Avvenire

Crisi italiana: quelle divergenze tra Bce e Bankitalia

Crisi italiana: quelle divergenze tra Bce e Bankitalia

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Su cosa verte la differenza di punti di vista tra Italia ed Unione Europa sulle circostanze eccezionali del Fiscal Compact che consentirebbero una deviazione dalle regole sull’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni (ossia il deficit), oltre al rinvio del pareggio di bilancio? Il nodo del problema è quello che in lessico economico viene chiamato l’output gap (letteralmente ‘divario produttivo’), ossia il differenziale tra Pil potenziale e Pil effettivo. Prima della crisi, nel 2008, la Commissione Europea, il Fondo monetario, e l’Ocse stimavano attorno all’1,3% la crescita potenziale del Prodotto interno lordo dell’Italia. Per avere un paragone, i ‘piani triennali’ dell’inizio degli Anni Ottanta la ponevano sul 22,5%, spiegando che è quello che già allora ci si poteva aspettare da un Paese con una popolazione anziana, un apparato produttivo non modernizzato eccetto che in certe nicchie specifiche, ed un’amministrazione pubblica tutt’altro che efficiente. Le stime econometriche che giungevano ad un potenziale di crescita dell’1,3% tenevano conto dell’evoluzione avvenuta negli ultimi trent’anni (non positiva né sotto l’aspetto demografico né sotto quello dell’apparato produttivo), nonché dal peso del debito che incide comunque sulla crescita.

Nel 2010 il servizio studi della Banca d’Italia ha pubblicato uno studio che esaminava il periodo 1999-2005 (ossia gli anni che hanno preceduto la crisi) e poneva l’output gap del nostro paese tra lo 0,5% e lo 0,7% del Pil. Se la crescita potenziale è lo 1,3%, quella effettiva si poneva quindi attorno tra lo 0,8% e lo 0,6%. Mentre di recente, l’Ocse ha stimato l’output gap dell’Italia a -5 punti percentuali del Pil. Una chiara giustificazione di ‘circostanze eccezionali’.

La Banca centrale europea ha reso pubblico sul suo sito da meno di una settimana uno studio firmato da un gruppo di economisti. Non sono stati pubblicati lavori della Commissione Europea, ma si intende che le stime di Bruxelles coincidono con quelle di Francoforte. Il lavoro analizza gli effetti della crisi economica sui tassi di crescita potenziali, utilizzando una vasta gamma di modelli econometrici, e confronta l’eurozona con gli Stati Uniti ed il Giappone. Per l’Italia il Prodotto interno lordo potenziale sarebbe attorno al livello zero per l’anno 2013, proprio in quanto non sono state fatte le riforme sulle strutture dell’economia (essenzialmente miglioramento delle infrastrutture e delle reti, liberalizzazioni in tutti i settori, dalle professioni, alle banche ed assicurazioni, ai servizi pubblici locali, ai taxi, e via discorrendo) e in campo di privatizzazioni siamo riusciti a portare a casa solo quella dell’ente degli ufficiali in congedo. Quindi, non si possono invocare circostanze eccezionali. Non siamo, però, condannati alla ‘crescita zero’. A pagina 118 di quello studio, infatti, si dice chiaramente che tutto dipende dalle riforme strutturali, e cioè quelle sulla struttura economica del sistema nazionale, che non coincidono – lo ricordiamo – con quelle istituzionali. A questo punto Palazzo Chigi e Via Venti Settembre farebbero bene a mostrare le loro carte.

Il bazooka di Draghi rischia di restare scarico

Il bazooka di Draghi rischia di restare scarico

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Il consiglio della Bce che si riunisce oggi non dovrà solo decidere se lasciare il tasso d’interesse di riferimento allo 0,05% l’anno (come appare scontato), ma anche se e in che modo verranno adottate le ‘misure non convenzionali’ (principalmente gli Abs, in quanto gli Omt appaiono accantonati, mentre una seconda asta per gli T-ltro è in calendario a fine anno). In effetti, Draghi spera di avere creato, con pazienza e perseveranza, il consenso perché nel ‘bazooka’ monetario, come lui stesso lo ha chiamato, venga messa polvere da sparo e – soprattutto – ne venga autorizzato l’uso. In una recente conversazione a Roma, Fabrizio Saccomanni, che ha lavorato a lungo su questi temi sia come direttore generale della Banca d’Italia sia come ministro dell’Economia e delle Finanze, ha sostenuto che la Germania e altri Paesi non consentiranno mai e poi mai al presidente della Bce di acquistare le munizioni e ancor meno di sparare. Quindi il ‘bazooka’ è scarico e potrebbe restare tale.

Ma riuscirebbe una manovra monetaria ‘non convenzionale’ a rivitalizzare un’economia europea stagnante (più in Italia che altrove) e travagliata da uno spread di malessere sociale uguale (se non peggiore) rispetto a quello monetario dell’estate-autunno 2011? Il recente stress test al sistema bancario ha documentato casi di cattiva gestione (e di carente vigilanza da parte delle autorità nazionali), ma non di mancanza di liquidità. Che a fare difetto sia la domanda di impieghi lo confermano conversazioni con alti dirigenti e amministratori anche di banche stressate: vorrebbero aumentare gli impieghi alla grande (è la loro ragion d’essere), ma trovano solo piccoli e medi clienti. Lo ribadiscono studi recenti: un lavoro (inedito) di Cinzia Balzan e Francesco Zen (ambedue dell’ateneo di Padova) e di Enrico Geretto (Università di Udine) propone un modello del sistema bancario italiano basato sull’’appetito di rischio’.

La conclusione è che le banche italiane sono sottoesposte, ossia hanno poco ‘appetito di rischio’ anche in quanto dopo sette anni di crisi, le imprese hanno ragionevolmente dato la priorità al sopravvivere e non alla progettazione di nuovi investimenti. In parallelo, un lavoro (anch’esso inedito) dell’Università di Leicester studia 141 banche dell’Unione europea nel 2004-2010 e conclude che la crisi finanziaria internazionale ha reso gli istituti meno efficienti e, quindi, meno pronti ad aiutare clienti nell’allestimento di piani finanziari. Infine, c’è lo spettro del ‘contagio’ che rende tutti più prudenti, come confermano studi del Cepr. Come si spiegano allora i successi della politica monetaria americana? Gli Stati Uniti non hanno solo la freccia monetaria nel loro arco, ma utilizzano pure il bilancio e il cambio.

Bene la stretta fiscale, ma occhio al pressing delle multinazionali

Bene la stretta fiscale, ma occhio al pressing delle multinazionali

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Saremo sempre a giocare a “gatto e topo”, ossia a rincorrere chi ricorre continuamente a nuove astuzie – ci dice Pascal Saint-Amas che dirige il centro per la Politica e l’amministrazione tributaria dell’Ocse –  tuttavia oggi esistono autostrade non viottoli per evitare di pagare tasse e imposte. Il sistema tributario internazionale è obsoleto. Con questa intesa cominciamo a porre le basi per modernizzarlo». Un giudizio, quindi, equilibrato da chi da anni lavora per una migliore trasparenza in materia tributaria e per evitare scappatoie molto facili (come il transfer pricing, ossia la creazione di filiali, oppure di case madri più o meno fittizie, in Paesi a bassa tassazione).

L’accordo, raggiunto poco più di un mese fa in seno all’Ocse e ora sostenuto dal G20, prevede essenzialmente scambi di informazione e una più stretta collaborazione tra le autorità tributarie a tutti i livelli (da quello della formulazione delle politiche a quello della loro applicazione). È un passo importante perché per lustri si è tentato di giungere ad una formulazione che accontentasse i maggiori Stati della comunità internazionale. Lo stesso Segretario Generale dell’Ocse, Angel Gurrìa, afferma che «siamo solo a metà del cammino », anche perché, come documentato da una recente inchiesta sul New York Times, tutte la maggiori multinazionali (iniziando da quelle dell’economia digitale, come Google, Facebook, Astrazeneca) e le principali banche e assicurazioni hanno accentuato la campagna di pressioni sui governi e sui Parlamenti (che hanno il compito di tradurre l’accordo in leggi e regolamenti nazionali) per introdurre “misure di flessibilità”, ove non proprio per spalancare le finestre e consentire di continuare ad operare con le abitudini che hanno fatto la loro fortuna (riducendo il peso tributario sui loro conti).

«Non vedremo cambiamenti radicali nell’immediato», afferma Judith Freedman che dirige il centro di tassazione sulle imprese dell’Università di Oxford, aggiungendo che «senza questo passo non si sarebbe neanche potuto pensare a un percorso verso una maggiore equità e trasparenza tributaria internazionale». I governi che, in questi ultimi anni, si sono succeduti alla guida dell’Italia, sono sempre stati tra i sostenitori più coerenti dell’accordo. Tuttavia, uno dei maggiori specialisti in materia, Joel Slemrod, sorride nel dire che «si sono presi spesso in giro di soli» poiché i suoi studi sull’economia dell’evasione concludono che quanto più un sistema tributario è complicato e sempre in cambiamento tanto più è facile eludere ed evadere.

Le simulazioni dimostrano che la crisi è superata. Ora però serve più credito

Le simulazioni dimostrano che la crisi è superata. Ora però serve più credito

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Molto rumore per nulla, si potrebbe shakespeariamente dire una volta letti i risultati di uno stress test che per alcuni giorni ha causato nervosismo ai mercati. Dopo una crisi economica e finanziaria che si protrae dal 2008, deve essere considerato, tutto sommato, segno di buona salute che solo 25 delle 131 maggiori banche (ossia il 19%) dell’eurozona abbiamo problemi di capitalizzazione, o meglio presentino tali problemi nei conti 2013. Dei due istituti bancari italiani nell’elenco, probabilmente uno ne è uscito nel primo semestre 2014. Ciò non deve, però, essere motivo di compiacimento. Da un lato, occorre chiedersi ancora una volta perché i finanziamenti non arrivano alle imprese. È scattata la trappola della liquidità a ragione del diffondersi ed approfondirsi di aspettative negative, specialmente nell’eurozona? Oppure, la lunga recessione , preceduta da una ancor più lunga stagnazione, fa sì che le imprese abbiano i cassetti vuoti, che manchino di progetti ‘bancabili’ di rinnovo e di espansione di impianti perché troppo assillati dalle difficoltà di riuscire a resistere?

Da un altro, c’è la minaccia di un aumento dei tassi negli Stati Uniti, dove il direttivo della Fed si riunisce oggi e domani: da mesi il tasso base di riferimento, l’interbancario, è rimasto ancorato allo 0,25% (in effetti è negativo dato che l’aumento dei prezzi viaggia sull’1,8%) e quello sui titoli di Stato decennali è al 2,24% (rispetto alla media dello 0,90% nell’eurozona). Negli ultimi mesi, ragioni macroeconomiche sembrano suggerire l’esigenza di una politica monetaria meno espansionista: nell’ultimo trimestre il Pil è aumentato a un tasso annuale del 4,6% e la produzione industriale a quello del 4,2% mentre la disoccupazione è sotto al 6%.

Più eloquente un dato poco seguito in Europa; l’aumento dei ‘tetti’ nelle norme (di competenza dei singoli Stati dell’Unione) agli interessi per i prestiti personali a individui e famiglie a basso reddito e prive di garanzie reali. Nelle ultime settimane, otto Stati hanno aumentato, in vario modo, tali ‘tetti’ (introdotti in gran misure per impedire nuove crisi di prestiti subprime oltre che a fini antiusura). Ciò vuol dire che c’è una forte spinta ‘dal basso’. I governatori delle 12 Banche federali di riserva, prossimi al territorio, potrebbero mettere in minoranza il presidente della Fed, Janet Jellen, favorevole a mantenere una politica monetaria espansionista per almeno altri due mesi. Ciò non resterebbe senza implicazioni per la Bce: il mercato finanziario atlantico è integrato. Un’asimmetria sostanziale genererebbe un flusso di capitali verso la sponda Usa, rendendo più difficile e la politica monetaria Bce e la ricapitalizzazione di quelle banche europee che ne hanno esigenza.

Spinta al limite

Spinta al limite

Francesco Riccardi – Avvenire

Questa volta per valutare meglio il quadro occorre partire dalla cornice, dal contesto in cui la legge di stabilità è stata varata ieri a tarda sera. Una giornata di “tempesta perfetta” sui mercati finanziari, con il crollo delle Borse mondiali, Italia compresa, sui timori di nuove difficoltà della Grecia e del suo sistema bancario. Con lo spread sui titoli di Stato che è tornato a rialzare la testa dopo mesi di calo. Un mercoledì non da leoni, ma da gamberi, con l’Istat che conferma l’andamento negativo del Pil nel terzo trimestre, sceso al valore più basso dall’inizio del 2000. Insomma, se gli altri Paesi hanno da tempo superato il punto di caduta della crisi (pur se nuove nubi si addensano sulla Germania, e non solo) noi siamo stati rispediti nel Novecento e diventa sempre più difficile riproiettarci nel XXI secolo. Un ritorno al futuro condizionato anche e soprattutto dai vincoli posti dall’Unione Europea, dai quali non si può prescindere, ma che devono poter essere interpretati anche con saggia flessibilità.

Mentre nelle città italiane si cerca ancora di “asciugare” lacrime e ferite delle alluvioni – concreta e lancinante metafora di un Paese che non può non fare il necessario per mettersi in sicurezza e risollevarsi – il Consiglio dei ministri ha approvato ieri una manovra lievitata da 30 a 36 miliardi (con 18 miliardi di riduzione delle imposte) che sta in questa cornice, deve starci per forza per poter passare da un lato il vaglio dei rigidi controllori di Bruxelles e dall’altro per evitare di alimentare nuove speculazioni finanziarie contro l’Italia. Una manovra da “rallista” potremmo definirla, in cui si è obbligati a giocare di freno sulla spesa pubblica e di acceleratore sui tagli fiscali, per tenere a bada il deficit sotto il 3% e, contemporaneamente, dare la necessaria spinta a un sistema economico sempre più imballato. Un percorso a filo del burrone, tra le curve di una congiuntura sempre più difficile e la prostrazione di imprese, lavoratori e famiglie dopo 7 anni di “carestia”.

Bene perciò la spinta sull’acceleratore dello sviluppo rappresentato dal consistente taglio dell’Irap, che ha fortemente penalizzato le imprese negli ultimi anni e dagli sgravi per le partite Iva. Bene pure la cancellazione dei contributi, senza pregiudicare la posizione previdenziale dei lavoratori, per chi assume personale a tempo indeterminato. Qualsiasi misura oggi riduca il costo del lavoro è utile e “benedetta”, anche se in questo caso occorre rendere strutturale lo sconto, ridurre il cuneo fiscale e contributivo sull’intera durata di un rapporto di lavoro stabile, se davvero si vuol mantenere fede a quanto promesso nel Jobs act (e cioè che il contratto a tempo indeterminato deve essere la forma di lavoro privilegiata e più conveniente).

Positiva è anche la conferma degli 80 euro per i redditi medio-bassi. E, sebbene il beneficio non sia stato allargato a incapienti e famiglie numerose (come chiesto molte volte su queste colonne) va registrato l’impegno da 500 milioni di euro promessi a favore della famiglia. Ci piace considerarli come un positivo “anticipo” – il saldo lo attendiamo con la delega fiscale – per ristabilire quel minimo di equità a cui hanno diritto i nuclei con figli e che non può essere ulteriormente procrastinato. Sospeso il giudizio sull’operazione “Tfr in busta”: occorrerà valutare quanti lavoratori sceglieranno di riceverlo subito e in che misura ciò spingerà effettivamente i consumi.

Dove invece il quadro della manovra appare tratteggiato in maniera più incerta, in attesa di leggere i testi definitivi, è la parte relativa ai tagli di spesa pubblica: 15 miliardi più o meno equamente divisi tra Ministeri, Regioni, beni e servizi della Pubblica amministrazione, Comuni e Province. C’è il rischio infatti che ciò si traduca non in maggiore efficienza della spesa pubblica, ma semplicemente nella riduzione di prestazioni sanitarie e di servizi a livello locale, proprio mentre la tassazione in questi ambiti va aumentando e pesando sempre più sui cittadini onesti. Così come alto è il rischio che la Commissione europea chieda maggiori sforzi e non si accontenti di una riduzione strutturale del deficit di appena lo 0,1% o di coperture, come quelle previste dalla lotta all’evasione, che potrebbero risultare aleatorie.

Per tentare di far ripartire il Paese, pur restando all’interno delle ferree regole europee, occorreva puntare su tre fattori decisivi: le imprese e il lavoro; le famiglie e le persone in condizione di povertà. Il primo obiettivo sembra centrato in pieno, il secondo solo parzialmente, sul terzo manca qualsiasi iniziativa. Probabilmente, nelle condizioni date, “fare di più” era impossibile. Ma “fare meglio” è un impegno che non finisce stanotte.

Il boom della finanza questa volta è sociale

Il boom della finanza questa volta è sociale

Andrea Di Turi – Avvenire

Una crescita in doppia cifra di questi tempi è cosa piuttosto rara. Ma non per la finanza socialmente responsabile (Sri), più nota come finanza etica, che dimostra ancora una volta la sua capacità di “contaminare” i mercati finanziari guardando alle performance non solo economiche ma anche sociali e ambientali degli investimenti.

I numeri presentati ieri da Eurosif, l’organizzazione dei forum nazionali europei che promuovono la finanza Sri (per l’Italia il Forum per la finanza sostenibile), parlano da soli. Tra il 2011 e il 2013, nei 13 Paesi europei considerati dallo studio, si è assistito a una crescita in doppia cifra per tutte le modalità d’investimento riconducibili allo Sri. E tutte hanno fatto meglio, in termini di performance, del settore del risparmio gestito complessivamente considerato a livello continentale.

In particolare, secondo lo studio, che è stato realizzato grazie al contributo di realtà come Edmond de Rothschild asset management o Generali Investments Europe, a registrare un vero e proprio boom è stato il settore degli impact investing, gli investimenti che ricercano allo stesso tempo un rendimento accettabile e un impatto sociale (ad esempio garantire l’accesso a beni e servizi essenziali alle fasce svantaggiate della popolazione nei Paesi in via di sviluppo), sulla cui importanza si è soffermato di recente lo stesso Papa Francesco: l’impact investing, infatti, è la strategia di investimento socialmente responsabile che è cresciuta di più (+132%), tanto che si stima che il mercato europeo valga circa 20 miliardi di euro. Ed è un mercato in cui, dopo Olanda e Svizzera che insieme valgono i due terzi (il 50% dell’impact investing in Europa è rappresentato dalla microfinanza), l’Italia è ben posizionata, insieme a Gran Bretagna e Germania.

Notevole anche la crescita delle strategie di investimento responsabile dette di esclusione (o negative), che cioè escludono dall’universo investibile singole società quotate o interi settori considerati eticamente discutibili o quanto meno controversi: un caso tipico è quello degli investimenti in società che producono cluster bomb (bombe a grappolo) e mine anti-uomo, che in alcuni Paesi (ad esempio in Belgio) sono stati addirittura vietati per legge. Gli asset soggetti a criteri di esclusione sono cresciuti del 91%, a quasi 7 trilioni di euro (7mila miliardi di euro), cioè oltre il 40% degli asset gestiti complessivamente a livello europeo, e costituiscono oggi la modalità di investimento Sri più diffusa in Europa.

È ancora l’Italia, poi, a distinguersi in relazione alle pratiche di “engagement”, ossia di dialogo tra investitori e imprese su temi sociali e ambientali, che può sfociare nel voto in assemblea: l’engagement interessa 3,3 trilioni di euro di asset, è cresciuto dell’86% in Europa ma più di tutti è cresciuto in Italia, dov’è quasi raddoppiato (+193%) rispetto a due anni fa. Gli investitori etici italiani stanno dunque diventando anche investitori “attivi”? Forse. Di certo sarà uno degli argomenti della terza Settimana italiana dell’investimento sostenibile, in programma dal 4 al 12 novembre.

Si fa presto a dire “Tfr in busta”

Si fa presto a dire “Tfr in busta”

Massimo Calvi – Avvenire

L’anticipo della liquidazione in busta paga, secondo l’ipotesi più generosa allo studio del governo, dovrebbe portare nelle tasche dei lavoratori 100 euro netti in più al mese, se la media sono i redditi da 23mila euro lordi. Una retribuzione più “ricca”, tuttavia, può produrre un effetto poco simpatico per le famiglie con figli, come ha messo in evidenza un dossier di “Repubblica”: il rischio è perdere una parte di detrazioni e poi finire anche in una fascia Isee più alta, e dover dunque pagare rette più care per asili nido, mense scolastiche o tasse universitarie, fino a vanificare il beneficio dell’aumento, quando non a renderlo sconsigliabile.

Non è un problema del Tfr, è una questione antica che si ripropone. In sostanza il combinato tra un fisco modellato sul reddito individuale, che non valuta adeguatamente i carichi familiari, e la struttura delle tariffe dei servizi per i minori legate ai redditi, finisce per generare situazioni paradossali. È come se il sistema “spingesse” i cittadini ad accontentarsi di uno stipendio contenuto, ad avere pochi figli e a non darsi molto da fare per migliorare la propria condizione di lavoro: tanto poi scattano gli aumenti di tasse e tariffe. Un’incoerenza che dovrebbe spingere chi si interroga sulle ragioni della mancata crescita dell’Italia a concentrarsi anche sulle responsabilità del sistema fiscale.

Il vero punto critico resta in ogni caso il deficit strutturale di attenzione alle famiglie, in particolare a quelle numerose, e ai bambini in generale. A tutti i livelli. Il peso delle rette di nidi e mense, con i rincari diffusi, rappresenta oggi una delle voci più importanti nei bilanci delle famiglie. Oltretutto, l’uso improprio dell’indicatore Isee non per agevolare le fasce deboli, ma per “tassare” quelle medie, finisce per penalizzare chi paga già le tasse e contribuisce in modo progressivo al finanziamento dei servizi pubblici. L’anticipo del Tfr nelle buste paga dei lavoratori può forse servire a rilanciare i consumi. Ma è difficile che questo si verifichi – l’esperienza del bonus da 80 euro insegna – in assenza di altri interventi, considerato che ogni misura che non tiene conto dei carichi familiari finisce per configurarsi come una palese ingiustizia.

Perché la Banca Centrale Europea ha scelto di non scegliere, e cosa insegnano le recenti misure

Perché la Banca Centrale Europea ha scelto di non scegliere, e cosa insegnano le recenti misure

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Le Borse non hanno apprezzato che il Consiglio della Bce, paralizzato dai contrasti al proprio interno, ha deciso non scegliere, mantenendo sì ai minimi il tasso di interesse di riferimento ma non prendendo alcuna iniziativa in materia di misure monetarie ‘non convenzionali’. A Napoli il Consiglio avrebbe dovuto mettere a punto le specifiche di nuovi strumenti finanziari, cioè i dettagli di Abs (Asset backed securities, ossia ‘pacchetti’ di titoli cartolarizzati garantiti da attività reali) dicovered bonds (obbligazioni garantite da azioni). In un comunicato emesso dopo la riunione è stata fornita un’indicazione di massima degli acquisti ‘potenziali’ (mille miliardi di euro su due anni), senza precisare però caratteristiche e tempistica.

Alcuni giorni fa il rappresentante della Germania in seno al Consiglio ed il ministro delle Finanze tedesco, di fronte al Bundestag, hanno hanno espresso perplessità nei confronti di questi strumenti e di misure non convenzionali dell’ampliamento dell’offerta di moneta. Il dibattito ha aspetti intricati, ma non è banale chiedersi se è ‘opportuno’ mettere in atto misure ‘non convenzionali’ per il rilancio dell’eurozona. Quelle convenzionali, con tassi d’interessi attorno allo zero, sono state già in atto. Mercoledì la Francia, pur presentando uno schema di bilancio con severe riduzioni alla spesa sociale, ha annunciato che non si curerà di giungere, nel breve termine, al pareggio di bilancio previsto dal Fiscal Compact e neanche di limitare al 3% il rapporto tra indebitamento netto delle Pa e Pil. Giovedì è giunto da Londra un ‘assist’ a Parigi dal presidente del Consiglio italiano. Chiaramente, in queste condizioni, sarebbe stato difficile proporre misure monetarie ‘non convenzionali’ con la specificità per considerarle operative.

Martedì sono stati diramati due studi che esaminano le misure ‘non convenzionali’ adottate in Gran Bretagna e Usa, e che giungono alla stessa conclusione: gli effetti sono stati di breve periodo e si sono evaporati presto (ove non accompagnati da politiche economiche aggressivamente orientate alla crescita). Oggi, acquistare gli Abs di Grecia e Cipro equivarrebbe a mettersi in portafoglio titoli ‘spazzatura’. La stessa esperienza Bce ingenera perplessità. I T-ltro (Targeted long term refinancing operations, operazioni ‘mirate’ a lungo termine per rifinanziare investimenti produttivi) hanno avuto un esito ben inferiore alle attese. Di Omt (Outright monetary transactions, pure transazioni monetarie), lanciate con clamore circa due anni fa, non si parla più. Quindi, c’è da avere dubbi sulla efficacia di Abs e covered bond sino a quando i governi non abbiano attuate le necessarie riforme dei mercati dei fattori, dei beni e dei servizi e che tali riforme abbiano avuto il tempo di dispiegare i loro effetti.

Gli Abs e i covered bonds presentano poi il rischio che la Bce finisca per acquistare titoli il cui sottostante abbia un elevato grado di volatilità o, peggio ancora, sia di dubbia qualità (e lo mostri dopo qualche tempo). Un modo ‘non convenzionale’ sarebbe l’acquisto di titoli del debito pubblico di qualità da alcuni Paesi. L’economista Guido Salerno sta per pubblicare una proposta: la Bce acquisti titoli del debito pubblico italiano per 400 miliardi di euro, l’equivalente, secondo le sue stime, del costo degli errori compiuti dalle istituzioni europee nella gestione delle crisi. Può sembrare un’idea guascona. Non verrà accettata dai Paesi nordici. Ma potrebbe essere il modo più lineare per facilitare la crescita.

Azzardo, la “logica” dei monopoli

Azzardo, la “logica” dei monopoli

Leonardo Becchetti – Avvenire

Qualcuno ha considerato per un bel po’ noi italiani la “tribù con l’anello al naso”, l’unica tra tutti i Paesi del mondo destinata a beccarsi senza reagire, cioè senza alzare argini, slot machine in (quasi) tutti i bar del proprio territorio nazionale. Sappiamo poi come è andata. Diverse realtà sociali (tra cui il movimento SlotMob sostenuto dalla campagna d’informazione di “Avvenire”) hanno reagito contro l’imbarbarimento e il crescere del distruttivo fenomeno della ludopatia, ovvero del gioco d’azzardo compulsivo. E hanno spinto la classe politica del Paese a cercare un equilibrio diverso che superi errori e contraddizioni evidenti. Come quella di un vizio – il fumo – per il quale facciamo fuoco e fiamme mettendo messaggi di morte sui pacchetti di sigarette per spaventare gli acquirenti, mentre un altro vizio – il gioco d’azzardo – invece lo pubblicizziamo ingannevolmente a ogni piè sospinto, e persino come panacea per ogni problema economico-esistenziale, attraverso tutti gli schermi (tv pubblica in primis) e con pubblicità su magliette di squadre di calcio e pompe di benzina. La proposta di legge che è stata finalmente articolata si fonda su tre punti essenziali: divieto di pubblicità, distanza minima da luoghi sensibili (scuole, oratori…) degli apparecchi e introduzione di sistemi per rendere obbligatoria l’identificazione dei giocatori (tessera sanitaria) anche per evitare il rischio riciclaggio.

Un’iniziativa di buon senso, che dopo lo stralcio di misure analoghe da provvedimenti precedenti anche il governo – l’allora sottosegretario Legnini lo ha dichiarato proprio a questo giornale – si è impegnato a realizzare entro la fine del 2014. Limiti giusti, ma davanti ai quali gli stregoni della “tribù con l’anello al naso” agitano oggi lo spauracchio del «danno erariale» e del «danno irreparabile al Pil» e alle entrate fiscali paventando 9-13 miliardi di perdita per le casse dello Stato. «Da far tremare i polsi», fa eco qualche solerte cronista che ha ripreso altrettanto preoccupato la nota dei Monopoli di Stato che formulava l’inquietante previsione. Quando i tacchini fanno l’analisi costi-benefici del “Giorno del ringraziamento”, o gli agnelli del pranzo pasquale, è legittimo il sospetto che le preoccupazioni siano lievemente esagerate. E la nota in questione non fa eccezione. Come è possibile preventivare un «danno» così elevato quando l’azzardo tramite slot machine (AVT e WLP) ha portato nel 2013 – come ci ricorda la stessa Agenzia delle Dogane e dei Monopoli – a entrate fiscali per circa 4,3 miliardi?

Approfondendo la nota, il mistero si fa più fitto quando leggiamo le prime cifre. L’agenzia è molto preoccupata per la «riduzione» di entrate da azzardo che quantifica per l’anno in corso nella (molto minore) cifra di 200 milioni che addebita a tre principali fattori: la recessione, l’aumento del prelievo sui giochi (mirabile esempio di “curva di Laffer”, cioè di minore gettito per una presunta spinta a evadere) e l’entrata in vigore delle prime disposizioni regionali sulla distanza minima delle slot dai luoghi sensibili (Trentino Alto Adige, Veneto, Liguria, Lombardia, Puglia). Dovendo dividere l’effetto in tre parti (non sappiamo in mancanza di analisi ad hoc se eguali o no), fate voi il conto dei terribili effetti sulle casse pubbliche di quanto deciso sinora in materia di contrasto alla famigerata ludopatia. Spulciando la nota arriviamo finalmente al dunque e scopriamo cosa partorisce la terribile previsione e come può il topolino (la perdita di 200 milioni diviso tre) partorire la montagna (la perdita attesa di 9-13 miliardi). La fosca previsione dell’Agenzia è che gli operatori del settore impiegheranno tre anni a sostituire le macchine attuali con quelle dove è necessario dare i dettagli della propria tessera sanitaria per giocare. E che in questi tre anni tutto si fermi. 4 per 3 fa 12 e il gioco è fatto.

Che nell’economia del terzo millennio esista un settore produttivo (!) che impiega tre anni per introdurre una piccola modifica negli apparecchi è veramente poco credibile (senza contare l’effetto keynesiano della rottamazione delle vecchie macchine e della sostituzione con le nuove). Per disinnescare la fosca profezia basterebbe introdurre una norma transitoria che consente nell’intervallo che precede l’introduzione delle nuove macchine (6 mesi? un anno?) di continuare a utilizzare le vecchie e il gioco (d’azzardo) è fatto. E pure i danni che produce (esistenziali, sociali ed economici) sono purtroppo garantiti. Anche se questi ultimi l’Agenzia ministeriale si guarda bene dal sottolinearli e, anzi, tende – più ancora che a sminuirli – a ignorarli completamente.

Si perfeziona, così, il giochino di sottometterci a un Pil che ha uno sguardo strabico sulla felicità dei cittadini ed è sempre più taroccato da “beni” che a essa non contribuiscono. Un giochino molto pericoloso… Se il metro fosse davvero questo, dovremmo fare molta attenzione. Battersi per ridurre la dipendenza da gioco d’azzardo e droghe e per impedire contrabbando e la tratta delle donne destinate alla prostituzione non sarebbe da considerare un impegno teso a migliorare la qualità delle relazioni interpersonali (e anche tra gli Stati) nonché a produrre una riduzione delle spese di difesa e sicurezza, ma una minaccia. Se tutte queste “cattive notizie” – meno azzardo, meno droghe, meno traffici di merci illegali e di persone – accadessero insieme, secondo la “logica” dei Monopoli, saremmo veramente rovinati. Chi risarcirebbe il danno erariale?

Se lo Stato cattivo debitore ti fa licenziare 70 persone

Se lo Stato cattivo debitore ti fa licenziare 70 persone

Chiara Merico – Avvenire

«La mia azienda è in liquidazione, anche se vanta un credito verso lo Stato di 4,7 milioni di euro: per questo chiedo al presidente del Consiglio di sederci intorno a un tavolo e trovare una soluzione». Alberto Ricciardi rivolge il suo appello al premier Matteo Renzi, attraverso una petizione lanciata sulla piattaforma Change.org: l’imprenditore toscano è titolare dal 1982 della Fermet, azienda che si occupa della lavorazione di rottami in ferro e della fornitura di materiali metallici per le più grandi acciaierie d’Italia, come l’Ilva o la Lucchini.

«Noi siamo il tramite tra le acciaierie e i piccoli fornitori di questi materiali: lavoriamo con oltre 2mila subfornitori perché in Italia, a differenza di Francia e Germania, il mercato è molto frammentato», spiega l’imprenditore. «Nel 2011 è emerso che alcuni di questi subfornitori avevano acquistato materiale in nero: la Guardia di Finanza è venuta da noi e ha emesso un verbale da 30 milioni di euro, di cui 18 di tasse». La vicenda è stata poi chiarita: già nel 2012, spiega Ricciardi, «l’Agenzia delle Entrate ha emesso una circolare in cui si stabiliva che non spettava a noi il compito di controllare che i subfornitori acquistassero il materiale con regolare fattura». Una seconda procedura di accertamento del Fisco è stata anch’essa ritirata: attualmente la Fermet deve all’erario 200mila euro di sanzioni, che comunque, sottolinea il titolare, «decadranno perché nel relativo procedimento penale lo stesso Pm ha chiesto l’assoluzione, perché il fatto non costituisce reato».

Nel frattempo, però, l’azienda di Ricciardi ha accumulato un credito Iva di 4,7 milioni di euro. «Il blocco dei rimborsi Iva ci ha ucciso: la nostra azienda fatturava circa 250 milioni di euro all’anno, ma nel settore dell’acciaio la marginalità e minima, nell’ordine del 2-3%. Il blocco dei rimborsi, unito all’investimento di 13 milioni che avevamo sostenuto nello stesso anno per costruire un nuovo stabilimento, ci è stato fatale». Così la Fermet ha dovuto chiedere la procedura di concordato. Ma il titolare non ci sta: «Se avessimo incassato quei 4,7 milioni, avrei potuto continuare l’attività: ma non posso ottenerli, perché lo Stato chiede di garantire l’incasso dei rimborsi Iva superiori a 500mila euro con una fidejussione bancaria. Ma quale banca è disposta a garantire un’azienda in liquidazione?» Cosi Ricciardi si è rivolto al presidente del Consiglio – che aveva promesso entro il 21 settembre il saldo dei debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese – chiedendo che venga eliminato l’obbligo della garanzia bancaria per ricevere i rimborsi. «Serve una proposta di legge in questo senso. Per quale motivo devo tenere l’azienda chiusa, e 70 famiglie senza lavoro, senza contare l’indotto?», si chiede l’imprenditore. «Uno Stato serio deve affrontare il problema».