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Investimenti pubblici giù: crescita a rischio

Investimenti pubblici giù: crescita a rischio

IL GIORNALE del 17 febbraio 2016

L’Italia sembra prendersi cura del cuore della propria economia alle prese con la crescita mancata abbassando i livelli di colesterolo buono. Il tutto mentre il premier Matteo Renzi, nonostante la doccia gelata della frenata del Pil a fine anno, continua a vedere un Paese «in crescita». A testimoniare una strategia non esattamente lungimirante del governo sono i dati Eurostat elaborati in uno studio da ImpresaLavoro, che rimarcano come, tra l’epicentro della crisi e il 2014, l’Italia abbia lavorato con l’accetta sulla spesa pubblica per investimenti, ostacolando lo sviluppo invece di concentrare la spendíng review su settori e centri di spesa che non contribuiscono certo all’uscita dalla crisi.

Le cifre sono impietose. Nel 2009 gli investimenti pubblici ammontavano a 54,1 miliardi di euro, ma in cinque anni sono scesi di poco meno di 20 miliardi, attestandosi, nel 2014, a 35,6 miliardi. Un calo del 34,1 per cento, in conseguenza del quale solo il 2,2 del Pil italiano viene insomma speso in investimenti, in caduta libera anche rispetto al rapporto con il prodotto interno lordo: -1,2 per cento sul 2009. È vero però che il trend non è solo italiano, ed è comune al Vecchio continente. L’Eurozona ha visto una contrazione della spesa per investimenti pubblici di 62 miliardi e mezzo di euro, mentre la frenata nell’Unione europea è più contenuta (-47,770 miliardi). Ma il «taglio» italiano pesa per il 38 per cento del totale Ue e per il 30 per cento dell’area Euro, e anche il calo nel rapporto tra investimenti e Pil da noi è superiore alla media europea (-0,9 nell’Eurozona, -0,8 nell’Europa dei 28).

Nel dettaglio, in valore assoluto il colpo d’ascia agli investimenti pubblici è inferiore solo alla Spagna (-33,3 miliardi), mentre il calo della spesa in rapporto al Pil all’1,2 per cento ci vede appaiati alla Grecia. Oltre a Madrid, sul fronte della spesa pubblica per investimenti hanno fatto peggio di noi solo Cipro, Portogallo, Croazia, Irlanda, Romania, Estonia e Repubblica Ceca. Germania, Francia e Gran Bretagna, invece, ci precedono, tutte con un indice di investimenti rispetto al Pil migliore delle medie europee.

Che il punto sia decisivo per l’uscita dalla crisi lo ha rimarcato anche il presidente della Bce Mario Draghi, ricordando come la blanda ripresa finora abbia avuto proprio la banca centrale dell’Ue come unico pungolo: «Circa la metà della ripresa degli ultimi due anni – ha spiegato Draghi due giorni fa alla Commissione per gli Affari economici del Parlamento europeo – è stata dovuta alla nostra, unica, politica di stimolo. L’altra metà della crescita del Pil della zona euro è stata dovuta al basso prezzo del petrolio». Gli investimenti invece «restano deboli», ha ricordato Draghi, auspicando che «le politiche di bilancio» si preoccupino di fare la loro parte nel sostenere la ripresa «tramite investimenti pubblici e una tassazione più bassa». Il messaggio, forte e chiaro, sembra diretto a Matteo Renzi. Non si tagliano i costi burocratici e di gestione, facendo così gli interessi delle caste pubbliche, mentre si toglie respiro alle imprese. Quello che l’Italia al tempo di Renzi sta perdendo è il futuro.

Partecipate: Renzi dice di tagliare, ma gli enti locali spendono di più

Partecipate: Renzi dice di tagliare, ma gli enti locali spendono di più

di Sara Dellabella – L’Espresso

Nonostante la parola d’ordine sia “tagliare”, gli enti locali continuano a spendere e spandere nelle società partecipate. Un dossier di ImpresaLavoro, centro studi che si occupa dei temi legati al lavoro e all’economia, mostra che negli ultimi quattro anni i trasferimenti per le partecipazioni pubbliche sono lievitati del 35 per cento, per una somma che sfiora un miliardo di euro.

Eppure, l’obiettivo più volte annunciato da Renzi è quello di una drastica riduzione del numero delle società partecipate per arrivare entro la fine dell’anno a quota mille. C’è da dire però che nonostante ripetuti tentativi nessuno è stato in grado di indicare con precisione quale sia il numero di partenza.

Il Ministero del Tesoro ne conta 7.700, il dipartimento delle Pari Opportunità di Palazzo Chigi oltre 10 mila, tanto che l’ex Commissario alla spesa pubblica, che si era prodigato nell’impresa, era arrivato a definirla una “giungla azionaria” che costa alle casse pubbliche circa 26 miliardi di euro l’anno. In moltissimi casi si tratta di partecipazioni che non superano il 10 per cento, in società che oltre a svolgere i servizi essenziali come trasporti, raccolta rifiuti, distribuzione di acqua, luce e gas, si occupano anche di impianti di risalita, spiagge, farmacie, stabilimenti termali, campi da golf, casinò, cantine sociali, produzioni casearie e tanto, tanto altro ancora. E l’obiettivo del governo è proprio quello di mettere un freno alla fantasia.

Negli ultimi decreti attuativi della riforma della Pubblica Amministrazione è previsto che siano proprio gli enti locali a fare il censimento delle proprie aziende partecipate, provvedendo a chiudere quelle che da più di tre anni hanno i bilanci in rosso. La Corte dei Conti recentemente ha stimato che, queste ultime, su scala nazionale siano più di un terzo e più di mille quelle che hanno solo l’amministratore delegato e nessuna struttura.

Nonostante le ripetute esortazioni di Palazzo Chigi a ritirarsi dalle società che non gestiscono servizi essenziali, gli enti locali hanno fatto orecchie da mercante. Tra il 2011 e il 2014, la spesa erogata a favore di imprese private e pubbliche (con l’esclusione delle aziende sanitarie e ospedaliere) è rimasta costantemente al di sopra degli 8 miliardi di euro, andando a finanziare anche società che senza la costante iniezione di denaro pubblico sarebbero già fallite.

Il 77 per cento di questa spesa è gestito direttamente dalle Regioni, per un dato annuo che è rimasto complessivamente stabile tra il 2011 e il 2014 intorno ai 6 miliardi e mezzo di euro. Il residuo 23 per cento, invece, è di competenza dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Unioni di Comuni, con quote piuttosto variabili che sono oscillate tra gli 1,7 e i 2,2 miliardi di euro.

Ma quanto grava la spesa per le partecipate su ogni cittadino? Il record se lo aggiudica il Trentino Alto Adige con 295 euro, seguita dalla Val D’Aosta dove si spendono 205 euro pro capite. Chiudono la classifica i cittadini calabresi e molisani, dove la spesa è appena di 8 e 5 euro. Ma stavolta le regioni del sud nessuna maglia nera perché le società partecipate in Italia, si sa, trovano la loro ragione d’esistere soprattutto per dare un’occupazione agli “amici di” e ai trombati della politica.

Flop da spending review: tagli alle imprese, più soldi alle partecipate

Flop da spending review: tagli alle imprese, più soldi alle partecipate

di Leonardo Ventura – Il Tempo

La spending review non ha colpito le partecipate. I piani messi in campo negli ultimi anni non hanno frenato il trend della spesa. Nel periodo compreso tra il 2011 e il 2014 ,la spesa degli enti locali erogata a favore di imprese private e pubbliche (con l’esclusione delle aziende sanitarie e ospedaliere) è rimasta costantemente al di sopra degli 8 miliardi. E nel 2015, anno per il quale non sono ancora disponibili dati definitivi, questa cifra non sembra aver subìto variazioni significative. È questo il dato complessivo che emerge da una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione dei dati contenuti in Siope, il Sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici.

La variazione più evidente, negli anni presi in considerazione dalla ricerca, è quella che ha riguardato la distribuzione di questi trasferimenti e partecipazioni tra la quota destinata alle imprese pubbliche e quella riservata alle imprese private. A livello nazionale, infatti, la spesa degli enti locali per le partecipazioni pubbliche è aumentata – tra il 2011 e il 2014 – di quasi un miliardi (+35%), mentre 1’importo destinato alle imprese private è calato di circa 800 milioni (-17%). Il 77% di questa spesa è gestito direttamente dalle Regioni, per un dato annuo che è rimasto complessivamente stabile tra il 2011 e íl 2014 intorno ai 6 miliardi e mezzo. Il residuo 23%, invece, è di competenza dei Comuni, delle Province, delle Cíttà metropolitane e delle Unioni di Comuni, con quote piuttosto variabili che sono oscillate tra gli 1,7 e i 2,2 miliardi.

Scomponendo il dato che riguarda i trasferimenti verso le imprese pubbliche la ricerca ha individuato una componente stabile e costante – pari a oltre 1,4 miliardi – rappresentata dai trasferimenti correnti operati dalle Regioni (1,1 miliardi) e dagli altri enti locali. Più variabili, invece, i dati dei contributi in conto capitale, che sono praticamente raddoppiati dal 2011 (circa 770 milioni) al 2014 (1,5 miliardi). Crescono tendenzialmente, anche se in modo meno evidente, le partecipazioni azionarie nelle imprese pubbliche (arrivate a 244,5 milioni nel 2014). Mentre il dato sul ripianamento delle perdite, pur residuale, è pesato comunque per oltre 166 milioni nel 2014. Infine, la spesa verso le imprese speciali (le cosiddette «municipalizzate»), composta quasi interamente da trasferimenti correnti di Comuni e Province, resta stabile al di sopra dei 300 milioni all’anno.

Per quanto riguarda le imprese private, la voce più rilevante (che è anche quella più colpita dai tagli degli ultimi anni) resta quella dei trasferimenti in conto capitale a carico delle Regioni, che nel 2011 erano pari a 2,7 miliardi ma che sono scese fino ai 2,1 miliardi nel 2014. La diminuzione dei contributi alle imprese private si nota anche nei trasferimenti correnti delle Regioni: dai quasi 1,5 miliardi del 2011 agli 1,2 miliardi del 2014. Stabili, invece, i trasferimenti da parte di Province e Comuni. A guidare la classifica della spesa pro-capite verso le imprese pubbliche e speciali sono le tre Regioni Autonome del Nord Italia – Trentino Alto Adige, Val d’Aosta e Friuli Venezia Giulia – i cui enti locali spendono rispettivamente 295, 205 e 116 euro per abitante. Agli ultimi posti si piazzano invece Molise e Calabria, che spendono meno di 10 euro per abitante.

Friuli generoso con le imprese pubbliche, terzo in Italia per contributi

Friuli generoso con le imprese pubbliche, terzo in Italia per contributi

MESSAGGERO VENETO del 9 febbraio 2016

Il Friuli Venezia Giulia, insieme a Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, guida la classifica della spesa pro-capite verso le imprese pubbliche e speciali. Le tre Regioni autonome spendono, attraverso gli enti locali, rispettivamente 116, 205 e 295 euro per abitante. Agli ultimi posti si piazzano invece Molise e Calabria, che spendono meno di 10 euro per abitante.

Negli anni tra il 2011 e il 2014, la spesa degli enti locali erogata a favore di imprese private e pubbliche (con l’esclusione delle aziende sanitarie e ospedaliere) è rimasta costantemente al di sopra degli 8 miliardi di euro. E nel 2015, anno per il quale non sono ancora disponibili dati definitivi, questa cifra non sembra aver subito variazioni significative. È questo il dato complessivo che emerge da una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro realizzata su dati Siope, il Sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici.

La variazione più evidente, negli anni presi in considerazione dalla ricerca, riguarda la distribuzione di trasferimenti e partecipazioni tra la quota destinata alle imprese pubbliche e quella riservata alle imprese private. A livello nazionale, infatti, la spesa degli enti locali per le partecipazioni pubbliche è aumentata, tra il 2011 e il 2014, di quasi un miliardo di euro (più 35 per cento), mentre l’importo destinato alle imprese private è calato di circa 800 milioni di euro (meno 17 per cento).

Il 77% di questa spesa è gestito direttamente dalle Regioni, per un dato annuo che è rimasto complessivamente stabile tra il 2011 e il 2014 intorno ai 6 miliardi e mezzo di euro. Il residuo 23 per cento, invece, è di competenza dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Unioni di Comuni, con quote piuttosto variabili che sono oscillate tra gli 1,7 e i 2,2 miliardi di euro.

Crescono tendenzialmente, anche se in modo meno evidente, le partecipazioni azionarie nelle imprese pubbliche (arrivate a 244,5 milioni nel 2014). Mentre il dato sul ripianamento delle perdite, pur residuale, pesa comunque per oltre 166 milioni nel 2014. La spesa verso le imprese speciali (le cosiddette “municipalizzate”), resta stabile al di sopra dei 300 milioni di euro all’anno ed è composta quasi interamente da trasferimenti correnti di Comuni e Province,.

Per quanto riguarda le imprese private, la voce più rilevante resta quella dei trasferimenti in conto capitale a carico delle Regioni, che nel 2011 erano pari a 2,7 miliardi di euro ma che sono scese fino ai 2,1 miliardi nel 2014.

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Spread, la crisi ci è costata 50 miliardi

Spread, la crisi ci è costata 50 miliardi

di Antonio Signorini – Il Giornale

La crisi dello spread, cioè l’esplosione degli interessi sul debito pubblico italiano, è costata alle casse dello Stato 50 miliardi di euro. Cifra che rappresenta la differenza tra la spesa degli interessi nel clou dell’emergenza e quanto lo Stato avrebbe pagato per il servizio del debito in una situazione normale. La stima è contenuta in una analisi realizzata centro studi ImpresaLavoro. Gli anni presi in considerazione sono quelli dal 2008 al 2015. Il primo picco della crisi nel 2011, con i tassi dei Btp decennali a rendimenti di cinque punti superiori rispetto a quello dei Bund tedeschi. Il governo Berlusconi fu costretto alle dimissioni e si insediò Mario Monti. Gli spread tornarono comunque a salire fino a quota 537.

Per capire cosa ha significato per le casse pubbliche, quindi per i cittadini, ImpresaLavoro ha ipotizzato uno scenario diverso, applicando al periodo 2011/2013 la media del prezzo cedolare e del prezzo di aggiudicazione del periodo 2011/2013, su tutti i titoli di Stato. La differenza in spesa per interessi che emerge è appunto 50 miliardi. Una spirale che ci avrebbe portato a picco, se Mario Draghi non avesse proposto e ottenuto il Fondo salva Stati annunciando che la Bce avrebbe fatto «tutto il necessario» per salvare 1’euro. Cinquanta miliardi sono la misura della sfiducia degli investitori internazionali nei confronti dell’Italia.

E il sostegno di Francoforte non può essere l’unica soluzione, sottolinea Massimo Blasoni, presidente del centro studi ImpresaLavoro. «Nei primi undici mesi del 2015 – sottolinea l’imprenditore – il nostro debito pubblico è aumentato di ulteriori 76 miliardi di euro e per ora scende soltanto nelle previsioni del governo, tutte da confermare, per gli anni a venire. Una riedizione di quanto avvenuto nel 2011 è stata sin qui scongiurata dall’attivismo della Bce e di Draghi ma l’alto debito pubblico del nostro paese ci espone costantemente al rischio di finire in balia delle turbolenze dei mercati finanziari con costi molto alti, sia dal punto di vista economico che politico». Il Quantitative Easing non può influire sulla «debolezza delle nostre banche che è un riflesso della debolezza di un paese troppo indebitato». Quindi, sottolinea Blasoni, l’unico modo per evitare altre crisi è «rimettere in ordine i nostri conti pubblici, riducendo il nostro debito. Un’operazione che, numeri alla mano, al governo non sta riuscendo».

Qualche segnale dei possibili rischi emerge anche dalle tabelle dello studio. Nel 2015 la media del prezzo dei Btp a dieci anni è sempre sopra 100, così come la richiesta di titoli. Ma entrambi gli indici sono in calo di circa tre punti rispetto al 2014. La sfiducia rischia di essere più forte della Bce.

Truffe e tasse, perché da noi è così difficile vendere online

Truffe e tasse, perché da noi è così difficile vendere online

di Gianluca Baldini – Il Venerdì di Repubblica del 22 gennaio 2016

Se volete aprire un sito di e-commerce forse l’Italia non sembra essere il Paese che fa per voi. Negli ultimi 12 mesi, secondo una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Eurostat, solo il 26 per cento dei cittadini italiani di età compresa trai 16 e i 74 anni ha effettuato online l’acquisto di almeno un bene o servizio. Il nostro Paese si colloca cosi al quart’ultimo posto di questa particolare classifica europea, appena sopra Cipro (23 per cento), Bulgaria (18) e Romania (11). Ai vertici della graduatoria 2015 si collocano invece i consumatori di Regno Unito (81 per cento), Danimarca l79), Lussemburgo (78) e Germania (73). 

«In Italia usiamo poco il computer e Internet in genere», spiega al Venerdì Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Incidono fattori tecnici come la scarsa velocità della rete ma anche e soprattutto aspetti psicologici: gli italiani non si fidano ad acquistare online, sono abituati a usare il contante piuttosto che le carte di credito e temono le truffe digitali». Analizzando le scelte dei consumatori negli ultimi tre mesi, si osserva poi come resti bassissima la frequenza degli acquisti (quasi sempre uno o due acquisti a testa, solo il 5 per cento ne ha effettuato da 3 a 5) e comunque per importi che non superano quasi mai la soglia dei 500 euro. Nell’ultimo anno i beni più acquistati dagli italiani sono stati viaggi e vacanze (11 per cento) e vestiti (10). Curiosamente, solo il 2 per cento ha deciso di affidarsi alla rete per l’acquisto di tecnologia o servizi di telecomunicazione.

Ma qualcosa sta cambiando. «Da una parte è vero che negli ultimi anni in Italia si sta seguendo un trend di crescita positivo. Una crescita simile a quella degli altri Stati europei che però sono più avanti in termini assoluti», spiega Dario Tana, consulente di e-commerce che aiuta le aziende a fare business in rete. «Dall’altra alcune aziende italiane hanno un sito che però utilizzando come una semplice vetrina senza nessuna strategia per farlo diventare un business. Inoltre aprire un’azienda in Italia che voglia vendere online non e facile: colpa della troppa burocrazia e della tassazione elevata».

Con l’Ue è più dare che avere: 72 miliardi per contare zero

Con l’Ue è più dare che avere: 72 miliardi per contare zero

Il Giornale del 22 gennaio 2016

Chiedete a un tedesco mediamente informato (compresi alcuni giornalisti che lavorano nello Stivale) quale è il rapporto tra l’Italia e l’Europa. La risposta in molti casi sarà: prende soldi. Pregiudizio duro a morire. Quando Der Spiegel – autorevole settimanale di target medio alto – provò a dimostrare il contrario, forte dei dati della direzione bilancio della commissione Ue, sul web comparvero commenti poco lusinghieri per l’Italia. Il Centro studi ImpresaLavoro ieri ha messo in fila quattordici anni di rapporti finanziari tra l’ltalia e Bruxelles. Dove nel dare ci stanno i finanziamenti diretti dello Stato all’Ue e la quota di imposte girate alla contabilità europea; nell’avere i contributi arrivati nella penisola attraverso i vari programmi europei. Il risultato è una serie ininterrotta di segni meno, cioè un saldo negativo per l’Italia e positivo per le istituzioni europee. Come se non bastasse lo sbilancio a favore dell’Europa è cresciuto ininterrottamente con il tempo, anche negli anni più difficili per le casse pubbliche italiane.

Dal 2000 al 2014 la somma di tutte le posizioni nette è di 72 miliardi. Ne abbiamo versati 213 e incassati 141. Contributori netti, senza nessun dubbio. Siamo a pieno titolo nel club dei Paesi che pagano un biglietto di prima classe per l’Ue. Anzi, in rapporto al Pil, siamo quelli che fanno maggiori sacrifici. Colpisce la progressione del saldo tra entrate e uscite. Una «tendenza preoccupante», per il Centro studi fondato da Massimo Blasoni. «Se infatti il 2000 si era chiuso con una differenza di poco superiore al miliardo di euro», questa forbice «si è andata progressivamente espandendo, fino a raggiungere i 4,2 miliardi del 2005 e i 7,3 miliardi del 2013 (17,1 in uscita e 9,8 in entrata)». Di 213 miliardi italiani finiti nel budget europeo, quasi 45 vengono dalla quota di Iva che va alle istituzioni Ue. Le risorse proprie dell’Unione, quelle provenienti da dazi, sono appena 22 miliardi, circa 1,4 all’anno. Tutto il resto è contabilizzato sotto la voce «reddito nazionale lordo». Cioè è la somma variabile che viene assegnata a ciascuno Stato membro. Sul fronte delle entrate, ben 74 miliardi sono riferibili al Fondo europeo agricolo di garanzia. Segue il Fondo europeo di sviluppo regionale con 35,7 miliardi, poi il Fondo sociale europeo con 15,4 miliardi.

La progressione dei versamenti è costantemente in crescita. Con la sola eccezione del 2006, 2007 e 2010 quando calarono. Le entrate hanno invece un andamento molto irregolare. La conferma che il problema è anche nazionale, cioè la scarsa capacità di spendere risorse europee. L’Italia è un contributore sempre più importante per l’Europa. Ma «a questo dato di fatto – commenta Blasoni – non corrisponde un ruolo altrettanto importante nelle dinamiche politiche europee. Ogni Paese, infatti, tende ancora a difendere i propri interessi nazionali senza alcuna solidarietà: dalle banche agli immigrati, senza dimenticarci i vincoli di bilancio, sono ancora molti i fronti aperti con Bruxelles. Questo però non può diventare un alibi: il nostro è un Paese ancora lontano dalla ripresa economica, con una pressione fiscale non più sostenibile e il fardello del debito pubblico che continua a crescere». La questione delle risorse resta centrale per l’Europa. La recente crisi italo-europea è stata causata principalmente dai contributi per la Turchia, che l’Italia vuole contabilizzare nel bilancio Ue.

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Pil italiano ancora pecora nera Ue, è l’unico rimasto in crisi

Pil italiano ancora pecora nera Ue, è l’unico rimasto in crisi

di Tommaso Montesano – Libero del 17 gennaio 2016

E quattordici. Per il 14esimo anno consecutivo, il Pil italiano è cresciuto a un ritmo inferiore rispetto alla media dei Paesi Ue. Una differenza che è oscillata, certifica una ricerca realizzata per Libero dal centro studi ImpresaLavoro su dati Ocse, tra un minimo dello 0,4% nel 2010 e un massimo del 2,3% nel 2012. Nel 2015 lo scarto è stato di un punto percentuale.

Conclusione: con questi ritmi di crescita, la strada per far tornare l’Italia ai livelli pre-crisi «sembra ancora molto lunga». Del resto, ricorda ImpresaLavoro, tra le democrazie occidentali più avanzate «solo Italia e Spagna sono ancora al di sotto dei livelli precedenti al terremoto finanziario». Francia e Germania, invece, sono emerse dalle secche fin dal primo trimestre del 2011. Nel penultimo trimestre dello stesso anno è arrivata anche la ripresa degli Stati Uniti. Il Regno Unito, invece, ha dovuto attendere fino al secondo trimestre del 2013, ma alla fine ce l’ha fatta a riemergere.

ImpresaLavoro fa suonare il campanello d’allarme anche in relazione alle aspettative italiane. La Spagna, infatti, che pure condivide con l’Italia il segno negativo, cammina più velocemente sulla strada della ripresa. Nell’ultimo trimestre del 2015, infatti, il Pil di Madrid ha raggiunto il 95,8% di quello pre-crisi. In Italia, invece, nello stesso periodo siamo ancora fermi al 91,8%.

«L’Italia ha un problema strutturale di crescita e le variazioni leggermente positive di quest’anno, se confrontate con il resto d’Europa, confermano purtroppo le nostre difficoltà», afferma Massimo Blasoni, imprenditore e presidente di ImpresaLavoro. Anche perché a un quadro così complesso, sostiene Blasoni, «vanno aggiunti un deficit e un debito che continuano a non scendere e che rappresentano una seria ipoteca sulla tenuta dei nostri conti in futuro. Sono i numeri i primi a certificare che non stiamo uscendo dalla crisi». Per intercettare la ripresa, infatti, «servirebbero tassi di crescita simili a quelli di Regno Unito e Spagna, superiori rispettivamente al 2 e al 3%».

Con una crescita annua dello 0,8% – quella del 2015 – l’Italia dovrà aspettare fino al 2026 per tornare ai livelli del 2008. Crescendo a ritmi compresi tra l’1,3 e l’1,6%, come prevede lo scenario tratteggiato dal governo italiano, la nostra economia tornerà alla situazione pre-crisi tra il 2021 e il 2022.

La ricerca evidenzia anche come siano le riforme il motore della crescita. La Germania ne è l’esempio. Fino al 2006, il Pil italiano è cresciuto ad un ritmo più sostenuto di quello tedesco. Poi, sull’onda delle riforme approvate dal governo di grande coalizione, Berlino ha messo la freccia. «Dal 2006 ad oggi l’andamento del Pil tedesco è stato nettamente superiore a quello del nostro Paese, con la sola eccezione del 2009». Di più: negli ultimi dieci anni, mentre l’Italia ha perso in media quattro punti decimali di Pil all’anno, la Germania ha fatto registrare un più 1,4%.

Lavoro, la Liguria regina del Nord

Lavoro, la Liguria regina del Nord

di Massimo Minella – La Repubblica (ed. Genova)

Morde ancora la crisi, ma qualcosa inizia a cambiare. I primi segnali della ripresa avvertiti a inizio anno trovano adesso conferma nell’analisi di fine 2015. A scattare la fotografia è il centro studi ImpresaLavoro che, elaborando ì dati Istat riflette sugli ultimi “sette anni di guai”, ma anche sull’ultimo che stiamo per lasciarci alle spalle. Un anno ancora pesante sul fronte dell’occupazione, in cui però emergono alcuni segnali da non sottovalutare, soprattutto in regioni che hanno fatto leva sulle proprie peculiarità per provare a ripartire. Ed è proprio il caso della Liguria, che può contare su un sistema portuale forte, su un export competitivo e su settori di nicchia che continuano a tenere alta la bandiera del “made in Italy”, come l’alimentare e la nautica.

Se a questo si aggiunge la nuova normativa sul lavoro, con le assunzioni “a tutela crescente” varate di recente dal Jobs Act, allora quei flebili segnali che si avvertivano già a inizio anno ora si fanno più evidenti. Intendiamoci, la situazione resta critica, la disoccupazione giovanile continua a essere sempre molto al di sopra del livello di guardia e la piccola e media industria continua a far fatica, stretta fra la morsa del credito e il peso della burocrazia. Ma qualcosa sembra finalmente muoversi.

Si vedrà nel 2016 se questi dati potranno o meno trovare conferma. Per ora siamo alle analisi di quanto accaduto dall’esplosione della grande crisi a oggi. ImpresaLavoro prende infatti in esame gli ultimi sette anni, dal 2008, inizio della recessione, al 2015. Un arco di tempo in cui sono stati bruciati ben 656.911 posti di lavoro. Solo Lazio e Trentino Alto Adige hanno oggi livelli occupazionali superiori a quelli fatti segnare prima della crisi. Per tutti gli gli altri flessione, compresa ovviamente la Liguria, in calo del 4,01%. Nell’ultimo anno preso in esame dalla ricerca, il 2015, lo scenario è però cambiato. I dati al terzo trimestre 2015 fanno infatti segnare complessivamente un aumento di 154mila occupati base annua.

In valori assoluti la regione in cui si sono creati più nuovi posti di lavoro è la Puglia (+38.700), seguita dalla Toscana (+23.200), dalla Sicilia (+19.600) e dalla Sardegna (+18.200). Al Nord il primato è della Liguria, che cresce addirittura di più in termini numerici della Lombardia (12mila nuovi assunti contro 8.500, su un totale di 34mila), mentre arretra il Veneto che perde 10.800 posti di lavoro. In termini percentuali è un +2,01%, Nessuno ha fatto meglio. Certo, sarebbe un grave errore considerare già vinta una partita (quella della ripresa) che è soltanto all’inizio e su cui insistono ancora parecchi ostacoli. Ma adesso guardare al futuro prossimo dell’economia ligure potrebbe fare meno paura.

Un’azienda su tre ha crediti insoluti

Un’azienda su tre ha crediti insoluti

di Mirko Molteni – Libero

Alla faccia dei proclami del governo, la disoccupazione resta al primo posto fra le urgenze. Lo conferma l’analisi divulgata ieri dal Centro Studi Impresa Lavoro. Per il periodo dal 2008 al 2015 l’Italia ha perso ben 656.911 occupati, pur con distinguo territoriali. Sta peggio il Sud, che ha perduto 486.000 posti, mentre il Nord segue con 249.000. Nel Centro c’è però un aumento di 78.000 unità, a tamponare l’emorragia. Il saldo positivo del Centro è dovuto ai 116.000 posti di lavoro in più registrati nel solo Lazio, complice il settore pubblico, mentre l’altra sola regione dove il numero di occupati è superiore rispetto a 7 anni fa è il Trentino Alto Adige, con +20.000. In proporzione alla popolazione lavorativa, ha sofferto di più la Calabria, col -14,83 %. In Lombardia gli occupati sono calati solo dello 0,66%. Friuli, Veneto e Liguria perdono in media il 4 % degli occupati.

Poche luci e molte ombre, insomma, tanto che il presidente del Centro Studi, l’imprenditore Massimo Blasoni, commenta: «L’occupazione è lontana dai livelli pre-crisi. La ripresa è debole e rischia di non tradursi in un recupero dei posti di lavoro persi dal 2008 ad oggi». Conferma che rimedi degli ultimi mesi, come Jobs Act e detassazioni «sono serviti principalmente a trasformare contratti». Dati parziali del terzo trimestre 2015, rispetto a un anno prima, segnano un recupero di 154.000 posti di cui 89.000 al Sud, 34.000 al Nord e 31.000 al Centro. Negli ultimi mesi il Meridione recupera terreno. Ma poca roba.

Altri brutti segnali arrivano dal fronte dei crediti e delle lungaggini di pagamento alle imprese, che pure contribuiscono a far assumere poco. Un rapporto di Confartigianato Marca Trevigiana indica che il 28 % delle piccole e medie imprese venete attende anche due anni e mezzo prima che i debitori saldino le commesse, causa la complicazione dei concorsi pubblici e della burocrazia. Nota il presidente dell`associazione, Renzo Sartori: «Ci sono imprese sane che chiudono a causa di committenti sfortunati, ma anche per committenti scaltri o peggio ancora disonesti». E ricordando che in media il 2% del bilancio delle aziende è in negativo dovuto a questi ritardi, Sartori invita le pubbliche amministrazioni ad appalti più snelli e che premino le imprese più oneste.