economia

Senza più produttività non si cresce

Senza più produttività non si cresce

Mauro Magatti – Corriere della Sera

Se vogliamo essere realisti, il problema dell’Italia è fermare il proprio declino storico. Senza una lettura storica adeguata alla profondità della crisi non c’è provvedimento in grado di risollevare le sorti dei Paese. Proprio l’assenza di una visione chiara è il peccato di omissione (grave) che si può rimproverare al governo Renzi. Al di là dei risultati, è la direzione di marcia che si fatica a vedere: da un governo nato sotto auspici cosi favorevoli è lecito aspettarsi molto di più.

In questi giorni, pensando ai temi del lavoro, Renzi ha detto di volersi ispirare al modello tedesco. Esistono, da tempo, due principali modelli di crescita in Occidente. Quello anglosassone si basa su capacità di influenza internazionale; politica monetaria/finanziaria espansiva; liberismo interno; investimenti in ricerca e sviluppo e nuove tecnologie; contenimento salariale; elevata concentrazione della ricchezza. Il modello tedesco (o renano) si fonda invece su: forte compattezza istituzionale e sociale; politica monetaria restrittiva; centralità dello Stato nel fissare le priorità sistemiche; orientamento all’export; alta tecnologia; relazioni industriali che permettono una (relativamente) più equa distribuzione del reddito. Per entrambi, l’aumento della produttività è un presupposto per la crescita: ma mentre il primo modello si fonda sulle virtù liberali, il secondo richiede compattezza e disciplina.

In Italia la produttività ha smesso di crescere dalla seconda metà degli anni 80. Da allora, il Paese ha traccheggiato utilizzando svalutazione e debito pubblico per tirare avanti. Come ha mostrato di recente la Banca d’Italia, l’enorme massa di risparmio accumulata negli armi del boom economico venne impiegata per finanziare non nuovi investimenti, ma debito pubblico. Lì abbiamo perso il treno della crescita. Il berlusconismo ha malamente cercato di ispirarsi al liberismo americano. Ma ha trascurato la parte impegnativa (la produttività) e preso quella più superficiale (i consumi). Il risultato è un ircocervo con uno Stato onnipresente (che garantisce una pluralità di piccoli interessi corporativi) e un mercato del lavoro segmentato tra regolazione rigida e liberismo senza regole. L’entrata nell’euro prima e la crisi dei mercati finanziari poi hanno fatto saltare l’equilibrio di sopravvivenza di un tale modello, mandando l’Italia sott’acqua. Possiamo rileggere il governo Monti come il tentativo di assoggettare il Paese alla logica tedesca della disciplina. Ma il risultato non è stato positivo. Fondamentalmente perché l’Italia non è la Germania: per correggere la linea evolutiva del nostro Paese ci voleva molto tempo e una grande forza politica. Adesso la forza politica c’è, ma manca la direzione.

Uscire dall’angolo è difficile. Ma ce la si può fare seguendo la rotta giusta senza indugi. In primo luogo, aiutati delle difficoltà della stessa Germania, è il momento di realizzare un’incisiva azione di stimolo all’economia sul piano europeo. Berlino si trova oggi nelle condizioni di svolgere un’azione simile a quella che, nel dopoguerra, fu esercitata dagli Usa con il piano Marshall: ciò che serve all’Ue – sul piano economico e politico – è un grande piano di investimenti. Un vasto programma di credit easing è nell’interesse dell’Italia, della Germania, dell’Europa.

Sul versante interno, occorre spiegare al Paese che la crescita senza aumento della produttività non si dà più. L’Italia deve tornare a investire sul futuro: lo Stato deve creare le condizioni perché chi dà un contributo tangibile alla produzione di valore e ricchezza possa lavorare ed essere premiato, tornando, dove possibile, a investire in infrastrutture e alcuni comparti strategici. Occorre, nel contempo, compensare dal lato della giustizia sociale: prima di tutto dichiarando guerra a tutte le oligarchie che chiudono la società italiana. Il Paese va liberato dalle mille cupole burocratiche, localistiche, corporative, accademiche, sindacali che soffocano le sue forze generative. Bisogna poi dimostrare che uscire dalla spirale «stagnazione della produttività-diminuzione della competitività-aumento della disuguaglianza» si può (e si deve) attraverso la costruzione di una relazione virtuosa tra aumento della produttività ed equità sociale. Il totem dell’articolo 18 non va abbattuto perché possano derivare chissà quali vantaggi economici; o perché così si dà una lezione ai sindacati. La posta politica in gioco è invece la possibilità di scrivere un nuovo (e migliore) patto per il rilancio dell’Italia tra tutti coloro che – lavoratori o imprenditori, appartenenti al settore pubblico o privato, autonomi o dipendenti – contribuiscono alla produzione di valore. Premiando l’investimento, la ricerca, l’innovazione, la flessibilità, la professionalità; ma anche innovando gli strumenti della protezione sociale e puntando a una più equa distribuzione della ricchezza. In un regime rigido come quello sorto con l’euro è la qualità delle relazioni sociali e istituzionali – dalla fiscalità al welfare – la chiave per crescere.

Renzi si sente alla testa di un manipolo di rivoluzionari che ha conquistato il potere. Non si illuda. La rivoluzione deve essere ancora fatta: nella società, nell’economia, nelle istituzioni. Facendosi forte del consenso di cui dispone, il premier trovi il coraggio per portare l’Italia a superare l’idea di una società dei consumi avvinghiata attorno alle dispense pubbliche puntando a un nuovo modello sociale capace di investire su qualità ed eccellenza. Senza dimenticare la solidarietà. Per far questo, si faccia garante credibile della nascita di un’alleanza, giusta e dinamica, tra tutti coloro che vogliono dare il loro contributo a tale impresa. Il declino storico lo si può vincere solo insieme, grazie alla politica. Dopo aver scartato tutti, Renzi è solo davanti al portiere: non butti la palla in tribuna!

Debito d’incoscienza

Debito d’incoscienza

Davide Giacalone – Libero

L’impressione, pessima, è che non vi sia consapevolezza di quanto il problema del debito pubblico sia drammatico e di come il tempo a nostra disposizione si stia accorciando. Leggo le dichiarazioni di Matteo Renzi e trasecolo. Le divido in tre concetti, riportandone il  testo: a. “non esiste nessuna operazione taglia debito”, nel senso che il governo non la sta né studiando né proponendo; b. “per risolvere il problema del debito dobbiamo tornare a crescere”; c. “se facciamo le riforme potremo avere più tempo per il rientro del debito”. Questa è una dottrina cieca, che porta alla rovina.

Ci siamo impegnati per anni nel dimostrare che la condizione del bilancio pubblico italiano non è compromessa. Che ci sono punti di forza. Che la voragine del debito può essere colmata, perché esistono vantaggi da sfruttare. Non ripeto il tutto, che i nostri lettori conoscono, o possono facilmente rintracciare. Ma il presupposto della riscossa è la consapevolezza. Quella che si mette in scena, invece, è l’Italia di Caporetto: arroganza, supponenza, incapacità dei comandi militari, totale ignoranza circa le forze in campo. Per arrivare all’Italia di Vittorio Veneto ci volle un trauma, costato fiumi di sangue. Ora che deve accadere? Con un governo che si propone di assumere 150mila dipendenti pubblici, nella scuola, strologando di riduzione delle tasse. E con che li si paga? So bene che la politica è anche propaganda. Che questo è uno dei succhi della democrazia. Ma quando la propaganda perde il senso della realtà è segno che il vuoto regna nella testa di chi parla.

Tra il 2001 e il 2004 il debito pubblico è costantemente sceso in rapporto al prodotto interno lordo, pur restando sopra la soglia patologica del 100% (dal 108,3 al 103,7). Frutto dei tanto vituperati tagli lineari e di una crescita ancora non cancellata dalla crisi del debito (prima privato e statunitense, poi sovrano ed europeo). Dal 2008 a oggi, dopo anni di tante tasse e pochi tagli, è costantemente cresciuto, passando dal 106,1 al 133%. Se la ricetta di Renzi consiste nel ridurre progressivamente quel rapporto, puntando sulla crescita del pil, posto che dobbiamo ancora vederla, l’Italia s’infila da suicida nel toboga del fiscal compact. Con questi ritmi ci mettiamo 30 anni per tornare ai livelli di produzione di prima della recessione, tempo che si allunga anche a causa degli oneri indotti dal debito. Che ogni hanno ci porta via circa 80 miliardi, divorando la sensazionale serie positiva degli avanzi primari, per i quali abbiamo un record mondiale. Con tale dottrina la riduzione del debito prende lo stesso passo, allungandosi nei decenni a venire.

Si può dire: ma neanche gli altri furono capaci di cose diverse. Vero. Non a caso si tratta di una classe dirigente fallimentare e fallita. Mi sfugge la ragione per cui ciò dovrebbe costituire un’attenuante, essendo un’aggravante. Per tale ragione, da anni, si riflette su modelli e sistemi diversi per operazioni straordinarie di abbattimento del debito, che sono la sola via praticabile. Senza entrare nei dettagli, tante altre volte illustrati: scambiare patrimonio pubblico contro abbattimento del debito. Molti sono colpevoli di non averlo saputo fare, ma ora Renzi lo esclude. Senza presentare alternative, che non ci sono.

Se faremo le riforme, però, avremo più tempo per rientrare dal debito. Questa è una dannazione, non una conquista. E’ la logica del galleggiamento, ma nella palta. A noi servono sia le riforme che l’abbattimento del debito. Le une funzioneranno meglio con il secondo. Le une al posto del secondo, invece, è solo svenamento. E di che riforme parliamo, poi, se nella scuola preferiamo l’occupazione alla formazione?

Renzi smentisce Padoan, sul punto delle privatizzazioni. Quando il ministro ha annunciato la cessione di un ulteriore 5% di Eni ed Enel, abbiamo obiettato: queste non sono privatizzazioni, ma vendite, e devono andare a riduzione del debito, non del deficit. Ma Renzi dice: quell’operazione non mi convince. Ma allora non tornano più i conti elaborati dal ministero dell’Economia. Il ministro, che svolge anche la funzione di garante dei nostri conti, ne esce demolito nella sua credibilità. E come si sostituisce, quel flusso di ricchezza, con la privatizzazione di Poste? E’ inimmaginabile nei conti del 2014.

Per dire di queste cose non basta non avere idee con cui risolvere i problemi, ci vuole anche inconsapevolezza dei problemi stessi. La cosa migliore che possa accadere, in tali condizioni, è che altri diluvi d’interviste correggano il tiro. Naturalmente dando la colpa a noi, che non siamo capaci di capire.

Ecco perché l’Italia non crescerà mai

Ecco perché l’Italia non crescerà mai

Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano

Se volete capire perché l`Italia non cresce e non crescerà, dovete parlare con Dario Scannapieco, il vicepresidente (italiano) della Bei, la Banca europea degli investimenti, l’istituto di proprietà dei 28 Paesi dell’Unione che finanzia infrastrutture e imprese per riempire i vuoti lasciati dal settore del credito che segue solo logiche di mercato. “Qui non riusciamo a fare quello che potremmo, non ci arrivano abbastanza progetti finanziabili. Per esempio servirebbe un’amministrazione in grado di scrivere un piano logistico per il sud, ma non c’è. E quindi i fondi europei vanno a pagare la sagra della porchetta”. Scannapieco, classe 1967, da otto anni è vicepresidente della Bei dopo essere stato un dirigente del ministero del Tesoro, uno dei più giovani della filiera dei Ciampi Boys. Incontra i cronisti nella sede della Bei di Roma per spiegare che cosa può fare (e quali sono i limiti), quello che molti governi considerano un bancomat taumaturgico.

Negli anni della crisi, la Bei ha prestato 455 miliardi di euro in Europa, nel 2014 saranno 70 come finanziamenti e 3,9 con il Fei, il fondo che entra indirettamente nel capitale delle aziende. L’Italia è il Paese che riesce a intercettare la fetta più considerevole degli interventi della Bei: tra 2007 e 2013 ben 61 miliardi di euro. La Bei agisce un po’ come i vecchi istituti di mediocredito pubblici: presta le somme necessarie a progetti a lungo termine a società come Terna e Autostrade. La Bei in Italia funziona e progetti da finanziare ne trova, come il sincrotrone di Trieste che trasforma la fisica più avanzata in applicazioni per la diagnostica medica.

Eppure i racconti di Scannapieco chiariscono perché le prediche inutili sulla necessità di aumentare gli investimenti in Italia resteranno tali. I minibond inventati dal Tesoro hanno funzionato, un miliardo di emissioni. Ma le aziende che li emettono sono troppo piccole per beneficiare della sottoscrizione della Bei. C’è stato bisogno di cartolarizzare i minibond di otto utility pubbliche (cioè impacchettarli in un unico maxi-bond) per permettere alla Bei di intervenire. E i famosi projectbond, quelli che finanziano direttamente le opere pubbliche? In Italia se ne parla da decenni ma partono, anche se sarebbero un impiego perfetto per le risorse della Bei. Unico esperimento col passante di Mestre. Poi c’è il piano scuola: “Siamo stati contattati già ai tempi del governo Letta e saremmo felici di finanziare gli interventi di edilizia scolastica”, dice Scannapieco. Ma la Bei sta ancora aspettando che le Regioni costruiscano la “anagrafe scolastica”, perché prima di spendere per risanare gli istituti bisogna sapere quanti sono, dove stanno e in che condizioni si trovano. Informazioni che in Italia non detiene ufficialmente nessuno. Inutile aspettare miracoli dalla politica monetaria e dalla Bce: le nuove operazioni straordinarie di Mario Draghi, le Tltro, andranno in buona parte a rifinanziare quelle del 2011-12, le Ltro che scadono l’anno prossimo, solo una parte dei soldi arriverà alle imprese, avverte Scannapieco. “Negli ultimi quindici anni la finanza è diventata più complessa, mentre il personale delle amministrazioni pubbliche si è indebolito proprio quando servirebbe una grande competenza tecnica”, sostiene il vicepresidente della Bei. Risultato: le risorse sono scarse e mancano idee e capacità per sfruttarle al meglio. Un esempio: il ministero dello Sviluppo economico voleva dare 100 milioni di euro presi dalla Bei per aiutare le imprese a pagare gli interessi sul debito, sollievo immediato ma impatto trascurabile. I tecnici europei di Scannapieco hanno suggerito che era meglio usare quei 100 milioni come garanzia per le prime perdite potenziali su quei prestiti alle imprese. Così, con l’effetto leva, alle aziende arriveranno 500 milioni, cinque volte l’impatto iniziale. Con pochi soldi veri, la finanza creativa va saputa usare.

Conferma Ocse: Italia sempre più giù

Conferma Ocse: Italia sempre più giù

Tommaso Montesano – Libero

Peggio dell’Italia, che può vantare il poco lusinghiero sorpasso sull’Irlanda, hanno fatto solo Grecia, Spagna, Portogallo e Slovacchia. Un tasso che è destinato a salire al 12,9% nel quarto trimestre del 2014 per poi scendere al 12,2% nel quarto trimestre del 2015. In sei anni, inoltre, i giovani senza lavoro sono raddoppiati: dal 20,3% del 2007, sono passati al 40% del 2013. E ancora: l’Italia è il quarto paese dell’area Ocse per diffusione di false partite Iva, ovvero lavoratori che sulla carta sono liberi professionisti, ma che di fatto offrono prestazioni subordinate. Per non parlare dei guasti provocati dalla riforma del lavoro targata Elsa Fornero durante il governo di Mario Monti, che ha reso «decisamente meno conveniente» per le aziende assumere lavoratori con contratti di collaborazione. Più in generale, oltre il 70% dei lavoratori vive una «sfasatura» tra l’occupazione attuale e il percorso formativo. Nel senso che le qualifiche o sono troppo elevate, o sono troppo basse per il lavoro svolto.

È impietoso per l’Italia il quadro che emerge dal rapporto «Employment Outlook 2014» dell’Ocse. I numeri dei vari indici relegano l’Italia al 49esimo posto dell’indice di competitività, il Global competitiveness index. Il nostro Paese è preceduto, nella graduatoria guidata dalla Svizzera, perfino da Lettonia, Lituania, Azerbaijan ed Estonia. In Italia, nel confronto con gli altri Paesi avanzati, «non è solo elevata la quota di disoccupati, ma anche quella di occupati con un lavoro di scarsa qualità», sostiene l’Ocse.

Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, prova a difendersi: «Conosco bene la drammatica situazione dell’occupazione nel nostro Paese, figlia di una crisi che ci sta colpendo da oltre 7 anni e aggravata dalle attuali tensioni del contesto europeo e internazionale e da cattive politiche del passato». Maurizio Sacconi, capogruppo del Nuovo centrodestra al Senato ed ex ministro del Lavoro, incalza: «Ormai è evidente a tutti che le istituzioni sovranazionali, dall’Ocse al Fondo monetario, dalla Commissione europea alla Bce, considerano la riforma del mercato del lavoro come il passaggio più emblematico dalla vecchia alla nuova dimensione della vita istituzionale, economica e sociale italiana». La Lega, invece, affonda il coltello sul governo. «Altro che cambia verso, il Pd ha messo il Paese nel verso del baratro», attacca il capogruppo alla Camera, Massimiliano Fedriga.

Per sopravvivere all’embargo russo nasce il pacifismo degli imprenditori

Per sopravvivere all’embargo russo nasce il pacifismo degli imprenditori

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Se nella gravissima congiuntura internazionale che attraversiamo il pacifismo tradizionale appare completamente fuorigioco, o comunque non in grado di dotarsi di una lettura efficace dei conflitti in corso, sta nascendo, invece, una sorta di pacifismo imprenditoriale all’insegna di un inedito «Non siamo disposti a morire per Kiev». All’origine di questo slittamento di opinione c’è l’embargo proclamato da Mosca nei confronti di una larga serie di prodotti occidentali e i riflessi pesantissimi che questa decisione ha sull’export italiano.

È chiaro che per l’abbigliamento, l’arredo, le calzature, l’alimentare, le macchine agrìcole e i beni strumentali made in Italy quello russo è un mercato pregiato e che Prometeia stimava in crescita al ritmo di 200 mí1ioni l’anno da qui al 2019. Il rischio, secondo gli imprenditori, è che le forniture italiane siano sostituite dai produttori turchi e cinesi, che avrebbero brindato alla crisi ucraina come un’occasione irripetibile per conquistare spazi a nostro danno. Chi va in missione di business in Russia in questi giorni si sente ripetere da parte degli interlocutori locali che gli interessi di Stati Uniti e Ue non coincidono e che l’industria italiana oltre a pagare i riflessi dell’austerità tedesca ora soffre anche a causa della politica americana anti-Putin.

È inutile negare che, in una situazione economica come l’attuale, le argomentazioni russe incontrino il favore delle imprese più impegnate nell’interscambio. E a farsi interprete di questo disagio è stata la Confindustria Russia che ha emesso una netta presa di posizione e attraverso il suo presidente, il manager Eni Ernesto Ferlenghi, ha scritto a Giorgio Squinzi. Il tono del comunicato stampa è perentorio e chiede al premier Matteo Renzi «di mostrare più equilibrio» e di non alimentare «contrapposizioni da cui nessuno tlarrà beneficio». Ce n’è anche per i media italiani accusati di avallare «posizioni nostalgiche» della Guerra Fredda. Squinzi ha rassicurato Ferlenghi, ha ribadito la fiducia nella via diplomatica ma ha anche sostenuto che il tema non può essere affrontato solo in chiave nazionale. Il messaggio da Mosca, comunque, a Roma è arrivato.

La doppia strada per ridurre il debito

La doppia strada per ridurre il debito

Mario Sensini – Corriere della Sera

Doveva entrare già nello sblocca Italia, ma è rimasto fuori come altre norme solo perché quel decreto rischiava di divenire troppo pesante. Ma il nuovo meccanismo per favorire il cambio di destinazione d’uso degli immobili è pronto, il governo Renzi lo considera uno dei passaggi fondamentali per riavviare l’attività economica e valorizzare il patrimonio pubblico, e sarà inserito nel pacchetto della legge di Stabilità. Nel frattempo il governo sta ripensando i rapporti con gli enti locali, andando oltre il federalismo demaniale. Il sottosegretario al ministero dell’Economia Pier Paolo Baretta ha appena definito con i Comuni il trasferimento di 9.000 immobili a titolo gratuito: se saranno venduti entro tre anni, lo Stato avrà il 25% del ricavato, altrimenti saranno riacquisiti al Demanio.

Il governo di Matteo Renzi si muove sulla strada della valorizzazione e della dismissione del patrimonio immobiliare. All’orizzonte non c’è nessun piano straordinario di abbattimento del debito pubblico, come ha ricordato anche ieri il premier Matteo Renzi nell’intervista al Sole 24 Ore. Giocare tutto sulle dismissioni, date le condizioni attuali del mercato immobiliare, sarebbe un suicidio, anche economico e non solo «reputazionale». Piuttosto, quella che sta prendendo corpo, sempre con l’obiettivo di ridurre il debito, pare una strategia articolata, basata su tre piani: la razionalizzazione degli immobili a uso governativo o comunque pubblico, la valorizzazione e le dismissioni. E che potrebbe comunque prendere spunto anche dai tanti contributi di economisti e banche d’affari arrivati sul tavolo di Palazzo Chigi, ultimi quelli del gruppo Rothschild che hanno consegnato a Renzi alcune «idee» di metodo che potrebbero consentire un taglio del debito tra i 100 e i 300 miliardi.

In attesa che le dismissioni divengano appetibili, si prova intanto a valorizzare, anche superando i colli di bottiglia della burocrazia e della normativa. In questo contesto, mettendo in campo anche i fondi immobiliari pubblici come Invim.It, si potrà tentare qualche operazione di calibro importante nei prossimi mesi, sempre per spuntare il debito. Renzi e Padoan non sembrano credere ai piani shock che da un giorno all’altro possano abbattere quella montagna. Ma sanno che sul fronte del debito bisognerà intervenire, e anche molto presto, se vorranno tempi un po’ più lunghi rispetto a quelli concordati con l’Europa per arrivare al pareggio di bilancio. Dal 2015 scatta infatti la nuova regola del debito, quella che prevede la riduzione di un ventesimo l’anno della differenza tra il livello attuale e il valore di riferimento dei Trattati del 60% del Prodotto interno lordo. Ma già quest’anno si sarebbe dovuto fare qualche cosa per avvicinarsi al traguardo. Il che oggi sembra ancora più difficile dopo la frenata del premier sulla cessione di ulteriori quote Eni ed Enel controllate dal Tesoro.

In ogni caso, nel 2014 il debito pubblico italiano raggiungerà il 134,9% del Pil, secondo il Documento di economia e finanza di aprile, al suo settimo anno consecutivo di crescita (dal 2007). È vero che ha pesato il pagamento delle fatture arretrate della Pubblica amministrazione, e che senza i prestiti alla Grecia saremmo sette-otto punti sotto, ma siamo arrivati al record storico assoluto. Nel 2015, secondo i piani del governo dell’aprile scorso, dovrebbe ricominciare la discesa, anche a ritmi piuttosto sostenuti. Secondo il piano di aprile, si poteva scendere velocemente fino al 120% circa del 2018, sempre rispettando la regola del «ventesimo».

Il peggioramento della congiuntura, però, è stato evidente. E se questo non ci espone a grossi rischi di infrazione europea per lo sforamento del limite di indebitamento, perché il 3% non dovrebbe comunque essere a rischio, l’impatto della congiuntura negativa potrebbe mettere l’Italia in seria difficoltà con il rispetto delle nuove norme sul debito. Anche per questo, senza far affidamento sulle ricette miracolose, il governo si sta attrezzando. Il prossimo passaggio sarà la facilitazione delle procedure per il cambio di destinazione d’uso degli immobili. Era una delle norme inserite da Enrico Letta nel pacchetto «Destinazione Italia», ma come il resto è rimasta lettera morta. Ora si appresta a essere resuscitata. E potrebbe non essere l’unica misura per agevolare la valorizzazione e la dismissione degli immobili pubblici. La stessa legge di Stabilità, dicono al Mef, potrebbe avere un capitolo specifico dedicato alla privatizzazione del patrimonio.   

Zero strategia economica, ora c’è la prova

Zero strategia economica, ora c’è la prova

Gaetano Pedullà – La Notizia

Un giorno a destra, l’altro a sinistra, la nave Italia resta in mezzo a un mare. Di guai. Chiedete agli statali, che non sono solo i burocrati di uffici pubblici e ministeri. Ci sono le Forze dell’ordine e i vigili del fuoco che rischiano la vita, gli insegnanti che preparano i giovani alla vita, i medici che ci salvano la vita. Tutti lavoratori che però la loro di vita se la passano stringendo ogni anno di più la cinghia, visto che dal 2010 hanno le buste paga inchiodate. E siamo sinceri, sono buste paga misere.

Con la crisi che c’è fortunato chi ce l’ha la busta paga, si può obiettare. Ma è dagli statali che ci si aspettava la conferma di una rotta. Con gli 80 euro messi in tasca a milioni di italiani il governo aveva scelto una strada: darci più soldi per sostenere i consumi e dunque, a cascata, la produzione e la ripresa. Ad oggi l’aumento dei consumi non c’è stato, ma questo è evidente che non dipende dalla strategia quanto dalla esiguità delle somme fin qui restituite agli italiani.

Se Palazzo Chigi non intende perciò fare marcia indietro, coerenza vorrebbe la prosecuzione di una stessa politica espansiva delle risorse messe in circolo. Sboccare dopo tanto tempo le retribuzioni significava quindi semplicemente proseguire su un percorso già tracciato, tra l’altro togliendo ogni motivazione a chi accusa il premier di aver usato gli 80 euro come prebenda elettorale. Ieri però la Madia ha gelato tutti. Gli stipendi restano bloccati. Se prima si aveva una sensazione, ora c’è la prova: questo governo non ha una strategia economica e naviga a vista. Anzi, galleggia.

I rebus della politica industriale

I rebus della politica industriale

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Per riformare «non basta dire no» ai no – a eliminare l’articolo 18, a ridimensionare l’obbligatorietà dell’azione penale, a privatizzare i servizi dei comuni. Bisogna ottenere il sì di chi chiede interventi che valgano a farci uscire dalla stagnazione. E per il riformatore può perfino essere più facile isolare i no che prospettano i disastri che altrimenti si produrrebbero, che rispondere ai sì, e ottenere i miracolosi risultati che ci si aspetta dall’adozione di certe politiche. Tra queste una delle favorite è la «politica industriale».

In passato, si dice, siamo riusciti ad agganciare i paradigmi industriali: la macchina a vapore applicata da Sommeiler alle pompe per far passare treni sotto i monti, il motore asincrono con Ferraris, quello a scoppio con la Fiat, la radio con Marconi, il polipropilene con Natta. In questa carrellata non manca mai il richiamo all’Olivetti, ed è perlopiù sbagliato: il culmine del successo l’Olivetti lo raggiunse con la Divisumma che, con un primo costo variabile sotto le 30.000 lire, veniva venduta a un prezzo vicino a quello di una 500. Tanti si arrovellano sulle ragioni per cui il mainframe Elea non riuscì a battere IBM, ma pochi ricordano che non ci riuscì nessuno in Europa, né ICL, né Philips, né Bull, né Siemens: tutti errori di «politica industriale»? In Germania c’è un leader mondiale del software (la SAP) e in Italia no: nessuno lo ricorda ma ha i suoi perché, e hanno a che fare anch’essi con la «politica industriale».

Essa si regge su un presupposto teorico: che il futuro dell’innovazione tecnologica sia conoscibile ex ante, che esista la ricetta per il successo. Una contraddizione in termini, perché è proprio dall’imprevedibilità che viene la spinta a innovare, dall’aleatorietà quella a investire, dalla molteplicità dei modi per organizzare la produzione quella di sperimentarne di nuovi. Non c’è neppure un modo unico di scoprire ex post le ragioni dei successi, e di generalizzare le regole che li favoriscono: come dimostra l’esistenza di molte società di consulenza, in concorrenza tra loro.

Tolto dalla scena l’imprenditore schumpeteriano, diventa però necessario sostituirlo con qualcuno che abbia (innate?) le conoscenze e la preveggenza per identificare i settori che potranno contribuire allo sviluppo del Paese. Nessuno vi ha investito in modo adeguato? «Fallimento di mercato», è evidente, a cui rimediare con sovvenzioni dello Stato e protezione dalla concorrenza «selvaggia». D’altra parte l’innovazione la può fare solo lo Stato, in tutto il mondo è sempre stato così, se non c’era lo Stato, l’iPhone Steve Jobs manco se lo sognava, parola di Mariana Mazzucato – come? non avete ancora letto «Lo stato innovatore»? C’è un’inevitabile consequenzialità nel succedersi dei passaggi, tutto discende dalla decisione iniziale, di identificare i settori. Che poi, a ben vedere, prima non è: infatti chi avrà il potere di identificare l’identificatore? La «politica industriale» presuppone una fiducia mistica nel processo di selezione democratica.

Molti pensano che Mario Draghi a Jackson Hole avesse in mente il surplus di bilancio tedesco quando ha proposto di usare tutta la flessibilità consentita dai trattati. Se pure Angela Merkel lo vorrà leggere in tal modo, c’è da scommettere che anche in Germania si alzerà la voce di chi quel surplus vorrà spenderlo non, ad esempio, riducendo le imposte, ma mostrando i muscoli della «politica industriale». Anche il piano di investimenti infrastrutturali da 300 mld di euro enunciato dal presidente Jean-Claude Juncker, ha lo scopo dichiarato di stimolare la domanda aggregata, ma di fatto è anch’esso un piano «politica industriale». Come tale soggetto alle inevitabili contraddizioni: come stimolare il mercato senza lasciare spazio alla sua capacità di scoperta, come farlo crescere senza le virtù e i difetti dell’imprenditore, come selezionare senza la concorrenza; nel caso specifico poi, come districare il groviglio di problemi di ripartizione e di coordinamento tra Paesi.

Nell’attesa del grande stimolo europeo, il governo Renzi cerca di stimolare la nostra economia con il decreto sblocca Italia. Sarà perché non siamo abbastanza keynesiani, come dice Krugman (che evidentemente di italiano legge solo il blog dell’Istituto Bruno Leoni), sarà perché 140 caratteri sono pochi per complessi progetti costruttivisti, in ogni caso si tratta di provvedimenti sparsi, senza neppure il tentativo di venderli come «politica industriale». Ma hanno lo stesso presupposto ideologico: che «loro» sappiano meglio di «noi» a che fine e come spendere i nostri soldi. Che si tratti di posa di cavi per la banda larga, di porti, di ecobonus o sisma-bonus, di acquistare e affittare immobili ristrutturati, ogni «semplificazione» ha come target il suo interesse rilevante. Non è una nuova «politica industriale»: è la vecchia che non è mai finita.

Tagli di spesa per spingere su investimenti e infrastrutture

Tagli di spesa per spingere su investimenti e infrastrutture

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

La procedura che porta alla legge di stabilità inizierà a giorni e, purtroppo, non sarà una passeggiata né per il governo né per l’Italia. Siamo infatti in recessione-deflazione più della media (alzata, si fa per dire, dalla Germania!) dell’eurozona. La speranza sul programma del neo presidente della Commissione Juncker (e cioè investimenti nell’economia reale e nelle infrastrutture per 300 miliardi in tre anni) viene smorzata dalla critica tedesca all’apertura di Draghi su queste politiche espansive. Rimaniamo così in attesa sia della Bce per l’erogazione di liquidità finalizzata al rilancio dell’economia reale, sia delle politiche della nuova Commissione europea per spingere la crescita, sia della capacità dei governi di Paesi a crescita zero (o meglio negativa) come il nostro di contrattare flessibilità di bilancio in cambio di riforme. Anche perchè,malgrado i limiti delle nostre riforme, non è (tutta) colpa nostra se l’eurozona ha fatto la scelta sbagliata di rigore senza investimenti.

Riformare l’Italia
Il governo ha piani ambiziosi che speriamo possa migliorare (anche accettando le critiche costruttive) ed attuare. Per questo bisognerà analizzare bene il programma dei mille giorni, del «passo dopo passo». Intanto le previsioni sulla nostra crescita, disoccupazione e sui saldi di bilancio peggiorano anche se Renzi e Padoan rassicurano sul rispetto dei vincoli di bilancio europei. Intanto, il governo ha approvato lo «sblocca-iItalia» che ha misure interessanti per la crescita,anche tramite le infrastrutture. Una parte non piccola è però subordinata alle risorse finanziarie su cui aspettiamo la legge di stabilità. A questo proposito consideriamo una questione (tra le tante) sulla quale si valuterà la capacità del governo di fare le riforme durevoli. Si tratta della revisione della spesa pubblica, tema (tra gli altri) sul quale in una serrata intervista si sono intrattenuti ieri qui il presidente del consiglio e il direttore del nostro quotidiano.

Razionalizzare la spesa
Il presidente Renzi ritiene di poter tagliare 20 miliardi nel 2015 per liberare risorse da investire nella istruzione e nella ricerca. All’ovvia preoccupazione che ciò si faccia con i tagli lineari, la risposta è stata che non sarà così perché ogni ministero dovrà fare delle scelte e ridurre del 3% selettivamente la spesa. Lo speriamo e tuttavia riteniamo di richiamare all’attenzione sulla necessità di seguire le «nuove proposte di revisione della spesa» (Nprs) elaborate dal commissario nominato dal governo, Carlo Cottarelli e dai suoi collaboratori. Non si tratta di limitare la discrezionalità valutativa del governo ma di avere una precisa mappa sui cui muoversi. Le Nprs lo sono perché applicano all’Italia, su una serie di aree di intervento, le migliori pratiche dell’Ocse già usate in altri Paesi.Ottenere dai ministri e dai ministeri una riduzione razionale della spesa è pressoché impossibile senza avere un’indicazione precisa sulle opzioni di risparmi e riallocazioni. Queste sono fornite proprio dalle Nprs di Cottarelli che punta su 59 miliardi di risparmi nei tre anni 2014-16. I risparmi lordi massimi calcolati (che non considerano il calo indotto sulle entrate) sono di 7 miliardi nel 2014 (sui dodici mesi, ovvero 3,5 su sei che ci sono), di 18 nel 2015, di 34 nel 2016. Le Nprs sono su cinque macro-aree di intervento con i relativi risparmi su ciascun anno del triennio: efficientamento (per 19,4 miliardi); riorganizzazioni (7,9); costi politica (2); riduzione trasferimenti (13,5); settori: difesa, sanità, pensioni (15,1). Ciascuna macro-area è poi dettagliata per ogni anno e per varie voci di risparmio e di efficientamento a livello statale e di enti locali. Qualcuno ha ironizzato (sbagliando) su alcune piccole voci di taglio spese che mostrano invece la serietà delle Nprs perché anche la somma di micro-sprechi genera macro-sprechi.

Tre proposte-richieste al Governo
La prima è una proposta al presidente del consiglio. Data la struttura e la declinazione delle Nprs, è necessario che la stessa venga utilizzata appieno nelle trattative con i ministri (e non solo perché il presidente Renzi dice tra l’altro di voler mantenere Cottarelli nel suo incarico). Sarebbe diversamente difficile discutere con i ministeri operazioni articolate di razionalizzazione della spesa. Né bisogna correre il rischio di passare sbrigativamente ai tagli lineari (o quasi) che talvolta colpiscono anche quelle spese necessarie dove non ci sono resistenze corporative.

La seconda è una richiesta al Governo. E cioè accertare entro il 12 settembre quando ci sarà l’eurogruppo (e prima con Juncker) qual è la misura delle flessibilità chel’Italia può ottenere sui vincoli di bilancio europei. Comprendiamo la riservatezza di queste trattative ma almeno un segnale che sono in corso sarebbe utile. La questione è cruciale non per cambiare le Nprs ma per definire meglio il cronoprogramma delle misure specifiche perché le riforme strutturali della spesa sono più lente ma più efficaci anche in termini di recuperi di efficienza che si estende poi a tutto il sistema economico.
La terza è una proposta-richiesta. Non si rinvii il programma di razionalizzazione delle (quasi)aziende partecipate dagli enti locali che noi abbiamo così denominato il 31 agosto su queste colonne perché molte non sono imprese date le loro perdite croniche. La risposta del presidente Renzi nella citata intervista non soddisfa. Condividiamo con lui l’obiettivo di voler passare dalle circa 8.000 a 1.000 e che la Cassa depositi e prestiti con il Fondo strategico italiano potranno svolgere un ruolo importante al proposito.Tuttavia ci aspettavamo che il presidente Renzi prendesse posizioni sui tempi e sulle modalità (chiusure, aggregazioni, vendite, quotazioni) della ristrutturazione e/o che rinviasse al recente programma elaborato da Cottarelli e dai suoi collaboratori che prospetta un risparmio a regime di 3 miliardi annui dalla razionalizzazione. Al quale per noi si aggiungerebbe un notevole (e non misurato) aumento di efficienza delle economie locali che sono cruciale per l’Italia

Una conclusione
Difficile dire se le nuove proposte di revisione della spesa pubblica elaborate da Cottarelli andranno in porto, se l’Europa ci darà delle flessibilità di bilancio, se Renzi avrà la forza politica di ottenere queste flessibilità e di fare le riforme. Se tutto andasse al meglio (e anche l’euro-Germania rinsavisse) avremmo una proposta per le risorse che rimanessero disponibili. Spingere al massimo sugli investimenti (e non solo con riduzione delle tasse) nell’economia reale, nella tecnoscienza e nelle infrastrutture per rilanciare la crescita adesso e per garantirsi un apparato produttivo più moderno per il futuro. Cioè per quelle generazioni che Renzi giustamente cita spesso.