economia

Più opere e meno squilibri per rilanciare l’Europa

Più opere e meno squilibri per rilanciare l’Europa

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

La crisi economica europea ha trovato di recente due conferme e una autorevole indicazione su come uscirne. La conferma viene dal rallentamento della Germania e dal Fondo monetario internazionale che chiede investimenti pubblici in infrastrutture. Per questo giornale non si tratta di novità perché da anni ripetiamo che il dogma del rigore fiscale senza politiche espansive europee centrate sugli investimenti, specie in infrastrutture, era sbagliato.

I trinomi dell’Fmi
Con oggi si chiudono a Washington le riunioni annuali di Fmi e Banca mondiale (istituzioni a cui aderiscono 188 Paesi) che hanno celebrato anche il loro 70° anniversario. È stato presentato anche il World economic outlook di ottobre che va letto alla luce di due interventi, cruciali anche per l’Europa, del direttore generale Fmi, Christine Lagarde. Il primo è di prospettiva storica a 70 anni da Bretton Woods, quando Fmi e Banca mondiale furono fondate con il contributo di John Maynard Keynes. Lagarde rende omaggio a questo genio e prospetta tre coppie di alternative di fronte alla quali l’economia mondiale si trova oggi: tra accelerazione e stagnazione; tra stabilità e fragilità; tra solidarietà e isolamenti. Lagarde spiega perché accelerazione, stabilità, solidarietà sono tra loro connesse. A nostro avviso è quella combinazione su cui si è costruita l’Eurozona (e l’Unione europea) che adesso vacilla avendo scelto, sbagliando, la ricombinazione di stagnazione, stabilità, isolamenti. Il secondo intervento riguarda l’attuale urgenza di politiche economiche per rilanciare crescita e occupazione, specie in alcune aree geo-economiche in forte rallentamento. Qui emerge in modo netto la presa di posizione sulla Eurozona per la quale Lagarde segnala i rischi di persistente bassa inflazione (che per noi è deflazione) e di recessione per superare le quali chiede misure monetarie più forti della Bce e misure fiscali dei Paesi sia in surplus che in deficit evitando gli eccessi di rigore, ammorbidendo gli effetti delle necessarie riforme nel mercato del lavoro, favorendo la crescita.

Gli investimenti e le infrastrutture
Alle politiche monetarie e fiscali per la crescita viene aggiunta con forza dall’Fmi quella sulle infrastrutture come strategia cruciale per evitare il rallentamento dell’economia mondiale e la stagnazione in alcune aree. Con riferimento all’Eurozona noi abbiamo trattato su queste colonne di infrastrutture sotto ogni punto di vista: dai metodi di finanziamento (Project bond, Eurobond, partenariato pubblico-privato) alle tipologie di investimenti (reti transeuropee, tecnoscienza, capitale umano e fisico). L’Fmi enfatizza l’urgenza degli investimenti pubblici in infrastrutture sia come leva fondamentale per rilanciare adesso crescita e occupazione, sia perché la quota delle stesse sul Pil è calata in generale, sia perché nei Paesi sviluppati vanno ammodernate e nei Paesi in via di sviluppo vanno costruite. Le condizioni di liquidità attuali sono anche molto favorevoli per costi finanziamento bassi e per l’emissione di titoli di debito in mercati molto liquidi. L’Fmi calcola che un aumento dell’investimento in infrastrutture di un punto percentuale di Pil genera nelle economie avanzate un incremento dello 0,4% di Pil nello stesso anno e dell’1,5% entro quattro anni. La conclusione è che investimenti in infrastrutture ben fatti aumentano la produttività delle economie e si ripagano anche in termini di rapporti del debito pubblico sul Pil.

Gli squilibri tedeschi
Il World economic outlook (Weo) dell’Fmi si sofferma anche sulla crisi dell’Eurozona e sui problemi dei suoi Stati membri. Il messaggio che più colpisce è quello secco indirizzato alla Germania con la richiesta di aumentare gli investimenti pubblici nelle infrastrutture. Il messaggio si ripete in varie forme nel Weo rilevando che la Germania è l’unico Paese nel quale tra il 2006 e il 2013 sono cresciuti sia il surplus di parte corrente con l’estero (dal 6,3% allo 7,5% del Pil, pari a 274 miliardi di dollari) sia i crediti finanziari netti sull’estero (dal 26,9% al 46,2% del Pil ovvero 1678 miliardi di dollari) mentre gli investimenti interni sono scesi rispetto al risparmio. Così gli investimenti totali sul Pil dal 22,3% nel 2000 sono scesi al 16,9% nel 2013 mentre si prevede una risalita solo al 18,5% nel 2019. All’opposto la quota del risparmio lordo sul Pil è passata nello stesso periodo dal 20,5% al 24% con la previsione di scendere solo al 23,5% nel 2019. La Germania soffre perciò di squilibri macroeconomici che da anni vanno ben oltre i limiti previsti dagli accordi europei per il rapporto tra il surplus di parte corrente sull’estero e il Pil. Purtroppo le istituzioni europee non hanno avuto la forza di richiamare la Germania a più investimenti che avrebbero trainato tutta l’Eurozona. Inoltre si è a lungo taciuto nelle sedi istituzionali sui vantaggi che la crisi stessa ha prodotto per la Germania. Sono critiche che da tempo Marco Fortis avanza, segnalando anche che il crollo della domanda degli altri Paesi dell’Eurozona avrebbe colpito la stessa Germania. È quello che sta accadendo. Infatti le stime di crescita per il 2014 sono state ribassate dall’1,9% all’1,3% e per il 2015 dal 2% all’1,2%, l’export di agosto è crollato del 5,8% rispetto a luglio e la produzione industriale del 4,8% mentre la fiducia delle imprese è in calo da maggio. È dunque in corso un rallentamento marcato.

Una conclusione Euro-tedesca
Al di là dei numeri contano anche le opinioni e tra queste spicca quella di uno tra i più autorevoli economisti tedeschi, Marcel Fratzscher, direttore dell’Istituto tedesco per la ricerca economica (Diw). Nel suo recente volume “L’illusione tedesca” (presentato dal ministro dell’Economia, il socialdemocratico Sigmar Gabriel) si sostiene sia che la prosperità tedesca vacilla per gli errori di politica economica sia che la Germania deve investire di più in infrastrutture e in capitale fisico e umano. Speriamo che questa opinione venga accolta dal governo tedesco, che dovrebbe anche aprirsi alla piena collaborazione con il presidente della Commissione europea per la realizzazione degli investimenti infrastrutturali convenienti per tutta l’Eurozona. Anche per l’Italia, che tuttavia non potrà sottrarsi a riforme radicali capaci di renderci un po’ più “tedeschi”.

Gli economisti pentiti (o quasi) adesso fanno autocoscienza

Gli economisti pentiti (o quasi) adesso fanno autocoscienza

Federico Rampini – La Repubblica

«La professione dell’economista non si è coperta di gloria in questi ultimi sei anni, è il minimo che si possa dire». Comincia così “l’autocoscienza dell’economista” a firma di Paul Krugman. Il premio Nobel dell’economia include se stesso nel bilancio negativo: «Quasi nessun economista aveva previsto la crisi del 2008, e quelli che lo fecero avevano anche previsto troppe crisi che non erano mai accadute». L’allusione in parte è a se stesso (Krugman era già pessimista molti anni prima del 2008) in parte ad altre Cassandre celebri come Nouriel Roubini e Robert Shiller. Anche i migliori, dunque, sbagliarono. O perché attribuirono una crisi imminente a cause errate: i macrosquilibri delle bilance dei pagamenti fra Usa, Cina e Germania, per esempio. Oppure perché avevano profetizzato il disastro con troppo anticipo (1999 nel caso di Shiller). La categoria dei pessimisti avverava la battuta secondo cui «gli economisti hanno previsto dieci delle ultime quattro recessioni». Molto peggio gli altri, comunque. E cioè la maggioranza: i cantori del libero mercato come meccanismo perfetto, capace di correggere i propri squilibri, di generare prosperità sempre ed ovunque. Quelli, tra l’altro, avevano il più delle volte le leve del potere in mano: vedi Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve “addormentato al volante” mentre Wall Street gonfiava la bolla speculativa dei mutui sub-prime. Ideologia e conflitto d’interesse si sorreggevano a vicenda: la “mano invisibile” consentiva a Wall Street di respingere limiti e restrizioni. Ma la storia continua, ora l’epicentro del disastro intellettuale è l’eurozona…

In America l’autoflagellazione degli economisti è diventato un nuovo genere letterario. Quella frase autocritica di Krugman, è l’incipit di una sua recensione uscita sul supplemento libri del New York Times. Il libro è Seven Bad Ideas (sette cattive idee) di Jeff Madrick. L’ultimo di una lunga serie. Tra i migliori in questo filone ci sono Zombie Economics dell’australiano John Quiggin (sottotitolo: “Le idee fantasma da cui liberarsi” edito dall’Università Bocconi); il monumentale saggio di Philip Mirowski Never Let a Serious Crisis Go toWaste( non lasciare che vada sprecata una grave crisi); un altro australiano, Steve Keen, con Debunking Economics. L’elenco è molto più lungo, a conferma di due aspet- ti importanti. Primo: almeno una parte della categoria degli economisti sente di avere tradito la propria missione, la propria funzione sociale, il proprio dovere verso il pubblico. Secondo: c’è un’altra parte più numerosa, però, che non sente alcun bisogno di associarsi all’autocoscienza e di fare autocritica. Purtroppo nella seconda categoria ci sono molti esperti vicini al potere, tecnocrati che hanno un’influenza enorme sulle decisioni dei governi. Questo è un dato che Krugman sottolinea nella sua recensione al libro di Madrick, e che accomuna tutte le altre opere che ho appena citato: la formidabile capacità di sopravvivenza delle idee sbagliate. Nelle sette idee che Madrick prende di mira, almeno tre sono strettamente legate fra loro: il dogma della “mano invisibile” (il mercato capace di auto-regolarsi); l’avversione all’intervento statale nell’economia; e la certezza che la globalizzazione sia sempre benefica.

C’è però un aspetto che Krugman non tratta nella sua recensione, e riguarda il clima intellettuale in Europa. I tre dogmi mercatisti di cui sopra hanno avuto meno influenza nel Vecchio Continente. Gli Stati Uniti vivono sotto l’egemonia neoliberista dai tempi di Ronald Reagan in poi; ma in Europa la versione pura e dura del mercatismo ha sfondato solo in Gran Bretagna. La Germania, sia che fosse governata dai socialdemocratici o dai democristiani, ha sempre preferito una versione ben temperata del liberismo, la cosiddetta economia sociale di mercato o “modello renano”. Lo Stato, anche nella vocazione di Welfare, ha sempre avuto in Europa continentale un ruolo maggiore che in America, almeno da Reagan in poi. E tuttavia il pensiero economico americano ha dovuto accettare di recente qualche salutare shock pragmatico. Krugman ricorda per esempio che la Chicago Business School (cresciuta all’ombra dell’autorità di Milton Friedman, il padre dei neoliberisti, Nobel anche lui) in un sondaggio fra economisti ha trovato che il 92% riconoscono l’efficacia dell’Amministrazione Obama nel contrastare la recessione con investimenti pubblici. La prova dei fatti, almeno in questo caso, ha potuto scalfire i dogmi. Non tutti, per carità. Le pagine dei commenti del Wall Street Journal rimangono in appalto alla fazione più radicale dei neoliberisti; i quali da cinque anni gridano “al lupo al lupo”, denunciando i disastri imminenti provocati dal deficit pubblico Usa (che invece si sta riducendo) e il ritorno dell’iperinflazione dietro l’angolo (di cui non c’è traccia). Milioni di risparmiatori americani hanno pagato di tasca propria per gli errori di questi esperti: il caso del fondo Pimco è esemplare, il più grosso gestore di bond ha creduto al mito dell’inflazione fabbricata dalla politica monetaria della Federal Reserve, e ha fatto scommesse disastrose sull’andamento dei mercati.

Da nessun’altra parte però il disastro della scienza economica sta producendo danni sociali così gravi come in Europa. Un altro grande economista americano, Benjamin Friedman (autore de Il valore etico della crescita, Università Bocconi), sulla New York Review of Books si occupa della “patologia del debito europeo”. Evidenzia la lettura “religiosa” del debito come vizio o peccato da espiare, che ispira Angela Merkel. Ricorda ai tedeschi afflitti da amnesia che loro furono i beneficiari del più colossale perdono di debiti della storia, dopo la seconda guerra mondiale. Traccia dei parallelismi inquietanti fra l’attuale depressione europea e quella degli anni Trenta, ivi comprese le conseguenze politiche come l’ascesa della xenofobia. La Merkel ormai appare dogmatica perfino agli esperti del Fondo monetario internazionale, che da tempo la esortano a rilanciare la domanda interna nel suo paese usando la leva degli investimenti in infrastrutture. Ma l’autocoscienza dell’economista, che in America è iniziata almeno nelle frange più illuminate, non ha ancora scalfito le certezze granitiche che governano l’Europa: dove gli accademici “krugmaniani” (i Piketty e i Fitoussi) sono amati dall’opinione pubblica ma contano poco, e di certo non influenzano i tecnocrati di Berlino, Francoforte e Bruxelles.

L’atlante mondiale delle economie: l’Italia scende dalla “top 10”

L’atlante mondiale delle economie: l’Italia scende dalla “top 10”

Danilo Taino – Corriere della Sera

È difficile per chi ha superato i 30 anni. Dobbiamo però ridisegnare nelle nostre menti l’atlante de mondo economico. Ieri, il Fondo monetario internazionale ha pubblicato una mappa interattiva (google.com/publicdata) dalla quale si ricava che l’ordine mondiale misurato in termini di Prodotto interno lordo (Pil) a parità di potere d’acquisto sarà, alla fine del 2014, questo: prima economia, la Cina con 17.632 dl dollari; seconda, quella degli Stati Uniti, 17.416 terza l’indiana, 7.277 miliardi. Seguono Giappone, Germania, Russia, Brasile, Francia, Indonesia, Regno Unito. All’ undicesimo posto il Messico, con 2.143 miliardi e al dodicesimo l’Italia, 2.066 miliardi di dollari.

Questa classifica è una novità, non paragonabile agli anni passati. Pil a parità di potere d’acquisto significa che si stabilisce un basket di prodotti e servizi e si guarda quante unità di una certa valuta servono per comprarlo, in ogni Paese; poi si registra quanti dollari servono per comprare il basket e sulla base del rapporto tra i due si corregge il Pil nominale. È una misura discutibile come tutte ma realistica: racconta a quanti beni e servizi corrisponde un singolo Pil.

L’Italia è insomma fuori dalle prime dieci economie. Qualcuno (per esempio il Financial Times) ha anche immaginato un G7 di Paesi emergenti: ha scoperto che un gruppo formato da Cina, India. Russia, Brasile, Indonesia, Messico, Turchia avrebbe un Pil più alto di quello del G7 tradizionale formato da Usa, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Canada: 37.800 miliardi contro 34.500.

Il gioco delle parti

Il gioco delle parti

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

Due settimane cruciali per la politica economica italiana ed europea. Quella che sta per concludersi è stata dominata dalle tematiche del lavoro. In Italia, si è arrivati, non senza tormenti, all’approvazione da parte del Senato della legge quadro sulla regolamentazione di base dei rapporti di lavoro, che prevede un’ampia e per alcuni aspetti poco chiara delega al Governo. A livello europeo, la conferenza dei Capi di Stato e di Governo tenuta a Milano l’8 ottobre ha riguardato i problemi occupazionali nell’UE. In ambedue i casi si è fatto molto chiasso senza concludere un granché.
Ma se ci aspettavamo ‘molto rumor per nulla’ dalla conferenza europea (un’occasione essenzialmente mediatica da cui non si attendavano risultati concreti), ben altre erano le aspettative riposte dagli osservatori sulla legge quadro sul lavoro. E invece, alla prova dei fatti, la sua sostanza è stata essenzialmente ‘delegata’ a decreti ancora da predisporre e per i quali sono stati dati principi e criteri estremamente laschi. Il vivace dibattito in Senato (con il contemporaneo ricorso al voto di fiducia) è così servito all’esecutivo essenzialmente per ‘fare ammuina’ in occasione della conferenza europea: da un lato per dare l’impressione che qualcosa si stia facendo sul piano delle riforme strutturali relative all’economia reale; da un altro, sopratutto, allo scopo di distrarre sia all’interno sia all’estero dal duro lavoro necessario in questo fine settimana e nei primi giorni della prossima per mettere a punto il disegno di legge di stabilità con una ‘manovra’ di almeno 20 miliardi che impedisca che l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni salga oltre 3% del Pil, quanto meno nel preventivo del bilancio e dei conti pubblici. Un obiettivo che, stando ai rumor che provengono dal Palazzo, sarebbe ancora molto lontano.
Hanno ‘fatto ammuina’, e molto volentieri, anche i nostri partner europei (i quali, con l’eccezione di Hollande, avrebbero volentieri evitato un viaggio a Milano per una breve riunione inconcludente a quindici giorni circa da un Consiglio Europeo in cui la crescita dovrebbe essere all’ordine del giorno). Per ingraziarsi l’opiste, tutti hanno pensato di dare grandi pacche sulle spalle al Presidente del Consiglio italiano, dispensandogli sorrisi di incoraggiamento. Non solo. A Matteo Renzi è stata fatta anche balenare la possibilità (non la probabilità, e ancor meno la certezza) di non contabilizzare il cofinanziamento ai progetti europei ai fini dei parametri di Maastricht e del Fiscal Compact. Un ammiccamento che non è costato loro grande sforzo, dal momento che uno studio di Chatham House, che verrà presentato la settimana prossima a Londra, conclude che in Italia i ‘progetti cantierabili’ si contano sulle dita di una mano. Ed è facile pronosticare un repentino cambiamento di clima quando la prosisma settimana prossima la nostra legge di stabilità giungerà a Bruxelles, sottoposta a un esame molto rigoroso e niente affatto benevolo.
La verità è che in Europa tutti già conoscono la dura realtà con cui si devono misurare tanto Palazzo Chigi quanto via XX Settembre: restare entro il tetto di un indebitamento della pubblica amministrazione del 3% del Pil è poco più di una finzione. Già alla prima ‘trimestrale di cassa’ si annunceranno sforamenti, accusando ‘il destino cinico e baro ’. A fine 2015, il disavanzo sarà probabilmente attorno al 5% del Pil, non molto differente da quello della Francia. Uno scenario che ci vedrà fatalmente sottoposti alle procedure di infrazione da parte della tanto aborrita troika: Banca centrale europea (Bce), Commissione Europea (CE) e Fondo monetario internazionale (Fmi).
Ma se tutti sanno già tutto, perché insistere in questo pirandelliano ‘gioco delle parti’? In 15 mesi – si spera – si può varare una nuova legge elettorale ed andare alle urne. Peccato che in Italia nessuno voglia farlo. E i partner europei temono il caos di elezioni politiche in Italia (con una normativa in parte dichiarata non conforme alla Costituzione) poiché le analisi disponibili considerano il nostro Paese come il più ‘contagioso’, dopo la Spagna, sui mercati europei.
Nel tunnel a lungo

Nel tunnel a lungo

Giuseppe Turani – La Nazione

Ci attendono quattro anni di navigazione difficile. Se qualcuno aveva pensato a un certo slancio dell’economia italiana e a un netto miglioramento dei suoi numeri, si sbagliava. Le ultime cifre fornite dagli esperti del Fondo monetario internazionale sono una doccia gelata. Quest’anno l’Italia andrà indietro dello 0,2 per cento (quindi terzo anno di recessione). La disoccupazione arriverà al suo massimo del 12,6 er cento. Il nostro debito pubblico salirà, rispetto al Pil, dal 132,5 del 2013 al 136,7. E questo è probabilmente il dato più preoccupante: in un solo anno il rapporto defici/Pil peggiora di 4,2 punti. E le cose non sono destinate a migliorare tanto in fretta. Nel 2015, infatti, il Fondo monetario prevede che il rapporto defici/Pil scenda solo al 136,4. Per vedere una discesa consistente, con un rapporto al 125,6, bisognerà aspettare il 2019. Nel 2015, infine, la crescita italiana sara dello 0,8 per cento.

Questi numeri hanno anche una loro qualità. E questa consiste nel fatto che è in corso un rallentamento dell’economia mondiale: al punto che è lo stesso Fondo monetario a parlare, per quanto riguarda l’Europa, di un aumento dei rischi di recessione, di deflazione e di stagnazione. E fa paura la previsione che fino a 2019 l’inflazione in Europa rimarrà al di sotto del 2 per cento: in ogni istante, quindi, ci sarà la possibilità di piombare nella deflazione.

La conclusione alla quale si arriva, purtroppo, è che i prossimi quattro anni, che saranno di bassa crescita andranno anche vissuti con il fiato in gola, con lo spettro della possibile deflazione dietro l’angolo Questo scenario cattivo dipende solo in parte da noi: siamo davanti a una frenata dell’economia mondiale contro la quale possiamo fare ben poco, anzi niente. L’unica cosa certa è che dopo sette anni di crisi ne abbiamo davanti altri quattro pericolosi. Per questo sarebbe opportuno accelerare quelle riforme di struttura che tutti ci stanno chiedendo. La Bce di Draghi, che il Fondo monetario elogia, fa quello che può (positiva è giudicata l’idea degli Abs), ma sono i singoli paesi che devono andare avanti con il processo di cambiamento. Se si fa questo, non è impossibile migliorare l’andamento dell’economia.

Grecia, la cura funziona: dopo sei anni di recessione il Pil riprende a crescere

Grecia, la cura funziona: dopo sei anni di recessione il Pil riprende a crescere

Tonia Mastrobuoni – La Stampa

Dopo sei anni di recessione e quattro di durissimi aggiustamenti dei bilanci, la Grecia ha presentato ieri una finanziaria che conferma una stima di crescita dello 0,6% per quest’anno e addirittura del 2,9 % per il 2015. Soprattutto, in virtù delle correzioni dei conti degli ultimi anni, il ministro delle Finanze Gikos Hardouvelis è certo di raggiungere quasi il pareggio di bilancio l’anno prossimo (un disavanzo dello 0,2%) – il primo da oltre quattro decenni. E il vero indicatore dello stato di salute delle finanze pubbliche, l’avanzo primario (la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi sul debito), schizzerà nel 2014 al 2 e l’anno prossimo addirittura al 2,9%.

Cifre che per il governo Samaras significano che l’uscita dal programma di salvataggio Ue-Fmi potrebbe essere anticipato di oltre un anno, alla fine del 2014 invece che all’inizio del 2016. Un impegno che libererebbe Atene dalla morsa della troika Fmi-Bce-Ue ma che potrebbe costare ai greci anche 12 miliardi circa di aiuti. Il Tesoro ha intenzione, stando alla finanziaria, di emettere un’obbligazione a dieci e una a sette anni il mese prossimo, oltre ad un bond a breve (26 settimane). La scorsa settimana, dopo che la Bce ha annunciato l’avvio di un vasto programma di acquisti di titoli cartolarizzati Abs che includerà anche quelli con rating bassi, se provenienti da Paesi sotto programma come la Grecia e Cipro, i rendimenti sui bond sovrani greci sono crollati. Atene è tornata sul mercato, dopo quattro anni di assenza, all’inizio di quest’anno con un’obbligazione a sette anni.

«Il Paese sta entrando in un lungo periodo di crescita sostenibile e avanzi primari di bilancio, che daranno una spinta all’occupazione, taglieranno la disoccupazione e aumenteranno la qualità della vita a molti cittadini» ha dichiarato ieri il viceministro alle Finanze, Christos Staikourias, aggiungendo che «questo è il risultato di sacrifici senza precedenti. Faremo in modo che non siano stati vani». La disoccupazione raggiungerà quest’anno ancora cifre spaventose – il 24,5% – ed è prevista in calo l’anno prossimo al 22,5. Ma con l’aria da crisi di governo che tira ormai da mesi ad Atene, il governo Samaras ha incluso nella manovra anche una robusta riduzione delle tasse sul combustibile da riscaldamento – il 30% – e un taglio dell’imposta cosiddetta «di solidarietà» sopra i 12mila euro. Da oggi la finanziaria sarà discussa in Parlamento, venerdì è previsto il voto di fiducia ma Samaras può contare su soli quattro parlamentari di scarto rispetto all’opposizione.

Una partita sul filo del rasoio aggravata da uno scenario ancora più complesso che rischia di materializzarsi all’inizio dell’anno prossimo, quando sono previste le elezioni presidenziali. Samaras avrà enormi difficoltà a mettere insieme i 180 deputati su 300 che servono per eleggere il presidente della Repubblica. Se dovesse fallire nell’intento, la legge prevede elezioni anticipate. E i sondaggi attuali danno Syriza, il partito dell’eurodeputato Alexis Tsipras, in netto vantaggio sui conservatori: la forbice tra la sinistra radicale e Nea demokratia varia dai 2,5 agli 8 punti. Abbastanza per vincere e conquistare il generoso premio di maggioranza greco di 50 deputati, ma non abbastanza per governare da solo.

C’è troppa Germania sotto il cielo d’Europa

C’è troppa Germania sotto il cielo d’Europa

Romano Prodi – Il Messaggero

Mentre il semestre italiano ha già compiuto oltre la metà del suo corso, la confusione domina sovrana a Bruxelles. Nessuno obbedisce a nessuno, anche perché a Bruxelles non vi è nessuno in cerca del compromesso necessario perché i vari paesi possano essere in grado di obbedire a parametri che costituiscono sempre meno un obiettivo condiviso e sempre più una temuta minaccia. Mancando un’autorità riconosciuta ognuno, a Bruxelles, disobbedisce per conto suo. Cominciando dalla Germania che, mantenendo da lungo tempo un surplus della propria bilancia commerciale del 7%, non solo viola l’impegno di non eccedere mai il 6%, ma costituisce un elemento di squilibrio nell’economia mondiale pari a quello che in passato noi rimproveravamo alla Cina. Inoltre, il numero dei paesi che disobbediscono alla regola del deficit del 3% cresce ogni giorno, sotto la spinta dalla congiuntura sempre più sfavorevole.

Si potrebbe minimizzare l’importanza di questi fatti con la semplice osservazione che le cose stanno andando in questa direzione già da qualche anno e che quindi nulla di radicalmente nuovo sta succedendo nel rissoso recinto europeo. I fatti nuovi invece esistono. Prima di tutto il tasso di crescita (potremmo meglio chiamarlo di decrescita) sta ancora peggiorando e i 25 milioni di disoccupati non vedono alcuna migliore prospettiva per il loro futuro, anche perché non vi è più nessuno disposto a ripetere le errate previsioni che sempre promettevano miglioramenti che mai si sono sono avverati. L’esperienza, tuttavia, ci insegna che anche la pazienza e la capacità di sopportazione hanno un limite.

Il secondo fatto nuovo è che la Banca Centrale Europea, che pure nel passato è riuscita ad evitare la catastrofedi una deflazione ancora peggiore, sembra oramai avere speso tutte le proprie limitate munizioni, anche se la sua politica ha raggiunto il positivo ma non dichiarato obiettivo di fare calare il valore dell’Euro di fronte al dollaro, con un potenziale beneficio per le nostre esportazioni. La prima tranche di finanziamento della BCE al sistema bancario ( il così detto Tltro) ha tuttavia trovato una limitata accoglienza proprio perché l’economia europea marcia ad una velocità ancora più ridotta rispetto ad ogni previsione. D’altra parte le dichiarazioni di Draghi rivolte a dare ossigeno alla crescita, non possono avere l’efficacia che avevano avuto in passato, proprio perché vengono sistematicamente ed immediatamente seguite da un’opposta dichiarazione della cancelliera tedesca sulla necessità di non allentare i vincoli dell’austerità. Il continuo richiamo ai compiti a casa suona sinistro soprattutto nei confronti dei paesi che, pur facendo tutto il possibile, vedono crescere continuamente il disagio sociale. I compiti a casa vanno fatti ma, ai presunti scolari, deve essere fornita almeno una matita e un quaderno.

Un terzo elemento da prendere in considerazione è il tono sempre più duro dei dibattiti all’interno del parlamento tedesco riguardo alla politica europea. Chi pensava che l’aumentato ruolo dei socialdemocratici avrebbe ammorbidito le posizioni germaniche e avrebbe reso più responsabile la politica tedesca si è sbagliato. L’intransigenza non è una caratteristica della coalizione CDU-CSU ma è una convinzione profonda e condivisa di tutta la Germania. Non aspettiamoci quindi alcuna novità da Berlino.

Il quarto elemento da prendere in considerazione è che la Francia ha preso atto della sua reale situazione ed ha reso palese che non solo non intende obbedire agli ordini tedeschi ma che si rifiuterà di obbedirvi anche in futuro. L’attuale politica, infatti, non è in grado di accelerare il cammino dell’economia francese e apre le porte ad una vittoria della signora Le Pen alle prossime elezioni presidenziali. L’asse franco-tedesco è quindi entrato anche formalmente in crisi. Oggi tuttavia è divenuto molto più difficile per Francia e Italia proporre a Bruxelles soluzioni innovative. Nella vana attesa di queste proposte, la posizione della Germania si è infatti ulteriormente rafforzata. Ai paesi che tradizionalmente gravitavano intorno alla sua orbita se ne sono aggiunti altri, a partire dalla Spagna, quotidianamente lodata dalla Cancelliera tedesca come esempio di paese riformatore, anche se le riforme messe in atto sono in realtà marginali e la Spagna resta con livelli di disoccupazione e tassi di sviluppo inaccettabili. Qui a Bruxelles, inoltre, la nuova Commissione viene considerata sotto totale controllo tedesco e i direttori germanici sostituiscono con inarrestabile progresso i loro colleghi britannici, francesi e italiani.

Mettendo insieme tutte queste oggettive osservazioni si deve concludere che una concreta politica di più paesi, guidati da Francia e Italia, per portare avanti una linea alternativa di sviluppo non esiste più. Quest’alternativa esisteva fino a qualche mese fa: oggi è scomparsa di fronte ai mutamenti dei rapporti di forza. Eppure un’Europa che procede solo operando su parametri tecnici e non su una politica condivisa è destinata a scomparire. Perché questo non avvenga bisogna che chi ha oggi in mano il timone della politica europea abbia l’intelligenza di aiutare gli altri paesi a uscire dalla crisi. Tuttavia quest’obiettivo potrà essere raggiunto solo se le necessarie riforme potranno essere messe concretamente in atto senza provocare il disfacimento sociale.

Quanto è avvenuto in queste ultime settimane sembra tuttavia indicare che nei circoli politici non ci si rende conto della pericolosa rapida involuzione della politica europea. Ripeteva continuamente il cancelliere Kohl che, anche contro la volontà dei suoi elettori, egli aveva voluto dare vita all’Euro perché, parafrasando Thomas Mann, egli voleva una Germania europea e non un’Europa germanica. Pur avendo, con fatica e con lungimiranza politica dato vita all’Euro, ci stiamo oggi avviando verso la costruzione di un’Europa germanica e non di una Germania europea. E non è il destino che noi abbiamo per tanti anni sognato.

In cinque anni pagheremo oltre 45 miliardi di tasse in più

In cinque anni pagheremo oltre 45 miliardi di tasse in più

Il Giornale

«Oltre 45 miliardi di euro di tasse in più in cinque anni. Le entrate tributarie nel nostro Paese correranno molto più del Pil e aumenteranno, complessivamente, tra il 2014 e il 2018, di 45,7 miliardi di euro». La previsione deriva dal rapporto del Centro studio di Unimpresa, basato sulla nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza. Il gettito raggiungerà quota 487,5 miliardi alla fine di quest’anno e crescerà costantemente, negli anni successivi, fino a raggiungere i 531,6 miliardi del 2018.

Già dalla fine di quest’anno, infatti, lo Stato incasserà 1,6 miliardi in più da imprese e famiglie, «un incremento lieve – sottolinea Unimpresa – lo 0,34% in più, ma che va nella direzione opposta rispetto all’andamento dell’economia, prevista in calo dello 0,3% secondo il Def approvato dal governo». Una doppia velocità che si registra costantemente anche nelle previsioni degli anni successivi. Nel 2015 tasse in crescita dell’1,27%, mentre il Pil dovrebbe salire solo dello 0,5%; nel 2016 rispettivamente tasse +2,68% e Pil +0,8%; nel 2017 gettito tributario in aumento del 2,19% e prodotto interno lordo in crescita dell’1,1%. Chiude il conto il 2018, quando le tasse saranno in aumento del 2,42%,mentre il Pil sarà ben più lento (+1,2%). In tutto, secondo il rapporto, nel quinquennio 2014-2018, le tasse pagate dai contribuenti in Italia arriverebbero a toccare 2.540,1 miliardi di euro.

«Ci sentiamo presi in giro, come imprenditori e come cittadini» afferma il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi. «Si è perso tempo – aggiunge – avevamo segnalato subito, dopo la nascita di questo altro esecutivo delle larghe intese, la necessità di intervenire sul fisco: l’alleggerimento dei tributi è cruciale per sperare di portare il Paese fuori dalla recessione». Invece «i dati dimostrano che il dibattito sulle tasse è solo propaganda», commenta Longobardi, il quale conclude: «In questi giorni ascoltiamo esponenti della maggioranza e del governo di Matteo Renzi avanzare ipotesi di abbattimento del cuneo fiscale, ma il peso delle tasse è destinato a salire e le misure varate in questi ultimi mesi non hanno fatto altro che incrementare il carico sulle famiglie e sulle imprese».

Piccole misure senza ambizioni

Piccole misure senza ambizioni

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Il governo sta compiendo un errore che potrebbe costarci un altro anno (sarebbe il quarto consecutivo) di crescita negativa con conseguente, ulteriore aumento della disoccupazione. Nessun Paese industriale, almeno negli ultimi 70 anni, ha avuto una recessione tanto lunga. Se non cresciamo, il debito (già al 131,6% del Pil ) rischia di diventare insostenibile, almeno nella percezione degli investitori internazionali, che ne detengono oltre 600 miliardi. Se non ricominciamo rapidamente a crescere rischiamo una crisi finanziaria.

La Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza pubblicata dal governo la scorsa settimana assume che la crescita miracolosamente aumenti di quasi un punto: dal -0,3 previsto per il 2014 a +0,6 nel 2015. L’Ocse invece prevede un misero +0,1. Da dove verrà quel mezzo punto di crescita in più? Previsioni ottimistiche sono un vecchio trucco per fare apparire più roseo il bilancio. Se la crescita non dovesse raggiungere il livello previsto dal governo anche l’obiettivo di un deficit inferiore al 3% verrebbe mancato, salvo una correzione dei conti in corso d’anno che in parole semplici vuol dire un aumento di imposte. E comunque il ministro Padoan ha detto che già nella legge di Stabilità gli ammortizzatori sociali «saranno coperti dalla spending review e da alcune misure di efficientamento delle entrate». Ecco come si sta sotto il 3%: con un aumento della pressione fiscale!

Deve essere chiaro che c’è un solo modo per sperare di poter riprendere a crescere: ridurre la pressione fiscale. Abbassare le tasse sul lavoro pagate dalle imprese italiane al livello di quelle tedesche significa tagliarle di 40 miliardi. Tagliare immediatamente le spese di una cifra corrispondente non è possibile perché per ridurre la spesa serve tempo. Se solo si fosse cominciato prima! Nei prossimi due, tre anni quindi supereremmo la soglia del 3%. Se sforiamo, entreremmo nella procedura prevista per chi viola le regole europee, ma senza effetti significativi se già avessimo approvato un programma vincolante di tagli alla spesa e varato per decreto una riforma seria del mercato del lavoro. È ciò che fece la Germania nel 2003 quando Schröder varò la sua riforma del lavoro. La Francia ha annunciato per il 2015 un deficit del 4,3%, ma finora Hollande non ha fatto alcuna riforma significativa.

Certo, è più facile per il ministro dell’Economia fare poco o nulla cercando di resistere sotto il 3%, magari con un aumento mascherato della pressione fiscale, e farsi applaudire nei consigli europei. Un piano complesso e innovativo di tagli di tasse, riduzioni di spesa e riforme richiederebbe un massiccio investimento di credibilità politica. Ma è l’unica via per salvare il governo di Matteo Renzi e, ciò che è più importante, l’Italia.

Quanto stato c’è nella Silicon Valley

Quanto stato c’è nella Silicon Valley

Mariana Mazzucato – La Repubblica

Renzi il mese scorso ha visitato la Silicon Valley con lo scopo dichiarato di portare in Italia innovazione, concorrenza e dinamismo. Il presidente del Consiglio fa bene a fissare questi obiettivi come priorità, se si pensa allo scarsissimo dinamismo che ha caratterizzato l’economia italiana negli ultimi vent’anni, a causa della stagnazione della produttività e conseguentemente della crescita. Purtroppo, però, invece di imparare da quello che è successo veramente nella Silicon Valley, sembra aver sposato gli slogan e i miti che circondano quell’esperienza, in particolare il mito che attribuisce il fenomeno della Silicon Valley all’impulso di imprenditori geniali, finanzieri disposti a prendersi grossi rischi e uno Stato che si dedica a ridurre i vari tipi di «impedimenti» che ostacolano questi risktakers. E infatti la riforma del lavoro che Renzi sta patrocinando in questo momento punta proprio a rimuovere tali impedimenti.

Ma se è sbagliata la lettura della storia, sono sbagliate anche le politiche. La Silicon Valley è il risultato di imponenti investimenti pubblici diretti (non sussidi) lungo l’intera catena dell’innovazione, dalla ricerca di base e applicata fino alla fase finale della commercializzazione. Mentre i venture capitalists, mitizzati da Renzi, perseguono profitti nel breve termine e puntano a un’«uscita» rapida dall’investimento attraverso un collocamento in Borsa o l’acquisizione da parte di un’altra società, il Governo degli Stati Uniti ha dimostrato di essere un finanziatore paziente, fornendo (attraverso una rete decentralizzata di organismi pubblici) finanziamenti ad alto rischio ad aziende come la Compaq, l’Intel e la Apple. E oggi fornisce lo stesso genere di finanziamenti a compagnie della green economy di successo come la Tesla, che recentemente ha ricevuto un prestito garantito per 465 milioni di dollari, e meno di successo come la Solyndra, che ha ricevuto un prestito di 500 milioni: nel gioco dell’innovazione qualche volta si vince e qualche volta si perde.

Se Renzi fosse andato alla Apple Inc., avrebbe trovato designer straordinari come sir John Ives che lavorano accanitamente insieme a team di grande talento, ma di ricerca e sviluppo ne avrebbe trovata poca. La ragione è che la Apple storicamente ha messo insieme, con un brillante senso del design e della semplicità, tecnologie già esistenti. Tecnologie finanziate dallo Stato. Nel caso dell’iPhone, Internet, il Gps, il sistema di comando vocale Siri e lo schermo tattile, tutti finanziati dai contribuenti. Naturalmente la Apple non è l’unico esempio di questo tipo: l’algoritmo di Google è stato finanziato dalla National Science Foundation; il settore delle biotecnologie, quello delle nanotecnologie e dei gas di scisto sono tutti nati grazie ai fondi pubblici.

Pretendere che l’innovazione in Italia arriverà semplicemente abbassando le tasse e riducendo la regolamentazione (specie, come è ovvio, intorno al solito bersaglio facile, il mercato del lavoro), significa ignorare questa storia. Il paradosso è che Renzi ha scelto di copiare dagli Stati Uniti una cosa soltanto, il tanto criticato Jobs Act del 2012 (dove Jobs sta per Jumpstart Our Businesses , cioè «mettiamo in moto le nostre imprese»). E non sorprende l’accoglienza che ha ricevuto questa settimana nella City visto che sono proprio questo tipo di politiche a produrre uno degli aspetti più anomali del capitalismo dei giorni nostri: socializzazione dei rischi, privatizzazione dei benefici.

L’obbiettivo del Jobs Act era di ridurre ancora di più il rischio di investimento per venture capitalists già avversi al rischio allentando gli obblighi di rendicontazione finanziaria per le aziende «più piccole» (quelle con meno di 1 miliardo di dollari di ricavi annui). Oltre a questo, il Jobs Act legalizzava il crowdfunding, consentendo ai fondi di venture capital di reclutare una gamma più ampia di investitori (e singoli individui) al momento di quotare le aziende in Borsa. In che modo tutto questo possa generare crescita occupazionale non è dato sapere: sembra anzi fatto su misura per consentire ai venture capitalists di realizzare profitti smisurati con piccole aziende che rivendono tecnologie realizzate con fondi pubblici. In realtà si ingrossa sempre di più l’esercito delle piccole imprese che si lamentano per i danni provocati dall’atteggiamento speculativo e orientato esclusivamente al breve termine dei fondi di venture capital.

E allora sì, se Renzi vuole regalare all’Italia innovazione e dinamismo deve rendere il Paese più efficiente, ma deve anche evitare di focalizzarsi unicamente sulle «rigidità». Il dibattito dovrebbe vertere sul tipo di investimenti necessari, sia da parte del settore pubblico che da parte del settore privato, e soprattutto si dovrebbe chiedere alle imprese italiane di mostrarsi all’altezza della situazione: non piegarsi ossequiosamente alla City (e alla finanza italiana) ma chiedere invece al mondo della finanza di smetterla di fare pressioni per abbassare la tassazione dei capital gains, una politica da breve periodo e pretendere invece che co-investa nel lungo periodo in quelle aree che in una crescita trainata dall’innovazione richiederebbe. E smetterla di chiedere sussidi ed elargizioni, smetterla di lamentarsi della burocrazia (che non è tanto maggiore di altre parti d’Europa che stanno crescendo) e decidendosi a investire, in collaborazione con lo Stato, in quelle opportunità in grado di costruire un futuro innovativo per l’Italia. E quando gli economisti di destra gli dicono che tutto quello che deve fare è tagliare le tasse, dovrebbe farlo in modo oculato, riducendo le tasse sulle assunzioni e non sulle plusvalenze. E poi ricordarsi che ai tempi del presidente Eisenhower, repubblicano ed ex generale dell’esercito – non certo un comunista – l’aliquota più alta negli Stati Uniti sfiorava il 90 per cento: e fu sotto di lui che vennero realizzati alcuni dei più importanti investimenti in innovazione. E magari citare anche un altro che non è comunista, uno degli investitori più abili e di successo della storia, Warren Buffett, che al contrario di Renzi sembra aver capito che le pressioni della City hanno distrutto e non creato posti di lavoro: «Sono sessant’anni che lavoro con gli investitori e devo ancora vederne uno, nemmeno nel 1976-1977 quando l’aliquota sulle plusvalenze era al 39,9 per cento, rinunciare a un investimento sensato per via dell’imposizione fiscale sui potenziali guadagni. Le persone investono per fare soldi e le tasse potenziali non le hanno mai scoraggiate. E a quelli che sostengono che aliquote più alte penalizzano la creazione di posti di lavoro faccio notare che tra il 1980 e il 2000 sono stati creati quasi 40 milioni di posti di lavoro in più. Cos’è successo dopo lo sappiamo: aliquote più basse e molta meno creazione di posti di lavoro».