comuni

Multe: quest’anno i Comuni hanno incassato 1,34 miliardi di euro. Milano, Firenze e Bologna le città con il gettito pro capite più alto

Multe: quest’anno i Comuni hanno incassato 1,34 miliardi di euro. Milano, Firenze e Bologna le città con il gettito pro capite più alto

Negli ultimi due anni i Comuni italiani hanno incassato dalle famiglie 2,95 miliardi di euro di gettito extratributario per multe, ammende, sanzioni e oblazioni. In particolare, nel 2018 (il dato di dicembre è stato stimato sulla base dell’andamento degli incassi dell’anno) le casse dei Comuni hanno potuto contare su un introito complessivo di 1 miliardo 340 milioni di euro. Un dato in discesa rispetto a quello registrato nel 2017, pari a 1 miliardo 609 milioni di euro. Lo rivela una ricerca di ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione dei dati ISTAT e SIOPE (il Sistema informativo del Ministero delle Finanze sulle operazioni degli enti pubblici).

Il Centro studi economici presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni ha voluto anche effettuare un’analisi sulle sanzioni e ammende a carico delle famiglie residenti in un campione rappresentativo dei principali Comuni italiani.

La città che nel biennio 2017-2018 ha incassato di più in rapporto ai cittadini maggiorenni residenti è risultata essere Milano (123,67 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 142,7 milioni di euro), seguita da Firenze (109,25 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 35,5 milioni di euro), Bologna (92,30 euro a testa ogni anno, per un gettito medio annuo di circa 30,8 milioni di euro), Brescia (81,79 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 13,5 milioni di euro) e Bergamo (74,95 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 7,6 milioni di euro).

Al contrario, i Comuni che nello stesso periodo hanno incassato di meno sono stati invece Campobasso (0,19 euro a testa, per un gettito medio annuo di 8.218 euro), Aosta (2,97 euro a testa, per un gettito medio di 85.978 euro), Salerno (3,40 euro a testa, per un gettito medio di 388.821 euro) e Udine (6,55 euro a testa, per un gettito medio di 558.836 euro).

 

Multe: nel 2016 i Comuni incasseranno 1,25 miliardi di euro. Milano, Firenze e Parma le città con il gettito pro-capite più elevato.

Multe: nel 2016 i Comuni incasseranno 1,25 miliardi di euro. Milano, Firenze e Parma le città con il gettito pro-capite più elevato.

Negli ultimi tre anni i comuni italiani hanno incamerato 3,87 miliardi di euro di gettito extratributario per sanzioni amministrative, ammende e oblazioni. Le risorse che i municipi ogni anno derivano dalle “multe” è stabile nel triennio, attestandosi a circa 1,3 miliardi di euro su base annua.

Secondo la stima effettuata da ImpresaLavoro su dati SIOPE, nel 2016 i bilanci dei comuni potranno contare su incassi complessivi per 1 miliardo 257 milioni di euro. Un dato in leggera discesa rispetto a quello del 2015, quando gli incassi da multe erano arrivati a 1 miliardo 362 milioni e leggermente superiore al dato del 2014 (1 miliardo 254 milioni).

A pesare, oltre a un calo strutturale di questa voce che è rimasta negli ultimi tre anni sempre molto lontana dal “picco” di 1,53 miliardi del 2010, c’è anche un dato tecnico: nel 2016, per problemi legati alla contabilizzazione e comunicazione degli incassi al sistema centrale Siope, i dati di Roma non sono disponibili in forma completa e quindi manca al conteggio complessivo una fetta importante delle sanzioni incassate nel 2016 dall’amministrazione capitolina.

Multe1

ImpresaLavoro ha poi effettuato un’analisi incrociata dei dati SIOPE e Istat sulle sanzioni e ammende riscosse nel periodo 2014-2016 in un campione rappresentativo dei principali Comuni italiani. È risultato così che Milano è la città che in rapporto ai cittadini maggiorenni residenti incassa di più da sanzioni, ammende e oblazioni (138,90 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 158 milioni di euro), seguita da Firenze (99,61 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 32,58 milioni di euro), Parma (95,12 euro a testa ogni anno, per un gettito medio annuo di circa 15,47 milioni di euro), Bologna (94,61 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 31,47 milioni di euro) e Torino (67 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 50,84 milioni di euro).

multe2

**Dati 2008-2015 definitivi, dati 2016 stima ImpresaLavoro su andamento incassi dell’anno in corso.

Gli “enti inutili” vanno soppressi

Gli “enti inutili” vanno soppressi

di Massimo Blasoni – Metro

In attesa dell’esito dei ballottaggi nei Comuni più importanti, proviamo a ipotizzare un sistema istituzionale non solo senza Province ma che si articoli in appena sei Regioni (invece di 20) e mille Comuni (invece di 8.100). La soppressione di un così grande numero di enti renderebbe possibile la gestione dei servizi e delle funzioni oggi appannaggio dei vari livelli del governo locale? Sono convinto di sì ed è quanto ho provato a spiegare nel libro “Privatizziamo!”.

Continua a leggere su Metro

Multe: dal 2010 al 2015 gettito dei Comuni diminuito del 17,82%

Multe: dal 2010 al 2015 gettito dei Comuni diminuito del 17,82%

In rapporto agli abitanti Milano, Firenze e Bologna al top
Negli ultimi cinque anni il gettito extratributario per sanzioni amministrative, ammende e oblazioni riscosso dai Comuni italiani è diminuito di 272,5 milioni di euro. Le cifre complessivamente incamerate sono infatti passate da 1 miliardo 529 milioni 677 mila euro nel 2010 a 1 miliardo 257 milioni 141mila euro nel 2015 (-17,82%). Nell’ultimo anno il trend delle riscossioni è rimasto sostanzialmente stabile (+0,24%, pari a circa 3 milioni di euro), passando da 1 miliardo 254 milioni di euro del 2014 a un 1 miliardo 257 milioni di euro del 2015**. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati SIOPE, il Sistema informativo sulle operazioni degli Enti pubblici del Ministero delle Finanze.

nazionale

nazionalebarre

ImpresaLavoro ha poi effettuato un’analisi incrociata dei dati SIOPE e Istat sulle sanzioni e ammende riscosse nel periodo 2013-2015 in un campione rappresentativo dei principali Comuni italiani. È risultato così che Milano è la città che in rapporto agli abitanti incassa di più da sanzioni, ammende e oblazioni (139,11 euro a testa per un gettito medio annuo di circa 157,35 milioni di euro), seguita da Firenze (96,36 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 31,39 milioni di euro), Bologna (93,58 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 31,14 milioni di euro), Parma (82,32 euro a testa ogni anno, per un gettito medio annuo di circa 13,23 milioni di euro) e Torino (68,68 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 52,47 milioni di euro). Nei primi posti di questa particolare compare anche la Capitale: Roma incassa 59,49 euro a per ogni cittadino maggiorenne residente e ricava un gettito medio annuo di circa 143,35 milioni di euro.

comuni

 

**Dati 2008-2014 definitivi, dati 2015 stima ImpresaLavoro su andamento incassi Gennaio-Novembre.

Lo Stato taglia gli investimenti ma aiuta i Sindaci a sperperare

Lo Stato taglia gli investimenti ma aiuta i Sindaci a sperperare

Antonio Castro – Libero

In tempi di crisi si taglia, salvo poi trovare un escamotage per rinviare i possibili risparmi. Entro martedì prossimo il testo (riscritto e corretto la notte scorsa) del decreto Milleproroghe deve essere convertito in fiducia (scade il 3 marzo), e tra gli altri provvedimenti contiene anche il rinvio dell’obbligo per i Comuni di dotarsi di una centrale unica per gli acquisti o di rivolgersi alla Consip (la centrale unica di acquisto della pubblica amministrazione).

Storie di ordinarie gelosie tra branche dello Stato? Non proprio, o non solo. L’emendamento approvato la notte scorsa dalle commissioni Bilancio e Affari Costituzionali prevede uno slittamento dal 1 gennaio al 1 settembre di quest’anno dell’obbligo, per i Comuni non capoluogo di provincia, di acquisire lavori, beni e servizi tramite una centrale aggregatrice di acquisto. In sostanza: fino ad agosto i sindaci saranno liberi di acquistare dove e più gli pare forniture o servizi, infischiandosene magari anche dei risparmi. Un bel segnale non c’è che dire, con buona pace degli sbandierati risparmi per il bilancio pubblico.

C’è da dire che i pesanti tagli ai trasferimenti finanziari statali agli enti locali hanno ridotto sensibilmente la facoltà di spesa degli amministratori dei Comuni. Ma questa proroga rischia ora di inficiare gli eventuali risparmi di spesa previsti dalla legge di Stabilità 2015. Posticipando a settembre l’obbligo di acquisto tramite centrale unica, si sollecitano gli amministratori locali a spendere come più gli aggrada e quanto prima possibile. Legittimo, se non fosse che la Consip ha certificato nel giugno 2014 un risparmio medio del 22% rispetto ai prezzi di mercato (dati 2013).

Insomma, far slittare a settembre l’obbligo di certo non aiuterà a risparmiare. L’estate scorsa la società del Tesoro per gli acquisti aggregati ha stimato in almeno 2,3 miliardi l’anno i risparmi ottenibili se tutte le amministrazioni facessero la spesa in Consip. Mentre si chiede ai contribuenti di pagare di più e di tirare la cinghia («c’è la crisi»), il ministro Padoan non riesce proprio ad imporre un po’ di moderazione agli amministratori locali. Magari – se a settembre sarà rimasto qualche spicciolo in cassa – i primi cittadini saranno più oculati con i quattrini pubblici.

Eppure, visto il calo verticale della spesa pubblica per investimenti bisognerebbe essere formichine più che cicale. Rispetto al 2009 infatti – secondo l’analisi condotta dal Centro studi “ImpresaLavoro” – l’Italia ha tagliato del 30% la spesa pubblica per investimenti. Che è scesa dai 54,2 miliardi del 2009 ai 38,3 del 2013, con una riduzione di circa 15,9 miliardi di euro. In termini reali si deve tornare indietro al 2003 «per riscontrare un dato inferiore». Tradotto su basi relative, spiega lo studio di “ImpresaLavoro”, l’Italia spende ora solo il 2,4% del Pil per investimenti pubblici (il calo rispetto al 2009 è di un intero punto), mentre è salita la spesa per interessi (+0,4% sul Pil) e le altre voci di spesa. Insomma, la crisi ci ha imposto di tagliare gli investimenti, ma si continua a dare agli amministratori locali piena libertà (almeno fino a settembre) di spendere i quattrini drenati con le tasse.

Quel pozzo senza fondo degli sperperi nei Comuni

Quel pozzo senza fondo degli sperperi nei Comuni

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella – Corriere della Sera

«Varie, eventuali e generiche». Manca solo questa dicitura, nelle voci dei bilanci dei Comuni italiani. Per il resto c’è tutto. Con legende così fumose che ti chiedi: cosa diavolo c’è sotto? Esempio: «Rimborso anticipazioni di cassa». Cioè? Boh… Quattro miliardi e mezzo di euro. Come l’Imu sulla prima casa. Lo rivela un nuovo sito da oggi online. Dove i cittadini possono, finalmente, confrontare quanto spendono per le stesse cose, dal materiale di cancelleria alle piante da vivaio, gli oltre ottomila municipi italiani. Alleluia! Purché questo lavoro straordinario venga aggiustato con l’obbligo, su troppe voci, di uscire dall’indefinito. È un pozzo senza fondo di informazioni fondamentali, numeri assurdi e curiosità, il sito soldipubblici.mgpf.it. Navighi un po’ e ti poni domande bizzarre: con chi sono in guerra a Micigliano, in provincia di Rieti, per spendere in «liti e patrocinio legale» 356 euro pro capite contro il miserabile centesimo (un cent!) del comune di Pisa o gli zero (zero carbonella) centesimi di altre migliaia di municipi? Oppure: quali animali si sono comprati a Barengo, in provincia di Novara, per spendere 26 euro abbondanti a testa contro i 2 centesimi di Nocera Inferiore? E cos’è questo «global service» che ha fatto scucire al Comune di Spoleto quasi 217 euro per ogni cittadino se a Pavia non hanno tirato fuori una sola monetina?

Il pasticcio dei codici fiscali
In realtà, molti dati vanno presi con le pinze. È ovvio, ad esempio, che il Comune di Longarone non spende un milione e mezzo di soldi pubblici per ogni cittadino: il guaio è che la banca dati originaria, il Siope (Sistema Informativo Operazioni Enti Pubblici) di Bankitalia, non è stato ancora aggiornato di recenti ritocchi. Vedi appunto Longarone, che dopo la fusione con Castellavazzo risulta avere 6 abitanti invece di 5.433. Peggio, la nuova realtà comunale conserva il nome di prima ma con due codici Istat, due codici fiscali… E pasticci simili sono segnalati per altri sei Comuni: Montoro, Fabbriche di Vergemoli, Scarperia, San Piero, Tremezzina e Val Brembilla. Un peccato, certo. Ma secondario rispetto alla massa enorme di numeri che consentono per la prima volta agli abitanti di Portofino o Bergolo, Marsala o Luserna, come dicevamo, di fare dei paragoni. E capire se il loro municipio, rispetto per esempio ai Comuni vicini, è amministrato bene o male. Per poterne poi chiedere conto. Una trasparenza che, rimossi i piccoli errori iniziali grazie alle inevitabili precisazioni di questo o quel municipio, dovrebbe consentire poi un maggiore controllo pubblico dei conti. E di conseguenza non solo contenere le spese ma arginare la corruzione che conta proprio, per prosperare, sul caos totale dei bilanci.

La squadra e le falle del sistema
E dunque evviva Riccardo Luna, il giornalista esperto di start up innovative pubblicamente ringraziato per questo lavoro anche da Matteo Renzi. Evviva l’ équipe di Giovanni Menduni del Politecnico di Milano che basandosi sui dati del Siope ha battezzato il sito soldipubblici.gov.it segnalando con onestà le iniziali discrepanze. Ed evviva Matteo Flora, della «Thefool» di Milano (Monitoraggio, Moderazione, Gestione e Tutela Legale della Reputazione Online) che ha fatto il passo successivo costruendo il portale soldipubblici.mgpf.it per dare la possibilità a tutti di vedere le classifiche generali e pro capite delle varie spese. Certo, il sistema zoppica sulle varie voci dei bilanci. Che differenza c’è tra gli «incarichi professionali esterni» e gli «incarichi professionali»? Peggio ancora, certe caselle sono così generiche, come scrivevamo, da lasciare spazio a ogni interpretazione: «altre spese per servizi», «altri tributi», «altre infrastrutture» e così via. Prova provata della necessità di cambiare le regole definendo una volta per tutte per ministeri, Regioni, Province (finché ci saranno) e Comuni le diciture che possono essere utilizzate. Così da permettere di capire se sotto la dicitura «altri contratti di servizio» c’è una serata di fuochi artificiali, un cenone clientelare o l’appalto per le fognature.

I miliardi «scomparsi»
Torniamo ai 4 miliardi e mezzo dei «Rimborsi anticipazioni di cassa», metà di quanto i Comuni hanno speso nel 2014 per gli stipendi del personale, nove miliardi. Come sono stati impiegati? Non lo sa nessuno, tranne i cassieri municipali. Si tratta infatti di somme loro affidate per pagamenti in contanti dei quali non esistono riscontri immediati. Ci saranno magari il mese successivo, quando si scoprirà se sono stati usati ad esempio per viaggi o formazione professionale. O si capirà, per intuizione, dal rendiconto del bilancio. Ma la classificazione Siope non dice nulla di più. Una follia: la trasparenza esclude zone grigie. Per non dire di altre sovrapposizioni e intrighi che appaiono studiati apposta per non far capire nulla. Ci sono «trasferimenti correnti ad imprese di pubblici servizi» (253 milioni) e poi «trasferimenti correnti ad aziende speciali» (220 milioni), e poi «trasferimenti correnti ad altri enti del settore pubblico» (1,3 miliardi!) e «trasferimenti correnti ad altri» e «trasferimenti in conto capitale ad altri» e «trasferimenti correnti a imprese pubbliche»… Di cosa parliamo? Di cosa?

Le categorie «gemelle»
E cosa distingue i soldi per «Beni di valore culturale, storico, archeologico e artistico» e quelli per le «opere artistiche»? E come vanno distinti i denari spesi per «fabbricati civili a uso abitativo, commerciale e istituzionale» (1,3 miliardi!) e le «locazioni» (389 milioni) e gli «altri beni immobili» (un miliardo e 552 milioni!) e la «manutenzione ordinaria e riparazione di immobili» (752 milioni!) e le «altre spese di manutenzione ordinaria e riparazioni» pari a 571,6 milioni? E che differenza c’è fra «beni di rappresentanza» e i «servizi di rappresentanza»? Non esiste nemmeno la certezza che in quelle voci i Comuni mettano tutti le stesse cose. L’addetto che materialmente compila i mandati ha sì l’obbligo di metterci un codice: ma lo sceglie lui. Lui! E il tesoriere che stacca l’assegno non è tenuto a controllare che sia giusto, ma solo che un codice ci sia. E così sarà fino al prossimo 15 marzo, quando l’obbligo di fattura elettronica per le pubbliche amministrazioni almeno questo problema, Deo gratias, dovrebbe risolverlo.

Le spese dei più piccoli
Eppure, nonostante il guazzabuglio, qualcosa di come gli enti locali spendono i soldi si riesce finalmente a capire, grazie soprattutto al numeretto che gli «hacker» hanno messo accanto a ogni cifra: il valore pro capite, appunto. Quel numeretto dice, ad esempio, che certe dimensioni lillipuziane dei municipi non hanno senso. Il Comune più piccolo d’Italia, Pedesina in Provincia di Sondrio, paga per le indennità del sindaco e dei consiglieri comunali 9.358 euro: tanto quando spende (9.679 euro) alla voce «competenze per il personale a tempo indeterminato», forse un unico impiegato part-time. Fanno 283 euro a testa. Ovvio, con 33 abitanti, un sindaco e 11 consiglieri comunali… Moncenisio di consiglieri ne ha 11 per 34 abitanti, e spende ancora di più: 15.449 euro. Sono 454 euro a persona, che fanno di quel paese torinese il posto dove si stanziano più soldi pro capite per mantenere i pubblici amministratori. E anche per le consulenze: sempre che per «incarichi professionali» si intendano quelle. La spesa pro capite nell’ultimo anno è stata di 955 euro. Per un totale di 32.495 euro. Una cifra modesta, in assoluto. Neppure paragonabile con i 75,1 milioni (28 euro pro capite) di una città come Roma. Ma la dice lunga su quanto l’accorpamento dei Comuni minuscoli, pur nel rispetto delle tradizioni storiche e del diritto di rappresentanza, sia indispensabile per mettere sotto controllo la spesa.

Pro capite a confronto
I confronti, sul pro capite, possono essere micidiali. Gli amministratori locali a Roma costano 7,8 milioni: due euro per abitante. Che salgono a 3 a Milano, 5 a Napoli, 6 a Palermo, 11 a Cosenza, 12 a Siracusa e Caserta, 13 euro a Bolzano, 14 a Messina, 15 a Chieti, 22 a Vibo Valentia, 24 ad Aosta… Per carità, è chiaro che più piccola è una realtà e più lo stesso identico servizio costa. Ma una regolamentazione fissa sui gettoni di presenza decisi a livello nazionale in rapporto anche agli abitanti appare indispensabile: i 498 milioni stanziati nel 2014 per le indennità e i gettoni alle giunte e ai consiglieri comunali potrebbero essere spesi più equamente. Prendiamo una delle voci più grosse? Lo smaltimento dei rifiuti, che costa agli italiani quasi 8 miliardi e mezzo l’anno. Il Comune di Napoli nel 2014 ha sborsato 305 euro per ogni cittadino, Venezia 318: ovvio, in una città dove i turisti sono quotidianamente il triplo degli abitanti la raccolta differenziata è complicatissima. Ma si possono spendere 684 euro pro capite a Porto Cesareo, 760 a Capri, 802 a Caorle? Fermo restando, si capisce, che non sempre un’alta spesa pro capite denuncia una mancanza di efficienza. Prendiamo il trasporto pubblico locale: il Comune dove il costo è più elevato è Milano: 621 euro per abitante, contro i 265 di Roma, i 230 di Napoli, i 263 di Brescia e addirittura gli 85 di Palermo. La qualità del servizio di trasporto nel capoluogo lombardo non è minimamente paragonabile, però, non solo con quella dei capoluoghi siciliano o campano, ma neppure quella di Roma. Dove l’incasso dei biglietti è la metà rispetto a Milano e una società come l’Atac, fosse privata, sarebbe già fallita.

Le spese delle scuole
E i servizi scolastici? A Milano si spendono 33 euro per abitante. Niente, in confronto ai 118 di Basiglio, il Comune più ricco d’Italia, o ai 108 di Maranello, il paese della Ferrari. In confronto ai 21 di Potenza, però, si tratta di un’enormità. Ma anche in rapporto ai 17 di Firenze, agli 11 di Livorno, agli 8 di Catania e Latina, ai 7 di Cagliari, ai 6 di Catanzaro… Onestamente: siamo sicuri che i servizi milanesi, in questo settore, valgano tre volte quelli livornesi? È qui che servono, i confronti. Com’è possibile che Milano nel 2014 per la voce «servizi ausiliari e pulizie» abbia speso 23 euro per abitante e Roma solo 7? Risponderete: la differenza si vede. Ma come la mettiamo con Potenza, che ne ha spesi 103? E Salerno: 120? E Muggia, che di euro ne ha investiti 138, può davvero dimostrare che valeva la pena di stanziare il triplo pro capite di Trieste (44 euro) con la quale confina? È così abissale, la differenza, o c’è qualcosa che non torna?

«Varie e generiche»
Della serie «varie e generiche»: a cosa si riferisce la voce «altri materiali di consumo» che assorbe in totale 518 milioni e vede in testa per numeri assoluti Ragusa e nel pro capite il borgo sudtirolese di Tires? Pennarelli, fotocopiatrici o sci? E come mai alla voce «Mezzi di trasporto» Roma risulta avere speso nell’ultimo anno 77,1 milioni contro 4,2 di Milano? Spese improvvise e non previste? Una cosa è certa. Una volta messa a punto la banca dati online con le precisazioni e le contestazioni di questo e quel Comune, nulla sarà più come prima. Già oggi i cittadini di Pomezia, per dire, hanno il diritto di chiedere: come mai per «carta, cancelleria e stampati» la città spende 1,4 milioni e cioè più di Milano (988 mila), Catania (971 mila) o Roma (769 mila)? E perché, si interrogheranno a Roio del Sangro, il loro Comune per «pubblicazioni, giornali e riviste» sborsa 53 euro pro capite contro i 2 di Trento? E come mai Cittareale ha speso 186 euro pro capite di «derrate alimentari»? Tempi duri, per gli amministratori spendaccioni. Purché non ci si accontenti di questo primo assaggio di trasparenza e si metta mano infine al modo insensato di fare i bilanci. E purché, dopo quelli comunali, vengano messi online, con la stessa chiarezza, i bilanci delle Regioni e dei ministeri. Che al momento, però, sembrano un po’ sordi…

Ecco la nuova tassa comunale, mano libera su aliquote e detrazioni

Ecco la nuova tassa comunale, mano libera su aliquote e detrazioni

Paolo Russo – La Stampa

Sindaci liberi di aumentare o tagliare a proprio piacere i tributi locali che oggi come oggi valgono la bellezza di circa 30 miliardi di euro e che da anni sono in continua crescita. «Se local tax deve essere che lo sia fino in fondo» spiega a chiare lettere il sottosegretario all’Economia Pierpaolo Baretta, che per Padoan e Renzi sta seguendo la delicata partita sul nuovo tributo unico comunale, destinato a radunare sotto la stessa sigla Tasi, Imu, Tosap (l’imposta sull’occupazione del suolo pubblico) e, forse, la Tari sui rifiuti. Anche se quest’ultima alla fine potrebbe rimanere fuori, sia perché versata anche dagli inquilini e sia perché calcolata sulla base degli effettivi «consumi di immondizia». La local tax segnerebbe invece la fine della Tasi a carico degli affittuari, che in questi mesi si è rilevata una seccatura, più per calcolarla che per gli importi in larga misura modesti.

Della tassa unica il governo ne comincerà a discutere ufficialmente da oggi con l’Anci per arrivare entro la fine della settimana ad un testo definitivo sotto emendamento alla legge di stabilità. Anche se le difficoltà legate ai meccanismi di calcolo del gettito potrebbero alla fine consigliare un «emendamento annuncio», con data di avvio e contorni della riforma, rimandando i dettagli della stessa a qualche altro provvedimento applicativo. I sindaci chiedono tempo per far decantare un po’ la nuova imposta, che dovrebbe diventare operativa nella seconda metà dell’anno prossimo, semplificando la vita ai contribuenti con un pagamento unico. Anche se per il sospirato bollettino precompilato bisognerà aspettare il 2016.

In ogni caso l’esecutivo sembra orientato a lasciare la massima autonomia impositiva ai sindaci, senza indicare forbici entro le quali dovrebbe oscillare l’aliquota e senza nemmeno introdurre dall’alto quelle detrazioni che dovrebbero salvare dal tributo gli immobili di minor pregio. Nei giorni scorsi si era ventilata l’ipotesi di riprodurre il modello Imu, con una detrazione fissa di 200 euro e una di 50 per ciascun figlio, ma ora si preferirebbe anche su questo lasciare mano libera ai comuni, che sulla Tasi sono riusciti a produrre la bellezza di 100mila combinazioni diverse di pagamento. Ma anche la piena libertà concessa ai sindaci di agire sulla leva fiscale potrebbe non far dormire sogni tranquilli ai contribuenti, soprattutto quelli che vivono in paesi e città con i bilanci in dissesto. Fino ad oggi infatti quel po’ di autonomia impositiva lasciata agli enti locali si è trasformata quasi sempre in un salasso capace di riassorbire, anche con gli interessi, i tagli delle tasse decisi a livello nazionale.

La Uil Servizio politiche territoriali evidenza che la Tasi sulla prima casa è risultata più cara della vecchia Imu per una famiglia su tre, mentre la tassa sui rifiuti è passata dai 225 euro medi a famiglia di cinque anni fa ai 320 di quest’anno. Per non parlare dell’addizionale comunale Irpef. Quest’anno sono 978 i comuni che hanno deciso di aumentare l’aliquota, con un aumento medio del 7%, che sale al 24,7% se calcolato sempre nell’ultimo quinquennio. Con la local tax le addizionali Irpef dovrebbero se non altro essere «statalizzate». Il gettito rimarrebbe invariato ma ad incassare sarebbe l’amministrazione centrale. Questo per compensare il mancato gettito dell’Imu su capannoni, alberghi e centri commerciali, circa 4 miliardi e mezzo che oggi vanno allo Stato e che domani sarebbero incassati dai Comuni.

La riforma della fiscalità comunale sarebbe poi accompagnata da una copertura statale degli interessi per i nuovi mutui fino a 3 miliardi di euro, dal tratto di penna su una serie di vincoli e regole su interessi passivi e spese del personale e dall’addio all’obbligo di destinare all’abbattimento del debito pubblico il 10% degli introiti derivanti dalla vendita di immobili. Che soprattutto la local tax sia a rischio di aumenti surrettizi d’imposta Renzi lo sa bene, ma il premier è oramai deciso a togliere alibi ai Comuni lasciando loro massima autonomia, sapendo che saranno poi i cittadini elettori a non fare sconti. Una sfida dove la posta in palio è l’efficienza dell’amministrazione locale, ma anche il portafoglio dei contribuenti.

Le tasse dimenticate dei Comuni

Le tasse dimenticate dei Comuni

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

A Vibo Valentia, ogni anno arriva davvero nelle casse del Comune solo il 43,5% delle tasse e delle tariffe che giunta e consiglio mettono a bilancio, e più o meno lo stesso accade a Trapani, Palermo e in quasi tutti i capoluoghi di Sicilia e Calabria, ma anche a Campobasso, Potenza o Latina. A Napoli gli incassi reali nel corso dell’anno arrancano fino a quota 56,6% rispetto ai numeri scritti nel bilancio, a Roma si sfiora il 60% e a Milano si sale verso il 68,3%, su su fino a Bergamo, Bolzano o Reggio Emilia dove tutti gli anni più dell’85% delle entrate si presenta puntuale alla cassa.

Fino a oggi, la distanza che separa teoria e realtà nelle entrate dei Comuni è stata sepolta nei tecnicismi contabili, e al massimo è spuntata in qualche relazione della Corte dei conti. Da domani, o meglio dal 1° gennaio prossimo, sarà proprio questo fattore a decidere le sorti dei Comuni, grazie all’uno-due assestato dalla riforma dei bilanci locali e dalla legge di stabilità appena presentata dal Governo. La prima, scritta negli ultimi tre anni e ora pronta a entrare in vigore, chiede ai sindaci di bloccare in bilancio un «fondo crediti» proporzionale ai buchi incontrati dalla loro riscossione negli ultimi cinque anni, la seconda fa rientrare questa voce nei calcoli del Patto di stabilità. In soldoni, lo scambio suona così: la legge di stabilità taglia del 70% gli obiettivi del Patto per i Comuni (il Patto 2015 vale 1,4 miliardi invece di 4,5), ma la riforma blocca i bilanci nelle amministrazioni che non riescono a incassare. Il risultato divide i Comuni in due grandi gruppi: quelli che riscuotono meglio le loro entrate potranno godere in pieno dei nuovi bonus sul Patto di stabilità, gli altri dovranno invece agire drasticamente di forbice.

Come mostrano le elaborazioni realizzate per il Sole 24 Ore da Bureau Van Dijk sul database AidaPa che passa in rassegna tutti i consuntivi dei Comuni, il meccanismo divide con nettezza l’Italia in due. I dati si riferiscono al 2008-2012 perché i certificati 2013 non sono ancora disponibili, ma l’orizzonte quinquennale indicato dalla riforma non lascia alcuno spazio a cambiamenti repentini. In media, i capoluoghi prevedono ogni anno di ricevere per ogni cittadino 882 euro fra tributi (565 euro) e tariffe (318 euro) e ne incassano con puntualità il 66,5%, ma al Sud le percentuali scendono pesantemente mentre al Nord crescono anche di molto. Le eccezioni sono poche (Aosta è 88ª in classifica, Siena 77ª, mentre fra le città meridionali “virtuose” si incontra Barletta al 13° posto), e non cambiano quella che sarà la netta geografia della manovra.

Il nuovo meccanismo chiesto dalla riforma ha il pregio di andare al cuore del problema dei bilanci comunali, sempre più spesso basati su entrate teoriche che non si trasformano in incassi (nei bilanci comunali ci sono oltre 33 miliardi previsti ma mai incassati, si veda Il Sole 24 Ore del 30 giugno) ma finanziano spese reali. L’anno prossimo, le nuove regole bloccheranno nei fondi di garanzia circa 2,4 miliardi, ma la cifra è destinata a impennarsi nei due anni successivi quando la riforma entrerà a regime cancellando alcuni “sconti” contabili previsti per l’anno del debutto.

Pareggio anticipato, stretta su 3mila Comuni

Pareggio anticipato, stretta su 3mila Comuni

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Mentre allontana al 2017 il pareggio di bilancio complessivo, la nota di aggiornamento al Def lo anticipa al 2015 per quel che riguarda Regioni ed enti locali. Nelle 144 pagine del documento, questa mossa occupa solo quattro righe, ma può avere effetti dirompenti per quasi 3mila Comuni.

Il pareggio di bilancio in salsa locale, finora in programma dal 2016, impone di cancellare il rosso sia dalla parte corrente, fatta da tributi, trasferimenti e tariffe sul lato delle entrate, e dalle spese non di investimento su quello delle uscite, sia dal saldo finale di bilancio: il tutto va garantito sia per la competenza, cioè per le entrate e le uscite scritte nei bilanci, sia per la cassa, cioè peri flussi finanziari realizzati davvero. L’applicazione tour court di questi obblighi, secondo le elaborazioni che il Sole 24 Ore ha avuto modo di consultare e che sono al centro del confronto fra i tecnici dell’Economia e di Ifel, significherebbe chiedere una manovra aggiuntiva da 1,5 miliardi a quasi 3mila Comuni. Un’introduzione “a tappe” delle nuove regole, partendo dal pareggio di bilancio di parte corrente per rimandare al 2016 quella sui saldi finali, chiederebbe invece circa un miliardo a 2mila Comuni (fra i quali la presenza di qualche grande città aumenta la popolazione interessata).

Il nuovo calendario scritto nel Def per far partire sul territorio l’articolo 81 della Costituzione votato dal Parlamento nel 2012 è però solo una delle variabili in gioco nella costruzione della manovra 2015 per gli enti locali. Sul piatto delle buone notizie c’è la “liberazione” dai vincoli del Patto di stabilità di un miliardo di euro per gli investimenti, mentre sul lato di quelle cattive per i sindaci, ma ottime per l’Economia, c’è l’ingresso in campo della riforma della contabilità: queste regole, che impongono ai Comuni di accantonare un fondo di garanzia proporzionale alle loro difficoltà di riscossione, blocca nei conti degli enti circa tre miliardi di euro, diminuendo la capacità di spesa dei sindaci e quindi dando una mano al bilancio pubblico.

Su questo punto, secondo i Comuni l’impatto del fondo potrebbe addirittura superare i 3,5 miliardi, e anche queste cifre sono al centro di un confronto con Via XX Settembre. Nella manovra in cantiere, i tre elementi sono collegati. Il miliardo svincolato per gli investimenti, e ribadito ancora ieri dal sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta, è il primo passo per il «superamento» del Patto di stabilità interno , reso possibile proprio dall’avvio della riforma della contabilità (con i suoi fondi di garanzia) e dalla prospettiva del pareggio di bilancio.

Naturalmente, quel che conta è il risultato finale per la finanza pubblica: se il fondo di garanzia si rivela più ricco del previsto, quindi, ci potrebbero essere spazi per un pareggio di bilancio più graduale, magari limitato nel 2015 ai saldi di parte corrente. Sulle scelte finali potrebbero pesare anche le prospettive di tenuta del sistema. A differenza del Patto tradizionale, sia la riforma della contabilità sia l’obbligo del pareggio di bilancio concentrano tutti gli sforzi sui Comuni che oggi hanno più difficoltà nei bilanci: la mossa è corretta per il “risanamento” della finanza pubblica, ma senza un dosaggio corretto solleva più di un rischio sul piano dell’applicazione effettiva.

Un labirinto di prelievi e distrazioni diverse

Un labirinto di prelievi e distrazioni diverse

Michela Finizio – Il Sole 24 Ore

Mancano meno di due mesi al 16 ottobre e molti italiani ancora non hanno capito quanto (e se) devono pagare di Tasi. I dubbi sull’imposta comunale, però, rischiano solo di aumentare confrontandosi con amici o parenti più o meno lontani. A leggere le delibere pubblicate finora sul sito delle Finanze le regole sono diverse da città a città, con una variabilità molto superiore a quella sperimentata con l’Imu.
Cambia pelle da nord a sud, infatti, il tributo per i servizi comunali indivisibili, introdotto dal 2014. Come un dialetto che si adatta alle esigenze locali, si traduce in aliquote e detrazioni molto diverse a pochi chilometri di distanza. A Gorizia, per esempio, sulle abitazioni principali (escluse quelle di lusso in categoria A1, A8 e A9) l’aliquota è fissata all’1,5 per mille con detrazioni modulate in base alla rendita catastale; poco più in là, verso il mare, la cittadina di Grado ha ritenuto di azzerare la Tasi per il 2014, «in un’ottica di semplificazione del rapporto con i contribuenti», si legge nella delibera. Ma è probabile che i conti comunali beneficino dell’Imu pagata sulle numerose seconde case presenti in città.
La grande autonomia lasciata ai Comuni nel determinare la Tasi genera differenze così forti da rendere quasi impossibile confrontare il livello del prelievo sulle abitazioni principali: a Celle Ligure (Savona) l’aliquota è dell’1 per mille, grazie – anche qui – all’elevata densità di seconde case; a Carugate (Milano) sale al 3,3 per mille, anche se l’immobile è di proprietà di anziani o disabili in istituto di ricovero e non locato (la detrazione base è di 100 euro, cui se ne aggiungono 50 per ogni figlio). Detrazioni a parte, il prelievo varia molto anche nelle grandi città: a Brescia l’aliquota è del 2,5 per mille; a Pisa del 3,3; a Modena del 2,5; a Firenze del 3; a Bergamo del 3,2.
In alcuni casi, inoltre, la Tasi diventa una specie di “maggiorazione” sull’Imu: a Maratea, in Basilicata, all’imposta unica municipale si somma un’aliquota Tasi dello 0,4 per mille su residenze di lusso (in classe A1, A8 e A9), seconde case e immobili locati; a Roccaraso, in Abruzzo, il Comune ha scelto di “spalmare” su tutti i fabbricati la Tasi all’1 per mille.
Non tutti i Comuni, poi, hanno beneficiato del meccanismo delle detrazioni. Accade sia al confine con la Francia, a Ventimiglia, sia in Calabria a Vibo Valentia, dove in entrambi i casi è prevista un’aliquota del 2,5 per mille sulle abitazioni principali senza “sconti”. In questi casi, sulle case dalla rendita catastale modesta il conto è superiore a quello dell’Imu, che con la detrazione di 200 euro garantiva di fatto una no tax area.
Altre amministrazioni, invece, hanno “disegnato” un vero e proprio puzzle di sconti progressivi: Pisa prevede nove fasce, in base alla rendita catastale; Parma aggiunge le esenzioni in base all’Isee; a Cassinetta di Lugagnano (Milano) le famiglie con Isee sotto i 12mila euro non pagano. Sono diffuse anche le detrazioni (dai 25 euro a Pisa ai 50 a Bergamo) per ciascun figlio sotto i 26 anni. Ma a Cernobbio (Como), quasi per fare uno sgarbo ai “bamboccioni”, lo sconto di 30 euro sulla Tasi è solo per i figli sotto i 18 anni.
Mai come in questo caso, poi, il parametro dell’aliquota rischia di essere fuorviante. A Cava de’ Tirreni, per esempio, l’aliquota Tasi sulle abitazioni principali è quella massima del 3,3 per mille come nel vicino Comune di Salerno. In quest’ultimo, però, le unità con rendita catastale fino a 750 euro godono di uno sconto pari a 100 euro (che raddoppia se la rendita è inferiore a 350 euro). Meno fortunati i proprietari di Cava de’ Tirreni, e non solo perché le loro case in collina non si affacciano sul mare: per loro è prevista solo una detrazione base di 50 euro.