economia

Che cosa insegna la lezione americana

Che cosa insegna la lezione americana

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Vista dal quartier generale di Auburn Hills, dove la Fca ha recuperato tutta la produzione e l’occupazione in un primo tempo perdute da una Chrysler data per spacciata, la guerra di religione italiana sull’articolo 18 appare ancor più “lunare” di quanto già non appaia a casa nostra nel suo angusto recinto culturale tutto novecentesco. Matteo Renzi e Sergio Marchionne hanno confermato una stagione di consonanza: al premier interessa creare lavoro e guarda a un Paese con un tasso di disoccupazione del 6,1% (da noi è il doppio); al supermanager italo-canadese interessa una chiarezza di strategia e di scelte di sistema che il giovane primo ministro italiano sembra garantirgli. In comune – parole di Marchionne – hanno il coraggio.

È il giorno dell’orgoglio esibito da Oltreoceano. È auspicabile che sia anche quello della consapevolezza. Si comparano grandezze omogenee o almeno commensurabili, per cui può sembrare ingenuo o velleitario accostare la situazione dell’Italia e quella degli Stati Uniti. Ma non lo è quando nelle stesse ore si deve dare conto di un crollo della fiducia delle imprese in ogni settore nel paese europeo e del boom del Pil Oltreoceano. E quand’anche si comparassero due grandezze statisticamente più accostabili, come sono ad esempio l’Europa e gli Usa, le conclusioni non sarebbero molto diverse. Purtroppo.

Questi due dati, pur se parziali e abbinati da un capriccio di calendario, aiutano a fissare, in modo non fallace, il risultato di culture, di atteggiamenti singoli e collettivi, di modelli di sviluppo, di strategie per accrescere e tutelare il capitale umano. E per queste vie rappresentano le scelte per creare fiducia, per investire, per indicare direttrici di sviluppo e di nuova modernità, magari attenta alla sostenibilità dello sviluppo e a una gestione meno selvaggia della globalizzazione. Non si può fare degli italiani altrettanti americani (o tedeschi), ma si può prendere atto delle lezioni che le scelte di quei Paesi offrono a chi le osservi senza pregiudizi. E ha fatto bene Renzi a dire che cambierebbe con gli Usa il modello di istruzione e trasferimento tecnologico ma non quello di welfare. Ma l’Italia non è ancora in grado di sbloccarsi e di usare al meglio il potenziale delle sue energie e risorse. Che la fiducia sia in caduta libera è dimostrato anche dal crollo dei consumi – per nulla scalfiti della pioggia degli 80 euro – dal gorgo della deflazione, dal crollo della produzione e dal primo, drammatico, scricchiolio anche per l’export, in flessione in vari settori dopo anni di crescita continua, unico antidoto alla gelata della domanda interna di un’Italia paralizzata e impaurita del suo stesso futuro. Dagli Usa arriva una lezione su come siano cruciali l’industria, l’innovazione e la flessibilità per ricostruire la fiducia di un intero Paese.

La nuova guerra di religione sul tema sensibile del lavoro che si sta combattendo per l’ennesima volta nel nostro Paese va nella direzione contraria alla fiducia. Se ne parla poco, ma anche negli States esiste in linea teorica il reintegro: ma non lo impone quasi mai il giudice e, soprattutto, non lo considera conveniente il lavoratore che, in genere, monetizza un indennizzo e cerca altre opportunità altrove. Perché lì il mercato – funzionante – lo consente. Ed è questa la vera posta in gioco: creare un mercato del lavoro degno di questo nome in cui la gran parte delle assunzioni siano affidate a contratti a tempo indeterminato flessibile. Superando una concezione assistenziale del welfare, degna più di sudditi che di cittadini-lavoratori consapevoli. E archiviando la stagione del dualismo squilibrato tra gli insider iperprotetti e gli outsider iperflessibili. È un fatto di equità e di efficienza.

Significa una rete di agenzie per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro (pubbliche e private in rapporto di sussidiarietà); risorse per gestire formazione per migliorare i curricula di chi perde l’impiego; risorse per garantire un forma di ammortizzatore sociale universale per chi perda il lavoro e si impegni a cercarne un altro. Significa superare le lacune di un federalismo sbilenco che ha destinato alle Regioni la creazione delle agenzie per l’impiego (con drammatici divari territoriali di efficienza) e il tema della formazione, in genere slegato rispetto alle reali esigenze delle imprese che dovrebbero assumere.

Si tratta di un impianto riformista – e la delega in discussione al Senato sembra recepirne l’ambizione, anche se con formulazioni ancora ampie e ambigue – ma ha bisogno di una dote ingente di risorse per funzionare davvero. Invece che dibattere tra i guelfi del sì-articolo 18 e i ghibellini del no-articolo 18 alla ricerca di uno “scambio” pasticciato tra tutele crescenti che abbiano prima o poi anche la “reintegra” sarebbe bene organizzare uno “scambio” tra semplificazione delle regole e dotazione delle risorse per le politiche attive. Anche perché si rischia l’eterogenesi dei fini: una riforma nata per togliere il reintegro per il 5% delle imprese italiane, quelle sopra i 15 addetti, rischia di introdurlo (dopo 5, 7 o 10 anni) per il 100% delle imprese italiane. In sostanza: si estenderebbe invece che ridursi.

La politica attiva è e resta il tema vero per il legislatore. Per le parti sociali, che hanno una storia importante e unica in Italia, l’impegno dovrebbe diventare invece quello di creare e distribuire la produttività. Rimasta finora negletta in questa Italia coperta dalle coltri delle polemiche sui diritti che ha reso impossibile una discussione serena su come creare ricchezza e come allocare gli investimenti. È questa la nuova frontiera di relazioni industriali avanzate, la vera sfida per imprese e sindacati. Negli Usa lo hanno capito. A un passo dal baratro. E si sono salvati. Non è il caso di tenerne conto?

Cosa paralizza il Made in Italy

Cosa paralizza il Made in Italy

Bruno Vespa – Il Mattino

La mia generazione si è formata nella convinzione che il lavoro subordinato sarebbe durato dal giorno dell’assunzione a quello del pensionamento e per poi congedarsi «col massimo», cioè con un assegno sostanzialmente equivalente all’ultimo stipendio. Nessuno pensava che il mondo sarebbe radicalmente cambiato e che anche in Italia si sarebbe dovuto affrontare un giorno il mutamento epocale, altrove avvenuto da tempo: si potrà essere licenziati con la garanzia che lo Stato si impegna a fornire un forte paracadute. E ad attivare efficienti meccanismi di assistenza e di formazione in modo che chi ha perso il lavoro abbia modo di trovarne un altro. È quanto è avvenuto in Germania dove nel 2003 la disoccupazione era maggiore dell’Italia e ora è la metà, i redditi sono più alti e l’economia è la più forte d’Europa.

Abbiamo perduto dodici anni da quando Silvio Berlusconi stipulò il 4 luglio 2002 un Patto per l’Italia con Cisl e Uil per fare qualcosa di simile, ma fu sconfitto sul campo dalla Cgil. E ne sono trascorsi quindici da quando ci provò Massimo D’Alema: sia pure con minor clamore fece la stessa fine. La condizione di paralisi in cui si trova l’economia italiana ha indotto Matteo Renzi a giocare la carta proibita: salvo ripensamenti dell’ultima ora, lunedì prossimo la direzione del Pd approverà la cornice della legge delega con la previsione di sostituire il reintegro per i nuovi assunti di qualunque età che fossero un giorno licenziati con un adeguato risarcimento economico e con tutti gli ammortizzatori sociali necessari. «Il mio impegno è chiaro», ha detto il premier al Wall Street Journal. «Realizzare le riforme indipendentemente dalle reazioni».

Le reazioni della Cgil e della minoranza del Pd saranno forti. Per la prima volta mercoledì a «Porta a porta» Susanna Camusso ha aperto alla possibilità che per un ridotto numero di anni i nuovi assunti possano rinunciare all’articolo 18, mettendosi sulla scia della minoranza democratica. Una svolta a suo modo epocale, ma insufficiente a far arretrare il presidente del Consiglio. Il richiamo di ieri della Conferenza episcopale italiana («Bisogna guardare con più realismo alle persone che non hanno lavoro e che cercano lavoro») invitando ad ammainare la bandiere sventolate intorno all’articolo 18 può essere interpretato come un freno a Renzi e quasi come un contraltare all’incoraggiamento che gli viene invece dal capo dello Stato. Ma è un contraltare ambiguo: qual è il modo migliore di preoccuparsi della sorte dei disoccupati? Blindare gli occupati del futuro al punto che restino senza lavoro nel presente?

Ha ragione la Camusso quando dice che l’articolo 18 è lo scalpo che Renzi deve portare al vertice europeo dell’8 ottobre. Sono fondate le preoccupazioni della minoranza Pd a proposito dei soldi che servono per finanziare nuovi e adeguati ammortizzatori sociali. Ma se è vero che la nostra legislazione sul lavoro è la più paralizzante in tutti i 35 paesi dell’Ocse, occorre renderla «normale». È essenziale, al tempo stesso, che Renzi si faccia pagare lo «scalpo» con una immediata flessibilità che gli consenta non solo di prevedere già nella legge di stabilità i nuovi ammortizzatori sociali, ma gli dia modo di distribuire soldi alle fasce meno protette e di ridurre ulteriormente l’Irap alle imprese. Bisogna insomma attivare un circuito virtuoso di cui la rimozione dell’articolo 18 per i nuovi assunti sia soltanto l’ingranaggio iniziale di un meccanismo del tutto nuovo e assai più efficiente della giungla attuale.

I soldi del diavolo

I soldi del diavolo

Marco Buticchi – La Nazione

Agli studenti di economia insegnavano che il bilancio è un artificio contabile. Vi confesso che mi suonava strano che l’incontestabile risultato a consuntivo di un’azienda potesse essere assimilato all’espediente tirato fuori dal cappello di un illusionista per raggiungere il proprio fine. Terminati gli studi, il vocabolo ‘artificio ‘passa nel dimenticatoio, estinguendosi poi come le molte nozioni con cui ci hanno riempito la gioventù. Il termine mi è tornato improvvisamente in testa poco tempo fa quando, nel bilancio della nostra augusta Nazione, ci hanno infilato il fatturato delle prostitute e ogni più turpe commercio illecito al grido di «tutto quanto fa PIL». Ancor più vibrante l’artificio si ripresenta oggi che, tirando i conti e le percentuali come la pelle di un pollo e alla luce dei fatturati non trascurabili dell’illecito, dal cappello dell’illusionista saltano fuori tre miliardi di dobloni.

Benedetto il ritornello di una vecchia canzone di Fabrizio de Andrè: «Ad ogni fine di settimana sopra la rendita di una p…». Risulta, però, troppo facile fare dell’ironia e, per evitare brutte parole, ci limiteremo a dire che tutto sta andando a… scatafascio. Per restare coi piedi per terra e scavare questa manna melmosa e illegale che, ahinoi, riabilita persino i conti della Repubblica, se tanto mi dà tanto, che succederebbe se marchette e traffici illegali venissero tassati? L ‘Italia riuscirebbe forse a rimettere a posto i suoi dissestati conti in un battibaleno? Resterebbero dei problemi di coscienza nei cittadini, ai quali si è sempre insegnato che solo il malaffare più bieco vive su certi proventi. Ma, si sa, davanti al vile dio denaro le asperità si smussano e le coscienze si rimpinzano. Sarà, forse, il primo passo per spostare l’esattore dalla malavita allo Stato?

Un’ultima cosa: i miei vecchi mi ripetevano spesso che i soldi del diavolo – ovvero quelli non guadagnati col sudore della fronte – vanno bruciati in fretta, senno il diavolo se li riprende. Prima che il diavolo si riprenda il suo tesoretto, esperti degli artifici contabili e dei proventi illeciti, spendetelo in fretta e spendetelo bene.

Nuove imprese straniere, neanche una nell’ultimo anno

Nuove imprese straniere, neanche una nell’ultimo anno

Paolo Baroni – La Stampa

Certo, c’è l’articolo 18 ed uno dei sistemi del lavoro più complicati del mondo. Ma poi ci sono gli eccessi della burocrazia, i tempi eterni della giustizia e le tasse troppo alte, ovvero tutti quei fattori, o meglio «mali storici», che da anni ci condannano alla parte bassa di tutte le classifiche mondiali sulla competitività. Epperò negli ultimi tempi, dopo i crolli del 2008 e del 2012, una certa attenzione nei confronti dell’Italia è tornata. Nei primi sei mesi dell’anno oltre metà delle operazioni di acquisizione e fusione porta la firma di investitori esteri, dai russi che entrano in Pirelli alla People bank of China che investe in Fiat, Generali e Telecom, sino a Electrolux che rileva Merloni. Si tratta di 5,7 miliardi di euro su un totale di 10, +81% sul 2013.

E gli investimenti industriali? Invitalia su 36 «Contratti di sviluppo» ne ha siglati 15 con società straniere, per un controvalore di circa 750 milioni. Si va da Bridgestone a Denso, da Stm a Whirlpool e Sanofi. Progetti anche importanti, ma si tratta sempre e solo di ampliamenti di impianti già esistenti, soprattutto al Sud. Investimenti che invece partono da zero, i cosiddetti «greenfield» (a prato verde) come li chiamano gli esperti? Se ci eccettua quello annunciato a gennaio da Philip Morris, che a Bologna investirà 500 milioni di euro creando 600 nuovi posti, non c’è nulla. Nessuna impresa o gruppo straniero nell’ultimo anno e anche di più, ha avuto il coraggio di investire in un nuovo impianto industriale di dimensioni significative sul suolo italiano. «Siamo a zero», conferma a malincuore Guido Rosa, presidente dell’Aibe, l’associazione delle banche estere che operano in Italia e interlocutore naturale di molti potenziali investitori esteri.

«Il problema fondamentale, come emerge anche dal nostro osservatorio sull’attrattività del Paese, è che il sistema Italia in una scala da zero a cento si colloca appena a quota 33,2. Un livello davvero troppo basso». E oggi, ovviamente, sorprende una forbice così ampia tra investimenti finanziari in forte ripresa e investimenti industriali al palo. «Questo è certamente il dato più rilevante», spiega Nicola Rossi, economista, ex senatore Pd. «Dopo un forte calo è tornato ad esserci un certo movimento sul fronte delle acquisizioni, ma di “greenfield” non si fa nulla. Da molto tempo. E questo la dice lunga sui problemi dell’economia italiana». Che anche in questo campo continua a perdere terreno: in 10 anni, tra il 1994 ed il 2013, l’Italia ha attratto investimenti diretti esteri (finanziari e industriali), i cosiddetti Ide, per un totale di 290 miliardi di dollari, contro i 567 della Spagna, gli 800 e più di Francia e Germania. Quanto basta per far calcolare al ministro dello Sviluppo Guidi un margine netto di crescita, a regime, di almeno 20 miliardi all’anno. Con quello che significa anche in termini di nuova occupazione.

Inutili fino ad oggi le tante iniziative messe in campo negli ultimi tempi, dal decreto «Destinazione Italia» varato da Letta al più recente «Sblocca Italia»? «È il caso di dire troppo tardi, troppo poco – sostiene Nicola Rossi -. Non sono iniziative sbagliate, ma è poca roba rispetto a quello che sarebbe necessario fare. E poi serve tempo per farle assimilare agli investitori esteri». Quantomeno gli ultimissimi interventi sono serviti a fare un po’ d’ordine, chiarire che la promozione e le trattative coi partner esteri spettano all’Ice, che a Invitalia va la gestione degli insediamenti sul territorio e che «Desk Italia», che fino a ieri fungeva da struttura di raccordo, non serve più e va soppresso. Ma l’ultimo decreto in materia sta ancora in Parlamento in attesa di conversione e la nuova struttura non è ancora partita. Per non parlare dei fondi per la promozione ancora insufficienti: appena 400mila euro contro i 15 milioni dei francesi.

Il cahier de doléances è infinito. Rosa: «C’è tutto un sistema che non funziona: dalla burocrazia alla giustizia, al fisco. Ma la cosa peggiore è l’incertezza totale che avvolge il tutto: è la cosa che gli stranieri non possono sopportare. Chiedono trasparenza, chiarezza e norme stabili nel tempo, non regole che continuano a cambiare e che alcune volte diventano pure retroattive. Un malvezzo pazzesco questo, che i nostri governanti non si rendono conto di quanti danni produca!». Di fatto, spiega a sua volta Nicola Rossi, in questo modo «addossiamo all’impresa molti rischi che vanno oltre il normale legittimo e doveroso rischio di mercato: il rischio fiscale, perché non si sa quante imposte dovranno pagare e come; quello amministrativo, perché non si ha certezze sulle autorizzazioni e sulle date entro cui arrivano; e ancora gli addossiamo rischi sul personale, perché con l’attuale configurazione dell’art. 18 c’è sempre un terzo, il giudice, che si può incuneare nel rapporto a due imprenditore-dipendente. È chiaro che in queste condizioni nessuno viene in Italia a investire davvero. Già il rischio di mercato basta e avanza…».

Come dice Licia Mattioli, presidente del Comitato tecnico per l’internazionalizzazione e gli investitori esteri di Confindustria, «fare impresa in Italia non è facile». «Ma ora ci sono tutte le condizioni perché gli investimenti “a prato verde” siano il prossimo step del ritrovato interesse verso l’Italia degli investitori esteri. Perché da noi ci sono sia competenze estremamente interessanti, sia tecnologie e servizi molto sviluppati. Per questo ora occorre avviare una fase di grandissima attenzione verso l’industria, a cominciare dalle regole sul lavoro». «Tutti guardano come molto interesse e molta attesa al programma di riforme di Renzi, dipende però da quanta strada riuscirà a percorrere. Ed è questo che ora preoccupa», aggiunge Rosa. Che di suo è abbastanza pessimista: «L’Italia ormai da anni è un Paese incapace di modificare alcunché, una paese incredibilmente conservatore».

L’amaca

L’amaca

Michele Serra – La Repubblica

Molti storcono il naso per il ‘ricalcolo’ del prodotto interno lordo comprensivo dei proventi illeciti (prostituzione, droga, malavita), sia pure calcolati in modo presunto. Effettivamente, anche se non è quella l’intenzione, l’effetto è di oggettivo sdoganamento di attività non solo fuori legge, ma spesso violente e umilianti. Ma specie in un paese come il nostro, qualcosa ci dice che il concetto di “ricchezza nazionale” non può essere misurato solo compulsando scartoffie: e in questo senso anche il precedente Pil “pulito” non era meno discutibile di quello nuovo e “sporco.

La vita delle persone, il loro benessere, la loro salute fisica e mentale, la loro sopravvivenza alla penuria e alla crisi non sono una somma di numeri. Sono un intreccio di quantità e di qualità poco percepibili con la mera misura economica. Eppure la misura economica, così arbitraria, è ciò che regola da molto tempo, con ferrea determinazione, le scelte politiche dei governi nazionali e dell’Europa. Nessun altro criterio sembra poter fare breccia, tanto che la crisi della politica è riassumibile soprattutto nella sua totale impotenza di fronte all’economia. E dunque non è una cattiva notizia che criteri considerati aurei e intoccabili, come quelli utilizzati per calcolare il Pil, siano soggetti a possibili variazioni. È una morsa che si allenta. Un Verbo che diventa un po’ meno dogmatico.

L’ottobre nero dei nostri conti, su fisco e lavoro tempo scaduto

L’ottobre nero dei nostri conti, su fisco e lavoro tempo scaduto

Renato Brunetta – Il Giornale

Fino a che punto i mercati avranno fiducia nell’Italia, dopo il taglio delle previsioni di crescita del Pil da parte dell’Ocse e del Fondo Monetario Internazionale? Fino ad oggi i gestori (soprattutto grandi banche d’affari e hedge funds americani) hanno avuto un eccesso di liquidità da investire, per effetto delle politiche di allentamento monetario, ancorché in diminuzione, della Federal Reserve. Siccome «non sanno più dove mettere i soldi», l’acquisto di titoli di Stato italiani ha rappresentato ancora una strategia ragionevole: sono comunque titoli meno rischiosi di quelli dei paesi emergenti e garantiscono un rendimento conveniente.

La situazione cambierà invece con la fine del Quantitative Easing della Fed (Taper off già previsto per ottobre) e la conseguente riduzione di liquidità a livello internazionale. A quel punto, con meno soldi in circolazione, le scelte di portafoglio dei gestori dovranno essere più selettive e i primi titoli di cui si disferanno saranno proprio quelli italiani se, per quella data, ben più vicina dei mille giorni di Matteo Renzi, il nostro paese non avrà dimostrato di aver fatto le riforme necessarie. Ai mercati basterà poco per cambiare atteggiamento. E, in assenza di decisioni concrete da parte del governo o, peggio, di crisi all’interno del più grande partito della maggioranza che governa il paese, tutto potrebbe precipitare di nuovo, con un rapporto debito/Pil fuori controllo, oltre il 140% nel 2015.

E l’allarme crescita, in Italia e in Europa, è stato al centro anche degli incontri dei ministri dell’Economia e delle finanze e dei banchieri centrali dei paesi del G20 riuniti a Cairns, in Australia. Proprio nei giorni in cui un altro quotidiano inglese, il Financial Times, pubblicava l’indiscrezione secondo cui il membro belga del Consiglio direttivo della Bce, Benoït Cœuré, e Jörg Asmussen, ex Bce, ora vice-ministro del Lavoro tedesco, hanno chiesto al governo di Angela Merkel di ridurre le tasse sul lavoro e aumentare gli investimenti pubblici, fino a 18 miliardi nel 2015 e 10 miliardi nel 2016 (rimanendo, quindi, ampiamente nel rispetto dei parametri europei in termini di rapporto deficit/ Pil) per fare da traino alla crescita in Europa. In altri termini: reflazione. Lo scriviamo da 3 anni. Significa aumento della domanda interna tedesca, quindi dei consumi, degli investimenti, dei salari, delle importazioni e, di conseguenza, della crescita, per la Germania e per l’intera area dell’euro.

Rispetto alla situazione interna ed europea/internazionale descritta fino ad ora, il Partito democratico spaccato sulla riforma del mercato del lavoro introduce un ulteriore elemento di instabilità, di cui l’Italia proprio non aveva bisogno. Il presidente del Consiglio e segretario del Pd, Matteo Renzi, deve, pertanto, fare chiarezza subito. Deve fare delle scelte. E non solo sul lavoro, ma anche sul fisco, sulla burocrazia, sulla politica economica, sulla giustizia, sull’Europa. Da che parte sta? Ce lo dica. O di là, o di qua. Di là c’è il corpaccione del Pd parlamentare, della Cgil, dei poteri forti finanziari e delle Coop. Di qua c’è la maggioranza del paese, ci siamo noi, c’è il centrodestra: brutto, sporco e cattivo, ma dalla parte giusta. Dalla parte degli italiani.

Se qualche dubbio resta, basta considerare le diagnosi avanzate dai principali Organismi internazionali. Dopo l’Ocse della scorsa settimana, che ha bruciato gli ottimismi di Matteo Renzi, proprio il giorno prima di recarsi in Parlamento per spiegare il suo programma dei mille giorni, è stata la volta del Fondo monetario internazionale. Anche per Washington previsioni al ribasso. Da un iniziale 0,6% di crescita per il 2014, si passa a un meno 0,1%. Ma non è questa la cosa, almeno per noi, sorprendente. Ciò che non quadra è che il Fondo Monetario ha lasciato inalterate le previsioni di crescita per gli anni successivi. Come se il 2014 fosse una semplice parentesi e non avesse un impatto negativo almeno per il 2015.

Per il resto la previsione è nera. Un debito che sale fino al 136,4%, ma che rischia, in caso di choc esterni, di raggiungere il 150%: l’anticamera del default. Un deficit nominale che difficilmente riuscirà ad allontanarsi dal tetto del 3%, trascinando con sé un deficit strutturale, corretto, cioè, per l’andamento del ciclo, troppo alto per lasciare intravvedere una possibile correzione della traiettoria del debito. Mentre il tasso di disoccupazione resterà inchiodato a quel 12,6% che toglie il respiro.

Il possibile miglioramento è affidato a ricette discutibili per le loro contraddizioni in termini. Una manovra per il 2015 di circa 27,2 miliardi di euro al fine di riportare il deficit strutturale dallo 0,8 allo 0,3% del Pil (8 miliardi), di ridurre il cuneo fiscale (14,4 miliardi), di aumentare le spese per le scuole (4,8 miliardi). Con forme di copertura a carico soprattutto dei contribuenti: riducendo le agevolazioni fiscali (12,8 miliardi), introducendo una nuova tassa sulla ricchezza (4,8 miliardi) e sulle rendite finanziarie (i Bot?), con un introito di 3,2 miliardi. Mentre dalla Spending review, altro che i 13 miliardi previsti nell’ultimo Def, o i 20 miliardi sbandierati da Renzi: si avrebbero risparmi pari a solo 4,8 miliardi.

Morale della favola: un aumento netto della pressione fiscale di 6,4 miliardi. Nuovo capitolo della saga dell’austerity. L’insistere sulle vecchie pratiche del passato (manovre correttive) dimostra che quegli insegnamenti non sono serviti. L’Italia conserva il triste primato della maggiore lontananza dai valori antecedenti la crisi del 2007. Mentre la maggior parte dei Paesi europei è riuscita a recuperare quel gap, il nostro scarto supererà alla fine dell’anno i 9,5 punti di Pil. Su questo dato di fondo dovrebbe concentrarsi l’attenzione per acquisire una consapevolezza nuova.

Gli interventi di tipo macroeconomico (leggi manovre a ripetizione) sono ormai più un vincolo che non una risorsa. I margini si sono progressivamente prosciugati, senza che vi sia stato un reale beneficio in termini di sviluppo o di benessere collettivo. Lo dimostrano gli scarsi successi conseguiti nel campo della politica monetaria. Nonostante i lodevoli sforzi di Mario Draghi e le difficoltà incontrate nel vincere le resistenze (soprattutto) tedesche, i risultati, almeno, finora sono stati deludenti. Il cavallo – le richieste solvibili delle aziende – continua a non bere. Forse è ancora troppo presto; sta comunque il fatto che le erogazioni della Bce, per mancanza di domanda, sono state di gran lunga inferiori alle aspettative.

Sono queste le considerazioni che ci fanno insistere in modo particolare sull’importanza di due riforme: mercato del lavoro e fisco. Almeno in questo siamo d’accordo con il giudizio dell’FMI. Per quella cruna dell’ago passa la spinta ad una maggiore produttività aziendale, che non è una concessione a favore del padronato. Ma lo strumento attraverso il quale si crea maggiore ricchezza. Che, a sua volta, è presupposto di un benessere da ripartire seguendo criteri di equità. Da questo punto di vista la sopravvivenza dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, così come è ora, è un macigno insormontabile. Non solo non abbiamo nulla contro i lavoratori, ma vogliamo supportare il loro sforzo individuale per migliorare le proprie condizioni di vita, in una partecipazione attiva al processo produttivo.

Queste sono le implicazioni della battaglia di ottobre e dei prossimi 100 giorni. Contro le pigrizie, soprattutto, intellettuali. Il semplice quieto vivere in un mondo che cambia a ritmi impressionanti. Discorso che vale per il privato, ma soprattutto per il pubblico, dove quelle stesse tutele: il posto fisso sempre, si sono trasformate in un privilegio inaccettabile. Ed ecco allora la saldatura. Vogliamo ridurre il carico fiscale proprio per tagliare l’erba che alimenta il tran tran parassitario e sottrae risorse per completare una modernizzazione finora dimezzata, come il celebre visconte della trilogia di Italo Calvino. Impegno che richiede, indubbiamente, una gran fatica. O di qua o di là. O con la vecchia guardia dei conservatori (Pd in testa), o con chi vuole cambiare e salvare l’Italia. Non c’è più tempo.

Vent’anni di occasioni perse dall’Italia

Vent’anni di occasioni perse dall’Italia

Claudio Gatti – Il Sole 24 Ore

Di gufi e disfattisti ce ne sono sicuramente. Ma non è certamente per colpa loro che l’Italia sta in fondo alle classifiche che contano per il benessere e soprattutto il futuro di un Paese. Ne basta una per tutte: negli ultimi venti anni, un periodo in cui l’economia mondiale è stata caratterizzata da una crescita senza precedenti dei cosiddetti Investimenti diretti esteri, l’Italia è stata solo sfiorata da un fenomeno che secondo gli esperti fa da cartina di tornasole dello stato di salute di un Paese.

I numeri sono a prova di gufi e disfattisti: tra il 1994 e il 2013, l’Italia ha attratto Investimenti diretti esteri, o Ide, per un totale di 290 miliardi di dollari. Nello stesso ventennio, la Spagna ne ha assorbiti 567, la Germania 799, la Francia 823 e la Gran Bretagna addirittura 1.418 – quasi cinque volte più di noi. E a meno che non si raggiunga la piena consapevolezza di quanto profondo è il deficit di “attrattività” dell’Italia nel mondo, di quali sono le sue cause e dell’urgenza a porvi rimedio, l’economia italiana è destinata a rimanere esclusa da qualsiasi ripresa. Questo hanno dichiarato all’unisono economisti, consulenti e investitori stranieri consultati da Il Sole 24 Ore per quest’inchiesta. Anche perché gli Ide rappresentano un essenziale veicolo di crescita e trasmissione di sviluppo economico.

Ma cominciamo da un’analisi delle cause. «Le ragioni del peggior andamento dei flussi di investimento estero in Italia sono sia strutturali sia congiunturali», spiega al Sole 24 Ore Riccardo Cristadoro, economista della Banca d’Italia. «Tre i motivi principali: il quadro macroeconomico peggiore, il quadro istituzionale e regolamentare meno favorevole e le ridotte dimensioni d’impresa». I più recenti attestati di disistima straniera sono venuti da due aziende americane, una piccola e una gigantesca. Pochi giorni fa la Alps South, società di dispositivi medici di base a St Petersburg, in Florida, ha annunciato di aver rinunciato ad aprire una filiale in Italia. Quasi simultaneamente Alcoa, terzo produttore mondiale di alluminio con impianti in 44 Paesi, ha deciso la chiusura definitiva del suo stabilimento a Portovesme, in Sardegna. «La fonderia di Portovesme era una delle più costose della rete Alcoa e non c’era possibilità di renderla competitiva», ha spiegato Bob Wilt, presidente di Alcoa Global Primary Products. Adesso ad Alcoa in Italia è rimasto un singolo stabilimento, il laminatoio di Fusina, di fronte alla laguna di Venezia. Contro i 12 stabilimenti in Francia, i 9 in Spagna e i 7 sia in Germania che in Gran Bretagna.

Anche chi investe in Italia lo fa con grandissima cautela e in modo molto opportunistico, insomma a caccia di saldi. Come hanno fatto i grandi fondi americani Blackstone e BlackRock. Quest’ultimo controlla l’1,5% del totale della capitale delle società quotate italiane ed è quindi il primo investitore di Piazza Affari, ma da noi ha investito molto meno che altrove in Europa. Il motivo è chiaramente espresso dal Sovereign Risk Index, l’indice del rischio-Paese che Blackrock ha pubblicato a luglio: su un totale di 50 nazioni prese in considerazione, l’Italia è al 44esimo posto. Davanti solo ad Argentina, Portogallo, Ucraina, Egitto, Venezuela e Grecia.

Illuminante anche l’esperienza di Tandean Rustandy, amministratore delegato di Arwana Citramulia, ditta indonesiana con un fatturato annuale di quasi 100 milioni di euro. «Da quando ho fondato la mia ditta di piastrelle, 21 anni fa, mi sono sempre servito di macchine utensili italiane. Ma in questi due decenni, mentre la mia azienda è cresciuta, uno dopo l’altro i miei fornitori italiani o si sono ridimensionati o sono andati in bancarotta. Uno dei problemi dell’Italia è questo: troppe aziende sono one-man show, con una singola persona che le fonda, le gestisce e prende tutte le decisioni. Non c’è sistema, né senso di appartenenza all’azienda”, dice al Sole 24 Ore Rustandy. Che continua: «Più in generale, dall’estero si ha l’impressione che in Italia oggi ci siano tecnologia, capacità e know-how ma manchino una buona governance e consapevolezza della gravità della crisi. E come può crescere e migliorare un Paese senza governance e spirito competitivo?».

Altra testimonianza diretta viene da Wolfango Piccoli, direttore di Teneo Intelligence, parte della holding di consulenza fondata dal braccio destro di Bill Clinton, Doug Band: «Un nostro cliente, una multinazionale nordamericana, doveva decidere se investire quasi mezzo miliardo di dollari per acquisire una cartiera. Pensava all’Italia e alla Spagna. E alla fine ha optato per la Spagna. Per i soliti motivi: il carico burocratico, i tempi e le incertezze della giustizia civile, la facilità di accesso al credito, la pressione fiscale, l’opacità del sistema normativo italiano e l’impossibilità di fare proiezioni di lungo periodo per via della mutevolezza delle politiche legate alle esigenze di bilancio».

Che negli ultimi vent’anni l’Italia abbia mostrato una minore capacità di attrazione di capitale dall’estero, nonostante la dimensione del mercato e la competitività del suo sistema d’imprese lo vedono anche in Banca d’Italia. «Una determinante che ci penalizza nel confronto internazionale è data dalla qualità delle istituzioni e delle regole di mercato», conferma Cristadoro. Che aggiunge: «Secondo una nostra recente analisi, sembrerebbe che i tempi e la complessità delle procedure burocratiche, più che i loro costi, persino sulle scelte di localizzazione degli investimenti».

Gli stessi handicap che scoraggiano gli stranieri ostacolano ovviamente anche le imprese italiane. «La multinazionale si localizza dove è più conveniente. Se le caratteristiche locali non la favoriscono, non viene. Ma le sue esigenze sono le stesse delle imprese locali. Quindi o si creano condizioni per lo sviluppo – per l’una o per l’altra – oppure ci si rinuncia. Sia per l’una che per l’altra . Non c’è via di mezzo. E negli ultimi due decenni le condizioni l’Italia non le ha sapute creare», spiega Roberto Basile, professore di Economia alla Seconda Università di Napoli che da dieci anni analizza i flussi di Investimenti diretti esteri.

Il suo primo studio, pubblicato nel 2005 assieme ai colleghi Luigi Benfratello e Davide Castellani, ha appurato che «le regioni italiane soffrono di un duplice svantaggio: hanno caratteristiche che le rendono poco attraenti per gli investitori stranieri e attraggono meno Ide rispetto ad altre regioni europee con caratteristiche simili. Tale gap, quantificato nel 40% in meno, è stato ricondotto ad alcune caratteristiche nazionali». Tra i fattori che alimentano questo gap lo studio segnala l’inefficienza dell’apparato burocratico e del sistema di protezione dei diritti di proprietà, l’elevata rigidità del mercato del lavoro, un farraginoso sistema della giustizia civile e della protezione dei diritti sanciti dai contratti, l’adozione di meccanismi informali di decisione e la scarsa qualità dell’educazione terziaria. Conclusione: «Il sistema-Paese deprime ulteriormente l’attrattività potenziale delle regioni italiane… A parità di caratteristiche osservabili, le regioni italiane sono insomma meno attraenti di regioni con caratteristiche simili collocate in contesti istituzionali diversi… Il che conferma che il basso livello di Ide in Italia sia da attribuire per lo più a fattori istituzionali nazionali».

In un secondo studio di quattro anni dopo, gli stessi autori hanno appurato che il gap è addirittura peggiorato, arrivando a una punta del 75% nel caso degli investimenti in attività manifatturiere. Da allora, dice sconsolato il professor Basile al Sole 24 Ore, «le cose possono essere solo peggiorate, perché non si è fatto nulla per cambiare e migliorare la posizione competitiva dell’Italia». Secondo Basile la situazione non è ancora irrimediabile. E le riforme programmate dal governo Renzi vanno nella direzione giusta. Se realizzate potrebbero dunque favorire un significativo recupero: «Soltanto portando il numero di procedure necessarie a tutelare i diritti contrattuali al valore medio europeo, per esempio, l’Italia registrerebbe un aumento del tasso di attrattività pari a circa il 60%», dice il professore. L’economista di Banca d’Italia Stefano Federico concorda: «L’effetto di una migliore qualità istituzionale non sarebbe trascurabile. E se l’Italia si allineasse alle migliori pratiche dell’Eurozona, i flussi di Investimento esteri diretti ne guadagnerebbero in misura significativa».

Ma il tempo stringe. «Il mondo del business internazionale ha apprezzato l’avvento di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, vedendolo come una svolta non solo generazionale», ci dice Piccoli. «Ma non bisogna illudersi che gli acquisti di titoli di Stato italiani da parte di investitori internazionali indichino una maggiore propensione a puntare sul nostro Paese. Perché gli investimenti finanziari oggi entrano e domani escono. Quello che invece serve è l’investitore che ha fiducia nel Paese e vi mette radici creando posti di lavoro. Questo continua a mancare. E la finestra di opportunità, come si dice in inglese, non rimarrà aperta a lungo».

Non c’è classifica che ci sorrida

Non c’è classifica che ci sorrida

Il Sole 24 Ore

Dall’estero ci guardano. E, statistiche alla mano, vedono nero. Nella classifica Doing Business, stilata dalla Banca mondiale, l’Italia è al 65° posto su 189 Paesi. Ma è 90esima nella categoria “avviamento di un’impresa”, 109esima nella categoria “accesso al credito”, 103esima in quella del “rispetto dei contratti” e 112esima in quella “licenze e permessi”. Nella classifica dei 50 Best Countries for Business di Forbes, l’Italia è al 37° posto. Dietro non solo a Spagna, Portogallo e Slovenia. Ma anche alla Macedonia.

Nel Venture Capital & Private Equity Country Attractiveness Index, indice preparato quest’anno dall’Iese, la business school dell’Università di Navarra, l’Italia è 34esima, dietro a tutti i maggiori Paesi europei. Ancora peggiori i dati del Baseline Profitability Index, l’indice di profittabilità di Daniel Altman, economista della Stern School of Business della New York University. Qui l’Italia è al 106° posto su 112. Meglio solo di Libano, Russia, Argentina, Repubblica Democratica del Congo, Angola e Venezuela, sei Paesi al centro di guerre, disfacimento economico o sanzioni internazionali. Ma la più recente conferma della scarsa efficienza del sistema-Paese è venuta dal Letter Grading Analysis, uno studio recentemente completato da quattro professori universitari nordamericani ed europei che hanno usato un indicatore del tutto insolito: la qualità del servizio postale nazionale.

I quattro hanno spedito due lettere a un indirizzo immaginario nelle cinque maggiori città di 159 Paesi del mondo e hanno analizzato la percentuale e i tempi del loro ritorno negli Usa. «A nostro giudizio attraverso il servizio postale si può misurare l’efficienza produttiva di uno Stato, incluso fattori determinanti quali la qualità degli investimenti, della manodopera, della tecnologia e del management», hanno spiegato. Le Poste italiane sono risultate al 55esimo posto, con l’80% delle lettere rispedite negli Usa e una media di 173 giorni necessari per il loro recapito. Dietro non solo a tutti i principali Paesi Europei, ma anche al Kazakhstan (80% in 146 giorni).

Economisti: troppi errori, poche soluzioni (ma molte idee)

Economisti: troppi errori, poche soluzioni (ma molte idee)

Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano

Davvero bisogna proclamare la “disfatta degli economisti”, come suggerisce il Nobel Paul Krugman nell’articolo ripreso ieri da Repubblica? Parlare male della categoria è facile: non hanno previsto la grande crisi, hanno sbagliato le ricette e sono prigionieri di ideologie liberiste fallimentari. Krugman descrive la categoria cui appartiene come prigioniera di una “repressione neoclassica” che impedisce a idee eterodosse di germogliare in teste formattate dal dogma del libero mercato. Ma è una caricatura, le cose sono più complesse.

Primo: nessuno aveva capito tutto, ma molti avevano capito tanto. La crisi dei mutui subprime era stata pronosticata in tutti i dettagli da Raghuram Raian nel 2005, in una presentazione a Jackson Hole davanti a banchieri centrali e finanzieri. Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart, poi derisi per aver sbagliato i conti sull’impatto delle misure di austerìtà, avevano spiegato che le crisi finanziarie, in particolare quelle che riguardano il debito sovrano, lasciano tracce più profonde di altri tipi di recessione come quelle dovute a choc energetici. Lo speculatore-filantropo George Soros ripete da tempo che il problema dell’Europa è la Germania e che non si può gestire la periferia dell’euro com’è stato fatto. Le idee, insomma, a cercarle, c’erano. Il problema semmai è che la politica ha scelto di applicare quelle sbagliate.

Il vero disastro lo hanno fatto gli economisti quantitativi, i previsori, quelli che cercano di tradurre in cifre il futuro. Il Fondo monetario e l’Ocse hanno sbagliato moltissimo e si so- no scusati, ma tutte – proprio tutte – le previsioni sulla crescita e la ripresa si sono rivelate sballate. Due giorni fa l’Ocse ha detto che l’Italia nel 2014 sarà in recessione con un Pil a -0,4 per cento, soltanto a giugno stimavano +0,5. È cambiato il mondo o avevano sbagliato i calcoli perché sono sbagliati i modelli di previsione? In sette anni di crisi gli economisti “previsori” hanno perso ogni credibilità. O sono gran pasticcioni, oppure i loro modelli si reggono su ipotesi sbagliate. Per esempio che debba arrivare una ripresa o che la crescita seguirà dinamiche diverse da quelle passate. Larry Summers ha aperto il dibattito sulla “stagnazione secolare” (senza nuove bolle speculative che sostituiscano quella del debito sovrano e dei mutui non si riparte), Jeremy Rifkin suggerisce che il Pil continuerà a scendere perché molte attività umane ormai hanno un costo marginale zero e sono scambiate gratuitamente o quasi (da Whatsapp a Wikipedia al car sharing). Le cose non stanno come dice Krugman: gli economisti non sono stati sconfitti, stanno cercando di capire come è cambiato il mondo che devono spiegare. Chissà se ci riusciranno in tempo utile.

La disfatta degli economisti

La disfatta degli economisti

Paul Krugman – La Repubblica

La scorsa settimana ho partecipato a una conferenza organizzata da Rethinking Economics , un gruppo gestito da studenti che invita, indovinate un po’, a ripensare l’economia. E Dio sa se l’economia deve essere ripensata alla luce di una crisi disastrosa, che non è stata predetta né impedita. A mio avviso però è importante rendersi conto che la disfatta intellettuale degli ultimi anni interessa più di un livello. Ovviamente l’economia come disciplina è uscita drammaticamente dal seminato nel corso degli anni – o meglio decenni – portando dritto alla crisi. Ma alle pecche dell’economia si sono aggiunti i peccati degli economisti che troppo spesso per faziosità o per amor proprio hanno messo la professionalità in secondo piano. Non da ultimo i responsabili della politica economica hanno scelto di ascoltare solo ciò che volevano sentirsi dire. Ed è questa sconfitta multilivello – e non solo l’inadeguatezza della disciplina economica – la responsabile del terribile andamento delle economie occidentali dal 2008 in poi.

In che senso l’economia è uscita dal seminato? Quasi nessuno ha pronosticato la crisi del 2008, ma probabilmente è un errore scusabile in un mondo complesso. La responsabilità più schiacciante va alla convinzione ampiamente diffusa allora tra gli economisti che una crisi del genere non potesse verificarsi. Alla base di questa certezza sprovveduta dominava una visione idealizzata del capitalismo in cui gli individui sono sempre razionali e i mercati funzionano sempre alla perfezione.

I modelli teorici sono utili in economia (e adire il vero in qualsiasi disciplina) come strumento per illustrare il proprio pensiero. Ma a partire dagli anni Ottanta è sempre più difficile pubblicare sulle maggiori riviste un contributo che metta in discussione questi modelli. Gli economisti che hanno cercato di prendere coscienza della realtà imperfetta hanno affrontato una “novella repressione neoclassica”, per dirla con Kenneth Rogoff, di Harvard, non certo un radicale (e con il quale ho avuto da discutere). Dovrebbe essere assodato che non ammettere che il mercato possa essere irrazionale o fallire significa escludere la possibilità stessa di una catastrofe come quella che, sei anni fa, ha colto di sorpresa il mondo sviluppato.

Tuttavia molti economisti applicati avevano una visione più realistica del mondo e i testi di macroeconomia pur non prevedendo la crisi, hanno saputo predire abbastanza bene la realtà del dopo crisi. I tassi di interesse bassi a fronte di gravi deficit di bilancio, l’inflazione bassa a fronte di una offerta di moneta in rapida crescita e la forte contrazione economica in paesi che impongono l’austerità fiscale hanno colto di sorpresa gli esperti in tv, ma corrispondevano semplicemente alle previsioni dei modelli fondamentali nelle situazioni predominanti del post crisi. Ma se i modelli economici non sono stati poi così deludenti nel dopo crisi, altrettanto non si può dire di troppi economisti influenti che si sono rifiutati di ammettere i propri errori, lasciando che la mera faziosità avesse la meglio sull’analisi, o entrambe le cose. «Ho sostenuto che una nuova depressione non fosse possibile, ma mi sbagliavo, è che le imprese reagiscono al futuro insuccesso della riforma sanitaria di Obama».

Direte che sbagliare è tipico della natura umana, ed è vero che mentre il dolo intellettuale più sconvolgente è attribuibile agli economisti conservatori, anche alcuni economisti di sinistra sono parsi più interessati a difendere il loro orticello e a prendere di mira i colleghi rivali piuttosto che a correggere il tiro. Ma questo comportamento ha sorpreso e sconvolto soprattutto chi pensava che fossimo impegnati in un reale dibattito. Avrebbe fatto differenza se gli economisti si fossero comportati meglio? Oppure chi è al potere avrebbe agito comunque come ha agito, infischiandosene?

Se immaginate che i responsabili della politica abbiano passato gli ultimi cinque o sei anni alla mercé dell’ortodossia economica siete fuori strada. Al contrario, chi aveva potere decisionale ha recepito moltissimo le idee economiche innovative, non ortodosse, che a volte erano anche sbagliate, ma fornivano loro la scusa per fare quello che comunque volevano fare. La gran maggioranza degli economisti orientati alla politica sono convinti che l’aumento della spesa pubblica in un’economia depressa crei posti di lavoro, mentre i tagli li distruggono, ma i leader europei e i repubblicani statunitensi hanno deciso di credere allo sparuto gruppo di economisti di opinione opposta. Né la teoria né la storia giustificano il panico scatenatosi riguardo agli attuali livelli di debito pubblico, ma i politici hanno deciso di abbandonarsi comunque al panico, citando a giustificazione studi non verificati (e rivelatisi erronei).

Non voglio dire che la teoria economica è a posto né che gli errori degli economisti non contano. Non lo è, gli errori contano e sono del tutto favorevole a ripensare e riformare il settore. Il grande problema della politica economica non sta però nel fatto che la teoria economica tradizionale non ci dice cosa fare. In realtà il mondo starebbe molto meglio se la politica reale avesse rispecchiato gli insegnamenti del corso di economia di base Econ 101. Se abbiamo fatto la frittata – e così è stato -la colpa non è dei libri di testo ma solo nostra.