crisi

Nel tunnel a lungo

Nel tunnel a lungo

Giuseppe Turani – La Nazione

Ci attendono quattro anni di navigazione difficile. Se qualcuno aveva pensato a un certo slancio dell’economia italiana e a un netto miglioramento dei suoi numeri, si sbagliava. Le ultime cifre fornite dagli esperti del Fondo monetario internazionale sono una doccia gelata. Quest’anno l’Italia andrà indietro dello 0,2 per cento (quindi terzo anno di recessione). La disoccupazione arriverà al suo massimo del 12,6 er cento. Il nostro debito pubblico salirà, rispetto al Pil, dal 132,5 del 2013 al 136,7. E questo è probabilmente il dato più preoccupante: in un solo anno il rapporto defici/Pil peggiora di 4,2 punti. E le cose non sono destinate a migliorare tanto in fretta. Nel 2015, infatti, il Fondo monetario prevede che il rapporto defici/Pil scenda solo al 136,4. Per vedere una discesa consistente, con un rapporto al 125,6, bisognerà aspettare il 2019. Nel 2015, infine, la crescita italiana sara dello 0,8 per cento.

Questi numeri hanno anche una loro qualità. E questa consiste nel fatto che è in corso un rallentamento dell’economia mondiale: al punto che è lo stesso Fondo monetario a parlare, per quanto riguarda l’Europa, di un aumento dei rischi di recessione, di deflazione e di stagnazione. E fa paura la previsione che fino a 2019 l’inflazione in Europa rimarrà al di sotto del 2 per cento: in ogni istante, quindi, ci sarà la possibilità di piombare nella deflazione.

La conclusione alla quale si arriva, purtroppo, è che i prossimi quattro anni, che saranno di bassa crescita andranno anche vissuti con il fiato in gola, con lo spettro della possibile deflazione dietro l’angolo Questo scenario cattivo dipende solo in parte da noi: siamo davanti a una frenata dell’economia mondiale contro la quale possiamo fare ben poco, anzi niente. L’unica cosa certa è che dopo sette anni di crisi ne abbiamo davanti altri quattro pericolosi. Per questo sarebbe opportuno accelerare quelle riforme di struttura che tutti ci stanno chiedendo. La Bce di Draghi, che il Fondo monetario elogia, fa quello che può (positiva è giudicata l’idea degli Abs), ma sono i singoli paesi che devono andare avanti con il processo di cambiamento. Se si fa questo, non è impossibile migliorare l’andamento dell’economia.

I nemici di Renzi

I nemici di Renzi

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Ora è conclamato: l’Italia ha perso un altro anno. Il settimo, da quando ebbe inizio nell’estate del 2007 la più lunga e grave crisi economico-finanziaria che il mondo abbia conosciuto nell’ultimo secolo. Le cui conseguenze risultano così gravi – 10 punti di pil persi, il 25 per cento della produzione industriale evaporata – solo per noi, Grecia a parte. E nulla fa presagire che nel 2015 la musica cambi. Tutto questo non lo dicono i gufi ma il ministro Padoan, che ha parlato di un quadro congiunturale gravemente deteriorato. Peccato che andasse detto prima, anziché discettare sulla ripresa a portata di mano. Cosa non solo infondata, ma gravida di conseguenze negative, perché ha significato rinviare a data da destinarsi gli interventi più radicali, quelli capaci di invertire la rotta, i quali, più si rinviano, e più le mancate scelte ci riconsegnano un paese profondamente sconvolto nei fondamenti della sua società e della convivenza civile, con una quota di economia di mercato inferiore al passato e un problema di assistenza pubblica terrificante.

Tutto questo, naturalmente, non può essere messo in conto a Renzi. Per età e perché gli manca il passato. Ma a lui e al suo governo possono invece essere addebitate due cose: di aver sbagliato le previsioni e quindi l’approccio iniziale, e di avere mostrato un eccesso di fragilità e dilettantismo nello svolgimento quotidiano dell’azione di governo, laddove la politica diventa – o dovrebbe diventare – buona amministrazione. Hai voglia ora di dire che la Merkel è cattiva perché vuole l’austerità e impertinente perché ci tratta come studenti a cui chiede di fare i compiti a casa. Hai voglia di evocare lo spettro della Troika in nome della sovranità violata. Per sostenere certe tesi, anche quando sono giuste, occorre avere la necessaria credibilità, e Palazzo Chigi in questo difetta.

Tuttavia, Renzi viene accusato di tutt’altro: di essere nemico dei lavoratori, di muoversi in combutta con Berlusconi, di frequentare quel “sola” di Marchionne, di praticare il “metodo Boffo” contro chi dissente. Prendete la vicenda dell’articolo 18. Invece di dire “guarda che quella del reintegro, pur simbolica, è questione marginale e ciò che conta è una revisione, all’insegna della semplificazione e della delega alla contrattazione aziendale, dell’intera materia dei contratti e del mercato del lavoro”, no, si rispolverano vecchi linguaggi (i padroni) e consunte parole d’ordine (giù le mani dai diritti). Nessuno che lo sfidi sulla modernità, tutti a piagnucolare sulla conservazione di miti arrugginiti. E senza neppure avere l’intelligenza politica di capire – questo da D’Alema francamente non me lo aspettavo – che così la sinistra si condanna a una definitiva emarginazione e regala a Renzi gli strumenti per la definitiva conquista del voto moderato.

Che abbia o meno in testa le elezioni anticipate – io credo di si – l’aver alzato il tiro su un tema ideologicamente dividente come quello dell’articolo 18 e trovarsi la reazione che abbiamo visto, per il premier è stato come vincere alla lotteria. Ora il provvedimento – annacquato fino a lasciar le cose come stanno ma presentato come la rottura senza compromessi con il passato – passerà al Senato grazie all’uscita dall’Aula di un numero sufficiente di forzisti, così Renzi potrà dire all’Europa di aver fatto, da segretario del Pd per giunta, quello che nessuno prima di lui aveva mai osato fare o era mai riuscito a fare; potrà marcare una rottura a sinistra che gli servirà per dire al Quirinale che il Parlamento è una palude da cambiare con il voto; e infine potrà evitare di dover far emergere il cambio di maggioranza perché Berlusconi formalmente rimarrà all’opposizione. Caro Bersani, questa è quasi peggio del tuo (ancor oggi inspiegabile) tentativo di fare accordi con Grillo.

Ma la stessa cosa si puo dire delle stroncature che sono piovute addosso a Renzi da qualche miliardario annoiato che vuole fare politica senza pagare il dazio della raccolta del consenso, o da qualche esponente della “società civile” che si arroga il diritto di compilare la pagella dei buoni e dei cattivi. Non ho visto analisi approfondite, elaborazioni programmatiche fuori dal coro dei soliti bla-bla. Costoro, invece di ergersi a giudici, invece di imbarcarsi in operazioni personali senza alcun radicamento nelle culture politiche, elitarie e probabilmente di scarso successo, farebbero meglio a finanziare, sostenere, creare dei think tank capaci di contribuire alla qualità culturale del dibattito pubblico, di influenzare (alla luce del sole) i media e i decisori, di selezionare classe dirigente, di creare efficaci collegamenti internazionali, di lavorare sulla mentalità collettiva e in particolare far maturare nella borghesia la coscienza del suo ruolo sociale. Gli esempi esteri non mancano, basta copiare. Insomma, Renzi ha tanti (troppi) difetti, ma se i suoi nemici sono questi, viva Renzi.

I risparmi dei nonni ci salvano dalla crisi

I risparmi dei nonni ci salvano dalla crisi

Antonio Angeli – Il Tempo

Altro che welfare e compagnia bella: le famiglie italiane le salvano i nonni e le nonne. Nel giorno della loro festa un sondaggio svela che è grazie agli anziani che sopravvivono i giovani. I nonni con i loro risparmi sono di aiuto a più di una famiglia su tre (37 per cento) ma per il 17 per cento sono anche una fonte di consigli e suggerimenti che a volte si trasformano in occasioni di lavoro per i nipoti. È tutto in una indagine on line pubblicata sul sito www.coldiretti.it, effettuata in occasione del 60esimo anno dalla nascita di «Donne impresa» Coldiretti, con la prima mostra sui business delle tradizioni. Dal ritorno dei tessuti naturali su un telaio di 200 anni fa, agli «agridetersivi» ecologici che sfruttano le proprietà delle erbe aromatiche, agli abiti anallergici con tinture vegetali, ma anche la riscoperta delle conserve della nonna (sono sempre la migliori) al recupero di bevande antiche che non temono la crisi. Sono solo alcuni dei suggerimenti dei nonni che alimentano il business della tradizione, censiti dalla Coldiretti.

L’inventiva delle imprenditrici della Coldiretti, che dimostra concretamente che la tradizione può rappresentare un vero e proprio business è notevole ed è presente in tutte le regioni. Tra le idee particolari ci sono quella della manager sarda che partendo dall’allevamento del baco da seta di razza «Orgosolo» ottiene attraverso una sapiente tessitura su un telaio antico di 200 anni fa «su Lionzu», il copricapo del costume tradizionale femminile di Orgosolo, una benda di seta grezza color giallo ocra che fascia completamente il capo. Il percorso dal baco all’atelier, annuncia la Coldiretti, è lungo e faticoso, ma il risultato è eccellente, i fili vengono fatti passare attraverso una serie di paletti piantati nel terreno e controllati dalle donne più esperte che ne dirigono gli scambi. Dopo questa operazione viene preparata una treccia densa e cangiante di seta che verrà lavorata col telaio formando il tessuto finito.

Nella giornata dedicata alle nonne e ai nonni d’Italia, ieri, due ottobre, riconosciuta Festa nazionale, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha rivolto i suoi «auguri di ogni bene alle italiane, agli italiani e a quanti nel nostro Paese beneficiano del legame affettuoso con le rispettive e i rispettivi nipoti». E ancora: «Rivolgo tuttavia il mio saluto e i miei auguri anche alle donne e agli uomini di generazioni più giovani, comprese quelle giovanissime, che con le madri e i padri dei propri genitori si scambiano sentimenti positivi, conoscenza, compagnia. La festa di oggi li riguarda». «È nella trasmissione di ricordi e insegnamenti – ha aggiunto il capo dello Stato – da parte delle persone anziane e degli anziani e di preziosi stimoli da parte delle più giovani e dei più giovani una delle fonti profonde di benessere interiore per una società. Buona giornata delle nonne e dei nonni, dunque, a loro e non soltanto a loro». «Auguri anche a quanti trovano sostegno dal contributo di nonne e nonni alla crescita delle giovani generazioni, a figli e nipoti che donano attenzione, e in molti casi assistenza, ai festeggiati di oggi così favorendo la circolazione di risorse ed energie vitali per i cittadini dell’intero Paese», ha concluso il presidente Napolitano.

Per crescere concentriamo le risorse

Per crescere concentriamo le risorse

Luca Ricolfi – La Stampa

Sulle ragioni per cui l’Italia, quale che sia la congiuntura economica, cresce meno della maggior parte delle altre economie avanzate, il consenso è relativamente ampio. Nessuno nega che vi sia una carenza di domanda effettiva (calo dei consumi, investimenti insufficienti). Nessuno nega che la pressione fiscale sui produttori (Irap, Ires, contributi sociali) soffochi l’economia. Nessuno nega che non aver fatto le riforme modernizzatrici (mercato del lavoro, giustizia civile, pubblica amministrazione) ci stia costando carissimo. Dove cominciano i dissensi è sulle terapie, ossia sul modo di rispondere alla crisi. Qui non mi riferisco, però, alle decine di teorie che circolano fra gli esperti, ma solo a quelle che hanno una plausibilità economico-politica, e inoltre non si basano su ipotetici aiuti esterni (tipo eurobond, interventi della Bce, eccetera). Ebbene, se ci limitiamo alle teorie realistiche, a me pare che esse si riducano a tre.

La prima è la teoria dello «stimolo». Secondo questo punto di vista, l’economia non si può riprendere senza uno stimolo di almeno 30 miliardi di euro (2 punti di Pil), tendenzialmente sotto forma di riduzioni fiscali alle famiglie e alle imprese. Tali riduzioni andrebbero finanziate in deficit, promettendo all’Europa (e ai mercati finanziari) di fare le riforme e ridurre la spesa pubblica negli anni a venire. La formulazione più chiara ed esplicita di questo punto di vista mi pare quella degli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, che l’hanno ribadita più volte in varie sedi.

La seconda teoria potremmo chiamarla del «passo dopo passo». Secondo questa visione, se l’Italia dovesse promettere riduzioni della spesa pubblica e riforme strutturali non verrebbe creduta né dai partner europei, né dai mercati finanziari. E se provasse a sostenere la domanda aumentando il deficit dal 3 al 4 o al 5%, verrebbe immediatamente castigata dai mercati finanziari, con conseguente impennata dello spread. Quindi l’unica cosa che si può fare è galleggiare per qualche anno intorno al 3% di deficit pubblico, e nel frattempo cambiare la composizione della domanda, riducendo simultaneamente e gradualmente sia la spesa pubblica sia la pressione fiscale. Questa, nella sostanza, è la posizione del governo e del suo ministro dell’Economia. La formulazione più chiara di questa posizione mi pare quella dovuta all’economista Roberto Perotti (collaboratore del governo), che l’ha recentemente esposta in un bell’articolo sulla rivista on line Lavoce.info.

C’è però anche un terzo modo di vedere le cose, che chiamerò «concentrare le risorse». Secondo questo punto di vista è vero che la teoria dello stimolo non fa i conti con la diffidenza dei mercati finanziari verso l’Italia, ma è altrettanto vero che la linea del passo dopo passo è troppo debole e troppo lenta. È molto improbabile che le riduzioni effettive della spesa pubblica superino gli 8-10 miliardi l’anno, e a questo ritmo sarà già un miracolo se Renzi riuscirà a rinnovare il bonus da 80 euro e finanziare i nuovi ammortizzatori sociali. Di qui l’idea di non disperdere gli sgravi in mille rivoli. Anziché uno stillicidio di alleggerimenti fiscali o contributivi di cui nessuno si accorge, meglio concentrare le risorse sui settori più dinamici dell’economia italiana, aiutandoli ad aumentare l’occupazione, la competitività, o entrambe. È questa, ad esempio, l’idea lanciata da Oscar Farinetti, fondatore di Eataly, nell’intervista di ieri a questo giornale, in cui invita Renzi a varare «un provvedimento molto forte di sgravio fiscale per le aziende che nell’ultimo anno sono cresciute nelle esportazioni». Anche se la proposta Farinetti è spudoratamente pro domo sua, perché la catena di vendita dei prodotti Eataly sarebbe fra le prime a beneficiarne, credo che l’idea andrebbe considerata molto seriamente (il fatto che una proposta giovi anche a chi la fa non implica che sia insensata). Quando le risorse sono molto scarse può essere assai miope spalmarle su tutti, anziché indirizzarle verso quei settori o quelle imprese che meglio possono contribuire a far uscire la barca dell’Italia dalle secche in cui si è incagliata. Semmai la domanda è: uscire sì, ma come?

Qui le risposte possono essere almeno due. Se si ritiene che le risorse disponibili vadano usate innanzitutto per aumentare la competitività dell’Italia, l’idea di Farinetti è ottima. Se invece si ritiene che vadano usate per sostenere l’occupazione, la strada potrebbe essere decisamente diversa: anziché sostenere le imprese che nell’ultimo anno (in passato) hanno aumentato il fatturato delle esportazioni, si dovrebbero premiare le imprese che nel prossimo anno (in futuro) aumenteranno il numero di occupati.

Questo secondo modo di concentrare le risorse a me sembra più utile all’Italia, almeno finché la situazione dell’occupazione resterà drammatica come oggi. Come Stampa e come Fondazione David Hume da alcuni mesi, insieme ad altre istituzioni, stiamo lavorando su una proposta che va in questa direzione (nuovi posti di lavoro), e inoltre ha il vantaggio di aumentare il gettito della Pubblica Amministrazione anziché ridurlo. La prossima settimana, su questo giornale, racconteremo di che cosa si tratta.

Se la crisi fa tremare l’Unione

Se la crisi fa tremare l’Unione

Stefano Lepri – La Stampa

Il «Fiscal Compact» vacilla. Quell’insieme di regole di bilancio molto severe che aiutò (ma non bastò da solo, ci volle Mario Draghi) a uscire dalla crisi dell’euro tre anni fa non è più adeguato oggi, nel seguito di una grande crisi che continua a sorprendere. Se tutti i Paesi lo rispettassero alla lettera, l’Europa si addentrerebbe in una recessione senza fine. Purtroppo quando si incrina una regola, senza che ne sia pronta una nuova, il rischio del caos è grave. In mancanza della fiducia creata da una comune disciplina, contrasti disordinati tra Paesi possono condurre a esiti perfino peggiori. Nell’ipotesi più probabile, un compromesso poco trasparente lascerà strascichi di rancore. La Francia quelle regole non le ha mai seguite; l’annuncio che le infrangerà per la terza volta può darsi non aiuti l’Italia, poiché i casi dei due Paesi sono molto diversi. L’obbligo principale, quello del 3% di deficit, il nostro governo promette di rispettarlo. Ma la relazione presentata ieri al Parlamento spiega che fare onore agli altri due, deficit strutturale e debito, avrebbe effetti disastrosi.

Ormai le carte sono in tavola. Varie sono le colpe. L’Italia ha migliorato i suoi bilanci, ma è rimasta inefficiente. Il presidente francese è riuscito nel capolavoro alla rovescia di giocarsi il consenso pur non avendo cambiato quasi nulla; giura che manterrà la settimana di 35 ore, unica al mondo. Se pur con questi torti ora Roma e Parigi riescono a vantare ragioni, la responsabilità è della Germania.

Non sarebbe stato possibile sfidare il «Fiscal Compact» se l’economia dell’Europa non si fosse bloccata in un ristagno che minaccia di trasformarsi in ricaduta. Tutte le misure utili a una ripresa sono state o sono ostacolate da Berlino: ora un piano di investimenti collettivo, prima una unione bancaria più completa, prima ancora una ricapitalizzazione delle banche. Così pure la Bundesbank ha cercato di bloccare o ritardare tutte le misure monetarie espansive della Banca centrale europea. Lo farà anche contro le novità all’ordine del giorno oggi nel consiglio direttivo della Bce riunito a Napoli. E solo fino a un certo punto c’è una logica di interesse economico, tanto meno di dominio. C’è piuttosto un fenomeno culturale di conformismo misto a senso di superiorità nazionale e a paura del nuovo, nell’ossessivo ripetere agli altri Paesi «dovete fare come abbiamo fatto noi». Ma non è più possibile – ammesso e non concesso che lo fosse prima, per tanti Paesi insieme – uscire dalla crisi esportando, ora che la Cina ed altri emergenti rallentano. L’Italia, la Francia, devono sì diventare più competitive, ma non basta. C’è una crisi epocale in cui alcuni Paesi hanno troppi disoccupati e altri hanno capitali in eccesso: se non riescono ancora a incontrarsi, occorre che le autorità pubbliche sperimentino mosse nuove. Ovvero tutto ciò che la dottrina in voga in Germania, mese dopo mese smentita dai fatti, considera azzardi.

Si apre ora in Europa una partita complicata, dove sarà ancora più necessaria l’efficacia dell’azione di governo interna. Ancora non è chiaro, ad esempio, se la teatrale resa dei conti all’interno del Pd sulla questione del lavoro si tradurrà in novità vere o no; fermo restando che l’obiettivo dev’essere tirar fuori i giovani dal precariato facendo funzionare il contratto di inserimento. Il pericolo di una nuova crisi dell’euro è politico, non finanziario. O si smuove qualcosa nelle politiche nazionali – Angela Merkel dovrà imparare ad avere nemici a destra cosi come Matteo Renzi li ha a sinistra, Renzi dovrà impegnarsi a realizzare – oppure finiremo per contrapporci tra nazioni, ognuno a dare la colpa agli altri.

Gli ultimi dati economici certificano che l’Italia è sull’orlo del baratro

Gli ultimi dati economici certificano che l’Italia è sull’orlo del baratro

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Il bollettino è di quelli firmato Cadorna. L’economia italiana prosegue la sua ritirata dalle posizioni avanzate conquistate in decenni di crescita. Terzo trimestre consecutivo con il pil in contrazione; terzo mese con l’andamento dei prezzi in deflazione; nuovo record della disoccupazione giovanile ora al 44,2%; produzione industriale ancora in calo a settembre dello 0,2%; credito bancario in ulteriore contrazione come certificato da Bankitalia.

Nonostante l’Italia abbia un governo con una solida maggioranza parlamentare e una giovane leadership politica di centrosinistra di impostazione riformista e di stampo europeo, incarnata dal premier Matteo Renzi, le aspettative di consumatori, imprenditori e investitori non girano. Restano sul quadrante negativo del barometro senza concedere, almeno questo è il principale messaggio che viene trasmesso, nessuna apertura di credito agli sforzi e all’azione del governo di Roma.
Perché Renzi non riesce, nonostante il suo rilanciare continuo su tematiche importanti come il superamento dell’art.18, a invertire le aspettative italiane? La risposta non è, ovviamente, facile. È come se i vari protagonisti della vita economica ritenessero, quanto fatto o proposto, come «superato», come un programma di riforme importante ma non ancora adeguato al rilancio italiano. Un aspetto che fa emergere gli effetti negativi di medio termine dei governi emergenziali, tecnici o presidenziali che dir si voglia. Non avendo fatto proprio questi esecutivi tutte le riforme che i mercati si aspettavano ed avendo sbagliato a ripetizione gli annunci sull’uscita dalla crisi (Mario Monti già vedeva la luce in fondo al tunnel all’inizio del 2012), ora il tasso di scetticismo medio verso l’Italia ha raggiunto livelli originali.

Non basta più annunciare gli interventi sul mercato del lavoro o sulla riforma della giustizia civile per ottenere un inversione nelle aspettative economiche: Renzi deve davvero realizzare un primo grado del processo civile che dura al massimo 12 mesi ed eliminare definitivamente l’art.18 e fare allo stesso tempo tanto di più se vuole incidere per davvero sulle attitudini di consumo e investimento. Serve una cura alla Margaret Thatcher, nonostante il Premier non ami essere associato all’immagine della migliore politica riformatrice del secondo dopoguerra europeo che, di sicuro, non era culturalmente di sinistra. Ma, per invertire il trend e rilanciare l’economia italiana, Renzi deve andare a fondo nei meccanismi di funzionamento del Bel Paese con la stessa profondità con la quale la Lady di ferro scese nelle antieconomiche miniere gallesi. Non sono più possibili compromessi, non c’è più tempo guadagnabile perché al prossimo ribasso del rating, in mancanza di un’inversione delle aspettative, i Btp diventeranno spazzatura e la Troika realtà a Roma.

Crisi e banche di sviluppo, lezioni italiane

Crisi e banche di sviluppo, lezioni italiane

Giuseppe Pennisi – Formiche.net

Tutti gli Stati dell’area euro hanno drasticamente tagliato i loro bilanci in conto capitale, ossia gli investimenti pubblici. In media, l’investimento pubblico è passato dall’8% della spesa complessiva delle Pubbliche amministrazioni a meno del 4%. In effetti, è più facile ritardare i programmi che comportano investimento in capitale fisico che operare su spese correnti, come gli stipendi per il pubblico impiego oppure i trasferimenti alle famiglie. Lo ha fatto anche la Germania. Secondo la Camera di commercio federale, per evitare un arresto delle attività, specialmente nei trasporti – basta viaggiare sulle autostrade per awertirlo – occorre investire 80 miliardi di euro l’anno per i prossimi cinque anni. Il confronto con la piccola Austria è drammatico: un tasso d’investimento aggregato (infrastrutture, industria, commercio) pari al 17% del Pil in Germania rispetto al 27% in Austria (e a una media Ue del 21%). Il ministro dell’Economia, Sigmar Gabriel, ha invitato gli esperti stranieri a fornire suggerimenti.

Da un lato, le modifiche di politica economica (energia, previdenza, norme lavoristiche) scoraggiano le imprese che “emigrano” in vicini Paesi neocomunitari. Dall’altro, (capitolo poco noto in Italia), i Länder hanno una ragnatela di regole che – per ragioni campanilistiche – hanno in gran misura neutralizzato le leggi Schroeder-Merkel per incoraggiare l’aumento delle dimensioni industriali. Nel breve periodo gli investimenti pubblici attivano la capacità produttiva non utilizzata – in un’eurozona con un tasso di disoccupazione dell’11,5% di forza lavoro ce ne è moltissima – senza innescare inflazione. Nel medio periodo migliorano la produttività dei fattori produttivi.

È in quest’ottica che il neopresidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, ha proposto un programma speciale di 300 miliardi di euro (aggiuntivo ai fondi europei già in essere) su tre anni per rilanciare i programmi di lungo periodo. Un anno fa è stato completato l’aumento di capitale della Banca europea per gli investimenti (Bei). Non ci sono, quindi, difficoltà a finanziare il programma, anche tramite obbligazioni targate Bei. Il 4 luglio le banche di sviluppo dei Paesi del G20 si sono riunite a Roma per definire scambi frequenti di strategia e di prassi. Da luglio, il club delle maggiori banche di sviluppo non solo europee (il Long term investors club – Ltic) è presieduto dall’ltalia. Anche se gli storici dell’economia ritengono che la Vnesheconombank, creata in Russia nel 1917, sia la più antica banca di sviluppo, l’ltalia è uno dei Paesi dell’Europa occidentale con più lunga e più varia tradizione.

Uno studio recente di Amadeo Lepore analizza la storia della Cassa per il Mezzogiorno e rafforza le conclusioni a cui erano giunti una quindicina di anni fa Alfredo Del Monte e Adriano Giannola: la Cassa ha funzionato, sino alla meta degli anni Settanta, come le migliori banche di sviluppo. È stata spesso elogiata dalla stessa Banca mondiale che ha incanalato i propri finanziamenti all’ltalia (sino al 1964) non tramite i ministeri ma tramite la Cassa. Un libro di Giovanni Farese e Paolo Savona, fresco di stampa, riguarda il ruolo personale del presidente della Banca mondiale, Eugene Black, perché la Cassa diventasse il modello per il resto d’Europa e del mondo. Sappiamo che interessi particolaristici miopi hanno portato al declino e crollo della Cassa a partire della seconda metà degli anni Settanta. Tuttavia, come documentato in due ricchi volumi di Marcello De Cecco e di Gianni Toniolo, nell’ultimo decennio la Cassa depositi e prestiti è stata gradualmente trasformata da una direzione generale del ministero del Tesoro a una delle più grandi, più importanti e più prestigiose banche di sviluppo europee. In base a queste esperienze, sia positive sia negative, possiamo – anzi dobbiamo – fornire indicazioni alle altre banche di sviluppo in vista di una strategia coordinata per tornare a crescere.

La crescita che non c’è

La crescita che non c’è

Giuseppe Turani – La Nazione

I senza lavoro sono tantissimi: più del 12 per cento in totale e più del 43 per cento fra i giovani. E già questa è una situazione drammatica. Ma bisogna aggiungere due altre considerazioni. In realtà i senza lavoro sono molti di più perché molti sono così scoraggiati che non lo cercano nemmeno più e provano ad arrangiarsi in qualche modo. La seconda considerazione viene dal Cnel che prima di chiudere i battenti ha avuto uno slancio di sincerità: è possibile che non si torni mai più ai livelli di occupazione che avevamo prima della crisi con meno del 7 per cento di disoccupati. Questa cupa previsione, purtroppo, non è campata per aria. In questo paese la crescita non c’è e non ci sarà ancora per lungo tempo, se non cambia davvero qualcosa (ma che cosa?).

Allo stato attuale dell’arte (si diceva una volta) la situazione è questa: da qui al 2017 si crescerà in media dello 0,4 per cento l’anno, dal 2018 al 2022 la crescita sara dell’l,2 per cento (previsioni Oxford Economics). Nel 2022, data molto lontana, i senza lavoro in Italia saranno ancora poco meno del 10 per cento. D’altra parte questa previsione non deve stupire. C’è talmente poca crescita che è impossibile immaginare una forte ripresa dell’occupazione. Se la gente gente non consuma e se le aziende non sanno a chi vendere i loro prodotti e i loro servizi, perché mai dovrebbero assumere delle altre persone, oltre a quelle che hanno già? Una volta si sosteneva che per avere un aumento dei posti di lavoro bisognava puntare su una crescita almeno del 3 per cento. Ma qui siamo lontanissimi da questo traguardo. Da qui al 2022 non c’è un solo anno in cui sia previsto di andare non al 3 per cento, ma almeno all’1,5, cioè la metà: siamo sempre poco al di sopra dell’1 per cento o poco al di sotto.

La conclusione alla quale si arriva (che poi è la stessa del Cnel) è che in Italia la disoccupazione è ormai diventata un fatto strutturale, cioè stabile, come il Colosseo e la buona cucina. Siamo un paese bloccato. Anche facendo tutte le cose giuste e per benino, più in là di tanto non andiamo. Servirebbe una vera rivoluzione: via tre quarti della burocrazia e briglie molto lunghe sul collo delle imprese purché si diano da fare. Una rivoluzione, insomma. Invece siamo qui impantanati nella discussione attorno a un’anticaglia come l’articolo 18, come se fosse il confine fra il bene e il male. Il male, invece, è molto più vasto: è in un paese bloccato per sua stessa scelta.

La mutazione genetica delle famiglie italiane

La mutazione genetica delle famiglie italiane

Marco Morino – Il Sole 24 Ore

Dopo questa crisi, quando passerà, nulla sarà più come prima. Ne sono convinti anche gli esperti di consumi. Dalle ultime indagini condotte sullo stile di vita degli italiani e sulla spesa futura delle famiglie arriva un’indicazione netta: anche se ci dovesse essere una ripresa dell’economia, i consumatori non tornerebbero più quelli di una volta. Nella ricerca realizzata da GFK Eurisko per l’Osservatorio Non Food 2014 di GS1 Italy/Indicod-Ecr emerge forte la convinzione che anche se cambiasse il ciclo economico, le esperienze innescate dagli ultimi sei anni di ristrettezze e incertezze economiche avrebbero ormai lasciato un segno talmente forte da diventare parte integrante dei consumatori. Più attento alla spesa, agli sprechi, al rapporto qualità prezzo e sempre più digitale. Ecco come sarà il consumatore di domani.

La grande crisi, ma anche le nuove tecnologie hanno prodotto una sorta di mutazione genetica delle famiglie italiane. La recessione sta cambiando gli stili di consumo, all’insegna della frugalità e della condivisione, secondo il rapporto Coop 2014 “Consumi & Distribuzione”. I cordoni della borsa sono stati ristretti in quasi tutti i settori, con l’eccezione dei prodotti tecnologici e del cibo di qualità. Le speranze di ripresa dei consumi sono rimandate al 2015, anche se ci vorrà ancora molto tempo per rivedere i livelli del 2007. Dallo scoppio della crisi internazionale a oggi, infatti, il reddito disponibile degli italiani è calato di 2.700 euro. Lo studio fa luce sull’evoluzione degli stili di consumo durante la grande crisi. Si sono ridotti sensibilmente gli spostamenti, gli acquisti di abbigliamento e la spesa per il divertimento, ma non si è rinunciato alla qualità dell’alimentazione (crescono i consumi di cibo vegano e biologico) e alle ultime novità della tecnologia (in primis gli smartphone).

Tra le tendenze emergenti si segnala soprattutto il decollo della spesa via Web: ormai il 46% degli italiani utilizza Internet in mobilità, per una media di due ore al giorno, andando a caccia di occasioni in tutti i settori di consumo. E a conferma di un mutamento generale degli stili di vita arrivano anche i dati sui consumi di carburanti: nei primi otto mesi dell’anno gli acquisti di benzina e gasolio risultano in flessione dell’1,4%. Un trend negativo che inizia a pesare sul gettito nonostante l’aumento della pressione fiscale degli ultimi tempi. Per colpa della crisi dei consumi, anche il Fisco incassa meno. A conti fatti, solo i prodotti biologici sembrano non risentire della crisi. Secondo i dati elaborati da Nomisma, dal 2005 a oggi questo comparto ha fatto registrare una crescita delle vendite nell’ordine del 220 per cento. E il trend è destinato a proseguire senza flessioni anche nel 2015.

Gli italiani tagliano anche la benzina

Gli italiani tagliano anche la benzina

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

L’economia non è una scienza esatta, ma un suo postulato pressoché inconfutabile recita che in periodi di recessione non si possono applicare politiche di bilancio estremamente restrittive (tipo aumentare le tasse sperando di fare meno deficit) perché altrimenti la crescita non ritornerà per molto tempo. L’Italia ha spesso ignorato questa semplice regola e, dopo 7 anni di vacche magre, i risultati sono sempre più modesti.

Un esempio lampante viene dal Centro Studi Promotor (Csp) che ha analizzato i consumi di carburanti nei primi otto mesi del 2014. Ebbene, l’utilizzo di benzina e gasolio è diminuito dell’1,4%, la spesa per il loro acquisto è calata del 2,8%, mentre il gettito fiscale ha subito solamente un leggero decremento dello 0,5% annuo a 23,5 miliardi di euro. Questi dati, secondo il presidente di Csp Gian Primo Quagliano, dimostrano che «è stato superato il limite oltre il quale l’aumento dei prezzi deprime i consumi». I prelievi fiscali record sui carburanti – con il continuo aumento delle accise (ed è in arrivo un’altra mazzata) unito a quello dell’Iva – hanno creato questa situazione paradossale: si preferisce lasciare il mezzo di locomozione fermo o si cerca di risparmiare al massimo. «È venuto il momento di ridurre la tassazione», conclude Quagliano sottolineando che anche il bilancio dello Stato ne avrebbe beneficio, poiché più consumi equivalgono a maggiori entrate. Non è un caso che tra il 2007 e il 2013 le vendite di benzina e di gasolio abbiano registrato una contrazione del 20 per cento.

La stessa immagine, riferita però ad altri settori merceologici, viene restituita dal Codacons. Dal periodo pre-crisi (sempre il 2007) a oggi i consumi in Italia sono diminuiti di 80 miliardi di euro. Ciascuna famiglia – in questi sette anni – ha ridotto mediamente gli acquisti per oltre 3.300 euro. La riduzione dei consumi ha superato i 1.300 euro pro capite, neonati compresi. Tra i settori più colpiti dai tagli di spesa operati si evidenziano i trasporti (-23% e il calo dei consumi petroliferi lo conferma), abbigliamento e calzature (-17%), mobili per la casa ed elettrodomestici (-12%). Si riducono anche i consumi primari, con gli alimentari che scendono in 7 anni dell’11,5 per cento. Il presidente del Codacons, Carlo Rienzi, ha individuato nel raddoppio del tasso di disoccupazione (dal 6,1% del 2007 all’attuale 12,6%), che ha determinato un incremento dei senza lavoro di 1,7 milioni di unità, una delle cause principali della débâcle. «Sono anni che gli allarmi sullo stato economico disastroso delle famiglie lanciati dal Codacons rimangono inascoltati dalle istituzioni», ha commentato Rienzi aggiungendo che «il governo, con il bonus da 80 euro, ha gettato solo una goccia nel mare, del tutto insufficiente a risollevare i bilanci familiari».

Ovviamente, il crollo dei consumi non è sintomatico di una povertà diffusa e galoppante. Certamente la condizione reddituale di molte famiglie italiane è peggiorata e confina con l’indigenza. Tuttavia si è verificato quel fenomeno che accade ogniqualvolta le politiche economiche dei governi tendono a creare una situazione di insicurezza peggiorando, come detto, il clima recessivo: non si spende perché si ha paura di diventare poveri o si teme di non poter far fronte a un episodio imprevisto. La mancata spesa diventa risparmio che comunque è ricchezza della nazione. Come ha evidenziato il Censis, nei sette anni della crisi contanti e depositi bancari sono aumentati del 9,2% raggiungendo i 1.209 miliardi di euro a marzo scorso dai 975 miliardi di fine 2007. La propensione al risparmio è salita del 10% negli ultimi due anni nonostante il reddito disponibile sia diminuito dell’1,2 per cento. Più risparmi meno consumi perché il timore è proprio quello di finire in povertà per un italiano su tre. Il premier Matteo Renzi tutto questo lo sa e forse lo dimentica tra una Tasi qui e un’accisa là.