursi. Da fine 2013 gli indicatori di fiducia delle imprese hanno invertito direzione. Ignorare per tanti mesi tutti questi segnali è stato un azzardo, e non solo con il senno di poi.

Meglio tardi che mai, comunque? Non è detto. Purtroppo è poco probabile che questi interventi, per quanto significativi, siano sufficienti a risollevare la domanda aggregata, soprattutto nel Sud Europa. Oltre all’effetto sul tasso di cambio, i provvedimenti vogliono spingere l’offerta di credito bancario. Ma l’obiettivo sarebbe stato più facilmente raggiungibile uno o due anni fa, quando il deleveraging delle banche non era così avanzato. Ora la depressione ha affossato l’economia reale e riempito i bilanci delle banche del Sud Europa di crediti deteriorati. Per quanto l’acquisto diretto di titoli di credito possa parzialmente allentare il vincolo di capitale sulle banche, e i finanziamenti del sistema bancario siano a costo zero, non è detto che ciò sia sufficiente, soprattutto se è assente la domanda di nuovo credito. Inoltre, è ancora incerto se le dimensioni del mercato consentiranno alla Bce di acquistare una quantità davvero rilevante di titoli di credito.

L’esperienza di Stati Uniti, Inghilterra e Giappone suggerisce che, per uscire da una crisi così profonda, la politica monetaria da sola è insufficiente, ed è necessaria una combinazione di politica monetaria e fiscale. In questi paesi la creazione di moneta è avvenuta soprattutto tramite ingenti acquisti di debito pubblico ed è stata accompagnata da maggiori disavanzi: di fatto un’espansione fiscale finanziata dalla banca centrale. L’uso di entrambi gli strumenti è cruciale: l’espansione fiscale sostiene direttamente la domanda aggregata, e il finanziamento monetario evita l’aumento del debito pubblico e dei tassi di interesse. Da questo punto di vista, c’è una differenza importante tra l’acquisto diretto di titoli di credito emessi dalle banche e l’acquisto di titoli di stato. Soprattutto nel secondo caso, più che nel primo, la banca centrale allenta direttamente il vincolo di bilancio del governo.

Nell’area Euro questo non si può fare, naturalmente. Ma non è escluso che ci si arrivi comunque, anche se in ritardo e in maniera meno esplicita e molto meno rilevante. Se i provvedimenti annunciati non riusciranno a evitare la deflazione nell’area Euro, prima o poi la Bce potrebbe essere costretta ad acquistare anche i titoli di Stato. E lo stesso presidente Draghi ha sottolineato l’importanza del coordinamento tra politica monetaria e fiscale (oltre alle riforme strutturali) per uscire dalla crisi. Nel frattempo, non illudiamoci che possa essere la politica monetaria da sola a fare uscire il Sud Europa dalla depressione.

Un rischioso senso di impotenza

Un rischioso senso di impotenza

Francesco Guerrera – La Stampa

A prima vista, la differenza non si vede. Come sempre, il lago di Como risplende nel sole autunnale, Villa d’Este pullula di potenti italiani e stranieri e i dibattiti vertono su argomenti profondi, seri e ambiziosi («Agenda per cambiare l’Europa»; «Oggi il mondo di domani»; «Un’alternativa per l’Italia» e così via). Ma a ben guardare c’è qualcosa di strano al forum economico Ambrosetti versione 2014. L’élite di politici, economisti e scienziati vede riflessa nelle acque cristalline del lago l’immagine della propria impotenza.

Dai conflitti dell’Est-Europa alle barbare decapitazioni nel Medio Oriente, dall’anemia economica che affligge l’Europa alla riluttanza a investire da parte d’imprenditori e aziende, i più importanti esponenti della politica e della finanza mondiale poco possono. Se ne parla, dei problemi annosi e di quelli più recenti, si cercano di mandare messaggi a Putin, a Draghi, a Renzi; si critica la leadership di Obama e la strategia pappamolla dell’Unione Europea nei confronti della Russia. Ma sembra un copione un po’ stanco. Un dovere più che un desiderio vero di affrontare le sfide enormi che la geopolitica e i mercati stanno ponendo alla classe dirigente del pianeta. «Nell’era del terrore, non ci sono vittorie, solo successi temporanei», ha detto uno dei partecipanti alla platea. Si riferiva al terrorismo che sta sconvolgendo il Medio Oriente, ma è una frase che si addice anche ad altre questioni.

Il simposio della Ambrosetti stava per iniziare giovedì quando la Banca Centrale Europea ha sorpreso i mercati con un nuovo taglio ai tassi d’interesse e l’inizio di una manovra di stimolo enorme. Gli investitori hanno applaudito, gli imprenditori, soprattutto quelli che esportano, si sono preparati a godersi un euro in ribasso e le banche hanno promesso di prestare di più. Ma il «magic moment» non è durato nemmeno ventiquattr’ore. Venerdì mattina, è arrivato Peter Praet, uno dei luogotenenti di Mario Draghi, a stemperare gli entusiasmi. «Le politiche monetarie possono solo comprare del tempo e non risolvere i problemi strutturali delle nostre società», ha spiegato il barbuto belga, che siede nel comitato esecutivo della Bce. Traduzione: noi banchieri centrali abbiamo fatto tutto il possibile e forse di più, se i politici non ci aiutano, la ripresa economica ve la scordate e i miliardi di stimolo staranno buttati al vento. I mercati questo lo sanno e hanno già ripreso il tran-tran di prima del taglio dei tassi. La differenza cruciale con l’America, dove queste dosi da cavallo di stimolo hanno evitato la depressione e rilanciato l’economia, è che l’economia Usa è più flessibile. Lascio ad altri i giudizi politici e morali sui diritti dei lavoratori e i costi della sanità e altri servizi, ma non c’è dubbio che gli Stati Uniti sono un atleta più agile: quando cadono al tappeto si rialzano più velocemente della vecchia Europa. Gli investitori se sono accorti e stanno spingendo le Borse americane da record a record, nonostante i venti di guerra provenienti dall’Est e dal Sud del mondo.

Non è che la mossa di Draghi non avrà effetti positivi: l’euro scenderà aiutando i produttori europei che vogliono vendere all’estero. E anche gli spread sui buoni del Tesoro andranno giù, consentendo a debitori cronici come l’Italia di respirare un pochino. Ma non sono vittorie definitive, solo successi di tappa, traguardi della montagna in una corsa in cui non si sono ancora affrontati né le Alpi, né i Pirenei.

Quando ho chiesto a un imprenditore straniero perché non investisse di più in Italia, ha guardato per un po’ il lago, forse cercando di non offendermi con la sua risposta. «Che le devo dire?» ha sospirato. «Qui ci vogliono mesi per ottenere permessi e il mercato del lavoro è ossificato».

«Però il posto è stupendo», ha aggiunto, quasi scusandosi per le parole sincere e crudeli. Non è il solo. Quando i partecipanti del forum hanno dovuto indicare il loro livello di fiducia nelle sorti economiche dell’Ue, quasi la metà ha risposto «basso» o «molto basso». E’ una statistica preoccupante, soprattutto perché rilevata a meno di due giorni dall’annuncio dello stimolo massiccio della Bce. La realtà è che le fantomatiche «riforme strutturali» – il mercato del lavoro, le pensioni, la sanità, le tasse ecc. ecc. – non le fa o non le vuole fare nessuno. Non i politici, né tantomeno l’elettorato. Forse l’attuale governo italiano sarà un’eccezione, ma per ora quasi tutta l’Europa è afflitta dalla sindrome «nimby», l’acronimo inglese per «Not In My Back Yard»: fate pure qualsiasi riforma, ma non nel mio cortile di casa.

L’impotenza dell’economia fa da contrappunto alla debolezza della politica estera dei blocchi occidentali. Dietro le quinte settecentesche di Villa d’Este il dialogo su l’Ucraina e il terrorismo islamico è stato un misto deprimente di dichiarazioni aggressive e ammicchi al compromesso, con l’Europa e l’America impegnati in un gioco transatlantico di scaricabarile. «Putin non ha niente di cui temere da questi qui», mi ha detto un esperto di politica estera dopo l’ennesimo briefing fine a se stesso. Niente è ancora perduto perché l’economia e la politica offrono spesso un’altra chance, ma sprecare giorni, settimane e mesi non facilita la situazione. I terroristi si sentono più forti, i nemici ai confini osano di più e i cervelli e gli investitori vanno altrove. Forse il problema è l’esistenza del salotto buono, come crede il primo ministro. Oppure il fatto che quelli seduti sui divani si ostinano a passare il tempo tra il futile e il dilettevole.

La solitudine di Renzi e le vedove inconsolabili

La solitudine di Renzi e le vedove inconsolabili

Alessandro Sallusti – Il Giornale

Ha sbagliato Matteo Renzi a non andare a Cernobbio, dove il prestigioso Studio Ambrosetti ha organizzato, come ogni anno, il suo forum internazionale con inviti iper selezionati.

Ha sbagliato perché quel paesino sulle rive del lago di Como merita davvero, è uno degli angoli più belli al mondo e i saloni che ospitano gli incontri, quelli del Grand Hotel Villa d’Este, trasudano da un secolo dei sapori della mondanità più esclusiva. Poi uno legge i resoconti di inviati e cronisti e gli viene il dubbio. Piacere della vista a parte, perché mai Renzi dovrebbe mischiarsi con quella compagnia? Prendiamo ieri. A spiegare come gira, e come dovrebbe girare il mondo c’erano, nell’ordine; Jean Claude Trichet, predecessore di Mario Draghi alla guida della Banca centrale europea, cioè l’uomo che non si era accorto che stava per scoppiare la più grave crisi economica di sempre; José Barroso, presidente uscente dell’Europa, un quinquennio di disastri politici al servizio dell’asse Merkel-Sarkozy; Mario Monti, e non aggiungo altro (basta il nome); Romano Prodi, quello che poco più di un anno fa si era imbarcato su un aereo presidente della Repubblica ed era atterrato presidente dei trombati. All’ultimo ha dato forfait Enrico Letta. Peccato. Eravamo tutti ansiosi di ascoltarlo sul tema: come governare un paese a lungo e con Alfano.

Eppure sono tutti indignati che Renzi non si è presentato ad ascoltare e omaggiare tali maestri. Tutti lo vogliono, il premier. Ieri a piangere era anche il direttore del Fatto Quotidiano, l’amico Antonio Padellaro. Un intero fondo per lamentarsi che il Matteo non sarà alla festa del Fatto che è partita a Forte dei Marmi. Sdegno rafforzato da ben due pagine fitte fitte di Marco Travaglio sulle promesse tradite o rinviate dal suddetto premier.

Manco fosse una bella donna: da Cernobbio a Forte dei Marmi è tutto un lamentìo di sedotti e abbandonati da quel mascalzone fiorentino. Mi faccio due domande. Se l’uomo sta così sulle palle perché lo invitano? Ma soprattutto: che diavolo avrà mai da dire Renzi di così interessante che qui è tutto un disastro? E comunque, se queste devono essere le compagnie, meglio la solitudine, che porta consigli più utili di quelli di Monti e Travaglio, vedove inconsolabili in un fine estate da brivido dentro e appena fuori i nostri confini.

Con la testa all’ingiù le tasse vanno solo su

Con la testa all’ingiù le tasse vanno solo su

Danilo Taino – Corriere della Sera

Certe volte ci si abitua a guardare il mondo a testa in giù. Rimettersi di tanto in tanto sui piedi può fare bene: cambiare paradigma ridisegna l’ordine delle cose. Le statistiche sulla tassazione in Italia, in Europa e nel mondo aiutano: e suggeriscono che, forse, nel dibattito su spending review, vincoli europei di bilancio, crescita dell’economia potremmo ribaltare la prospettiva. Innanzitutto, il confronto mondiale (i dati sono quelli riportati nella pubblicazione di Eurostat «Taxation trends in the European Union, 2014»). Nella Ue a 28, le tasse (compresi i contributi sociali) raccolte dai governi sono state, nel 2012, pari al 39,4% del Prodotto interno lordo. Nei 18 Paesi dell’eurozona sono arrivate al 40,4%. Nel mondo, c’è qualche Stato più esoso, ad esempio la ricca ed eccentrica Norvegia (42,2%). Ma fuori dall’Europa le tasse sono molto, molto più basse: il 24,7% del Pil negli Stati Uniti, il 27,8%, in Canada, il 30,3% in Giappone, il 27,8% in Australia.

In generale, si tende a spiegare queste differenze con il fatto che in Europa c’è un alto livello – quindi costoso – di Welfare State. L’argomentazione ha debolezze intrinseche. Per esempio, è difficile sostenere che le protezioni sociali della Ue sono efficienti, destinate solo a chi ne ha davvero bisogno; o negare che spesso sono addirittura incentivanti del non lavoro. E, in una buona parte dei Paesi, il Welfare gigante toglie risorse alla crescita dell’economia, con l’effetto di gonfiare la disoccupazione, abbassare i redditi, ridurre la competitività rispetto al resto del mondo. Ma quel che è più interessante è vedere come si colloca l’Italia. Il totale delle tasse raccolte, sempre considerando i contributi sociali, nel 2012 è stato pari a 689,3 miliardi, il 44% del Pil (nel 2000 era del 41,5%), decisamente sopra la media dell’eurozona. Siamo il sesto Paese della Ue per livello di tassazione, ma mentre i cinque più esosi – Danimarca (48,1%), Belgio (45,4%), Francia (45,0%), Svezia (44,2%), Finlandia (44,1%) – possono rivendicare una qualità elevata di servizi pubblici per noi è notoriamente diverso (dal 2000 in poi, tra l’altro, Svezia, Finlandia e Danimarca hanno ridotto il carico fiscale, Stoccolma addirittura del 7,3%).

Per dare l’idea di quanto sia pesante l’imposizione in Italia: nella Ue a 28 siamo settimi per tasse indirette come percentuale del Pil (ma al 26° posto per Iva), quinti per imposte dirette, ottavi per contributi sociali, settimi per tasse sul lavoro, secondi per tasse sul capitale, quarti per tasse sull’energia, quarti per tasse sulla proprietà. La questione è un macigno, forse il maggiore, sull’attività dell’intero Paese. Perché dunque il dibattito è tutto sul tagliare le spese, fatto che finora non è avvenuto, e si dice che solo dopo si potranno abbassare le imposte? Probabilmente avrebbe più senso guardare la realtà raddrizzando la prospettiva: darsi obiettivi progressivi ma vincolanti di riduzione delle tasse e sulla base di questi costringere lo Stato a tagliare le spese, non il contrario. In fondo, s’è visto: a testa in giù si sbaglia strada.

Minori indennità e più certezza di giudizio: sì al Jobs Act alla tedesca

Minori indennità e più certezza di giudizio: sì al Jobs Act alla tedesca

Michele Salvati e Marco Leonardi – Corriere della Sera

È ricominciato nella commissione Lavoro del Senato l’iter legislativo del Jobs act, la legge delega sulle riforme della legislazione del lavoro proposta dal governo. La materia è molto ampia – va dagli ammortizzatori alle politiche attive, dalle semplificazioni normative al riordino dei contratti – ma è probabile che l’attenzione interna e internazionale si concentrerà soprattutto sulle tutele relative al licenziamento individuale. Insomma, riprenderà il tormentone sull’articolo 18, che non si è sopito neppure durante le ferie. Questa concentrazione politica e mediatica è eccessiva: altre materie sono importanti ed è poi l’insieme quello che conta. Ma siccome avverrà così, avanziamo una «modesta proposta» che potrebbe essere una buona via d’uscita per il governo. Renzi ha detto che il modello di riferimento per il mercato del lavoro è la Germania. Siamo d’accordo. Si pensi a come sarebbe efficace poter dire in sede europea, a chi rinfaccia al governo le sue resistenze in materia, che la disciplina italiana del licenziamento individuale è identica a quella tedesca.

L’articolo 18, inteso come protezione contro il licenziamento individuale senza giusta causa, esiste in tutti Paesi a democrazia avanzata, seppure con varia intensità. È poco credibile che l’Italia possa prendere a modello i Paesi anglosassoni, dove il licenziamento individuale è politicamente e culturalmente più accettato, ma non per questo senza regole. Può però «diventare come la Germania» e ci manca poco a raggiungere l’obiettivo: già la riforma Fornero aveva preso quel Paese come esempio e gran parte del percorso di avvicinamento è stato fatto. Anche in Italia è oggi obbligatorio un tentativo di conciliazione di fronte al giudice prima di andare in tribunale e la reintegrazione del lavoratore non è più necessaria in caso di licenziamento ingiustificato: nella maggioranza dei casi basta una indennità monetaria. La conciliazione obbligatoria funziona e più del 50% dei casi non arriva in tribunale, come in Germania. Nei casi che arrivano in giudizio, per la metà vincono i lavoratori e solo in pochi casi più gravi c’è la reintegrazione. Cosa manca dunque a diventare esattamente come la Germania? Anzitutto, si tratta di un problema rilevante?

I numeri dei licenziamenti ex articolo 18 in Italia sono molto bassi, meno di 10.000 all’anno. Ma questo non dimostra che l’attuale disciplina sia un problema irrilevante per le imprese, come sostengono i suoi difensori: molte imprese non si azzardano a fare licenziamenti individuali, che pure sarebbero per loro convenienti, per il timore di un possibile giudizio di reintegro. Inoltre l’indennità per il licenziamento è tra i 12 e i 24 mesi di salario, un’indennità ragionevole per i lavoratori anziani ma molto alta per chi è in azienda da poco tempo. Per «diventare come la Germania» possiamo allora limitarci a due modifiche dell’attuale disciplina, che non ci sembrano politicamente impossibili nelle attuali condizioni.

Non è necessario impedire al lavoratore di impugnare in giudizio un licenziamento individuale per motivi economici. Anche in Germania lo si può fare e nei casi di ingiustizia più grave si può ottenere anche la reintegrazione nel posto di lavoro. Si deve però ridurre l’incertezza del giudizio, perché in Germania, di fatto, l’incertezza è poca, i sindacati sono collaborativi e i giudici normalmente prendono per buone le motivazioni dell’imprenditore. In Spagna hanno risolto la questione scrivendo nella legge che, se l’azienda è in perdita, ciò costituisce di per sé una giusta causa di licenziamento. Solo se l’azienda è in perdita? Non potrebbe essere un giustificato motivo quello di adattare la forza lavoro al mutamento della situazione economica, così com’è valutata dall’imprenditore? Possibile che non ci sia un modo per ridurre l’arbitraria sostituzione della valutazione del giudice a quella dell’imprenditore?

In secondo luogo, per «fare come la Germania», è necessario ridurre l’indennità di licenziamento per i lavoratori con poca anzianità di servizio: per dare un’idea, se un lavoratore è in azienda da sei mesi l’indennità di licenziamento potrebbe essere di un mese e così via. Se è questo il contratto unico a tutele crescenti, allora ci si avvicina alla Germania, dove c’è la stessa quantità di contratti a termine dell’Italia e non ci si è mai preoccupati di un contratto unico a tutele crescenti: si possono lasciare le regole vigenti per i contratti a termine anche in Italia, con un limite di rinnovo fino a tre o cinque anni. Se è ottimista sul futuro, è probabile che l’azienda decida di stabilizzare il lavoratore con un contratto a tempo indeterminato: le aziende decidono le stabilizzazioni più in riferimento alle prospettive di crescita che al costo del lavoro. Se poi quelle prospettive non si realizzassero, non si tratterebbe di un rischio intollerabile perché si potrebbe procedere a licenziamenti individuali con ragionevole certezza e a costi accettabili.

Due sole modifiche, dunque. Anzi, a rigore, una sola, perché in astratto un cambio nell’atteggiamento dei giudici e del sindacato potrebbe avvenire anche a legislazione vigente. Ma, siccome è difficile che ciò avvenga dopo una lunga storia di conflitti e sospetti, lo si può stimolare con regole che inducano giudici e sindacato ad un atteggiamento meno ostile nei confronti delle decisioni aziendali. Pietro Ichino è convinto che il suo «contratto di ricollocazione» risolverebbe il problema. Potrebbe essere. L’importante è che imprenditori onesti, che vivono in un ambiente difficile, si convincano che il giudice riconoscerà le buone ragioni economiche che li hanno indotti ad un licenziamento individuale. E solo allora saremo diventati… «come la Germania». Almeno in questo.

Scuola (d)istruttiva

Scuola (d)istruttiva

Davide Giacalone – Libero

Anteporre l’assunzione di 190mila insegnanti alla riforma della scuola fa risparmiare il tempo necessario a scriverla e approvarla, tanto è morta prima di nascere. Ancora una volta la spesa pubblica sarà indirizzata a soddisfare i bisogni di chi lavora per lo Stato anziché di quelli che ne dovrebbero ricevere il servizio. Inconciliabile il volere giudicare per merito e l’assumere ope legis. Quando si scoprirà di avere insegnanti incapaci (posto che tanti sono bravissimi) sarà istruttivamente distruttivo limitarsi a non aumentargli lo stipendio. Ammesso che ci si riesca. Comica l’iniziativa dei due mesi di ascolto, dal 15 settembre al 15 novembre, per sapere cosa ne pensano quelli che si prenderanno la briga di chattare con il governo. Sono lustri che ci ascoltiamo e governare non è sinonimo d’inseguire l’indice di gradimento. Ma dato che le critiche è bene siano sempre accompagnate da proposte alternative, e visto che chi dovrebbe decidere e indirizzare preferisce orecchiare ed essere indirizzato, non mi sottraggo. Oggi su due aspetti: il digitale e l’università. Il primo largamente frainteso, la seconda totalmente assente.

Nei documenti d’indirizzo, novella produzione in prosa che sostituisce le proposte di legge, il governo afferma due cose: a. la larga banda in tutte le scuole è la condizione per digitalizzare l’apprendimento; b. i ragazzi devono essere capaci non solo di usare le applicazioni informatiche, ma anche di crearle. Due errori.

Certo, sarebbe bello avere larga banda in tutte le scuole. Come anche in tutti gli uffici, fabbriche, tribunali e via elencando. Ma siccome non è possibile nel tempo pianificabile, si deve usare quel che c’è. Tutte le scuole italiane sono già oggi connesse in rete. Molte con più di una connessione (perché regalate da comuni e province). Usano la rete per l’amministrazione e non per la didattica. Quindi: partire subito con la scuola digitalizzata. Non solo è possibile, ma avverto i distratti che i gestori telefonici già si fanno pubblicità parlando dei testi scolastici digitali e di chi è bravo andando a scuola con un tablet, mentre chi rimane indietro si carica ancora sulle spalle qualche chilo di libri. Peccato che i secondi non sono fessi alla nascita, sono costretti dalla scuola. E peccato che la legge già prevede, dal 2008, il passaggio ai testi digitali, salvo che i vari governi (destra, tecnici e sinistra) sono stati solo capaci di prorogare l’uso dei cartacei.

È vero, si sono commessi molti errori. Fin qui l’informatica scolastica è stata una scusa per scaricare ferraglia su istituti e studenti. Qui avvertimmo per tempo sulla sciocchezza delle Lim (lavagne interattive multimediali), che servirono solo a svuotare i magazzini dei fornitori. Come abbiamo avvertito sulla sterilità dell’uso dei soldi pubblici per fornire tablet senza contenuti e sistemi utilizzabili. Cosa che ancora capita, che ancora quest’anno porterà a buttare soldi e che, paradossalmente, porta le regioni più efficienti nello spendere a essere anche quelle che più fanno danni. Ma per cambiare basta uno schioccar di dita, basta adottare piattaforme intelligenti (e ne abbiamo di italiane, mentre le regioni spendono finanziando quelle estere) e usarle nella didattica. La consultazione da remoto occupa poca banda, sicché anche le adsl esistenti possono bastare. Ripeto: basta volerlo. Quel che va fatto, subito, è usare tutti il digitale, che i ragazzi già usano massicciamente, ma non per studiare. Non serve che diventino tutti programmatori, perché una simile bischerata non è vera neanche in India, principale Paese formatore di tecnici informatici.

Sull’università il governo aveva annunciato la cancellazione dei test d’ingresso, che invece sono ancora lì. Trovo che siano utili, ma ridicoli. E’ stupido farne dei quiz generici, delle parole crociate, e se devi fare l’odontoiatra non si vede cosa rilevi il saper cos’è la “mano morta”. Nei sistemi sanamente aperti alla concorrenza i test di matematica e lingua o le applications per iscriversi all’università hanno valore generale: con questi risultati non puoi entrare nell’università x, ma puoi andare nella y. Poi tocca alle università sfidarsi in qualità dei docenti e livello dei risultati finali, in modo da attrarre soldi da famiglie e sponsor. Da noi ciascuno si gestisce i propri e da quelli non dipendono i finanziamenti, ma con quelli si mungono tasse d’iscrizione a studenti e famiglie. Satanismo fiscale in tocco e toga.

La didattica digitale incorpora la valutazione dei docenti, così come il ponte fra scuola e università, costruito con test a valenza generale, incorpora la competizione. Usando questi strumenti si può, da subito, sapere quali sono le aule migliori, premiando il merito e stimolando la gara. Il che non è un servizio all’amministrazione burocratica pubblica, ma agli studenti e alle famiglie. Per fare queste cose ci vuole meno tempo dei due mesi buttati nella consultazione. Tutto sta a saperlo e volerlo fare.

La rabbia del salotto buono snobbato dalla politica

La rabbia del salotto buono snobbato dalla politica

Carlo Lottieri – Il Giornale

La decisione di Matteo Renzi di non portare il proprio omaggio alla riunione di Cernobbio ha sollevato reazioni molto negative. In particolare, Alberto Bombassei – vicepresidente di Confindustria – ha sostenuto che con tale assenza il premier avrebbe dato l’impressione di ignorare le ragioni delle imprese e a chi lavora.

C’è molto di barocco e formalistico in questa polemica di fine estate. Ma davvero si può credere che qualche ora in una riunione di finanzieri e industriali possa aiutare a rimettere in piedi la società italiana? Nemmeno in presenza di una concentrazione di premi Nobel per l’economia si potrebbe pensare a tante virtù miracolistiche. Anche chi è assai critico nei riguardi della maggioranza di governo e del suo leader stavolta fatica a mettersi tra gli accusatori. Cosa mai ci sarà di tanto significativo da sentire nell’ennesimo incontro destinato a dare un po’ di visibilità a questo o a quello? Cosa potranno mai dire di diverso quei signori rispetto a quanto dichiarano ogni giorno a televisioni e giornali? E poi lo sappiamo bene che i problemi economici si risolverebbero – in estrema sintesi – con meno spesa, meno tasse, meno regole. Che si vada a Cernobbio o no. Ricordando che è bene evitare l’ipocrisia, va aggiunto che gli esponenti delle grandi imprese a cui Renzi avrebbe potuto stringere la mano sul lago di Como non sono marziani venuti da chissà dove. Per lo più, si tratta di persone ben note all’ex sindaco di Firenze: protagonisti di un mondo che in vario modo ha contribuito e contribuisce a mantenere il nostro primo ministro alla guida dell’Italia. Poteva incontrarli una volta di più, certo, ma se preferisce andare in una rubinetteria del Bresciano non si capisce perché ci si debba scandalizzare.

Da maestro di comunicazione, il Renzi che non va a Cernobbio gioca la carta del «lavoro vero» contro l’economia dei salotti buoni. Gioca anche la carta di quanti producono contro la corporazione confindustriale che invece fa politica con altri mezzi. Sul piano mediatico incassa qualche punto. È però egualmente vero che senza salotti buoni, da noi come altrove, non è certo facile «vincere e mantenere lo stato» (per usare le parole di un grande concittadino di Renzi, Niccolò Machiavelli). Renzi ne è consapevole e quindi se polemizza in pubblico, è egualmente certo che in privato continua a tenere solidi legami. Perché una cosa sono le polemiche sui giornali, e altra cosa le logiche di potere. E questo Renzi lo sa bene.

Chi guadagna e chi perde con la mossa della Bce

Chi guadagna e chi perde con la mossa della Bce

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Mario Draghi ha salvato ancora l’Europa? L’abbassamento dei tassi allo 0,05% e l’annuncio dell’acquisto di covered bond e Abs (titoli cartolarizzati) sono mosse che aumenteranno la liquidità sul mercato e allontaneranno il rischio di deflazione. Ma a quale prezzo? E, soprattutto, la tanto auspicata ripresa economica arriverà veramente? Per rispondere a queste domande bisogna valutare alcune circostanze.

Risorse limitate
Draghi non ha usato il bazooka, ha dovuto accontentarsi di un più modesto mitragliatore. Le pressioni tedesche hanno evitato un intervento monstre che forse sarebbe stato necessario. Secondo i dati Bce di fine giugno, Abs e covered bond dell’Eurosistema ammontano a poco più di 2.100 miliardi di euro. Il centro di ricerca Bruegel stima i titoli effettivamente acquistabili ammonterebbero a circa mille miliardi. Considerando anche i prestiti Tltro alle banche (400 miliardi), l’intervento di Francoforte sarebbe inferiore alla metà di quanto messo in campo dalla Fed americana tra il 2010 e oggi (3.300 miliardi di dollari). Non può non preoccupare, infine, il fatto che Draghi non abbia fornito cifre dettagliate.

Svantaggi per i risparmiatori
Ovviamente, i titolari di un mutuo a tasso variabile stanno ancora festeggiando per la discesa degli interessi. Ma bisogna considerare il rovescio della medaglia: se qualcuno guadagna, c’è anche qualcuno che perde. In questo caso, sono i risparmiatori che non solo si vedranno offerti tassi minori sui depositi, ma troveranno meno convenienti le offerte del mercato obbligazionario quando i bond che hanno ora in portafoglio andranno a scadenza perché i rendimenti saranno meno vantaggiosi. I maggiori guadagni andranno agli Stati centrali che offriranno le nuove emissioni (come Bot e Btp in rampa di lancio) a tassi meno costosi. Idem per le aziende che approfitteranno della strenna per emettere obbligazioni. È proprio questo il succo delle critiche arrivate ancora ieri da Berlino a «SuperMario» sia dal rigoroso Handelsblatt («Draghi fuori controllo») che dalla Frakfürter Allgemeine («La lampada di Aladino»). La paura tedesca non è solo quella di dover pagare per i Paesi meno virtuosi, ma di dover pure subire i contraccolpi dell’abbassamento dei tassi.

Rischio-stagnazione
I principali studi economici realizzati sulle recenti manovre espansive di politica monetaria (Usa, Giappone, Gran Bretagna) hanno evidenziato come la crescita economica non abbia particolarmente beneficiato dello stimolo. Negli Usa è stato «salvato» il mercato immobiliare dalla bolla dei subprime , il Giappone è uscito, momentaneamente, dalla spirale deflazionistica e solo la Gran Bretagna ha visto aumentare considerevolmente il Pil rispetto al trend potenziale (solo il 10% del prodotto interno lordo viene dall’industria). Insomma, non c’è nessuna garanzia che l’aiutino della Bce si trasferisca direttamente al tessuto industriale.

La tagliola del fiscal compact
L’avvio del piano di Draghi, inoltre, non comporta certo la sospensione del fiscal compact . Passata l’euforia, gli aggiustamenti dei bilanci pubblici da realizzare torneranno a far paura. Anzi, la situazione potrebbe in un certo senso peggiorare se il calo dei rendimenti (e la minore spesa per interessi) costituisse per il governo italiano un alibi per non intervenire sulla spesa pubblica improduttiva. Gli spazi di manovra per Renzi & C. continueranno a essere limitati.

Senza più produttività non si cresce

Senza più produttività non si cresce

Mauro Magatti – Corriere della Sera

Se vogliamo essere realisti, il problema dell’Italia è fermare il proprio declino storico. Senza una lettura storica adeguata alla profondità della crisi non c’è provvedimento in grado di risollevare le sorti dei Paese. Proprio l’assenza di una visione chiara è il peccato di omissione (grave) che si può rimproverare al governo Renzi. Al di là dei risultati, è la direzione di marcia che si fatica a vedere: da un governo nato sotto auspici cosi favorevoli è lecito aspettarsi molto di più.

In questi giorni, pensando ai temi del lavoro, Renzi ha detto di volersi ispirare al modello tedesco. Esistono, da tempo, due principali modelli di crescita in Occidente. Quello anglosassone si basa su capacità di influenza internazionale; politica monetaria/finanziaria espansiva; liberismo interno; investimenti in ricerca e sviluppo e nuove tecnologie; contenimento salariale; elevata concentrazione della ricchezza. Il modello tedesco (o renano) si fonda invece su: forte compattezza istituzionale e sociale; politica monetaria restrittiva; centralità dello Stato nel fissare le priorità sistemiche; orientamento all’export; alta tecnologia; relazioni industriali che permettono una (relativamente) più equa distribuzione del reddito. Per entrambi, l’aumento della produttività è un presupposto per la crescita: ma mentre il primo modello si fonda sulle virtù liberali, il secondo richiede compattezza e disciplina.

In Italia la produttività ha smesso di crescere dalla seconda metà degli anni 80. Da allora, il Paese ha traccheggiato utilizzando svalutazione e debito pubblico per tirare avanti. Come ha mostrato di recente la Banca d’Italia, l’enorme massa di risparmio accumulata negli armi del boom economico venne impiegata per finanziare non nuovi investimenti, ma debito pubblico. Lì abbiamo perso il treno della crescita. Il berlusconismo ha malamente cercato di ispirarsi al liberismo americano. Ma ha trascurato la parte impegnativa (la produttività) e preso quella più superficiale (i consumi). Il risultato è un ircocervo con uno Stato onnipresente (che garantisce una pluralità di piccoli interessi corporativi) e un mercato del lavoro segmentato tra regolazione rigida e liberismo senza regole. L’entrata nell’euro prima e la crisi dei mercati finanziari poi hanno fatto saltare l’equilibrio di sopravvivenza di un tale modello, mandando l’Italia sott’acqua. Possiamo rileggere il governo Monti come il tentativo di assoggettare il Paese alla logica tedesca della disciplina. Ma il risultato non è stato positivo. Fondamentalmente perché l’Italia non è la Germania: per correggere la linea evolutiva del nostro Paese ci voleva molto tempo e una grande forza politica. Adesso la forza politica c’è, ma manca la direzione.

Uscire dall’angolo è difficile. Ma ce la si può fare seguendo la rotta giusta senza indugi. In primo luogo, aiutati delle difficoltà della stessa Germania, è il momento di realizzare un’incisiva azione di stimolo all’economia sul piano europeo. Berlino si trova oggi nelle condizioni di svolgere un’azione simile a quella che, nel dopoguerra, fu esercitata dagli Usa con il piano Marshall: ciò che serve all’Ue – sul piano economico e politico – è un grande piano di investimenti. Un vasto programma di credit easing è nell’interesse dell’Italia, della Germania, dell’Europa.

Sul versante interno, occorre spiegare al Paese che la crescita senza aumento della produttività non si dà più. L’Italia deve tornare a investire sul futuro: lo Stato deve creare le condizioni perché chi dà un contributo tangibile alla produzione di valore e ricchezza possa lavorare ed essere premiato, tornando, dove possibile, a investire in infrastrutture e alcuni comparti strategici. Occorre, nel contempo, compensare dal lato della giustizia sociale: prima di tutto dichiarando guerra a tutte le oligarchie che chiudono la società italiana. Il Paese va liberato dalle mille cupole burocratiche, localistiche, corporative, accademiche, sindacali che soffocano le sue forze generative. Bisogna poi dimostrare che uscire dalla spirale «stagnazione della produttività-diminuzione della competitività-aumento della disuguaglianza» si può (e si deve) attraverso la costruzione di una relazione virtuosa tra aumento della produttività ed equità sociale. Il totem dell’articolo 18 non va abbattuto perché possano derivare chissà quali vantaggi economici; o perché così si dà una lezione ai sindacati. La posta politica in gioco è invece la possibilità di scrivere un nuovo (e migliore) patto per il rilancio dell’Italia tra tutti coloro che – lavoratori o imprenditori, appartenenti al settore pubblico o privato, autonomi o dipendenti – contribuiscono alla produzione di valore. Premiando l’investimento, la ricerca, l’innovazione, la flessibilità, la professionalità; ma anche innovando gli strumenti della protezione sociale e puntando a una più equa distribuzione della ricchezza. In un regime rigido come quello sorto con l’euro è la qualità delle relazioni sociali e istituzionali – dalla fiscalità al welfare – la chiave per crescere.

Renzi si sente alla testa di un manipolo di rivoluzionari che ha conquistato il potere. Non si illuda. La rivoluzione deve essere ancora fatta: nella società, nell’economia, nelle istituzioni. Facendosi forte del consenso di cui dispone, il premier trovi il coraggio per portare l’Italia a superare l’idea di una società dei consumi avvinghiata attorno alle dispense pubbliche puntando a un nuovo modello sociale capace di investire su qualità ed eccellenza. Senza dimenticare la solidarietà. Per far questo, si faccia garante credibile della nascita di un’alleanza, giusta e dinamica, tra tutti coloro che vogliono dare il loro contributo a tale impresa. Il declino storico lo si può vincere solo insieme, grazie alla politica. Dopo aver scartato tutti, Renzi è solo davanti al portiere: non butti la palla in tribuna!

Mille e non più di mille, i giorni per dare un giudizio

Mille e non più di mille, i giorni per dare un giudizio

Tiziano Resca – Avvenire

Ma secondo voi mille giorni sono tanti o pochi per riaggiustare un Paese, o almeno avviarne il cambiamento? Tenendo conto che quel Paese è il nostro, da decenni sprofondato in una gestione della cosa pubblica da moviola, in una politica e in rapporti sociali che fanno di risse e colpi bassi e denigrazione del “nemico” il principale – a volte l’unico – motivo di esistere.

A parole, il premier Renzi pare molto sicuro del futuro di tutti noi: ha detto e twittato – ormai sembra più convincente twittare che dire – che entro domenica 28 maggio 2017 (mille giorni, appunto) «l’Italia la cambiamo». Facendo ancora una volta balenare un po’ di tutto. Pur senza approfondire molto. «Alla fine saremo giudicati», ha aggiunto. A dire il vero il momento dei giudizi è già cominciato, visto che tempo non ce n’è tanto, soprattutto per chi – sempre di più – si trova oppresso dalla mancanza di lavoro o dall’impossibilità di offrirlo, quel lavoro. Non che si potesse chiedere a questo governo di raddrizzare un malandato Paese nel giro di sei-sette mesi. Quell’impossibile pretesa lasciamola a qualche partito o movimento che cerca spazio cavalcando non idee ma malessere sociale e qualunquismo. A creare un po’ troppe attese era stato però lo stesso premier, fissando all’inizio del suo mandato un tour de force di riforme a scadenza mensile degno di un imbattibile record mondiale. Adesso, approdato a più ragionevoli e miti ambizioni, ha dilatato i tempi, rendendoli maggiormente credibili.

Mille giorni, dunque. Tanti o pochi? Cerchiamo un termine di paragone, torniamo indietro nel tempo, mille giorni fa… fine novembre inizio dicembre del 2011. Uno dei periodi più arroventati della recente politica italiana. Tre settimane prima – era la sera del 12 novembre – Silvio Berlusconi, travolto da tutto, aveva chiuso la sua carriera da premier rassegnando le dimissioni. Nell’arco degli ultimi 17 anni, a partire dal 1994, aveva governato a periodi alterni per 3.340 giorni. Il famigerato spread in quei momenti era a livelli pazzeschi (550 e oltre), il tasso di disoccupazione giovanile già drammatico ma più basso di oggi, al 30,1%, quello complessivo pure, all’8,6. Ma l’immancabile Europa ci considerava dei rovina-famiglia e il Paese pareva sgretolarsi sotto le botte della crisi, anche se l’allora premier tentava di convincere il mondo che «l’Italia è benestante, i ristoranti sono pieni, per gli aerei si riesce a fatica a prenotare un posto». Quell’ottimismo non bastò per restare a Palazzo Chigi. Arrivò Mario Monti. Supertecnico – allora era doverosamente visto come tale, poi in realtà fondò un partito – legatissimo all’idea di Europa, riscuoteva grande stima e suscitava enormi speranze. Ma non resse a lungo, un anno 5 mesi e 12 giorni. E poi, dopo il suicidio elettorale di Pierluigi Bersani, toccò a Enrico Letta. Neanche dieci mesi, travolto dal dilagare dell’incalzante Renzi. Il quale, oggi, fissa la data del giudizio: mille giorni. I precedenti mille non hanno portato molto bene. Ora sta a lui dimostrare che, se usati coi fatti e non con soli annunci e promesse, i prossimi mille possono anche funzionare. E non essere troppi.