Corriere della Sera

Debito, nuovo record. Pesano i pagamenti arretrati alle imprese

Debito, nuovo record. Pesano i pagamenti arretrati alle imprese

Francesco Di Frischia – Corriere della Sera

Il debito pubblico italiano continua ad aumentare, mentre dalla produzione industriale e dalla cassa integrazione emergono segnali di un lento miglioramento dell’economia. Secondo Bankitalia a giugno il debito pubblico ha toccato il nuovo record di 2.168,4 miliardi, dovuto anche al pagamento dei debiti arretrati della pubblica amministrazione (proprio ieri il Tesoro ha messo a disposizione degli enti locali altri 3 miliardi), mentre i dati Inps sulla cassa integrazione indicano un calo dell’utilizzo pari al 25% rispetto al 2013 ed Eurostat conferma come la produzione industriale italiana, +0,9 a giugno, si muova in controtendenza rispetto all’Europa.
Entrando nel dettaglio, il debito pubblico in valore assoluto è cresciuto di 2 miliardi rispetto a maggio e di quasi 100 rispetto alla fine del 2013. Secondo il Documento di economia e finanza di aprile, il debito dovrebbe attestarsi a fine anno a 2.141 miliardi, pari al 134,9% del Prodotto interno lordo, ma è probabile che, con il peggioramento della congiuntura, questi obiettivi possano essere rivisti. Sull’aumento del debito nei primi sei mesi dell’anno hanno inciso i pagamenti dei debiti della Pa e anche la scelta del Tesoro di «fare provvista» sfruttando i bassi tassi di interesse nella prima parte del 2014, spiegano dal ministero dell’Economia, per far fronte «alla quota significativa» di debito in scadenza nella seconda metà dell’anno. Al momento quindi, fanno notare, «il conto di disponibilità», con le emissioni effettuate, è «elevato», ma entro l’anno tornerà a «livelli fisiologici di 25-30 miliardi».
I dati diffusi ieri da Bankitalia confermano anche la flessione delle entrate tributarie: sono state pari in giugno a 42,7 miliardi, in diminuzione del 7,7% (3,5 miliardi) rispetto allo stesso mese del 2013. Nel periodo gennaio-giugno le entrate sono ammontate a 188,1 miliardi di euro, con un calo dello 0,7% (1,3 miliardi) rispetto all’analogo periodo dell’anno scorso. Calo da attribuirsi fondamentalmente alla recessione. A questo proposito l’Agenzia delle Entrate ha voluto precisare ieri con un comunicato che non c’è alcun allentamento della lotta all’evasione fiscale: «La direttiva di concentrarsi sul 2012 risponde a esigenze di celerità ed economicità dell’azione amministrativa» perché «in questo modo gli uffici potranno non solo accertare, ma anche recuperare effettivamente e nel più breve tempo possibile le somme evase». Ma «anche le annualità precedenti il 2012 saranno oggetto della massima attenzione e dei relativi controlli», assicura l’Agenzia.
In attesa dei dati di oggi sul Prodotto interno lordo del secondo semestre, che secondo gli analisti dovrebbero indicare un peggioramento del quadro anche nelle altri grandi economie della zona euro, Eurostat ha diffuso ieri i dati sulla produzione industriale. Nei 18 Paesi dell’Unione monetaria la produzione a giugno è scesa dello 0,3% rispetto a maggio. L’Italia si conferma in controtendenza, con un aumento dello 0,9% (ma resta un -0,4% su base annua).
Un capitolo a parte merita la Cig: secondo l’Inps a luglio il numero di ore di cassa integrazione autorizzato è stato di 79,5 milioni (-25% rispetto allo stesso mese del 2013). Ma si tratta di una media frutto dell’aumento della cassa integrazione straordinaria (+18,0%), del calo della cassa ordinaria (-38,3%) e soprattutto della cassa in deroga (-70%) che risente, però, del mancato rifinanziamento.
Insomma, un quadro di luci (poche) e ombre (tante). Tra queste ultime anche la gestione dei fondi strutturali europei. L’Italia rischia di perdere 5-6 miliardi di quelli del ciclo 2007-2013, mentre sta negoziando con l’Ue i fondi 2014-2020. Il premier Matteo Renzi ha riconosciuto ieri che «l’Italia ha speso peggio di come avrebbe potuto» i fondi europei, ma ora «stiamo affrontando la difficoltà». Della questione si occupa il sottosegretario Graziano Delrio che sul tema dei nuovi fondi previsti dall’accordo di partenariato 2014-2020 si sta arrivando all’accordo con Bruxelles. Il governo presto chiarirà con l’Europa sui vecchi fondi, ma intanto Palazzo Chigi assicura, in sintonia con la Commissione Ue e replicando a indiscrezioni di stampa, che non c’è alcun rischio di perdere per il futuro 40 miliardi. Ieri, parlando con il Wall Street Journal , Delrio ha sottolineato che il governo continua sulla strada tracciata, spiegando che non verranno aumentate le tasse ma tagliata la spesa. «E se ci sarà bisogno di sacrifici aggiuntivi, li chiederemo alla Pubblica amministrazione». Significa, spiegano i suoi collaboratori, «che si andrà avanti sulla spending review, a partire dai risparmi possibili sulle municipalizzate, come indicato dal commissario per la revisione della spesa, Carlo Cottarelli».

I consumi immobili di un paese in attesa

I consumi immobili di un paese in attesa

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Per i tanti che sono stati abituati a considerare l?inflazione come un mostro, cambiar passo e mettere nel mirino la deflazione equivale ad operare su di sé una torsione per imparare a guardare da un’altra parte. Eppure gli ultimi dati sull?andamento dei prezzi ci dicono che è un’operazione che dobbiamo fare e purtroppo non per una breve stagione. Immergendoci in questo nuovo scenario non possiamo però dimenticare quello che dice la Bce ovvero che nell’Eurozona non esiste un vero problema-deflazione perché i prezzi scendono per la gran parte a causa dell’effetto combinato di basso costo del petrolio e euro forte.

In Italia comunque non ci vuole un genio per cogliere un’altrettanta evidente correlazione tra bassa inflazione e consumi al lumicino. La stagione estiva non promette grandi cose, il periodo di ferie si va concentrando sempre di più attorno alle due settimane centrali di agosto e la spesa media dei vacanzieri tende pericolosamente verso il basso, con soggiorni che diventano più brevi. Si va diffondendo anche una forma di turismo pendolare con gli autobus che prendono al mattino i bagnanti in città, li scaricano sulle spiagge e li riprendono appena dopo il tramonto. Non dimentichiamo poi che luglio – il mese delle rilevazioni Istat rese note ieri – è stato condizionato dal cattivo tempo che ha ulteriormente amplificato tutti i fenomeni di cui sopra.

La verità è che la tendenza a rinviare gli acquisti dei beni durevoli sembra non aver cambiato verso nonostante gli 80 euro in busta paga. Lo straordinario successo del car sharing nelle grandi città indica anche un mutamento culturale di medio periodo che sarebbe un errore sottovalutare e che promette di andare al di là delle sole autovetture, la cultura della condivisione ci sorprenderà. Intanto gli armadi degli italiani restano pieni («Siamo legati agli oggetti, non buttiamo mai niente» sottolinea il sociologo dei consumi Italo Piccoli) e il ricambio avviene con il contagocce. Lo stesso vale quantomeno per gli elettrodomestici e per l’ arredo. Nella grande distribuzione, e non solo, intanto si intensificano le promozioni. In provincia ci sono persino negozi che si chiamano «Sottocosto», Carrefour ha lanciato una campagna-sconti a sensazione legata alle partite dell’Italia durante i Mondiali di calcio e Ikea ha promesso sconti per il 40% ma secondo il professor Piccoli i risultati non sempre sono all’altezza dell’impegno profuso. I volumi venduti per ripagare i tagli di prezzo devono crescere almeno del 20%. «Il consumatore ha imparato a fare zapping tra le varie promozioni e ha cominciato ad essere sospettoso. Se un giorno trova che un pacchetto di caffè costa 3 euro e poi lo vede in promozione a 1,90 perde completamente la percezione del valore di quel prodotto. Il risultato è che compra di meno e che non è più disposto ad acquistare a prezzo pieno». Un boomerang per le aziende produttrici.

Il rinvio degli acquisti è anche legato a considerazioni più di fondo. Secondo l’economista Fausto Panunzi bisogna sempre ricordarsi che sono cambiate profondamente le aspettative, «nelle famiglie si trepida per la disoccupazione dei figli o per il rischio che il padre a 50 anni venga tagliato e licenziato dall’azienda in cui lavora» e di conseguenza si è portati a risparmiare quasi compulsivamente, a comprare solo lo stretto necessario. E non c’è promozione che tenga nei confronti di un mood così negativo. Che settembre avremo, allora, se l’orientamento dei consumatori rimane lo stesso? Gli 80 euro ci saranno ancora ma Piccoli crede che non sarebbe sensato da parte del governo lanciare campagne pro-consumi: «Anche gli spot che Berlusconi fece a suo tempo alla fine non portarono a nulla di significativo».

Il perimetro della sovranità

Il perimetro della sovranità

Antonio Polito – Corriere della Sera

Questa è la quarta estate d’ansia per la nostra sovranità. Ed è la quarta di seguito in cui ci accorgiamo che il governo ha sbagliato i conti, che la ripresa era un miraggio, e che non cresceremo affatto. Nella prima estate c’era Berlusconi, nella seconda Monti, poi Letta, ora Renzi. Cambiano vorticosamente i premier ma i problemi restano uguali, come la crisi in cui è piombato il nostro Paese. E alla fine del tunnel c’è sempre l’identica alternativa: o ce la facciamo da soli, o qualcuno lo farà al posto nostro. Perché l’Italia è troppo grande, e troppo intrecciata è la sua sorte con quella dell’intera Europa, per poter fallire. Il tema della sovranità è tutto qui: meglio farlo noi o lasciarcelo imporre da altri? E la risposta sembra scontata: meglio farlo noi. È per questo che abbiamo cambiato quattro governi in quattro anni. Ma arrivati al punto in cui siamo, al debito in cui siamo, alla recessione in cui siamo, il dubbio che serpeggia in Europa è: ce la faranno mai, da soli?

Per far da soli ci siamo sottoposti a grandi sacrifici, che hanno reso ben presto impopolare chiunque abbia governato. Ma se avessimo chiesto aiuto avremmo pagato un prezzo molto più alto: in tutti i Paesi che l’hanno fatto, perfino gli stipendi degli statali sono stati tagliati. Spagna e Portogallo si stanno sì riprendendo, ma a costo di uno choc sociale che chi governa l’Italia ha il dovere di evitare.

Perciò ha ragione Renzi, come altri premier prima di lui, quando dice con orgoglio che ciò che c’è da fare lo decidiamo noi. È esattamente questo il perimetro della nostra sovranità. Essa infatti ci conserva la libertà di decidere su tasse, spese, pensioni, mercato del lavoro. Ma è limitata da due colonne d’Ercole oltre le quali non possiamo più andare: da un lato ci sono i Trattati, da noi liberamente firmati, che ci dicono di quanto possiamo indebitarci ogni anno; dall’altro ci sono i mercati, che ci dicono quanto costa indebitarci ogni anno. Dunque la nostra sovranità non è limitata da Bruxelles, ma dal nostro debito. Anzi, per essere più precisi, dal credito che ci danno i risparmiatori di tutto il mondo e chi ne gestisce i capitali. Siccome il nostro debito è immane, la nostra sovranità è già molto limitata. Ogni volta che ci servono soldi, ne perdiamo un pezzo. Meno ne chiediamo e più liberi siamo. Ma se non ricominciamo a produrre ricchezza, ne dovremo chiedere sempre di più.

Per nostra fortuna stiamo vivendo un momento magico dei mercati. Nonostante le nubi nere che si aggirano per l’Europa, si mantengono calmi. Ma non c’è bisogno di essere un gufo per capire che questa bonaccia può finire da un momento all’altro. Ecco dunque un’ottima ragione per correre, e sbrigarsi a fare ciò che va fatto. Questo non è un braccio di ferro con Juncker per avere uno sconticino, non è questione che si possa risolvere all’italiana, con un po’ di furbizia e qualche rodomontata. Se continuiamo ad aspettare passivamente una ripresa che poi resta zero, o sotto zero; se continuiamo ad eludere scelte difficili definendole inutili totem, non c’è alcuna speranza di reggere il nostro deficit sopra la linea di galleggiamento. In un mondo nel quale merci e capitali circolano liberamente e globalmente, è sovrano solo chi è forte. E noi stiamo diventando troppo deboli per vivere un’altra estate così.

Elite avvelenate, gufi e rosiconi

Elite avvelenate, gufi e rosiconi

Ernesto Galli Della Loggia – Corriere della Sera

Si può riformare l’Italia con il concorso delle élite? Si possono con il loro consenso cambiare le regole che ci stanno strangolando? È questo l’interrogativo che oggi il Paese si trova di fronte, e in particolare che si trova di fronte il presidente del Consiglio, stando anche a quello che si legge nel colloquio di ieri con La Stampa.
Le élite italiane non amano Matteo Renzi. Lo hanno guardato con crescente simpatia nella sua fase per così dire «retorica», quando combatteva per conquistare la leadership e si è subito segnalato per la novità del suo linguaggio, delle cose che diceva (alcune delle quali fino a poco tempo prima a sinistra inconcepibili) e per come le diceva. Ma quando dalle parole si è cominciato a passare ai fatti le cose sono mutate. Allora hanno preso a fioccare via via prima i distinguo («È giovane e simpatico ma ha troppa fretta e troppa ambizione»), poi le obiezioni («Non ha una squadra all’altezza», «Vuol mettere troppa carne al fuoco», «Conta eccessivamente sul potere delle parole»; tra parentesi: tutte cose in cui c’è del vero), infine le critiche vere e proprie.

Tra le quali bisogna distinguere. Da un lato ci sono le critiche di natura più spiccatamente politico-ideologica, il più delle volte assurdamente eccessive come quella di autoritarismo. Queste critiche come è ovvio vengono quasi esclusivamente dalle élite di sinistra, egemoni in settori importanti come la cultura, la comunicazione, lo spettacolo – che incarnano peraltro una peculiarità italiana: la forte simpatia-importanza-presenza che per ragioni storiche e/o di puro opportunismo opinioni e abiti mentali di sinistra, a volte anche radicaleggiante, hanno in tutti i piani alti della società -. Di Renzi tali élite di sinistra mettono ferocemente sotto accusa soprattutto un aspetto: la sua intesa con la Destra berlusconiana. Intesa certo anomala, ma che a pensarci bene può essere vista come la risposta a quella altrettanto anomala, tipica dell’Italia, tra la suddetta élite intellettuale di sinistra e il potere socio-economico tradizionale. In realtà soprattutto l’élite intellettuale si sente specialmente colpita, io credo, da altri aspetti del «renzismo»: per esempio dalla palese indifferenza del presidente del Consiglio per i «venerati maestri», dal suo mancato omaggio alla loro persona, nonché dalla sua evidente avversione per le pratiche di cogestione-lottizzazione-influenza tipiche di tale élite specie in istituzioni pubbliche come la Rai, l’Università e tante altre.
Ma accanto a queste ci sono le critiche provenienti dalle élite dell’economia, delle professioni, dell’amministrazione pubblica. Qui la forte ambizione riformatrice di Renzi e il suo piglio valgono a mettere il dito su una evidente contraddizione che da anni è al fondo del modo di pensare di questi gruppi sociali, ma che aveva potuto finora rimanere comodamente nascosta.

In gran parte essi nutrono propositi di cambiamento anche radicali, ripetono più o meno da sempre che «così non si può andare avanti», sono a ogni momento pronti a mettere sotto accusa la politica per i suoi ritardi e incapacità. Ma della politica essi hanno vitalmente bisogno. Storicamente, infatti, lo status e i relativi privilegi grandi e piccoli di medici, avvocati, magistrati, alti dirigenti pubblici, professori universitari, giornalisti si sono costruiti in buona parte grazie per l’appunto alla protezione loro offerta dalla politica. Non parliamo dell’industria, della banca, del commercio. Qui sostegno statale diretto, legislazioni favorevoli, limitazioni alla concorrenza, regimi di volta in volta ad hoc nelle concessioni, negli appalti e nelle licenze – tutto dipendente dalla politica – hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo decisivo.

Come meravigliarsi se questo poderoso complesso d’interessi – i cui vari settori per giunta sono generalmente dominati da gruppi di comando di età avanzata – sebbene possa talvolta esprimere opinioni e desideri di cambiamento, ne tema al tempo stesso moltissimo ogni reale ed effettiva avvisaglia? Come meravigliarsi se esso cerchi di esorcizzarla celando il proprio malumore dietro le critiche mascherate da una delusione di maniera?

In realtà la sessantennale vicenda della democrazia italiana ci ha lasciato un’eredità avvelenata: vale a dire una compagine sociale per la quale è oggi difficile immaginare una qualunque riforma, o quasi, che non colpisca in modo significativo interessi forti e ramificati. Capaci di agitare lo spauracchio, in termini di consenso, che è stato sempre fatto valere contro ogni governo riformatore: il prezzo delle riforme lo si paga subito, mentre i vantaggi si vedono solo dopo.

Manca in questa rassegna un ultimo protagonista: la stampa. I giornali amano Renzi? Ovviamente a seconda dei giornali, risponderei io. Per il presidente del Consiglio e i suoi seguaci – specie quelli della 24esima ora – ho l’impressione che invece la risposta sarebbe: no, per nulla; o comunque mai abbastanza. Ma il potere, qualunque potere, pensa sempre così a proposito dei giornali e di chi ci scrive. Questi però, sebbene facciano parte anch’essi di un’élite privilegiata, cercano, per lo più, in realtà, di fare solo il loro mestiere, che per sua natura è – giustamente! – un mestiere daltonico: abituato cioè a vedere più il nero che il bianco, e a scorgere sempre anche nel bianco qualche traccia di grigio. Renzi perciò se ne convinca: «i gufi e i rosiconi» veri, quelli che contano, usano strumenti diversi dalla carta dei giornali.

Un’agenda ragionevole

Un’agenda ragionevole

Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

È evidente che Matteo Renzi considera il Pil (prodotto interno lordo) un oggetto un po’ noioso, e comunque la conseguenza, non il faro dell’azione politica. Egli ritiene – in questo seguendo uno dei migliori filoni della recente teoria economica, vedi ad esempio Daron Acemoglu e James Robinson, Perché le nazioni falliscono, Saggiatore 2013 – che il successo di un Paese dipenda dalle sue regole istituzionali e giuridiche. Senza buone regole crescere è impossibile. Di qui il suo impegno per superare il bicameralismo perfetto e soprattutto per riformare il Titolo V della Costituzione limitando l’autonomia irresponsabile delle Regioni. E tuttavia, se pur la sequenza è quella giusta, la differenza fra i tempi che Renzi si è prefisso per le riforme costituzionali e per quelle economiche, poche settimane le prime, mille giorni le seconde, fa sorgere il dubbio che egli sottovaluti la situazione del Paese.

Abbiamo (dati Istat per il mese di giugno) tre milioni e 153 mila disoccupati, 26 mila in più di un anno fa. Fra costoro 700 mila giovani di età compresa fra i 15 e i 24 anni. I giovani che non lavorano in realtà sono molti di più: 700 mila sono quelli che hanno deciso di mettersi presto a lavorare ma, pur cercando attivamente, non trovano nulla. Mentre nel resto dell’eurozona il tasso complessivo di disoccupazione ha cominciato a scendere, in Italia continua a rimanere sopra il 12 per cento (era poco sopra il 6% prima della crisi). Per abbattere la disoccupazione bisogna agire al tempo stesso sull’offerta e sulla domanda. Dal lato dell’offerta il provvedimento principe è la sostituzione dei contratti a tempo determinato e indeterminato con un contratto di lavoro unico a tutele crescenti: il Jobs Act di Renzi. Quel disegno di legge delega è stato presentato al Parlamento quattro mesi fa. Se si è completata la prima lettura di una riforma costituzionale in poche settimane, non si capisce perché il Jobs Act non possa essere approvato da Camera e Senato entro metà settembre, in modo da consentire al governo di emanare i decreti delegati insieme alla legge di Stabilità il 20 ottobre.

Sempre dal lato dell’offerta, la grande risorsa sprecata sono le donne. La loro partecipazione al mercato del lavoro è di dieci punti sotto la media europea. E non è solo colpa del Mezzogiorno: vi è la medesima differenza fra Lombardia e Baviera. Inoltre, quando una donna italiana lavora, la probabilità che dopo un parto ella riprenda a lavorare è solo del 50%. Marco Leonardi e Carlo Fiorio (www.lavoce.info) propongono di incentivare il lavoro femminile sostituendo le detrazioni per il coniuge a carico (che costano circa 3,5 miliardi di euro l’anno e non hanno alcun effetto sul lavoro femminile) con un assegno pagato direttamente alle donne con figli che lavorano, magari proporzionale al numero dei figli. Il Parlamento ha approvato, l’11 marzo scorso, una legge delega che consente al governo di ridisegnare da zero il nostro sistema fiscale (anche riprendendo l’idea, sperimentata per la prima volta durante il governo Monti, di una tassazione differenziata a favore delle donne). L’attuazione della delega è un’operazione delicata perché muterà gli incentivi a lavorare e a investire. Ma il fatto che sia delicata non significa che richieda tempi eterni.

Il governo potrebbe nominare già la prossima settimana una Commissione tecnica (sul modello della Commissione Visentini che ridisegnò il nostro sistema fiscale all’inizio degli anni Settanta) e chiedere proposte entro metà settembre. Anche in questo caso i decreti delegati potrebbero essere varati entro il 20 ottobre. Per un presidente del Consiglio che quattro mesi fa ci ha promesso una riforma al mese, non sono tempi impossibili.

Liberare l’offerta è condizione necessaria, ma non sufficiente. Occorre che riprenda la domanda. Le esportazioni vanno bene, ma da sole non riescono a sostenere l’intera economia. Deve crescere la domanda interna, cioè i consumi delle famiglie. Affinché ciò avvenga bisogna abbattere la pressione fiscale come ha suggerito giovedì anche il presidente della Banca centrale europea. Gli 80 euro di maggio vanno nella direzione giusta. Fino ad ora non si sono riflessi in un aumento dei consumi perché le famiglie, io penso, temono si tratti di una riduzione solo temporanea delle tasse. Vanno resi permanenti ed estesi ad un numero maggiore di cittadini. Gli 80 euro costano 10 miliardi l’anno, lo 0,6% del Pil. Affinché una riduzione permanente delle tasse abbia effetti significativi sui consumi (considerando il livello da cui parte la pressione fiscale oggi sopportata dalle famiglie) servirebbero almeno 2 punti di Pil, cioé circa 30 miliardi. Dopo la «vicenda Cottarelli», Matteo Renzi ha detto (giustamente) che i tagli di spesa sono una scelta politica e se ne è assunto la responsabilità. Cottarelli stima possibili tagli per 30 miliardi sull’arco di un triennio. Il presidente del Consiglio dovrebbe far suo quell’impegno e al tempo stesso varare, con la legge di Stabilità, una immediata riduzione delle tasse della medesima entità. Una riduzione-choc della pressione fiscale di 30 miliardi (come Alberto Alesina ed io ripetiamo su queste colonne da un paio d’anni) ci porterebbe temporaneamente oltre il limite del 3% nel rapporto fra deficit e Pil. Ma se preceduta dalle riforme istituzionali e dall’approvazione definitiva degli interventi su lavoro e spese, è una proposta che a Bruxelles si può, e a mio parere si deve, portare. La strada più pericolosa è darsi mille giorni e nel frattempo aspettare, magari ricorrendo in ottobre ad un aumento mascherato della pressione fiscale per far quadrare i conti. Matteo Renzi deve aver chiaro che quella strada porterebbe lui al fallimento e l’Italia dritto ad un default sul debito pubblico.

Quei burocrati che vogliono costare come gioielli

Quei burocrati che vogliono costare come gioielli

Gian Antonio Stella – Corriere della Sera

Una Porsche! Com’è venuto in mente a una delegata dei dipendenti di Montecitorio, per spiegare i mugugni contro i tagli, di paragonare la «macchina» burocratica della Camera a un’auto di lusso che «come tutte le cose pregiate» è giustamente costosissima? Quel tetto di 240 mila euro di stipendio massimo che dovrebbe essere imposto è di 9 mila superiore alla busta paga di Angela Merkel: la cancelliera tedesca ha forse una «professionalità» più bassa dei nostri funzionari? Di più: quel tetto, dopo anni di crisi, consumi in calo, disoccupazione crescente, equivale al Pil pro capite di 9 friulani, 14 sardi, 16 pugliesi o 17 calabresi… Chi lo spiegherà, ai cittadini, che si tratta di «diritti acquisiti» e intoccabili? La signora Anna Danzi, che si riconosce in una delle undici (undici!) sigle sindacali di Montecitorio, non poteva scegliere giorno peggiore per schiaffeggiare gli italiani. Proprio nelle ore in cui l’Istat comunicava che siamo ancora in recessione e che l’uscita dalla crisi si allontana di nuovo, ha spiegato a Tommaso Ciriaco di Repubblica : «Il nostro lavoro richiede una elevata professionalità. Come tutte le cose pregiate, come una Porsche, ha un costo. Nessuno si stupisce se costa di più un diamante di una pietra di scarso pregio».

Ma come: abbiamo una squadra di fuoriclasse nel cuore dello Stato eppure siamo l’unico paese dell’Europa e dell’Ocse ad avere avuto negli ultimi anni un crollo del reddito pro capite? Le cose vanno male solo per colpa dei governi, dei premier, dei ministri, dei deputati e senatori che non approfittano della fortuna di avere in tasca quei purissimi «diamanti»?

Al di là delle ironie, che la progressiva decadenza di una classe politica sempre più mediocre abbia spalancato spazi enormi agli apparati di supporto è indiscutibile. Che questi apparati siano spesso chiamati a rimediare alle carenze di questo o quell’altro eletto del popolo è altrettanto vero. E gli italiani devono essere grati a tanti funzionari e dirigenti perbene e preparatissimi che in questi anni hanno accudito uomini di governo talora incapaci, arginandone gli errori. Chapeau. E grazie.

Detto questo, va ricordato anche che in troppi si sono impossessati di un potere immenso dando ragione a Max Weber: «Ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni». Al punto che mesi fa Pietro Ichino si levò in Senato sventolando una legge in votazione: «Questo è un testo letteralmente illeggibile. Non è solo incomprensibile per i milioni e milioni di cittadini chiamati ad applicarlo, ma illeggibile anche per gli addetti ai lavori, per gli esperti di diritto del lavoro e di diritto amministrativo. È illeggibile per noi stessi legislatori che lo stiamo discutendo (…) Credo che in Aula, in questo momento, non ci sia una sola persona in grado di dirci cosa voglia dire». Risultato: il burocrate estensore di quella legge è l’unico in grado di interpretarla. Di quella legge è dunque il padrone. Non va così, in una democrazia sana.

Ha spiegato mesi fa il commissario alla spending review Carlo Cottarelli che i dirigenti pubblici di prima fascia sono pagati mediamente il 4,27% più del reddito pro capite dei propri concittadini in Germania, il 5,21% in Francia, il 5,59% in Gran Bretagna, il 10,17% in Italia. I cittadini sono o no autorizzati a chiedere perché mai i nostri dovrebbero essere pagati più del doppio dei tedeschi nonostante il loro Stato, il loro sistema sociale, la loro economia vadano molto meglio? È accettabile che, come spiegano i dati messi online dalla Camera per una scelta di trasparenza, un consigliere parlamentare possa arrivare a prendere 421.219 euro lordi e cioè quasi duecentomila più di Ban Ki-moon, che come segretario dell’Onu di euro ne guadagna 222 mila?

Di più, mentre altri sindacalisti di Montecitorio come Claudio Capone della Cgil sostenevano il rifiuto del tetto perché «dà l’idea che un datore di lavoro può decidere che un dipendente guadagni troppo e togliergli parte dello stipendio», la signora Danzi ha aggiunto che per carità, nessun tabù nelle trattative, «ma da dieci anni sigliamo accordi a perdere. Siamo stanchi di vedere peggiorare il nostro status giuridico ed economico senza una riforma organica».

Sicura? Stando ai bilanci della Camera è vero che, dopo tante polemiche sui costi, il monte-stipendi e le retribuzioni medie hanno preso a calare. Soprattutto grazie agli esodi di chi si è affrettato ad andare in pensione appena possibile, s’intende, col risultato che i trattamenti di quiescenza pesano sempre di più. Ma diamo a Cesare quel che è di Cesare e a Laura Boldrini quel che è di Laura Boldrini, dei grillini e degli altri deputati che hanno appoggiato i primi tagli: nel 2012 un dipendente della Camera costava in media 152.531 euro, l’anno dopo 150.403 e oggi, con i dipendenti ridotti a 1.417, «solo» 149.047 euro. Bene.

Da qui a dire che da anni i «mon-tecitorini», scusate il neologismo, prendono di meno, però, ce ne corre. Il costo medio di un dipendente nel 2006, prima della crisi, era di 112.071 euro. Da allora, se le retribuzioni fossero state semplicemente aggiornate con l’inflazione (cosa che gli altri dipendenti, comunque, se la sognano dopo l’abolizione della scala mobile), il costo unitario sarebbe salito nel 2013 secondo i parametri Istat a 128.881. Invece, come dicevamo, è stato di 21.522 euro superiore: più 34% (nominale) in otto anni. Un incremento stratosferico, offensivo in anni di vacche magrissime. Nel frattempo, secondo l’Ocse, il reddito medio italiano perdeva dal 2007 al 2012 (e poi è calato ancora…) il 12,9% subendo «una diminuzione di circa 2.400 euro rispetto al 2007, arrivando a un livello di 16.200». Tutti italiani che la Porsche o i diamanti non possono permetterseli di sicuro…

L’ultimo avvertimento

L’ultimo avvertimento

Danilo Taino – Corriere della Sera

La sera del 25 maggio scorso, l’Italia era la beniamina dell’Europa: la netta vittoria di Renzi alle elezioni per il Parlamento di Strasburgo apriva una fase di possibile stabilità politica nella quale realizzare le sempre attese riforme strutturali. La terza economia dell’Eurozona sollevava nei governi e nei mercati aspettative del tutto nuove. Ieri, quella fase era già finita: da Francoforte, Mario Draghi ha separato il caso italiano da quello degli altri Paesi dell’area euro, i quali, mentre Roma rinviava, hanno, chi di più chi di meno, riformato le loro economie. L’Italia sembra tornata a essere il primo problema dell’Europa.

Anche con esempi per un governatore «non convenzionali» – il racconto di imprenditori e di giovani che in Italia non riescono a investire a causa della troppa burocrazia – il presidente della Banca centrale ha dedicato buona parte della sua conferenza stampa mensile a spiegare il perché nell’Eurozona siamo in presenza di una ripresa «non allineata»: i Paesi che hanno fatto le riforme strutturali – «mercato del lavoro, dei prodotti, concorrenza, giudiziario e così via» – crescono, gli altri no, come si è visto dagli ultimi dati del Prodotto interno lordo. Si possono avere tassi d’interesse ai minimi, la Bce può inondare i mercati di denaro, si possono tagliare le tasse (doveroso), ma tutto è inutile se le rigidità del sistema economico impediscono di aprire business, di assumere, di espandere la propria attività, di contare su mercati trasparenti e su norme certe e applicabili. La mancanza di riforme strutturali crea incertezza, «un fattore molto potente che scoraggia gli investimenti».

Poco più di due mesi dopo quel 25 maggio, nelle istituzioni, nei governi ma anche sui mercati, c’è insomma un cambiamento di clima nei confronti della capacità dell’Italia di rendere efficiente l’economia, quasi un contrordine. E questa è una delle ragioni per le quali Draghi insiste sulla necessità di cedere sovranità a Bruxelles anche per quel che riguarda le riforme strutturali: se un Paese non è in grado di farle, glielo si imponga, come già avviene con i bilanci pubblici e con la gestione delle banche. L’Italia è troppo importante e grande per essere lasciata andare a fondo.

Niente di cui essere soddisfatto, per il governo italiano. Il ritorno della recessione e l’analisi del presidente della Bce, non sono però una condanna senza appello per Renzi. Anzi, potrebbero essere un’opportunità per ridefinire priorità e urgenze e per assumere un approccio più solido alla Ue. Se la scelta di iniziare il cammino riformista con l’abolizione del Senato e non con interventi strutturali sull’economia ha probabilmente determinato una tempistica avventata, ora si tratta di mettere sul tavolo impegni precisi e tempi certi per realizzare riforme come quelle indicate da Draghi. Dall’altra parte, va messa in disparte la retorica polemica nei confronti dell’Europa che non darebbe abbastanza flessibilità ai bilanci pubblici, cioè alla spesa: è un argomentare fragile che, tra l’altro, ai partner che hanno fatto «i compiti a casa» appare come la scusa di chi non ha l’energia per impostare una svolta riformista. La Spagna, il Portogallo, l’Irlanda, persino la Grecia indicano che quando si fanno programmi seri di riforma e li si rispettano l’economia riprende fiducia e riparte prima di quanto ci si aspetti. E che, una volta sollevate, le aspettative non vanno poi lasciate cadere: il 25 maggio non è per sempre.

Lavoro, giustizia e competitività. Senza le riforme non ci sarà crescita

Lavoro, giustizia e competitività. Senza le riforme non ci sarà crescita

Alan Friedman – Corriere della Sera

Ora che l’Italia è ufficialmente di nuovo in recessione, per la terza volta in soli sei anni, sarebbe utile capire perché il nostro Paese sia il fanalino di coda in Europa per quanto riguarda la crescita.

A mio avviso la causa di questa situazione non è la moneta unica, e nemmeno il ciclo della congiuntura dell’economia europea. Non è neppure soltanto il fatto che la Germania cresca meno e acquisti in maniera meno massiccia le nostre merci, anche se questo è certamente vero.

Il motivo principale per cui l’economia italiana continua a essere così anemica è la mancanza di modernizzazione attraverso le riforme – del mercato del lavoro, del fisco, della burocrazia e del welfare. In altre parole, l’Italia non crescerà finché non avrà fatto le stesse riforme che altri Paesi hanno fatto dieci o venti anni fa.

Finché non saremo competitivi nei confronti dei nostri partner principali in Europa – in termini di una giustizia con delle regole chiare, di un costo del lavoro ragionevole, di una vera flessibilità del mercato dell’occupazione e di una migliorata produttività, equiparabile ad altri Paesi – l’Italia non potrà progredire. Le riforme non sono un optional. Sono necessarie. Servono a farci uscire dalla crisi. Sono una base per la crescita, non la soluzione magica.

Per un politico è difficile ammettere che l’impatto forte, salutare e visibile delle riforme non si otterrà in sei o dodici mesi, ma piuttosto in un periodo di almeno due o tre anni. Ma è così. Fare le riforme economiche in modo che il mercato italiano sia paragonabile a quelli tedesco, inglese o olandese significa intraprendere un percorso molto – ma molto! – ambizioso, e tutto questo in un Parlamento non proprio di leoni. Eppure il gioco varrebbe la candela, perché renderebbe l’Italia più forte.

La realtà è che viviamo da tempo in un Paese a crescita più o meno zero. Siamo da tempo in una fase di stagnazione nazionale, in cui l’economia non genera posti di lavoro, mancano investimenti pubblici e privati, manca una politica industriale, il tasso di disoccupazione aumenta, la burocrazia ci strangola, il denaro non gira, e la classe dirigente (compresa la politica) non sembra in grado di esercitare una leadership o una visione adeguata a portarci fuori dalla crisi. Ora c’è Renzi, che prova a spingere l’acceleratore sulle riforme ma inciampa ogni tanto a causa dei gattopardi della sinistra del suo partito, o delle resistenze da parte di Sel o dei cinquestelle. Renzi ha un consenso elettorale che non deve sprecare: deve spenderlo per fare una riforma coraggiosa dell’economia italiana. Deve, se necessario, «battere la testa contro il muro» per insistere su questo punto, e proporre anche qualche cambiamento strutturale che non farà piacere a Susanna Camusso.

La mia preoccupazione, in sintesi, è questa: se si facessero davvero tutte le riforme necessarie per rimettere l’Italia sul binario della crescita e dell’occupazione, i franchi tiratori sarebbero sempre lì, pronti ad affossare ogni singola proposta? La guerra potrebbe essere lunga. Ora Renzi ha bisogno di Berlusconi per portare a termine alcune modifiche istituzionali e la nuova legge elettorale. Bene. Ma si può fare in Italia una riforma radicale del mercato del lavoro, come hanno fatto i governi di centrosinistra in America durante l’Amministrazione Clinton, in Germania negli anni di Schröder o in Gran Bretagna con Blair? Laddove quelle modifiche sono state fatte, laddove c’è più flessibilità nel mercato, il tasso di disoccupazione è la metà di quello italiano.

È inutile girare intorno al problema. L’Italia non avrà nessun futuro di crescita ragionevole nel medio e lungo periodo se non fa subito le riforme strutturali che altri Paesi hanno già portato a termine. È ovvio. Questi cambiamenti devono rappresentare un vero e autentico ammodernamento di una macchina che non funziona più, di un sistema sclerotico e vecchio. Se l’Italia riesce a fare ora, nei prossimi mesi, quelle riforme che altri Paesi hanno già fatto dieci anni fa, ci potrebbe essere la speranza di una ripresa ragionevole verso la fine del 2015. Se invece vengono bloccate nel sottobosco romano, in Parlamento e dintorni, saremo qui a scrivere di un’economia senza crescita.

L’ora dei tagli, 1123 società sono soltanto scatole vuote

L’ora dei tagli, 1123 società sono soltanto scatole vuote

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Carlo Cottarelli ne è perfettamente cosciente: il problema più grosso non è scovare le migliaia di società pubbliche inutili, ma come liberarsene. Venderle? Impossibile trovare qualche pazzo suicida disponibile a farsene carico. Chiuderle, allora? Ne sa qualcosa chi ci ha provato. Valga per tutte l’esempio della Siace, ovvero la Società per l’industria agricola, cartaria editoriale, di proprietà della Regione siciliana. L’hanno messa in liquidazione nel 1985, quando il Verona di Osvaldo Bagnoli vinceva lo scudetto, un commando palestinese sequestrava l’Achille Lauro e Michail Gorbaciov diventava segretario del Pcus. E ancora non ne sono venuti a capo.

In molti casi, allora, la soluzione non potrà che essere quella di accorpare, accorpare e accorpare ancora, prima di liquidare. Per tagliare intanto le poltrone nei consigli di amministrazione. Quindi i posti di lavoro inventati e clientelari. Ma non crediate che siano operazioni semplicissime. Nemmeno per quelle 2.761 società che, dice il rapporto Cottarelli sulle partecipate pubbliche, hanno più amministratori che dipendenti. Come Rete autostrade mediterranee: la quale, udite udite, non è di un ente locale sprecone, e neppure di una Regione spendacciona. Ma del Tesoro. Creata dieci anni fa dal governo di centrodestra per il progetto delle autostrade del mare, gestisce le istruttorie per i contributi dovuti ai tir che viaggiano sulle navi anziché intasare le strade. Ha cinque amministratori e quattro dipendenti, di cui tre a tempo determinato. Più alcuni contratti a progetto. Con una spesa per i compensi degli amministratori che nel 2012 superava di 55 mila euro quella per le retribuzioni del personale. Il solo amministratore delegato Tommaso Affinita, dirigente del Senato che era stato capo di gabinetto dei ministri Agostino Gambino e Pinuccio Tatarella nonché presidente dell’autorità portuale di Bari, percepiva secondo i dati pubblicati dal Tesoro un compenso di 246 mila euro.

E non sarà una passeggiata, purtroppo, neppure mettere mano alle 1.213 società che sono soltanto scatole vuote. Hanno, sì, gli amministratori. Ma nemmeno una segretaria. Il fatto è che se lo Stato centrale controlla 50 gruppi, con 526 società di secondo livello, il resto della faccenda sta tutta in periferia, e ha dimensioni enormi. Ben prima del commissario alla spending review la Corte dei conti ha provato a tracciarne i contorni. Arrivando a un livello di approssimazione che fa venire i brividi, come ha raccontato il procuratore generale Salvatore Nottola in occasione dell’approvazione del rendiconto statale, il 26 giugno scorso. Perché alle 576 società che fanno capo allo Stato ne bisogna sommare altre 5.258 di Regioni, Province e Comuni, più 2.214 «organismi di varia natura». Consorzi, enti, agenzie, che porterebbero il totale a 8.048. Con un dedalo inestricabile di partecipazioni: secondo la Corte dei conti le singole quote azionarie in mano ai soli Comuni sarebbero qualcosa come 33.065. Il condizionale è d’obbligo.

Sentite che cosa scrive Cottarelli nel suo blog: «Si è parlato di ottomila società, consorzi, enti vari partecipati degli enti locali, comuni e regioni soprattutto. Ma sono certo di più», In questa «giungla molto variegata», come il commissario uscente la definisce, c’è davvero di tutto. Perfino, sottolinea, società che vendono «ciò che è già offerto dal mercato» privato. Già. Come l’Enoteca laziale, un ristorante di proprietà della Regione Lazio, dove però certo assessori mangiavano gratis con ospiti e amici: e infatti si è scoperto che aveva accumulato un milione e mezzo di debiti. Ma senza arrivare a questi estremi, sarebbe comunque da chiedersi perché il Tesoro debba controllare una società di consulenza (Studiare Sviluppo, si chiama), o possedere ancora il 90% di Eur spa, immobiliare che ha raccolto l’eredità dell’ente che doveva organizzare l’Esposizione universale del 1942 a Roma. Che ovviamente non si tenne mai, causa seconda guerra mondiale. Proprio qui sta il punto: le Regioni e gli enti locali hanno utilizzato le società partecipate spesso per aggirare le norme statali, come il blocco delle assunzioni, alimentare il consenso o pagare dazi politici. E per lo Stato centrale intervenire su certe situazioni può rivelarsi complicato. Soprattutto quando c’è di mezzo l’autonomia. Dice tutto la vicenda della Sicilia, che fra tutte le Regioni italiane ha il record delle partecipazioni. Le società regionali hanno 7.300 dipendenti e sono costate per il solo personale, nei quattro anni dal 2009 al 2012, un miliardo e 89 milioni. Più 87 milioni per retribuire, nello stesso periodo, una pletora di amministratori: con una spesa media annua, per ogni società, di 768 mila euro. Per non parlare del miliardo e 91 milioni sborsato per farle funzionare, e dei 75 milioni di perdite nei conti economici. Perdite «costanti e rilevanti», affermano i giudici contabili, evidenziate «per tutte le società a capitale interamente pubblico» della Regione. E non succede soltanto in Sicilia se risulta in perdita, secondo Nottola, addirittura un terzo delle imprese controllate dagli Enti locali. Allucinante. Al punto da far sorgere un sospetto. Cioè che sia la loro missione: perdere soldi.

Poca chiarezza su fisco e lavoro, consumatori e imprese disorientati

Poca chiarezza su fisco e lavoro, consumatori e imprese disorientati

Andrea Tavecchio – Corriere della Sera

Per chi vive il mondo delle imprese il dato negativo del Prodotto interno lordo (Pil) nel secondo trimestre del 2014 non è una sorpresa: lo si vedeva già negli andamenti di questi mesi delle aziende legate al mercato interno. In Italia, purtroppo, la domanda rimane molto debole. Il brutto dato comunicato ieri dall’Istat rende più complicato il percorso che dobbiamo fare e più lontano l’obiettivo – necessario e prioritario – di tornare al più presto alla crescita economica. L’Italia non è in grado di reggere ancora a lungo una crisi che dura da sette anni, di cui gli ultimi tre drammatici, soprattutto per l’occupazione.

Nessuno ha la bacchetta magica, specie in un Paese con il debito pari al 130 per cento del Pil – ed è prevedibile che verso il governo si alzino critiche strumentali. È indubbio, però, che l’esecutivo abbia bisogno di chiarire quale visione ha in campo economico e poi agire in modo concreto e conseguente. La mancanza di chiarezza di questi mesi, specie in campo fiscale e del mercato del lavoro, ha sicuramente disorientato consumatori e imprese. Non è coerente, ad esempio, voler far ripartire la domanda interna e alzare – in modo non selettivo – la tassazione sulle rendite finanziarie. Quest’ultima, per il piccolo imprenditore, in Italia è già altissima: bisogna abbassarla, non aumentarla. Così come non è accettabile per famiglie e imprese il balletto su Imu e Tasi. Anche il cosiddetto “bonus Renzi” da 80 euro, pur apprezzabile nello spirito, è tecnicamente infelice perché non copre i non protetti, mentre viene garantito anche a chi ha redditi familiari ingenti.

Il governo Renzi sta giocando la sua partita, specie in questi ultimi mesi, sulla necessità di modificare i meccanismi decisionali per poter cambiare poi – finalmente – la politica e le policy che questa elabora. Speriamo. Ma per tornare alla crescita economica non esistono scorciatoie: bisogna dare fiducia alle famiglie e alle imprese. Senza una visione e una agenda – in campo fiscale ed economico – chiara, concreta e coerente, questo però è impossibile. Attenzione, si rischia l’avvitamento.