Edicola – Opinioni

Oltre il feticcio del 3 per cento

Oltre il feticcio del 3 per cento

Mariana Mazzucato – La Repubblica

Perché il deficit dovrebbe essere inferiore al 3 per cento? Perché non l’1, il 2, il 4 o anche il 10 per cento? Da dove è stato tirato fuori questo numero? L’Italia aveva un deficit basso prima della crisi, eppure il rapporto debito/Pil ha continuato a crescere. Questo dovrebbe farci capire che il problema non è il deficit in sé e per sé. Eppure oggi tutta l’attenzione è su quel numero magico, quasi un feticcio. Non conta quanto è grande il deficit, ma come è composto: e la verità è che gran parte del deficit è prodotto da fattori che non hanno nulla di strategico.

Qui non si tratta di uno Stato che vuole «espandersi» spendendo di più, ma di una reazione automatica a quello che sta succedendo sul versante della crescita. Quando crescita e occupazione stentano, come è il caso dell’Italia negli ultimi vent’anni, il deficit cresce automaticamente a causa del costo di cose come la cassa integrazione e i minori introiti fiscali. La verità, quindi, è che il deficit è il sintomo del problema. Il problema è la crescita bassa e la disoccupazione, che porta per definizione a un aumento del rapporto debito/Pil. Non il contrario, co- me vuole la logica che continua a orientare le misure della trojka e a tenere in ginocchio Paesi prigionieri di un circolo vizioso di assenza di crescita.

Il deficit, pertanto, è una conseguenza automatica della mancanza di crescita. Solo quando l’Eurozona smetterà di aggrapparsi a cifre feticcio come il 3 per cento e sposterà l’attenzione su quelle tipologie di investimenti e riforme in grado di aumentare occupazione, produttività e crescita, si riuscirà a tenere il deficit sotto controllo, e soprattutto a consentire agli Stati di avere qualche speranza di veder crescere il denominatore del rapporto debito/ Pil e non solo il numeratore.

Ma che cosa sappiamo della crescita? È ovvio che avere le giuste condizioni «generali » (meno burocrazia, più flessibilità del mercato del lavoro, meno corruzione ecc.) è indispensabile. Ma senza i necessari investimenti pubblici e privati che incrementano la produttività nel lungo termine, la crescita è semplicemente impossibile. Sfortunatamente i commentatori, sia di destra che di sinistra, continuano a ignorarlo. Sentiamo dire spesso, per esempio, che il miracolo dell’export tedesco è merito delle riforme di Schröder che alla fine degli anni 90 tennero a freno i salari, con l’ovvio corollario che l’Italia e gli altri Paesi della «periferia» dovrebbero anche loro ridurre i salari e accrescere la flessibilità del mercato del lavoro.

Quello di cui non tiene conto questa analisi, però, è che (1) a tenere temporaneamente a freno i salari in Germania fu un accordo tra capitale e lavoro per preservare i livelli occupazionali durante l’unificazione tedesca, che altrimenti avrebbe provocato disoccupazione di massa, specialmente nel Länder occidentali, e (2) che questo accordo fu stipulato in cambio non solo del mantenimento dei livelli occupazionali, ma anche di una riduzione dell’orario di lavoro (35 ore) e di investimenti in infrastrutture, ricerca e innovazione, che creano più posti di lavoro e posti di lavoro migliori in futuro. E sono proprio questi investimenti che hanno consentito alla Germania di distanziare altri Paesi come l’Italia sul versante della produttività.

Il vero disastro della «periferia» non è il costo del lavoro, ma la produttività. L’indicatore solitamente usato per la competitività è il costo unitario del lavoro, che può essere diviso in due componenti: (a) il costo del lavoro e (b) la produttività. La cosa evidente è che la differenza più marcata tra Paesi non è tanto nel costo del lavoro (in sé e per sé, specialmente se includiamo i contributi sociali, che in Germania sono più alti), ma nel rapporto con la produttività. L’Italia, per esempio, negli ultimi quindici anni ha avuto una crescita della produttività pari a zero (o addirittura negativa).

E come si ottiene produttività? Pagando meno i lavoratori? No. Si ottiene produttività consentendo ai lavoratori di lavorare in modo più efficiente, con una formazione all’avanguardia, macchine tecnologicamente avanzate, una divisione del lavoro innovativa e rapporti armoniosi tra capitale e lavoro. Si ottiene produttività anche avendo una percezione strategica della direzione in cui si vuole che vada l’economia. Quando la Germania decise di imboccare la strada della grüne strategie ( la strategia verde), sindacati, governo e imprese si sedettero a un tavolo e si mossero in modo concertato per trasformare i modelli di produzione, distribuzione e consumo in tutta l’economia e per disegnare nuove forme di istruzione in grado di preparare tecnici e ingegneri alla «rivoluzione verde». Fu il prodotto di una visione, non di un decreto ministeriale!

È tempo di riconoscere, in modo forte e chiaro, che il vero problema dell’Italia non è che i lavoratori guadagnano troppo, ma che i salari non crescono allo stesso ritmo della produttività, perché quest’ultima risente della stagnazione degli investimenti, sia da parte del settore pubblico che di quello privato, e della costante conflittualità, sia tra partiti politici che tra capitale e lavoro. Le aziende private italiane continuano a spendere meno della media in settori come la ricerca e sviluppo (cruciale per la produttività) e la formazione del capitale umano, e il settore pubblico italiano continua a preferire «sovvenzionare» e «incentivare», invece di investire strategicamente in aree a forte crescita. Si può liberalizzare, privatizzare, sottoporre a riforma strutturale qualsiasi cosa, ma non ci sarà crescita fintanto che non ci saranno investimenti dinamici e trasformazioni istituzionali di questo tipo. È questa la parte «strategica» (non automatica) del deficit che viene completamente ignorata. È chiaro che si devono ridurre gli sprechi, riformare i sistemi pensionistici europei in modo da renderli più uniformi ed eliminare la burocrazia non necessaria. Ma a meno che queste riforme non siano accompagnate da massicci investimenti (di dimensioni simili a quelle del Piano Marshall, ossia il 2,5 per cento del Pil dell’Unione europea), con nuove tipologie di collaborazione tra pubblico e privato che consentano un incremento della produttività e garantiscano posti di lavoro e opportunità per le nuove generazioni, rimarremo impantanati nella «stagnazione secolare». E non è un destino ineluttabile: è una nostra scelta, figlia di una totale mancanza di visione.

Distacchi sindacali, il bisturi di Renzi indica dove incidere

Distacchi sindacali, il bisturi di Renzi indica dove incidere

Sergio Soave – Italia Oggi

Il dimezzamento dei distacchi sindacali, annunciato dalla titolare del ministero della riforma della pubblica amministrazione Marianna Madia, ha il pregio di indicare uno dei nodi più aggrovigliati del sistema che paralizza l’Italia: l’intreccio conservatore tra burocrazia e corporazioni. La burocrazia, cioè la struttura amministrativa e gestionale pubblica, dovrebbe rappresentare l’interesse generale, contrapposto a quello legittimo ma particolare rappresentato dalle corporazioni o, se si preferisce un termine più carezzevole, dalle parti sociali. È così negli stati che funzionano, indipendentemente dal fatto che la politica del governo sia basata sulla coesione sociale, come in Francia, o persino sulla codecisione nel controllo di essenziali temi aziendali, come in Germania. In Italia invece di una dialettica tra interesse generale e interessi particolari, cioè tra burocrazia e corporazioni, vige da sempre uno scambio delle parti, che trova nei distacchi sindacali, o anche simmetricamente nell’esercizio da parte dei sindacati di funzioni pubbliche come l’assistenza fiscale, un’espressione plastica. Si tratta però delle conseguenze di un intreccio conservatore assai profondo e radicato. Il governo fa bene a indicare un simbolo particolarmente evidente della patologia, ma non può illudersi di curarla partendo dai sintomi.

Questo intreccio ha costituito la trama di continuità delle società italiane, dai Comuni in poi, che sostituiva o innervava stati deboli o oligarchie autoreferenziali, ha resistito a tutti i cambiamenti istituzionali, è stato glorificato dal fascismo e rinforzato dall’antifascismo. Così in Italia è senso comune pensare che un segretario generale (di un ministero o di un sindacato) resta, mentre i ministri e i capi partito passano.

Questo intreccio ha per sua natura un carattere conservatore, il che di per sé non sarebbe un male, ma lo ha declinato soprattutto negli ultimi decenni in una chiusura ermetica alle esigenze di riforma che nascono dalla globalizzazione dei mercati, e questa è la ragione che ha visto le varie esperienze politiche di governo bloccate nelle loro volontà o velleità riformistiche. Ora ci prova Matteo Renzi, che ha una condizione di particolare forza politica, dovuta essenzialmente alla debolezza dei suoi competitori e alla comprensione generale dell’esigenza di cambiamento di cui ha fatto una bandiera propagandistica. Merita tutto l’incoraggiamento possibile che, per essere sincero, deve metterlo in guardia contro la faciloneria di misure simboliche che vanno bene per iniziare un processo di riforma e di trasformazione assai più complesso e profondo ma non possono certo sostituirlo.

Numeri, numerini e numeri spaziali

Numeri, numerini e numeri spaziali

Giorgio Santilli – Il Sole 24 Ore

Tornato a Palazzo Chigi, Matteo Renzi si è messo subito al lavoro sugli oltre 100 articoli che gli uffici gli hanno lasciato domenica scorsa dopo il lavoro, durato tutto agosto, di raccolta delle norme del decreto sblocca-Italia dai vari ministeri. A Renzi il testo deve aver fatto la stessa impressione che ha fatto a noi: un corpaccione con molte cose interessanti ma senza un’anima e senza un euro aggiuntivo rispetto a poche, vecchie risorse riprogrammate. Se il decreto vuole essere la risposta ai moniti agostani di Draghi sul rilancio degli investimenti o il biglietto da visita per il Consiglio Ue del prossimo weekend, c’è ancora molto lavoro da fare. Le risorse disponibili ammontano al momento agli 1,2 miliardi del fondo revoche per vecchie infrastrutture mai partite e forse 2,5 miliardi del Fondo sviluppo coesione mai utilizzati. Forse perché gli uffici ministeriali non danno affatto per scontata questa ulteriore posta e l’incontro Renzi-Padoan di lunedì non ha tranquillizzato.

A voler essere generosi si possono inserire nell’orizzonte dello sblocca-Italia un piano per il dissesto idrogeologico che sta cercando di raccogliere almeno un miliardo da revoche (anche qui) di vecchie opere mai partite e un piano depurazione da 1,6 miliardi che non è mai decollato e potrebbe farlo, ammesso che funzioni la ricetta sempreverde dei supercommissari.

I 43 miliardi di cui parla il governo si conferma un numero spaziale, infondato: una farsa come ha scritto il direttore di questo giornale nell’editoriale del 7 agosto. Il governo inserisce l’attivazione di alcune opere infrastrutturali «già finanziate» ma da sbloccare che sono state quantificate con leggerezza in 30 miliardi, ma che a ben guardare ne possono valere 12, intendendo con questo l’avvio entro 12-18 mesi di opere che produrranno poi lavori per 12-15 miliardi in un arco di vita delle opere di 5-6-8-10 anni.

Sulla stima reale di quanto valgano queste opere basta forse rimandare al lavoro puntuale, opera per opera, fatto dal Sole 24 Ore lo scorso 10 agosto e ricordare qualche opera multimiliardaria inserita a sproposito: l’autostrada Orte-Mestre, che pesa per 10,4 miliardi e vedrà forse con il decreto di fine mese aggirare il parere contrario della Corte dei conti alle defiscalizzazioni concesse dal Cipe per 1,9 miliardi, ma dovrà poi fare la gara per individuare il concessionario (oppure confermare il promotore), portare il progetto a livello definitivo, superare un lungo iter autorizzativo e trovare banche e finanziatori per fare in tempi rapidi un closing e poi avviare i lavori. Probabilità che l’opera parta nel giro di un anno o un anno e mezzo: zero. Per altre opere ci sono in quel piano errori grossolani (la ferrovia Messina-Catania-Palermo è conteggiata per 5.250 milioni, cioè il costo totale dell’opera, mentre l’opera ha disponibili solo 2,4 miliardi e il lotto da sbloccare vale 900 milioni). Lasciamo correre opere tutt’altro che facili da sbloccare come la gronda autostradale di Genova (3,2 miliardi) o opere che non hanno nulla da sbloccare come il piano per Fiumicino (2,1 miliardi).

Da premesse tanto incerte nasce quel totale di 43 miliardi. Il discorso andrebbe riportato dentro una cornice più seria e più fattiva: meno numeroni inutili di cui è morta la legge obiettivo, più risorse reali e comunque una selezione di obiettivi strategici per sbloccare piani e opere realmente prioritari. Un’anima, insomma, per evitare il ripetersi di sblocca-Italia che non hanno sbloccato l’Italia e l’hanno invece condannata al più basso Pil d’Europa.

Sindacati pagati dagli iscritti

Sindacati pagati dagli iscritti

Cesare Maffi – Italia Oggi

Non è piaciuta ai sindacalisti la riduzione di distacchi, aspettative e permessi retribuiti. Si sono sprecate le accuse di populismo, di demagogia, perfino di incremento di spesa a seguito del provvedimento con il quale la ministra Marianna Madia, in applicazione dell’articolo 7 del decreto-legge n. 90 sulla pubblica amministrazione (convertito dalla legge 114), ha invitato le organizzazioni sindacali a comunicare quali distacchi intendano revocare.

Invece la novità è altamente positiva, per più motivi.

C’è una ragione di risparmi, evidente. Se un insegnante torna a insegnare anziché continuare a svolgere attività sindacale, non ci sarà più bisogno di assumere un supplente in sua sostituzione. Quand’anche i sindacalisti che rientrano al lavoro avessero poco lavoro da svolgere, un risparmio ci sarebbe quando quel posto fosse cassato dall’organico per superfluità. Similmente il discorso vale per i permessi retribuiti.

C’è un aspetto politico da non trascurare. Matteo Renzi è riuscito dove avevano tentato, senza troppi successi, ministri del passato di vario orientamento. Ha dimostrato di non aver timore reverenziale verso le centrali sindacali. Già si era avvertita la sua allergia alla concertazione. Anche taluni toni quasi sprezzanti indicano la sua mancata subordinazione alla Triplice. Semmai, pur se il passo avanti è importante e meritevole, non è sufficiente.

Il vero obiettivo sarebbe far tabula rasa dei privilegi concessi ai sindacalisti dallo statuto dei lavoratori (non per nulla, poco dopo l’approvazione, vi fu chi parlò piuttosto di «statuto dei sindacalisti». Il principio dovrebbe essere di non mettere a carico della collettività i costi dei sindacati. L’attività sindacale andrebbe pagata dai tesserati, non già indiscriminatamente da tutti i dipendenti, compresi i non aderenti, nel caso delle imprese private, o da tutti i contribuenti, nel caso del comparto pubblico. Posto che la riforma del lavoro è ricorrentemente annunciata (anche se da ultimo attenzione e polemiche si sono concentrate sull’articolo 18), inserirvi anche la revisione delle spese sostenute per i sindacati non sarebbe un fuor d’opera. In parte, si è fatto con i partiti. I sindacati non dovrebbero rimanere esenti.

Municipalizzate, il bene pubblico lo fa il privato

Municipalizzate, il bene pubblico lo fa il privato

Gaetano Pedullà – La Notizia

Il disastro delle Municipalizzate si conosceva. I numeri venuti fuori dallo studio del commissario alla spending review Cottarelli sono però peggiori del peggior incubo. Il sogno delle nostre Regioni, delle nostre Province, dei nostri Comuni di farsi le loro piccole Iri presenta un conto che non possiamo più permetterci. Questa è allora la volta buona per sciogliere l’equivoco su chi deve garantire i servizi essenziali: l’alibi perfetto con cui il pubblico si è messo a fare l’imprenditore pur non avendone le competenze. Il motivo è chiaro: controllando le aziende dei trasporti, dei rifiuti, degli acquedotti e dell’energia la politica ha costruito clientele con cui ha campato per decenni. Gestione clientelare ed efficienza sono però inconciliabili. E il risultato è questa immensa dispersione di risorse. Adesso le solite anime belle obietteranno che certi servizi devono restare pubblici. Abbiamo visto come è andata con il referendum sull’acqua. Se però continuiamo a seguire queste sirene qui tra un po’ non resterà più nulla né di queste aziende pubbliche, né degli enti locali che le controllano e neppure di uno Stato sommerso dai debiti. La migliore garanzia per assicurarci questi servizi, facendoli diventare persino più efficienti, è dunque l’affidamento ai privati. In un mercato regolato da norme e che imponga a chi espleterà i servizi di garantire uno standard adeguato sia dove è più facile guadagnare sia dove lo è di meno. Il successo del privato può essere il successo del pubblico. Chi insiste con una certa demagogia fa il gioco di chi ci sta strozzando di debiti. Anche suoi.

Sfiduciati

Sfiduciati

Davide Giacalone – Libero

L’immagine della locomotiva, riferita alla Germania, fa deragliare molti ragionamenti. In qualche caso, negli ultimi anni, oltre a non trascinare nessuno la Germania è stata trainata. Tenerlo presente aiuta a capire i dati sul calo della fiducia (indice Ifo), da parte delle aziende tedesche: è il quarto ribasso consecutivo e, per giunta, ci si aspettava il calo di un punto (a 107 da 108 di luglio), invece è stato di un 1,7 (106,3). Posto ciò, e prima di guardare dentro al problema, meglio non dimenticare che il prodotto interno lordo tedesco è previsto in crescita di un punto e mezzo, alla fine del 2014, avendo perso mezzo punto rispetto alle previsioni di inizio anno. Noi, invece, abbiamo perso di più (0,6-0,7), rispetto alle previsioni del governo, e chiuderemo a zero o a zero più un nulla, in quel caso festeggiando il non avere chiuso in negativo. Così, giusto perché non sfuggano le differenze, ingigantite dai dati del passato prossimo.

Torniamo alla locomotiva. La Germania sarebbe effettivamente tale se i suoi consumi interni trascinassero le esportazioni di altri paesi europei. Ma non è così. Il modello tedesco, negli ultimi anni, s’è retto su tre pilastri: a. riforme del mercato interno, per rilanciare la competitività; b. basso costo per l’accesso ai capitali; c. esportazioni verso aree extra Unione europea (in questo incorporando importanti componenti made in Italy). La prima cosa è un loro merito (ed è una nostra colpa stare ancora qui a chiacchierare anziché adeguarci). La seconda è stata un coltellata alla schiena degli altri europei, noi per primi, in parte responsabili del loro disordine finanziario, in parte inchiodati da come l’euro è stato concepito e fin qui realizzato. La terza è un legittimo successo, salvo che ora il mondo s’è fatto meno ospitale, sicché le tensioni rendono meno floridi i commerci. A questo aggiungete che il nuovo governo, che ha sempre Angela Merkel come cancelliere, ma una composizione politica che ora comprende i socialdemocratici, ha deciso di indebolire il primo pilastro, puntando all’aumento dei salari minimi. Mettete assieme queste cose e vi spiegherete perché le aziende tedesche nutrono qualche preoccupazione.

Quel modello, comunque, non era una locomotiva per l’economia Ue. Noi italiani siamo stati vicini alla caldaia, a spalare carbone e consentire al ciuf-ciuf di non ansimare. Lo abbiamo fatto pagando il denaro assai più dei tedeschi. E lo abbiamo fatto finanziando gli europei in grave crisi e, con questo, alleggerendo le banche tedesche dai non pochi errori (e orrori) commessi. Il frutto di questi squilibri lo si sente nel cappio che il debito pubblico stringe attorno al nostro collo, costandoci il doppio del deficit consentito. E lo si vede anche nella bilancia commerciale tedesca, patologicamente e irregolarmente in avanzo. A far da controprova che la locomotiva era un vagone letto.

Nel corso di questa estate si sono lette tante cose, circa le ricette economiche da adottare. L’ingrediente più diffuso è stato la novità. C’è bisogno di idee nuove, s’è detto e scritto. Le ricette nuove sono sempre interessanti, se non pretendono di venderti un cecio con sentore di tamarindo quale pasto completo e sofisticato. Però la cucina ha una sua tradizione di ragionevolezza, destinata al nutrimento con soddisfazione. Supporre che i banchieri centrali o i mumble-mumble economici possano trasformare i debiti in ricchezza e la nullafacenza in produttività, non è da ottimisti, ma da illusi. Noi italiani abbiamo bisogno di cose semplici, benché non facili: lavorare di più, più numerosi, con meno tangente fiscale, avendo meno mantenuti sulle spalle. Rozzo? Certo, ma anche un panino al salame può esserlo, restando più convincente del citato cecio. In Europa, invece, ci si deve decidere: o si sta tutti ai parametri, nel qual caso i tedeschi paghino per i loro sforamenti; oppure ci si decide a ricordarsi che siamo l’area più ricca e produttiva del mondo, sicché si potrebbe provare ad accompagnare la politica, e la democrazia, alla moneta comune.

Non c’è modo che questi problemi si risolvano da soli. Mentre è da sciocchi supporre che qualcuno li risolva per noi.

Due regole non scritte

Due regole non scritte

Antonio Polito – Corriere della Sera

Appena sabato scorso Arnaud Montebourg aveva detto a Le Monde che «l’Europa deve fare come Matteo Renzi» e liberarsi dell’«ossessione tedesca per l’austerità». Non gli ha portato bene. Tre giorni dopo è stato licenziato da François Hollande, aprendo a Parigi una crisi di governo di inusitata gravità, solo cinque mesi dopo la nascita dell’esecutivo guidato da Manuel Valls (un altro che è stato spesso paragonato a Renzi).

Naturalmente il ministro dell’Economia francese non è stato punito perché troppo renziano. Anzi, se si vuol stare al paragone con l’Italia, il Don Chisciotte della sinistra d’Oltralpe assomiglia più a un Fassina o a un Bertinotti vecchia maniera. Ma la sua cacciata conferma due leggi della politica europea da cui neanche la Francia si è mai allontanata, e che faremmo bene a tenere sempre a mente anche noi italiani. 
La prima è che delle «due sinistre» quella che non fa i conti con la realtà, che si illude e illude gli elettori di poter tornare all’età dell’oro socialdemocratica facendo deficit e mettendo tasse, è destinata a perdere. Seppure su scala minore, la crisi di Parigi ricorda lo scontro con cui alla fine degli anni Novanta il Cancelliere Schröder si liberò del ministro Lafontaine a Berlino. La rottura della Spd con la sinistra interna diede il via alla stagione di riforme che salvarono la Germania dal declino economico, e aprirono la strada all’era Merkel. Hollande, allo stesso modo, vuole riaffermare la sua autorità sul partito e sul governo proprio mentre è impegnato in un programma di riforme liberali della stagnante economia francese.

La seconda legge che esce confermata dalla punizione di Montebourg è che Parigi, chiunque sia al governo, non guiderà mai un fronte di opposizione alla Germania. La Francia non ha alcun interesse a diventare il capofila dei deboli. Sia perché la sua missione politica è quella di stare nel cuore dell’Europa, sia perché i mercati la premiano finché resta attaccata a Berlino, con tassi di interesse bassi quando non addirittura negativi, nonostante deficit alti e crescita zero. Perché mai Hollande dovrebbe dunque trasformare la sua retorica anti-austerità in un vero e proprio scontro con la Merkel, come il ministro ribelle lo invitava a fare?

È bene dunque non farsi troppe illusioni su presunti assi mediterranei tra Parigi e Roma per piegare Berlino. Ogni Paese deve contare sulla sua credibilità prima di ogni altra cosa. La Spagna, per esempio, ha fatto riforme efficaci dell’economia che le hanno consentito a giugno, insieme al Portogallo, di dire di no alla richiesta italiana di maggiore flessibilità nei conti, e che probabilmente le varranno la nomina di Luis de Guindos alla presidenza dell’Eurogruppo (con il francese Moscovici che conquista l’Economia e la nostra Mogherini piazzata alla Politica estera).

Non abbiamo dunque altra strada che trasformare le promesse e gli annunci della stagione Renzi in realtà. Il nostro governo ha ancora un grande capitale di fiducia da spendere in Europa. Ma deve agire. Riforme radicali della giustizia e del mercato del lavoro sono, nelle prossime settimane, l’unica vera arma di cui dispone. E, come i fatti francesi hanno dimostrato, valgono molto più degli applausi di un Montebourg.

La scure del Pil incombe sull’autunno dell’esecutivo

La scure del Pil incombe sull’autunno dell’esecutivo

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

I fatti iniziano a farsi sempre più chiari. Le due anomalie che l’Italia rappresenta, quella di essere l’unico paese dell’eurozona in recessione e quella di incarnare l’unica economia che al terzo anno di tentate riforme non riesce in alcun modo a far ripartire la crescita e il pil, stanno per arrivare al pettine. Mario Draghi ha parlato da Jackson Hole e ha detto chiaramente che senza le riforme che l’Italia rinvia dal 2011, in primis quella per rendere più efficiente il mercato del lavoro, la Bce non potrà fare molto di più di quanto ha già fatto. Un messaggio chiaro a Matteo Renzi che continua a chiedere una flessibilità che nessuno può concedergli a priori. Anche perché il trimestre in corso sarà chiave per l’Italia. Se, anche in conseguenza di una pessima estate climatica e conseguentemente di una fiacca stagione turistica, il pil di luglio-settembre dovesse registrare un nuovo dato negativo, allora la faccenda per Renzi e per il Belpaese si farebbe davvero grave. Non tanto e non solo perché sarebbe già acquisito a quel punto per il 2014 un calo della ricchezza nazionale dello 0,4-0,5%, con tutto quello che significa in termini di occupazione ed entrate fiscali, ma perché l’Italia diventerebbe automaticamente portatrice di una ulteriore anomalia dell’eurozona: l’unica economia a subire l’ennesimo downgrade da parte della agenzie di rating mentre gli altri paesi registrano promozioni nei giudizi. Se, infatti, il pil scendesse ancora nel trimestre in corso per Moody’s&Co.diventerebbe normale capire se il rating dell’Italia possa essere o meno confermato. Un paese in recessione da tre trimestri, con una disoccupazione giovanile monstre e indebolito da una strisciante deflazione è oggettivamente a rischio di downgrade. Ma per l’Italia perdere un notch, questa volta, equivarrebbe a spalancare le porte di Roma all’arrivo della troika.

Lo spartiacque della crisi stavolta corre lungo gli effetti che i dati a consuntivo del pil del terzo trimestre potranno produrre. Un altro quarter a crescita negativa e la secchiata gelata potrebbe investire il governo Renzi e la sua autonomia di manovra.

Del resto, è stato Renzi a precipitarsi nella villa umbra di Draghi per un confronto sulla situazione e per capire che margini di manovra in assenza delle riforme non ne esistono più. Se è presumibile che la troika sia già a Bolzano, allora al Premier non rimane che un’ultima via di fuga dal commissariamento: scongiurare un nuovo trimestre di pil negativo. Ma la confusione nel dibattito politico italiano e l’assenza di un chiaro programma riformista e di un calendario per attuarlo, certamente non aiutano l’Italia a guadagnare punti con le agenzie di rating. E a Renzi di respingere oltre il Brennero la temuta troika.

La partita che l’Italia rischia di perdere

La partita che l’Italia rischia di perdere

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Dal Consiglio dei capi di Stato o di Governo della Ue di sabato dovrebbero arrivare le designazioni sia dei commissari europei sia del presidente del Consiglio sia dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Sembra che il commissario per gli affari economici e monetari sarà francese, che il presidente del Consiglio (di cui Van Rompuy ha dimostrato l’importanza) sarà spagnolo, che l’Alto rappresentante (di cui la Ashton ha dimostrato l’irrilevanza) sarà italiana.

Noi abbiamo sempre sostenuto che l’Italia doveva avere un commissario per l’economia reale sia con un ruolo di coordinamento tra vari altri commissari sia per varare l’industrial compact. Così avremmo pesato davvero nei prossimi cinque anni sia nel governo economico dell’Europa sia nell’attenuare la linea (per necessità) filotedesca della Francia. Cioè quella del rigore senza crescita. Già ora non sono un buon segnale le dimissioni del governo francese per sbarazzarsi del ministro dell’economia che aveva accusato la politica economica francese di sudditanza alla Germania. Anche se Hollande stesso, sia pure garbatamente, ha più volte espresso riserve sulla politica del rigore.

L’urgenza della crescita. Il prossimo quinquennio istituzionale europeo sarà infatti cruciale per il rilancio della crescita perché la crisi occupazionale della Uem da socio-economica potrebbe diventare istituzionale. Sono preoccupazioni espresse nei giorni scorsi sia da Mario Draghi (con il garbo del suo status) sia più duramente dal premio Nobel Joseph Stiglitz che ha paventato un quarto di secolo di crisi europea se non si fanno investimenti infrastrutturali e non si spinge la domanda. Angela Merkel gli ha risposto direttamente (e forse indirettamente anche a Draghi) confermando la politica del rigore e delle sanzioni (da appesantire!) ai Paesi europei che non rispettano i vincoli di bilancio. Su queste premesse un confronto tra governi sarà inevitabile nei Consigli della Ue dove non basta la determinazione perché ci vuole anche potere e competenza. Carature che Draghi ha, ma che non userà certo per l’Italia essendo il suo ruolo nella e per la Uem.

Le valutazioni di Draghi. Nel recente simposio dei banchieri centrali negli Usa, Draghi scegliendo di trattare della “disoccupazione nell’area euro” ha ricollocato la sua funzione di banchiere centrale in quella ben più ampia di una personalità preoccupata della tenuta della Uem stessa. Così noi interpretiamo liberamente il suo intervento. Egli è stato netto sia sui danni pervasivi di una elevata disoccupazione che diventa crescendo sempre più strutturale in molti Paesi sia sull’urgenza di combatterla accettando il rischio di fare troppo piuttosto che troppo poco. Su questo obiettivo primario Draghi articola (garbatamente) le sue proposte di politica economica a tutto campo (monetaria, fiscale, delle riforme strutturali, per gli investimenti) con riferimento sia alle politiche della domanda che a quelle dell’offerta, per l’Eurozona e i singoli Paesi membri.
In premessa Draghi segnala che la Bce ha fatto e farà tutto il possibile per combattere la disoccupazione (che per noi si coniuga con deflazione-stagnazione) dell’Eurozona. Precisa però che la Bce, date le condizioni iniziali della Uem e i vincoli legali, non ha potuto (diversamente dalla Banche centrali di altri Paesi) attuare un acquisto generalizzato di titoli obbligazionari di Stato (e non) creando moneta (quantitative easing) e così supportando la politica fiscale.

Noi dubitiamo che adesso questa scelta sarebbe efficace nella Uem dove la fiducia s’è volatizzata e per questo preferiamo altre politiche economiche proposte da Draghi per rilanciare la Uem e ridurre la disoccupazione. Continuando nella nostra libera sintesi interpretativa (soprattutto per i riferimenti ai Paesi che egli non cita), Draghi rivolge moniti ai Paesi (come Italia e Francia) che non possono fare politiche espansive dati i vincoli di bilancio, invitandoli a riforme strutturali e ad una migliore composizione tra tassazione (da abbassare) e spesa pubblica (da ristrutturare). Rivolge anche moniti ai Paesi (come la Germania) che possono invece fare politiche espansive della domanda che contribuirebbero alla crescita di tutta l’Eurozona.

La governance dell’Eurozona. Draghi rivolge infine raccomandazioni per una governance dell’Eurozona affinché interpreti le regole di bilancio vigenti in modo flessibile così da ridurre i costi delle riforme e aumentare la crescita nei Paesi più deboli (leggasi scambio flessibilità-riforme) e dia corso a un programma di investimenti pubblici. Queste valutazioni chiariscono che il tempo si è fatto davvero breve e che urge la concretezza delle decisioni da combinare però con riforme a medio termine del governo dell’Eurozona. Ciò significa ripartire dai due programmi del novembre e dicembre 2012 per “un’autentica unione economica e monetaria” elaborati rispettivamente dalla Commissione europea e dai quattro presidenti (Van Rompuy, Barroso, Juncker, Draghi). Sulla loro base il Consiglio europeo del dicembre 2012 ha preso delle deliberazioni che si sono però concentrate sulle prescrizioni di bilancio e sull’Unione bancaria. Tenui sono invece le tracce di politiche per gli investimenti e le infrastrutture salvo un accenno a investimenti pubblici produttivi ricompresi nel quadro di bilancio poliennale della Ue e nel rispetto dei vincoli di bilancio per i singoli Stati. Adesso che la situazione si è fatta (ancora) più grave (anche perché allora non c’era deflazione) vanno forzate le tappe ricollocando i citati programmi per la Uem dentro quello del neo-presidente della Commissione Juncker (si veda il nostro articolo del 20 luglio scorso) e sfruttando le possibilità del Trattato di Lisbona sulle cooperazioni rafforzate dell’Eurozona.

Una conclusione: finanziare gli investimenti. Juncker ha prefigurato infatti un programma di investimenti per 300 miliardi nei prossimi 3 anni ponendo una forte enfasi sull’economia reale, sull’industria, sulle infrastrutture e sulla Bei. Juncker e Draghi, che hanno collaborato spesso, potrebbero dare una scossa alla Uem puntando subito ad una emissione di obbligazioni ventennali della Bei per 100 miliardi sottoscritta dalla Bce. Si potrebbero così spingere gli investimenti infrastrutturali e delle imprese per entità che, anche per i moltiplicatori e per i partenariati pubblico-privati, arriverebbero facilmente ai 300 miliardi del piano Juncker. La Bei darebbe la certezza di investimenti veri senza intaccare i bilanci dei Paesi deboli e così superando anche le obiezioni della Germania alla “golden rule” per i singoli Paesi.

Più poveri e più tassati

Più poveri e più tassati

Nicola Porro – Il Giornale

Questa settimana il governo darà via al cosiddetto Sblocca Italia. Nomi altrettanto evocativi sono stati dati a decreti precedenti. Nonostante ciò l’Italia è ferma al palo. Il governo Renzi ha fatto un passo in più rispetto ai predecessori: ha restituito agli italiani (o meglio solo a una certa fascia ben identificata) 10 miliardi di euro, in forma di riduzione fiscale. Non è poco. Eppure il Pil, il nostro reddito, è diminuito.

Purtroppo il motivo è semplice: gli italiani non si fidano più. Cerchiamo di essere un po’ più specifici. Ogni riduzione fiscale dovrebbe generare una maggiore propensione media al consumo. E per questa via creare maggiore prodotto e reddito. Si spende di più, le aziende così vendono e assumono. La riduzione fiscale di Renzi (prevista anche per gli anni prossimi) serve a poco per il Pil e molto per chi comunque la incassa e gode di un extrareddito disponibile. Non alimenta la nostra produzione per due ragioni di fondo.

La prima la spiega il presidente della Confedilizia nelle pagine interne. Le diverse patrimoniali sulla casa ci hanno reso più poveri per duemila miliardi. La seconda è che (come dimostra il dibattito estivo) siamo incerti sul futuro fiscale che ci attende: nuove imposte, varate dai passati governi, ma solo oggi in vigore, contributi vari sulle pensioni, riforma delle regole sulle detrazioni fiscali rendono lo scenario tributario a 12-18 mesi fosco. Ebbene nessuna riduzione fiscale avrà mai un effetto positivo sulla produzione se chi ne gode si sente, al tempo stesso, più povero e in prospettiva più tassato.

Si può uscire da questa impasse ? La prima strada è quella di riscrivere un contratto fiscale con gli italiani (tutti, senza distinzione di censo) dicendo loro che le patrimoniali sugli immobili verranno riportate alla situazione pre 2011. Prendiamo atto che quelle imposte hanno impoverito gli italiani più di quanto abbiano arricchito lo Stato. Si dovrebbe poi concentrare lo sforzo di riduzione fiscale sulle imprese. L’elargizione degli 80 euro a dieci milioni di italiani (come bene aveva previsto nel 1958 Milton Friedman) ha un effetto moltiplicatore sul Pil molto inferiore di quello che avrebbe una riduzione fiscale più forte a un milione di imprese.