economia

Resta la deflazione e arretra il Pil

Resta la deflazione e arretra il Pil

Emanuele Scarci – Il Sole 24 Ore

L’Italia rimane in deflazione anche a settembre: -0,3% rispetto al mese precedente. E a raffreddare sempre di più i prezzi, secondo i dati dell’Istat, sono ancora l’energia, le comunicazioni e gli alimentari. A peggiore il quadro macroeconomico ieri è arrivato anche la nota mensile Istat che prevede una nuova flessione del Pil nel terzo trimestre dell’anno, un revisione al ribasso rispetto all’intervallo di +0,2%/-0,2% della precedente stima. La causa è la contrazione del Pil nel secondo trimestre dello 0,2%. Nell’area euro non è ancora scoccata l’ora della deflazione ma la debolezza della domanda ha prodotto un’altra frenata dei prezzi: dallo 0,4% allo 0,3%, vicino alla crescita zero. La stima flash dell’Eurostat individua moderati spostamenti dei prezzi per servizi, alimentari e beni industriali e un deciso arretramento dell’energia.

Tornando all’Italia, secondo le stime provvisorie dell’Istituto di statistica, l’indice nazionale dei prezzi al consumo è calato a settembre dello 0,1% su base annua, lo stesso valore toccato ad agosto quando il Paese é tornato in deflazione per la prima volta dal 1959. A settembre i cali congiunturali più pronunciati dei prezzi sono quelli di trasporti (-3%), ricreazione e cultura (-0,6%) e comunicazioni (-0,4%). Dall’altro aumenti sono stati segnati dai servizi ricettivi e di ristorazione (+0,8%), dall’istruzione (+0,6%), da alimentari e bevande analcoliche (+0,2%), dall’abbigliameno e dai mobili. Rispetto a un anno fa, i prezzi delle comunicazioni risultano in marcata flessione (-8,2%) così come sono in diminuzione i prezzi di abitazione, acqua, elettricità e combustibili (-1,2%) e quelli di alimentari e bevande analcoliche (-0,1%).

Secondo l’ufficio studi di Confcommercio «al di là degli effetti stagionali, i dati Istat riflettono le difficoltà della domanda per consumi. Nell’ultimo anno, nonostante l’aumento dell’Iva che ha coinvolto circa il 50% dei beni e servizi compresi nel paniere, in sei occasioni i prezzi hanno registrato una diminuzione congiunturale, fenomeno che appare ancora più eccezionale se si considera che non è stato determinato da crolli delle materie prime alimentari o petrolifere». Confcommercio conclude che è necessario attuare, con la prossima legge di Stabilità, «misure efficaci che, modificando favorevolmente le aspettative di famiglie e imprese, scongiurino il pericolo che la deflazione si consolidi». Per Sergio de Nardis, capo economista di Nomisma, «l’inflazione negativa influisce sulle attese future dei prezzi, aumenta i tassi di interesse reali e deprime l’economia. Serve una politica fiscale di stimolo e una politica monetaria espansiva». Coldiretti sottolinea che «gli effetti negativi congiunti di deflazione e consumi si evidenziano con il -4,4% dei prezzi dell’ortofrutta e con gli acquisti scesi ben al di sotto del chilo al giorno per famiglia, un valore inferiore a quello raccomandato dall’Organizzazione mondiale della Sanità».

Se la ripresa dei beni di consumo è una delle condizioni per superare la deflazione, qual è il quadro della domanda più aggiornato? Nelle vendite al dettaglio l’Istat segnala il -1,1% nei primi 7 mesi dell’anno mentre Iri registra un pessimo agosto nel largo consumo: -3,1% a valore, anche per il calo dei prezzi. Nell’abbigliamento e calzature, invece, Sita-Nielsen indica un -3% delle vendite da gennaio a luglio. Meno peggio dell’anno primo: -7 per cento.

La svolta keynesiana dei paladini neo-liberitsti

La svolta keynesiana dei paladini neo-liberitsti

Stefano Lepri – La Stampa

«Arrendetevi, siete circondati» si potrebbe con humour gridare ai governanti tedeschi. Di fronte a una crisi che non vuole finire, matura dappertutto nel mondo l’idea che occorra provare soluzioni diverse dall’austerità pura e dura. Anche il Fondo monetario internazionale, a lungo dominato dalla dottrina neo-liberista secondo cui la spesa pubblica è perlopiù nociva, ritorna alle sue origini keynesiane e rooseveltiane: ampi investimenti in infrastrutture sarebbero utili alla ripresa.

Si può dare lavoro a chi non l’ha costruendo per il futuro. Se non ora, con un costo del denaro cosi basso, quando? In Europa è Berlino a ostacolare il progetto di investimenti transnazionali del nuovo presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e le proposte ancora più ambiziose del governo polacco. Eppure all’interno della stessa Germania la gente si lamenta di ponti da rifare e strade malandate. Con una punta di malignità, il Fmi giudica efficace la «regola d’oro» di tenere i bilanci pubblici in pareggio al netto degli investimenti: era nella Costituzione tedesca, prima che fosse inasprita per dare l’esempio ai Paesi spendaccioni. Vale la pena di dare l’esempio facendo male anche a sé stessi? La Germania continua a rinfacciare alla Francia i bilanci in deficit, ma i suoi li tiene in ordine investendo la metà rispetto alla Francia.

Sarebbe forse meglio tornare a quella regola aurea. E intanto compiere uno sforzo eccezionale qui e ora per uscire dalla crisi: nei Paesi con bilanci solidi e come Europa nel suo insieme. L’Italia da sola, troppo indebitata, non può permetterselo. E poi non dobbiamo dimenticare che le nostre infrastrutture sono carenti non perché negli anni passati abbiamo speso poco, piuttosto perché abbiamo speso male. Il timore che si costruisca non ciò che serve, ma ciò che fa guadagnare qualcuno, diventa senso comune; alimenta le proteste, giustifica ogni tipo di ostilità al nuovo. Oggi quasi tutti preferirebbero una tassa in meno piuttosto che il cantiere di una metropolitana in più: occorrerà prima tornare a fidarsi dei poteri pubblici.

La crescita che non c’è

La crescita che non c’è

Giuseppe Turani – La Nazione

I senza lavoro sono tantissimi: più del 12 per cento in totale e più del 43 per cento fra i giovani. E già questa è una situazione drammatica. Ma bisogna aggiungere due altre considerazioni. In realtà i senza lavoro sono molti di più perché molti sono così scoraggiati che non lo cercano nemmeno più e provano ad arrangiarsi in qualche modo. La seconda considerazione viene dal Cnel che prima di chiudere i battenti ha avuto uno slancio di sincerità: è possibile che non si torni mai più ai livelli di occupazione che avevamo prima della crisi con meno del 7 per cento di disoccupati. Questa cupa previsione, purtroppo, non è campata per aria. In questo paese la crescita non c’è e non ci sarà ancora per lungo tempo, se non cambia davvero qualcosa (ma che cosa?).

Allo stato attuale dell’arte (si diceva una volta) la situazione è questa: da qui al 2017 si crescerà in media dello 0,4 per cento l’anno, dal 2018 al 2022 la crescita sara dell’l,2 per cento (previsioni Oxford Economics). Nel 2022, data molto lontana, i senza lavoro in Italia saranno ancora poco meno del 10 per cento. D’altra parte questa previsione non deve stupire. C’è talmente poca crescita che è impossibile immaginare una forte ripresa dell’occupazione. Se la gente gente non consuma e se le aziende non sanno a chi vendere i loro prodotti e i loro servizi, perché mai dovrebbero assumere delle altre persone, oltre a quelle che hanno già? Una volta si sosteneva che per avere un aumento dei posti di lavoro bisognava puntare su una crescita almeno del 3 per cento. Ma qui siamo lontanissimi da questo traguardo. Da qui al 2022 non c’è un solo anno in cui sia previsto di andare non al 3 per cento, ma almeno all’1,5, cioè la metà: siamo sempre poco al di sopra dell’1 per cento o poco al di sotto.

La conclusione alla quale si arriva (che poi è la stessa del Cnel) è che in Italia la disoccupazione è ormai diventata un fatto strutturale, cioè stabile, come il Colosseo e la buona cucina. Siamo un paese bloccato. Anche facendo tutte le cose giuste e per benino, più in là di tanto non andiamo. Servirebbe una vera rivoluzione: via tre quarti della burocrazia e briglie molto lunghe sul collo delle imprese purché si diano da fare. Una rivoluzione, insomma. Invece siamo qui impantanati nella discussione attorno a un’anticaglia come l’articolo 18, come se fosse il confine fra il bene e il male. Il male, invece, è molto più vasto: è in un paese bloccato per sua stessa scelta.

Italia in recessione e senza lavoro

Italia in recessione e senza lavoro

Francesco Di Frischia – Corriere della Sera

L’Italia avrà un deficit pari al 3% del prodotto interno lordo per quest’anno e del 2,9 nel 2015. Che nel 2014 la tanto attesa ripresa dell’economia non fosse possibile, al di là di qualche piccolo segnale positivo, lo ha confermato ieri sera l’aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def) 2014-2016, approvato dal Consiglio dei ministri. Del resto le primissime stime dell’Istat diffuse ieri indicavano un dato negativo del Pil anche per il terzo trimestre di quest’anno.

In base alle nuove stime di Palazzo Chigi, il rapporto tra debito e Pil si attesterà al 131,7% nel 2014 e al 133,4 nel 2015: il pareggio strutturale di bilancio slitta così al 2017, un anno in più rispetto alle previsioni del Def illustrate dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan ad aprile. Per quanto riguarda il Pil, il governo Renzi ipotizza nel 2014 un dato negativo (-0,3%), per poi crescere dello 0,6% il prossimo anno grazie «all’impulso positivo della Legge di Stabilità», spiega il ministro Padoan secondo il quale nel Def il tasso di disoccupazione si attesterà al 12,6% nel 2014 e al 12,5% nel 2015.

Altre cattive notizie per l’occupazione vengono dall’Istat che «nonostante qualche segnale positivo», non vede «nel mercato miglioramenti significativi». Preoccupa soprattutto il tasso della disoccupazione giovanile: ad agosto è pari al 44,2% (+ 1% rispetto a luglio e +3,6 nel confronto tendenziale), facendo così registrare il peggior risultato dal 1977. Piccolo segnale positivo arriva dal tasso di disoccupazione generale che ad agosto si attesta sul 12,3%, facendo segnare una piccola diminuzione in termini congiunturali (0,3) e rispetto agli ultimi 12 mesi (0,1): i senza lavoro sono 3 milioni e 134 mila (82 mila in meno rispetto al mese precedente). In pratica ci sono 32 mila occupati in più rispetto a luglio, fa notare il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, e il numero dei disoccupati diminuisce del 2,6%.

Altro indicatore che spinge l’Italia in deflazione è l’indice nazionale dei prezzi al consumo che a settembre diminuisce dello 0,3% rispetto ad agosto e dello 0,1 se lo si paragona a settembre 2013. In questo quadro a dir poco negativo il Cnel definisce «una ipotesi irrealizzabile» una discesa del tasso di disoccupazione ai livelli pre-crisi (7% nel 2007) perché questa operazione «richiederebbe la creazione da qui al 2020 di quasi 2 milioni di posti di lavoro».

La vera rivoluzione delle riforme

La vera rivoluzione delle riforme

Mario Deaglio – La Stampa

«Siete bravi e simpatici ma dovete fare le riforme». «Mi raccomando, fate le riforme». «Va tutto bene, ma avanti con le riforme». Banchieri centrali, esponenti economici europei, responsabili di centri di ricerca internazionali da tre anni ripe- tono come un «mantra» tibetano lo stesso ritornello. A questo coro sempre più nutrito si è aggiunto ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, con due specificazioni importanti: le riforme devono essere «strutturali» e devono riguardare non solo l’Italia ma l’intera Europa. Che cosa sono, allora, queste «riforme» che l’Italia e il resto d’Europa dovrebbero fare?

L’espressione «fare le riforme» è una foglia di fico per nascondere qualcosa di apparentemente scandaloso e politicamente scomodissimo: un ridisegno della società attraverso una diversa distribuzione dei redditi e un ridisegno dell’economia attraverso una rapida variazione dell’importanza dei diversi settori produttivi e dell’occupazione a essi collegata. Si tratta, in sostanza, di incidere profondamente sia sulla domanda sia sull’offerta dei beni che si producono e si vendono.

Negli ultimi vent’anni, la distribuzione dei redditi si è ovunque spostata a sfavore del lavoro e a vantaggio di chi riceve redditi non di lavoro. In Germania, gli anziani che vivono di rendite e di altre entrate fisse non sono mai stati così ricchi e così in buona salute, come titolava domenica il tedesco «Welt am Sonntag». Negli Stati Uniti dalla fine della Seconda guerra mondiale gli utili delle società non sono mai stati cosi alti. Quasi mai così in alto, negli ultimi decenni è stato l’indice di Gini, una sorta di «termometro della diseguaglianza dei redditi» che ha visto l’Italia diventare uno dei più Paesi avanzati con maggior diseguaglianza dei redditi, di poco inferiore a quella degli Stati Uniti. Mentre però negli Stati Uniti la società è diseguale ma anche relativamente mobile e chi è povero può ragionevolmente pensare di migliorare sensibilmente la propria posizione economica, in Italia diventano sempre più rigide le barriere che rendono difficile questo miglioramento, come mostrano le norme per l’ingresso alle varie «libere» professioni. «Fare le riforme» significa quindi ridistribuire questi redditi. Le vie sono molteplici e tocca ai politici – e agli italiani che li eleggono – dire chiaramente quale e quanta ridistribuzione intendono accettare.

«Fare le riforme» implica, però non tanto – o non solo – la riduzione del carico fiscale, come spesso chiedono gli imprenditori ma anche la riduzione dei «costi esterni»: occorre ripensare radicalmente la burocrazia, organizzandola sulla base dei modelli, più semplici e più efficaci, di Paesi come la Germania o la Gran Bretagna, e ridurre cosi i tempi delle decisioni pubbliche, essenziali nel modo di produzione postindustriale. Per far questo non basta, o non serve, «tagliare» lasciando invariata la struttura, come hanno fatto, in vario modo, i governi degli ultimi dieci anni. È necessario ridurre i livelli decisionali e, per conseguenza, imboccare una strada scomodissima che implica una riduzione sensibile nel numero dei pubblici dipendenti. A tale riduzione fa da contrappunto la riduzione delle occasioni di lavoro di numerose categorie professionali che, volenti o nolenti, vivono sulla complicazione delle procedure pubbliche. Un esempio fra i tanti: l’invio a domicilio, già dal 2015, della dichiarazione precompilata dei redditi toglierà lavoro ai Caaf e ai commercialisti. L'(eventuale) semplificazione della giustizia e l’accorciamento dei tempi potrebbe significare meno lavoro per le professioni legali. E l’elenco, naturalmente, potrebbe continuare.

Dietro il generico «fare le riforme» si nasconde quindi una trasformazione rapida e non indolore della società. Alcuni Paesi – Portogallo, Grecia, Irlanda – non se la sono sentita di fare tutto da soli, pur avendo i loro governi maggioranze più solide dell’attuale governo italiano e hanno conferito alla cosiddetta «troika», composta di rappresentanti del Fondo Monetario Internazionale, della Bce, della Commissione di Bruxelles, una sorta di giudizio di ultima istanza sulla adeguatezza e la sufficienza quantitativa delle manovre di risanamento. Hanno passato un paio d’anni d’inferno e sembrano oggi in via di guarigione. L’Italia non è nella loro condizione, ma, se vorrà conservare un ruolo rilevante nell’economia, nella politica, nella società globale, non potrà semplicemente evitare il problema. Che è già, tra l’altro, in maniera inconfessata, al centro del dibattito politico italiano.

Naturalmente il Paese potrebbe anche decidere di non far nulla. È già successo in un passato lontano: nel Cinquecento, il reddito per abitante degli italiani – stimato circa 1000 dollari dall’economista britannico Angus Maddison – era il più alto d’Europa. Tre secoli più tardi, era pressoché invariato ma largamente superato da Gran Bretagna, Francia e Germania: l’Italia era diventata una sorta di museo a cielo aperto che attirava turisti mentre i giovani bravi – architetti, artisti, scienziati – andavano a cercar lavoro all’estero. C’è qualcosa che suona famigliare in questo riferimento al passato? È perfettamente legittimo aspirare a ridiventare un museo. Sarebbe invece improprio, mentre si ridiventa un museo, credersi ancora un Paese all’avanguardia e rivendicare primati che non esistono più.

Una “spirale velenosa” s’aggira per l’Eurozona

Una “spirale velenosa” s’aggira per l’Eurozona

Alessandro Merli – Il Sole 24 Ore

Sepolta sotto una montagna di debito che, invece di diminuire, aumenta, l’economia mondiale rischia una nuova crisi dopo quella gravissima della fine del decennio passato. C’è una «spirale velenosa» fra l’alto livello del debito pubblico e privato e la bassa crescita nominale, avverte l’ultimo Rapporto di Ginevra, pubblicato ieri dal Centro internazionale di studi bancari e monetari. Fra gli autori, Lucrezia Reichlin, della London Business School e già capo della ricerca della Banca centrale europea, e Luigi Buttiglione, ex Banca d’Italia ed economista di uno dei più grandi hedge fund macro, Brevan Howard. Il circolo vizioso fra alto debito e bassa crescita, spiega Buttiglione, è evidente nell’eurozona più che altrove e, all’interno dell’eurozona, nel caso dell’Italia.

Il Rapporto smentisce anzi tutto la convinzione che il mondo stia attraversando una fase di deleveraging dopo la crisi del 2008-2009: anzi, il debito pubblico e privato (con l’esclusione di quello del settore finanziario), che era attorno al 60% del prodotto interno lordo all’inizio del decennio passato, è balzato al 200% nel 2009, dopo lo scoppio della crisi, e ha toccato il 212% nel 2013. Con una differenza fondamentale, che prima della crisi l’accumulazione di debito è avvenuta soprattutto nei Paesi avanzati, dove si è ora stabilizzato più o meno ai livelli del 2009. Dopo la crisi, invece, si assiste a un balzo del debito soprattutto nei Paesi emergenti, in particolare in Cina, il punto più fragile assieme all’eurozona, dove le autorità dovranno scegliere fra un rallentamento della crescita per frenare l’aumento del debito totale (che si è impennato dal 140% del pil del 2001 al 240% attuale) o un pericoloso aumento continuo del debito per continuare ad alimentare la crescita su ritmi vicini a quelli degli anni scorsi. Il rischio di una prossima crisi è reale, secondo il Rapporto, ed è particolarmente vivo in quei Paesi che non hanno fatto i conti del tutto con quella precedente, come quelli della periferia dell’eurozona, fra cui l’Italia.

La risposta della politica economica è decisiva. Il Rapporto di Ginevra mette a confronto quella delle autorità di Stati Uniti e Gran Bretagna con quella europea. Nel primo caso, si è scelta la strada di una forte espansione del bilancio della banca centrale (soprattutto da parte della Federal Reserve) attraverso il quantitative easing. Al deleveraging del settore privato e in particolare del sistema finanziario, ha corrisposto un aumento dell’indebitamento pubblico. L’uscita è in corso adesso, con la cessazione del Qe, e dovrà avvenire in modo graduale per non produrre nuovi sconquassi, ma ha evitato, dopo la crisi, una ricaduta nella recessione e una paralisi del credito. Cosa che è avvenuta invece in Europa, dove un possibile Qe è ancora oggetto di discussione e di forte opposizione e i vincoli anche politici dell’unione monetaria, dove ogni intervento diventa anche un trasferimento da un Paese all’altro, hanno frenato la risposta nei tempi e nei modi, anche se è stato evitato il collasso, grazie all’azione della Banca centrale europea.

L’Europa ha puntato sulla riduzione prima del debito pubblico, attraverso l’austerità fiscale e non ha ricapitalizzato il settore bancario. A differenza che negli Stati Uniti, il debito totale dell’eurozona resta oggi una percentuale più alta del pil rispetto a prima della crisi, mentre la perdita di reddito è del 5% circa negli Stati Uniti e quasi il doppio per l’eurozona. La revisione ormai ultimata dei bilanci delle banche europee, bassi tassi d’interesse e il possibile varo del Qe (che il Rapporto suggerisce) possono essere d’aiuto, ma il «veleno» del mix di alto debito e bassa crescita nominale appare più pericoloso nell’eurozona che altrove.

Per i conti italiani la scommessa del Pil

Per i conti italiani la scommessa del Pil

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Con una prospettiva di crescita per il 2015 che al momento non va oltre un modesto 0,5%, l’unica strada è provare a “forzare” sul “denominatore” e scommettere su un risultato che possa quanto meno avvicinarsi all’1 per cento. È lo schema implicito sul quale pare basarsi la legge di stabilità che il governo si appresta a definire, dopo aver approvato il nuovo quadro macroeconomico con la Nota di aggiornamento al «Def». Ed è al tempo stesso lo scarto che potrà separare il quadro “tendenziale” (a bocce ferme) da quello “programmatico” (con le azioni di politica economica incorporate). E quindi, da un lato la flessibilità che andrà concessa – vi ha fatto cenno ieri alla Camera il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan – per effetto della prolungata fase di contrazione dell’economia. Più tempo a disposizione, in poche parole, per rientrare nella «regola del debito». Dall’altro, quella che potremmo definire la «scommessa del Pil».

Certo, occorre superare le diffidenze che permangono, soprattutto a Berlino e nelle capitali dei paesi più rigoristi, sull’effettiva capacità del nostro paese di portare a termine le riforme già approvate e quelle in itinere, ma in presenza di una legge di stabilità con un profilo più ambizioso rispetto a quello che – per condizioni oggettive – va emergendo, sarebbe più arduo da parte della Commissione europea continuare a opporre il rigido ed esclusivo rispetto delle regole. Anche il tabù del 3%, per quel che riguarda il rapporto deficit/Pil, potrebbe essere in teoria momentaneamente scalfito, se servisse a finanziare una robusta operazione di riduzione fiscale in buona parte concentrata sul fronte del costo del lavoro. Matteo Renzi ha parlato ieri di «danno reputazionale», che sarebbe per noi più grave del beneficio, in caso di sforamento del tetto del 3 per cento. Ragionamento certamente fondato.

In realtà la vera incognita, che si può immaginare freni soprattutto Padoan, riguarda non tanto le conseguenze immediate della procedura d’infrazione che ne seguirebbe, quanto la reazione dei mercati. Se lo sforamento del 3% venisse percepito come l’ennesimo tentativo del nostro paese di risolvere «via deficit» quel che non riesce a ottenere «via riforme», il conto in termini di aumento del costo del debito potrebbe essere salato. Preoccupazione fondata, ma c’è da chiedersi se abbia un senso logico continuare a rispettare il target del 3%, quando poi non si riesce comunque a ridurre il deficit strutturale dello 0,5% l’anno, come previsto dalle regole europee, tanto che si è costretti a far slittare in avanti il pareggio di bilancio (2018?). Deviazioni e scostamenti dal percorso programmato che, se prevalesse un’improvvida e ortodossa interpretazione dei Trattati, dovrebbero comportare anch’essi l’apertura di una procedura di infrazione per debito eccessivo. Senza considerare che formalmente continua a pendere sull’Italia la spada di Damocle degli «squilibri macroeconomici eccessivi», certificati lo scorso marzo da Bruxelles (alto debito, bassa produttività). Ma in qualche modo occorre provare a uscire dalla gabbia della disciplina di bilancio europea, così come costruita – lo ha ricordato Padoan – quando il quadro macroeconomico era diverso. Ora la miscela esplosiva di stagnazione e di quella che il ministro dell’Economia con un neologismo definisce «bassa inflazione» richiede risposte non “ragionieristiche” ma “ragionevoli”.

Tanti minibond, pochi investimenti

Tanti minibond, pochi investimenti

Alessandro De Nicola – Affari & Finanza

Un proverbio inglese ricorda che puoi portare un cavallo alla fontana, ma non puoi costringerlo a bere. Questa chicca di saggezza popolare ben si adatta agli sforzi che legislatori e autorità monetarie compiono per superare il credit crunchche attanaglia l’Italia e di cui la storia della giovane coppia che gira 12 banche e non riesce ad ottenere un mutuo, pubblicata venerdì scorso su Repubblica, ne é l’esemplificazione. Il primo esempio di cavallo che beve in modo strano lo si trova nel mercato dei minibond. Questo strumento é stato introdotto ormai più di due anni fa. È stato poi man mano affinato, soprattutto allo scopo di finanziare i piani di sviluppo delle Pmi. Invece che sottostare alla rigida normativa societaria e fiscale applicabile alle emissioni di obbligazioni, le imprese che decidono di quotare in un mercato regolamentato i propri titoli di debito ottengono la piena deducibilità fiscale degli interessi e non devono rispettare i limiti di proporzione tra debito e patrimonio netto previsti dal codice civile.

Il governo Monti e successivamente quello Letta avevano voluto aprire un nuovo canale di approvvigionamento di risorse per le aziende innovative senza necessariamente far ricorso al credito bancario. L’esperimento sta riuscendo discretamente bene, in quanto sono stati finora emessi minibond per 1,2 miliardi di euro ed il mercato è in sicura crescita. Tuttavia il cavallo-impresa non ha bevuto esattamente l’acqua che si aspettava il legislatore. Infatti, secondo una ricerca della società di consulenza Crescendo che ha esaminato le 36 emissioni obbligazionarie fin qui effettuate, sono emersi dati curiosi. Del miliardo e 200 milioni raccolto sul mercato, solo152 sono serviti a finanziare progetti di sviluppo (il 13% del totale) cui possiamo forse aggiungere altri 150 milioni raccolti da società municipalizzate venete per le reti idriche. Il resto o è stato collocato da società quotate per le quali la procedura minibond non era necessaria (73 milioni), oppure per rifinanziare il debito bancario (818 milioni). Insomma, l’eterogenesi dei fini, di cui lo Stato non tiene mai conto, ha funzionato in questo caso a meraviglia, sopperendo sì ad un bisogno, ma non quello che si era immaginato l’estensore della legge. In futuro è possibile che la situazione si riequilibri, ma ad oggi il cavallo ha fatto di testa sua. E qui arriviamo ad un’altra fontana, la BCE, la quale, pur avendo offerto alle banche italiane una quantità enorme di denaro perché queste potessero utilizzarlo per gli impieghi delle imprese, si è trovata di fronte ad un’inaspettata flebile richiesta. Secondo il programma Tltro ( Targeted Longer Term Refinancing Operations) a settembre erano disponibili per gli istituti di credito italiani ben 75 miliardi di euro, ma i primi 10 di loro ne hanno richiesto solo 23.

Ma come, le nostre aziende lamentano il prosciugamento del credito, la Bce mette a sul piatto a tassi di interesse infimi una quantità enorme di denaro e il cavallo bancario non si abbevera? Anche in questo caso le spiegazioni potrebbero essere molteplici. Una, contingente, é che le banche sono in attesa degli stress test (o, se si preferisce, valutazione dei bilanci) che la Bce sta conducendo e quasi completando. Si vorrebbero attendere gli esiti della valutazione prima di decidere se indebitarsi troppo. Tuttavia, nei mesi scorsi il sistema bancario ha già restituito in anticipo una parte sostanziosa del denaro che era stato precedentemente preso a prestito dalla Bce e questo indicherebbe che la questione principale non è la mancanza di liquidità. Piuttosto, il sistema creditizio italiano è assediato dalle sofferenze e perciò in ogni caso le banche sono riluttanti a concedere mutui. Le imprese che non esportano non offrono probabilmente sufficienti garanzie, di conseguenza i tassi che vengono applicati sono tuttora alti o addirittura non si eroga il credito.

Il problema è circolare: finché c’è la crisi non è prudente aprire la borsa del credito, ma senza liquidità diventa più difficile uscire dalla crisi. Ecco dunque che i due cavalli, quello del minibond e quello del Tltro si ricongiungono: i soldi per lo sviluppo sono molto meno utili fino a quando non ci saranno le condizioni che favoriscono la crescita. E quali sono queste condizioni? Il pagamento dei crediti della PA é certamente uno, la riduzione del debito pubblico e un ulteriore abbassamento dello spread, in modo da rendere i BTP meno attraenti per le banche un altro. Inoltre, l’indebolimento dell’euro (facilitato dalle manovre della BCE) potrà aiutare. Ma il fattore principe sono le riforme invocate dallo stesso Draghi: sinché il mercato del lavoro, quello delle professioni e quello dei servizi non saranno liberalizzati, la giustizia non sarà efficiente, le tasse e le spese tagliate, il peso della burocrazia ridotto, la PA sottoposta a criteri meritocratici, inondare di liquidità il mercato avrà effetti limitati. I due cavalli, che siano imprese o banche, arrivati alla fontana chiedono dunque all’unisono una cosa sola: riforme, riforme, riforme.

Euro più debole e inflazione: le mosse per tornare a crescere

Euro più debole e inflazione: le mosse per tornare a crescere

Renato Brunetta – Il Giornale

La scorsa settimana si è caratterizzata non tanto per il viaggio del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, negli Stati Uniti; non tanto per il dibattito, sempre più duro, sulla riforma del mercato del lavoro e, in particolare, sul superamento dell’articolo 18, ma soprattutto, sul fronte economico-finanziario-Europa-mercati, per la svalutazione dell’euro sul dollaro. Del tutto in secondo piano è passato il tema della Nota di aggiornamento al Def, che il governo avrebbe già dovuto presentare al Parlamento (il termine previsto dal semestre europeo è il 20 settembre di ogni anno), ma che probabilmente solo oggi vedrà la luce. Probabilmente. Nella settimana che si è appena chiusa, dicevamo, il rapporto di cambio euro/dollaro ha raggiunto il suo livello minimo da 14 mesi: sotto quota 1,28. Il dato non può e non deve passare inosservato, per l’importanza dei motivi che lo hanno determinato e per gli effetti che esso ha, e avrà, sulle maggiori economie mondiali.

Il valore della moneta unica europea è in diminuzione in quanto, da un lato, è in aumento la domanda di attività finanziarie denominate in dollari, che promettono rendimenti superiori, a seguito dell’annuncio della banca centrale americana, la Federal Reserve, di una imminente stretta monetaria: la fine del Quantitative easing (Taper off) dal prossimo mese di ottobre e l’aumento dei tassi di interesse tra marzo e giugno 2015. Dall’altro lato, al contrario, la Banca centrale europea manterrà bassi ancora a lungo i tassi d’interesse dell’area euro, e si appresta a varare nuove e straordinarie misure espansive di politica monetaria nei prossimi mesi. Ne deriva un ampliamento del differenziale atteso dei tassi d’interesse tra Europa e Usa a favore degli Stati Uniti. Inoltre, gli ultimi dati disponibili rilevano un peggioramento della bilancia commerciale dell’area euro, determinato in generale dalla cattiva performance economica, in termini di crescita, dei paesi europei, e, più in particolare, dal calo dell’export della Germania nei confronti dei paesi extra-Ue. Questo crea un ulteriore aumento della domanda di dollari (per acquistare beni e servizi americani) e una diminuzione di quella di euro. Il combinato disposto di questi due fattori ha determinato la rivalutazione del dollaro e la conseguente svalutazione dell’euro cui abbiamo assistito nell’ultima settimana. Mercati in movimento, quindi. Incerti, ma vigili. Fare attenzione. Ottobre è arrivato.

Come abbiamo anticipato, la presidente della Federal Reserve americana, Janet Yellen, la scorsa settimana ha confermato che con il prossimo acquisto, in ottobre, di asset per 15 miliardi di dollari finirà la politica di Quantitative easing che fino ad oggi ha assicurato bassi tassi di interesse a sostegno dell’economia. In realtà, il cosiddetto “Tapering”, cioè la riduzione progressiva, di 10 miliardi al mese, della terza tranche di QE, iniziata a settembre 2012 con acquisti mensili di asset per 85 miliardi di dollari, era attesa da oltre un anno.

L’interazione tra le politiche monetarie della Bce e della Fed, che continueranno a essere di segno contrario, seppur in posizioni invertite, consentirà un riequilibrio in termini di crescita tra Europa e Stati Uniti? Ciò dipenderà dai tempi con i quali il mutamento della politica della Fed si trasmetterà sull’aumento dei tassi d’interesse nell’area dollaro, soprattutto sui tassi a lungo termine, da come la Federal Reserve riuscirà a orientare e/o controllare la progressività dell’aumento e soprattutto da come la Fed reagirà a possibili scostamenti dei tassi di crescita dell’economia e di disoccupazione americani da quelli previsti e sui quali essa ha basato le proprie decisioni di normalizzazione monetaria. Ma ciò dipenderà ovviamente anche da quel che accadrà in Europa.

L’obiettivo principale che deve porsi oggi la Banca centrale europea è duplice: ottenere una consistente riduzione del tasso di cambio dell’euro e alzare il tasso d’inflazione, per evitare l’emergenza di una spirale deflazionistica già iniziata in vari paesi europei. I due obiettivi sono strettamente connessi, perché la svalutazione dell’euro sembra ormai a molti commentatori l’ultimo strumento per ottenere nel breve periodo, al tempo stesso, un aumento dell’inflazione importata e un aumento della domanda, sia estera sia domestica, di prodotti europei. Questo appare, dunque, l’unico modo per riavviare la crescita, in attesa che l’Europa riacquisti un dinamismo competitivo endogeno. Il deprezzamento dell’euro sul dollaro dell’ultima settimana sembra dare una risposta al possibile effetto congiunto dell’espansione monetaria inseguita dal presidente della Bce, Mario Draghi e l’annuncio della fine della stessa politica negli Stati Uniti.

Qui si pone, tuttavia, una questione di non poco conto per i paesi europei più indebitati come l’Italia. L’afflusso di capitali in Europa ha avuto un effetto benefico sulla sostenibilità dei debiti, determinando un costo del debito ai minimi, e sui valori azionari che sono saliti nonostante la stagnazione/recessione, ma ha avuto come prezzo un ostacolo alla crescita determinato dal valore alto dell’euro. Il desiderato deprezzamento dell’euro, e, soprattutto, l’attesa di deprezzamento, implica una possibile inversione di tendenza anche dal lato della remunerazione richiesta per il finanziamento dei debiti che, quindi, aumenterebbe, con conseguenti guai per molti paesi europei e per l’Europa nel suo complesso. Per questo crediamo che la Bce debba prepararsi a un necessario intervento non convenzionale che possa estendersi all’acquisto di debito pubblico (leggi: Quantitative easing europeo).

Rimane anche un dubbio complessivo legato al passaggio, annunciato dalla Fed, dall’approccio “Forward guidance”, fino ad oggi adottato, all’approccio del “Data-driven stance”. Il primo approccio è quello seguito dal predecessore di Janet Yellen alla guida della Federal Reserve, Ben Bernanke, negli ultimi anni, in base al quale la banca centrale comunica con largo anticipo agli operatori le decisioni di politica monetaria che intende prendere. Altro approccio è quello di stare a vedere cosa accade all’economia, fare piccole correzioni nei tassi di interesse, o altre azioni di intervento, e annunciare che ulteriori decisioni verranno prese se gli stimoli non si dimostrano sufficienti a far ripartire la spesa in consumi e investimenti (Data-driven stance). Questo approccio sembra guidare sostanzialmente anche gli ultimi interventi della Bce e i suoi annunci di ulteriore e crescente ricorso a strumenti di politica monetaria non convenzionali. Gli stimoli monetari messi in campo fino ad oggi dalla Bce non hanno avuto gli effetti sperati. Ha dunque ragione Draghi quando afferma che la politica monetaria da sola è inefficace se non aiutata dalla politica economica, quindi dalle riforme strutturali, degli Stati, e anche che entrambe le politiche possono poco se non si sbloccano i mercati e le istituzioni.

La conclusione è che, con la svolta della politica monetaria americana, per l’Italia la strada rischia di complicarsi ulteriormente, e diviene sempre più cruciale la necessità di grandi capacità di governance e di decisioni non solo rapide, ma anche forti e condivise. Se fino ad oggi i tassi di interesse sul nostro debito pubblico sono rimasti bassi, per esempio rispetto ai picchi del 2012, grazie alle “magie” della politica monetaria, non solo e non tanto della Bce, ma soprattutto della Federal Reserve, adesso lo scenario sta cambiando e il ruolo dei governi torna centrale. Se si vuole evitare una nuova tempesta finanziaria, le banche centrali non bastano più: la palla è in mano ai governi. Solo ai governi. Purché facciano le cose giuste.

Ai minimi la fiducia delle imprese

Ai minimi la fiducia delle imprese

Luca Orlando – Il Sole 24 Ore

Scegliete un dato, uno qualunque. Perché sia che si tratti di prodotto interno lordo o produzione industriale, di domanda interna o export, di erogazione di credito o investimenti, le conclusioni sono pressoché identiche: l’economia italiana va male. Si può discutere sui dettagli, aggrapparsi a qualche zero virgola di differenza nelle stime sul Pil 2014, ma il senso delle statistiche offre in realtà un quadro omogeneo e negativo, rimandando a data da destinarsi ogni possibilità di ripresa.

In un quadro fosco l’ottimismo diventa merce rara. E così, per il secondo mese consecutivo, la fiducia delle imprese ingrana la retromarcia tornando a ridosso dei livelli di inizio anno, a quota 86,6. Ancora peggio il dato della manifattura, dove l’indice arretra per la quarta volta di fila: per trovare un livello più basso occorre tornare ad agosto 2013. Una discesa corale dove cedono terreno industria e servizi, commercio e costruzioni, accomunati dalla debolezza della domanda. Alla cronica assenza del mercato interno si aggiunge infatti ora anche la stasi dell’export, capace di generare nei primi sette mesi dell’anno un magro progresso dell’1,3%, quasi certamente da ritoccare al ribasso alla luce dei pessimi dati extra-Ue di agosto.

Per la prima volta dall’inizio del 2013 i giudizi sui ricavi oltreconfine sono negativi mentre le attese volgono al peggio, appesantite senza dubbio non solo dal rallentamento del commercio mondiale indicato dalla Wto ma anche dai focolai di guerra e dalle tante crisi che si sviluppano attorno a noi, a cominciare da quella aperta con Mosca. Fiducia in calo soprattutto perché osservando il portafoglio ordini le aziende continuano a vedere nero, soprattutto in casa: a considerare “alto” il livello degli ordini nazionali è una sparuta pattuglia, il 5% del campione tra le realtà manifatturiere, mentre all’estremo opposto, insoddisfatte del livello attuale delle commesse interne sono ben 43 imprese su 100. Appena un poco meno sbilanciato il dato se la domanda riguarda l’economia nazionale, vista in crescita da sei aziende su 100, in calo da 28.

Sulla manifattura pesa come un macigno il rallentamento della produzione industriale, tornata dopo otto mesi di oscillazioni esattamente sugli stessi livelli di un anno fa. Risultato poco brillante per chi deve recuperare un 25% di gap rispetto ai valori pre-crisi, anche se forse su una crescita “zero” altri comparti metterebbero la firma. A cominciare dalle costruzioni, la cui fiducia scende per il secondo mese consecutivo dopo un timido tentativo di rimbalzo estivo. Del resto si tratta del comparto che forse più di altri ha pagato il crollo della domanda, per definizione solo interna, con una caduta produttiva che ancora procede a doppia cifra, giù del 10,2% a luglio. Rispetto al 2010 manca all’appello il 27% del mercato e a cascata questo provoca ondate telluriche sui tanti settori legati al mattone: dalle caldaie alle piastrelle, dagli infissi ai rubinetti, iniziando ovviamente dal cemento. I cui consumi a fine anno dovrebbero scendere in Italia al di sotto dei 20 milioni di tonnellate, un livello che non si vedeva nel Paese dall’inizio degli anni ’60.

Ottimismo in fase calante anche nel settore del commercio al dettaglio dove ormai l’unico canale a resistere è quello dei discount. Ed è proprio qui, tra i commercianti, che si verifica l’arretramento maggiore dell’indice, un calo di oltre cinque punti che riporta indietro le lancette di quasi un anno. Un dato brutto, quello di settembre, che secondo l’economista di Intesa Sanpaolo Paolo Mameli non solo rende ora «molto probabile» un calo del Pil italiano nel terzo trimestre ma mette anche a rischio la previsione di una ripresa dell’attività economica nell’ultima parte dell’anno.