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Per far ripartire l’economia serve un “New Deal” europeo

Per far ripartire l’economia serve un “New Deal” europeo

Renato Brunetta  – Il Giornale

Dopo la riunione del Consiglio europeo di sabato, che ha in parte definito l’assetto della Commissione europea a guida Juncker, e dopo il pre-vertice all’Eliseo del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, con il presidente francese, Francois Hollande, sempre sabato, il prossimo appuntamento in cui i capi di Stato e di governo dell’Unione europea si troveranno a parlare di economia e di crescita sarà quello del 7 ottobre a Milano. Il governo italiano, cui spetta la presidenza di turno dell’Ue, oltre ad avere l’onore dell’ospitalità ha il dovere della verità e della

trasparenza, e in apertura di sessione dovrà fornire ai leader dei partner europei una ricostruzione sintetica, ma di grande chiarezza storico-scientifica, dell’origine della crisi che dall’estate-autunno 2011 ha travolto i paesi dell’eurozona. Come base da cui partire per le scelte da fare, avendo compreso la natura speculativa dell’ultima crisi, dovuta soprattutto alla mancanza di strumenti della Banca centrale europea, bloccata per Statuto ai Quantitative easing all’americana, nonché all’architettura asimmetrica dell’euro, incapace di risolvere gli squilibri strutturali che il suo stesso successo ha prodotto.

Senza un’analisi seria e approfondita che, a oggi, non è mai stata fatta, i governi, sull’onda degli eventi e delle emergenze, hanno sempre finito per adottare come risposta agli attacchi speculativi, in particolare tra il 2011 e il 2013, la ricetta tedesca del sangue, sudore e lacrime; in maniera acritica, senza mai valutare ipotesi alternative, come potevano essere i provvedimenti presi, in circostanze simili, in America o in Giappone. Risultato: recessione, deflazione, allargamento del divario tra paesi del nord (odiose formiche) e paesi del sud (irresponsabili cicale).

Secondo punto dell’operazione verità che il governo dovrà compiere in preparazione del vertice di ottobre: chiarezza sul ruolo della Banca centrale europea e sui limiti della politica monetaria. Nella banalità teutonica della Commissione europea negli anni della crisi, unico spiraglio di luce ha rappresentato l’assunzione, da parte di Mario Draghi, della presidenza della Bce, che fino ad agosto 2011 era apparsa del tutto impreparata alla crisi, brancolava nel buio e non aveva alcun piano che potesse porre un freno agli attacchi speculativi che i debiti sovrani dei paesi dell’eurozona stavano subendo. Inadeguatezza nella fase iniziale della crisi e impotenza della banca centrale che traspare dalla lettera che proprio ad agosto 2011 la Bce ha inviato all’Italia. Lettera dai contenuti senz’altro giusti, ma irrituale. Sicuramente non uno strumento di politica monetaria.

Solo dopo il parziale fallimento delle due aste di finanziamento agevolato a breve termine alle banche dell’eurozona, a dicembre 2011 e a febbraio 2012, per 1.000 miliardi (di cui da settembre dovrebbe partire una seconda edizione, opportunamente e inevitabilmente riveduta e corretta) e in risposta al susseguirsi di ondate speculative che a luglio 2012 interessavano in particolare la Grecia, con l’impegno a “fare di tutto per salvare l’euro” e il conseguente annuncio di un articolato piano di acquisto di titoli di Stato, la Bce ha finalmente avuto cognizione del proprio ruolo e ha cominciato a esercitarlo nel migliore dei modi. Debellando, in parte, la speculazione finanziaria che stava travolgendo l’Europa, fino a far temere l’implosione della moneta unica. È così che abbiamo tutti apprezzato le misure non convenzionali di politica monetaria adottate da Mario Draghi, ed è, parimenti, a questo punto che ci siamo resi conto che la politica monetaria da sola non basta a risolvere i problemi dell’eurozona. Anche i governi devono fare la propria parte, perché è attraverso la buona politica economica che la politica monetaria si trasmette all’economia reale. E le riforme strutturali che, ripetiamo, creano le condizioni per la buona riuscita delle decisioni di politica monetaria, devono essere simultanee e coordinate in tutti i paesi dell’area euro (ognuno secondo le proprie specificità e necessità), per far sì che ciascuno di essi possa beneficiare degli effetti positivi delle riforme messe in atto dai paesi limitrofi. Motivo per cui Mario Draghi, con l’onestà intellettuale che lo caratterizza, ha auspicato la creazione di una “governance europea delle riforme”.

Riforme strutturali sincroniche, da realizzare attraverso lo strumento dei Contractual arrangements, già in discussione presso la Commissione europea e per la definizione puntuale dei quali sarà decisiva proprio la riunione del Consiglio europeo di ottobre, come ha ricordato più volte l’ex ministro per gli Affari europei, Enzo Moavero Milanesi, che aveva avviato questo percorso nell’ambito del suo mandato di governo con gli esecutivi Monti e Letta. È così che si utilizzerà veramente quella flessibilità tanto agognata e sbandierata, ma in realtà già prevista dai Trattati. Si definisca secondo le specificità del singolo Paese l’incentivo da riconoscere, di natura finanziaria o non finanziaria, a chi attua le riforme strutturali, anche per scongiurare comportamenti opportunistici post-contrattuali (il famoso “azzardo morale”). Potremmo definirlo, pertanto: il piano Draghi-Moavero. E soprattutto l’Italia, nel semestre di presidenza dell’Unione, proponga questo modello a tutti gli Stati, per coordinare il processo riformatore nell’intera area dell’euro. Su questo punto anche il ministro dell’Economia e delle finanze, Pier Carlo Padoan, si è detto favorevole in numerose dichiarazioni pubbliche.

Presidente Renzi, inutile perdere tempo con noiose disquisizioni giuridiche sulla modifica dei Trattati, che richiede un processo troppo lungo e troppo costoso dal punto di vista politico. Non se ne caverà nulla di buono. Dopo l’analisi, che abbiamo auspicato in precedenza, sulle cause della crisi, fatti portatore in Europa di un’operazione non di modifica, bensì di interpretazione dei Trattati e dei regolamenti, nell’ambito della flessibilità che essi già implicano. Con i contenuti scritti nella risoluzione presentata da Forza Italia prima del Consiglio europeo dello scorso 28 giugno, che tu hai bocciato, ma che probabilmente non hai neanche letto. Soprattutto, parla chiaro alla testa e al cuore degli europei. Fa’ vedere loro una via d’uscita. Regala loro una visione strategica di lungo periodo. Cose possibili, fattibili, concrete, e non astratti ragionamenti, esoterici, su astrusi parametri: deficit strutturale, deficit nominale, avanzi, disavanzi, rinvii, che la gente non comprende.

E al piano Draghi-Moavero, esposto sopra, va in contemporanea aggiunta la novità proposta, sia pure nel silenzio di tutti, dal nuovo presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, vale a dire investimenti comunitari per 300 miliardi di euro. Presidente Renzi, riempiamo di contenuti, insieme, il piano Juncker, e presentiamo la nostra proposta ai partner europei che sotto la presidenza di turno italiana si riuniranno a ottobre a Milano. Mettiamo insieme da subito, contemporaneamente e con l’appoggio di tutti i paesi, la linea Draghi e la proposta Juncker. Chiamiamolo piano Draghi-Juncker, o New deal, purché riesca a combinare le riforme sincroniche nei singoli Stati, per consentire la trasmissione della politica monetaria, da un lato e gli investimenti dall’altro. Con riferimento a questi ultimi, facciamo qui qualche esempio di misure concrete, per una maggiore integrazione del mercato interno (in particolare nel settore dei servizi); per migliorare la regolazione e la normativa comunitaria; per costruire nuove infrastrutture; per migliorare i piani di approvvigionamento energetico; per dare impulso agli investimenti in ricerca e sviluppo, innovazione, capitale umano. Chi ha una rete ha un tesoro. Come le reti infrastrutturali sono state i catalizzatori della nascita degli Stati nazionali nell’800, così le reti europee dovranno essere i catalizzatori della nuova Europa.

Con quali risorse fare tutto ciò? Attraverso l’emissione di Project bond garantiti dalla Banca Europea degli Investimenti (Bei), per finanziare investimenti in infrastrutture, in ricerca e sviluppo, innovazione, capitale umano. La capacità di intervento della Bei verrebbe potenziata attraverso l’istituzione di un Fondo di garanzia ad hoc, la cui capitalizzazione sarebbe a carico dei singoli paesi secondo diverse formule, con un punto fisso: i fondi trasferiti dagli Stati membri alla Bei non rientrano nel computo del 3% del rapporto deficit/Pil. In alternativa, il Fondo di garanzia potrebbe anche essere capitalizzato facendo ricorso, con tutte le cautele del caso, a quella quota delle riserve auree delle banche centrali nazionali eccedente rispetto agli obblighi di copertura dell’euro. Questo pacchetto non comporta modifiche ai Trattati, mentre consente di utilizzare, rispettando le regole, la flessibilità già prevista. E soprattutto parla chiaro al popolo europeo, per uscire dalla crisi, dalla recessione, dalla deflazione, dalla disoccupazione. Riforme e reti europee, quindi, per una nuova idea di Europa, oltre l’egoismo tedesco. New deal, contro e dopo la grande depressione europea, come messaggio di pace e di coesione geopolitica. Crescita e sviluppo, come esito finale. Per dirla con Marchionne: non possiamo più sopportare gente con barchette e gelati.

Una commedia degli equivoci

Una commedia degli equivoci

Danilo Taino – Corriere della Sera

Certe volte, sempre più spesso, l’Europa è il palcoscenico di una commedia degli equivoci. Di fronte alla disoccupazione alta, alla stagnazione dell’economia, al pericolo della deflazione, gli equivoci non dovrebbero però essere ammessi: l’eurozona è tornata a vivere una stagione di crisi e le ambiguità politiche e interpretative la rendono drammatica. 

La telefonata di ieri di Angela Merkel a Mario Draghi andrebbe catalogata tra gli scambi di valutazioni tra leader di fronte all’emergenza – non diversamente dall’incontro in Umbria di Matteo Renzi con il presidente della Bce una decina di giorni fa. La famosa frase di Draghi che bloccò la crisi del 2012 – la Banca centrale avrebbe fatto «qualsiasi cosa» per evitare la rottura dell‘euro – fu, per dire, preceduta da una conversazione tra il presidente della Bce e la cancelliera tedesca. Invece, oggi, si tende a verdere ovunque scontro e divisione. Non dovrebbe essere così. 

La gravità della situazione nell’area euro – l’unica al mondo che non riesce a togliersi di dosso i postumi della crisi e sembra immobilizzata –  è chiara a tutti. E i governi sanno che vanno messe in opera tutte le azioni – riforme, politiche di bilancio, politiche monetarie – capaci di scuotere la situazione, di dare una svolta. Significa che i governi nazionali devono fare quelle riforme finalizzate a rendere efficienti le economie: erano il presupposto della creazione della moneta unica europea, 15 anni fa, e molti Paesi non le hanno fatte. Significa che spese produttive e riduzioni del peso fiscale vanno messe in campo per stimolare le economie. Significa che la Banca centrale europea deve fare tutto ciò che può per evitare la spirale della deflazione e per favorire il credito all’economia. Il fatto è che tutto è chiaro, non ci sono misteri. Ma ci sono gli equivoci. 

Al seminario dei banchieri centrali di fine agosto a Jackson Hole, Wyoming, Draghi ha sostenuto che «nessuna quantità di aggiustamenti fiscali o monetari può sostituire la necessità di riforme strutturali: la disoccupazione strutturale era già molto alta nella zona euro prima della crisi». Senza riforme strutturali, più spesa pubblica e una politica monetaria espansiva semplicemente non funzionano, perché si perdono nelle sabbie di economie inefficienti. Qualche media internazionale ha invece dato una lettura del discorso di Draghi a Jackson Hole come un ripudio delle politiche seguite finora dall’eurozona, volute soprattutto dalla Germania. Commentatori e mercati sono entrati in confusione e, probabilmente, così qualche governante. In realtà, la posizione di Draghi – nota non da ora – è che si tratta di fare riforme che mettano i Paesi in grado di beneficiare di ogni azione espansiva possibile, di spesa o monetaria che sia. Non c’è equivoco, se non lo si crea.

La strada difficile della ripresa

La strada difficile della ripresa

Mario Deaglio – La Stampa

Moltissimi italiani sono vittime di un terribile equivoco: si illudono che un «buon» governo, non importa se l’attuale o un altro, sia in grado di scaricare sulla loro porta di casa una splendida ripresa già bell’e confezionata, possibilmente senza creare loro alcun incomodo. Così si spiegano le critiche «quantitative» ai provvedimenti del governo, già adottati o di prossima messa a punto, secondo le quali «le risorse non bastano». Come ha detto il presidente dell’Ance, Paolo Buzzetti, «se non ci mettiamo i soldi… i problemi restano tutti lì». E siccome qualche soldo c’è, ma non basta (e questo lo sanno tutti), e non è possibile stamparne tranquillamente degli altri, si direbbe che i problemi sono destinati a rimanere tutti lì, magari per molto tempo. La ripresa che piacerebbe a milioni di italiani consiste nel «riprendere››, appunto, ritmi, modalità di vita e produzione degli anni precedenti la crisi.

Più che una ripresa sarebbe un recupero e una conservazione di valori, da quelli monetari a quelli culturali. E questa ripresa si potrebbe realizzare semplicemente ritoccando qualche legge – possibilmente senza conseguenze scomode per i diretti interessati – e affidandosi al «buon senso». Sarebbe molto bello, soprattutto per un paese in cui gli anziani sono una componente sempre più importante, se la ripresa fosse effettivamente così. Purtroppo le cose stanno andando diversamente. 

Quella che stiamo vivendo a livello globale è una «distruzione creatrice», come l’aveva definita l’economista austriaco Joseph Schumpeter all’incirca settant’anni fa: uno «sciame» di innovazioni irrompe sulla scena economica, altera la struttura dei costi, si presenta di prepotenza con nuovi prodotti, cambia di fatto il nostro modo di vivere e ne instaura un altro, si inventa nuovi mercati e nuovi modi di produrre. 

Lo si vede benissimo osservando con attenzione la nostra vita quotidiana: dopo trent’anni in cui si è limitata a renderci le cose più facili, l’elettronica sta rendendo la nostra esistenza sensibilmente diversa. Iphone e Ipad cambiano i nostri ritmi di vita e di lavoro: con il telefonino (che è sempre meno «cellulare» in quanto passa sempre più da Internet) possiamo acquistare un biglietto ferroviario 0 aereo, effettuare un bonifico bancario, pagare in diretta il posteggio dell’auto. Sempre con questo o altri simili mezzi elettronici potremo «scaricare» e seguire a nostro piacimento interi corsi universitari, tenere la nostra salute sotto controllo, acquistare un numero crescente di oggetti senza passare dal negozio dai supermercati. 

Possiamo legittimamente pensare che tutto ciò sia un bene o sia un male. In ogni caso siamo costretti a muoverci in questa direzione perché gli altri Paesi lo stanno facendo e perché dobbiamo vendere all’estero i nostri prodotti per pagarci l’energia e le materie prime di cui abbiamo bisogno (sempre che non prevalgano i venti di guerra che soffiano sull’Ucraina e sul Medio Oriente, con qualche sinistra somiglianza con quelli di cent’anni fa). La ripresa, insomma, non sarà per niente comoda e rassicurante, sarà scomoda e incerta; offrirà delle opportunità, non garantirà a nessuno di raggiungere i risultati sperati. 

Nessun governo, in nessun Paese, potrà fare meraviglie, tutti i governi e tutti i Parlamenti dovranno mettere i loro cittadini nelle condizioni di “fare”, di rischiare al meglio, di elaborare un progetto di vita che non sia bloccato da ostacoli legislativi antiquati. Le leggi non creeranno ripresa, metteranno i cittadini nelle condizioni di crearla. Per questo sono necessari i «piccoli miracoli individuali» di cui ho parlato in un precedente articolo, un’affermazione alla quale alcuni lettori hanno reagito con fastidio sostenendo che i miracoli li devono fare i governi. 

Per la verità, i giovani italiani stanno cominciando a muoversi in questa direzione. Sono diverse decine di migliaia quelli che, dopo aver conseguito buone lauree in Italia si vedono proporre spezzoni di lavoro, stage non pagati, contratti di pochi euro e senza futuro o al massimo lunghe carriere per arrivare a posizioni di rilievo all’età della pensione; al di là delle Alpi, da Monaco a Londra, ricevono spesso offerte di posti (e salari) adeguati alla loro professionalità da imprese spesso dirette da trentenni o quarantenni. 

I rimedi alla brutta crisi italiana, in sostanza sono solo in piccola parte quantitativi e soprattutto qualitativi; e possono richiamare in un circuito produttivo un po’ di ricchezza finanziaria netta delle famiglie che, secondo la più recente indagine della Banca d’Italia, è pari a circa 8 volte il reddito disponibile lordo delle famiglie italiane, in linea con Regno Unito, Francia e Giappone e sensibilmente superiore a quella di Stati Uniti, Canada e Germania. Se le famiglie italiane non useranno almeno una parte di questa ricchezza (le sole attività finanziarie valgono più del doppio del prodotto interno lordo) è possibile che finiscano con il perderla. E perderemo tutti una parte delle speranze del Paese.

Eurolandia non si fida dell’Italia

Eurolandia non si fida dell’Italia

Federico Fubini – La Repubblica

Se c’è un’istantanea dell’Italia che resta nella testa di Angela Merkel è quella dell’agosto 2011. Non è la foto da uno dei suoi tanti soggiorni a Ischia. È il ricordo di quello che la cancelliera visse come un tradimento. A quell’epoca, con una lettera di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet sul tavolo, il governo italiano promise misure importanti in cambio del soccorso della Bce. L’aiuto di Francoforte arrivò, le promesse di Roma finirono in soffitta poche ore più tardi.

In Italia di quell’episodio oggi si ricorda il fatto che fu Silvio Berlusconi, allora premier, a determinare il voltafaccia. In Germania invece si continua a pensare che responsabile ne fu semplicemente l’Italia, anche perché da allora tutti i governi seguiti a Berlusconi hanno omesso gran parte degli impegni. Quel passaggio del 2011 torna attuale nella mente della Merkel ora che, di nuovo, in Europa si parla di grandi compromessi. Interventi in Italia o in Francia per mettere le due economie in condizioni di competere, in cambio di un po’ di più pazienza a Bruxelles. Un taglio di spesa e di tasse sulle imprese, insieme a nuove regole sul lavoro, in contropartita a una certa tolleranza sul deficit e sul debito pubblico.

Varie versioni di proposte di questo tipo circolano fra i governi da almeno un anno. C’è però un dettaglio che passa quasi inosservato a Roma, mentre a Berlino resta la tessera centrale del mosaico: niente più concessioni all’Italia in cambio di impegni solenni o altri esercizi verbali. Qualunque accordo sulla “flessibilità”, cioè la speranza per l’Italia di non rischiare una multa e una sorveglianza stringente a Bruxelles, prevede prima i fatti. Precise riforme dell’economia approvate come leggi, tradotte in provvedimenti, applicate nella vita reale del Paese. Nient’altro basta ad avviare un negoziato in buona fede su come applicare il Fiscal Compact, cioè le regole di bilancio, in maniera meno burocratica. Forse perché in Italia sono cambiati quattro governi in meno di tre anni, spesso sfugge alla classe politica come l’erosione della credibilità in Europa oggi riguardi l’intero Paese: non il primo ministro di turno o quello appena sostituito da uno nuovo, forte o debole nei sondaggi che sia. È praticamente certo che di questi argomenti Merkel non parli esplicitamente con Draghi. Il canale di comunicazione diretta fra la cancelliera e il presidente della Bce da anni è aperto e funziona benissimo, fondato com’è sul rispetto dei rispettivi ruoli. Due anni fa, Draghi sapeva di avere l’as- senso di Merkel quando salvò l’Italia dal collasso annunciando che avrebbe fatto «qualunque cosa» per preservare l’euro. Anche oggi il banchiere centrale e la cancelliera la vedono in modo simile, almeno su un argomento: l’Italia, la sua stasi e la depressione in cui si dibatte da cinque anni. Entrambi vorrebbero vedere subito progressi nelle norme sul lavoro e nel taglio fiscale al costo di fare impresa, perché nel frattempo il Paese sta restando indietro anche rispetto alle economie più fragili o ai suoi stessi alleati.

La Francia di François Hollande, in teoria in “asse” con Roma, si è messa in marcia. Manuel Valls, il premier, ha espulso dal governo i dissenzienti e ora procede verso un piano di tagli di spesa da 50 miliardi di euro e riduzioni di tasse sulle imprese da 40 miliardi. Se lo porterà a termine tra tre anni, come da programma, l’export transalpino avrà guadagnato competitività su quello dell’Italia per qualcosa come il 2% del Pil francese. Le imprese francesi torneranno ad assumere, quelle italiane, surclassate, continueranno a chiudere. Quanto alla Spagna, è già avanti nel cambiamento e da anni gode della “flessibilità” di cui parla Matteo Renzi. Il deficit di Madrid viaggia intorno al 7% del Pil, ma il Paese non rischia sanzioni da Bruxelles. Nel frattempo, ha cambiato in profondità le regole sul lavoro e sui rischi d’impresa. Le procedure di fallimento delle aziende piccole e medie sono rapide, concluse senza giudici e a basso costo: gli investitori possono mettersele alle spalle e ripartire. I contratti di lavoro sono commisurati alla capacità di un’impresa di stare sul mercato e guadagnare. I licenziamenti per ragioni economiche o organizzative ora sono più facili, eppure la Spagna sta creando nuovi posti di lavoro ogni mese. L’Italia invece ne distrugge e resta in recessione – non il modo migliore di difendere i diritti acquisiti – mentre la Spagna cresce al ritmo del 2% annuo.

È di fronte a queste realtà che Draghi e Merkel fanno i conti e si trovano d’accordo. La cancelliera deve gestire le pressioni verso il rigore da parte della sua Corte costituzionale tedesca, del suo ministro finanziario Wolfgang Schaeuble e dell’opinione pubblica. Ma, come Draghi, sa che l’Italia è troppo grande per non essere aiutata: l’Italia che fa, ovviamente. Non quella che promette.

Ministeri «pigri» sul taglia-oneri

Ministeri «pigri» sul taglia-oneri

Valerio Uva – Il Sole 24 Ore

A giudicare dai rapporti dei ministeri interessati l’anno scorso in Italia non è successo niente. Nessun nuovo onere, obbligo o adempimento burocratico è arrivato a carico delle imprese. O meglio: nonostante il corposo pacchetto di leggi varate (oltre 150) solo un nuovo onere è stato introdotto quell’anno e uno, al contrario, cancellato. Saldo zero dunque secondo la burocrazia italiana. Un risultato sorprendente. Di fatto però non ci credono neanche gli stessi burocrati che lo hanno dovuto certificare. Il fallimentare bilancio della norma taglia-oneri per le imprese e contenuto nella prima «Relazione complessiva contenente il bilancio annuale degli oneri amministrativi introdotti ed eliminati» messa punto dal Dipartimento della Funzione pubblica. E’ il primo rapporto sull’applicazione della norma taglia-oneri prevista appunto dallo Statuto delle imprese (legge 180/2011), che sulla scia di esperienze internazionali analoghe ha istituito l’obbligo per la Pa ogni anno di fare un bilancio, anche economico, degli oneri per le imprese. La Relazione arriva dopo le linee guida per stimare gli onerivarate con ilDpcm del 16 aprile 2013. 

Peraltro il bilancio si ferma a metà: la legge stessa esclude dal perimetro un settore sotto questo profilo pesantissimo quale il fisco e limita il conteggio alle sole norme di rango primario, escludendo la valanga di decreti attuativi che invece spesso sono la fonte principale di nuova burocrazia. L’anno scorso solo i 4 ministeri su 20 interessati si sono premurati di monitorare gli oneri del 2013. Ma quello che più preoccupa è che solo uno – il ministero dell’Interno – ha quantificato correttamente un onere introdotto (39mila euro) e uno eliminato (-216mila). Per gli altri, appunto, nulla sembra sia successo nel 1013. 

Ma a smentirli sono arrivate le segnalazioni delle associazioni di categoria. Confindustria, Cna, Confartigianato e Confcommercio hanno inviato al dicastero di Giovanna Madia un dettagliato elenco di nuove procedure introdotte ed eliminate: il bilancio-ombra segnala per l’anno scorso dieci nuovi oneri introdotti e otto eliminati. Quattro dei nuovi “appartengono” al ministero dell’Ambiente. una delle amministrazioni che non ha stimato gli oneri. Un pacchetto altrettanto nutrito riguarda l’energia e le fonti rinnovabili, di competenza del ministero dello Sviluppo economico che addirittura non ha trasmesso il proprio rapporto. Ma quello che la stessa Relazione definisce come «paradossale» è il fatto che le relazioni inviate «non diano conto nemmeno degli oneri eliminati». In pratica un autogol per la stessa amministrazione. Il Lavoro, ad esempio, non ha completato il bilancio, nonostante possa vantare – come segnalato dalle associazioni degli imprenditori – ben quattro cancellazioni che avrebbero fatto pendere la bilancia a suo favore. 

«Occorre prendere atto che questa norma non è stata applicata» conclude la Relazione che prova anche a capire come mai. A pesare oltre alle «resistenze culturali» e il dover rincorrere i decreti legge, anche una evidente «difficoltà per le amministrazioni di attuare le regole sulla valutazione preventiva degli oneri amministrativi», affidata solo agli uffici legislativi. Mentre le competenze richieste per la stima vanno ben oltre. Prendiamo le regole per il calcolo economico: prima va stimato un costo medio per obbligo informativo, poi va moltiplicato per il numero annuo di adempimenti, a sua volta ottenuto con il prodotto tra popolazione e frequenza. Tutti passaggi alla portata più di ingegneri che di esperti giuristi. A voler essere più maliziosi, però, non è solo colpa delle difficoltà tecniche. Lo Statuto delle imprese non si è limitato a chiedere la Relazione. Una volta individuatigli oneri e fatti i conti, se la bilancia tra quelli creati e quelli eliminati pende pericolosamente a favore dei primi la legge impone al Governo di correre ai ripari. Come? Con il pareggio di bilancio, ovvero con un regolamento sprint da fare in 90 giorni per cancellare qualche timbro, domanda o autorizzazione. E riportare la bilancia in equilibrio. Operazione che. a giudicare dai dossier delle associazioni, sarebbe assolutamente urgente.

Una manovra di “soli” 16 miliardi il Tesoro fa i conti con la flessibilità

Una manovra di “soli” 16 miliardi il Tesoro fa i conti con la flessibilità

Valentina Conte – La Repubblica

Troppo presto per brindare, visti anche i primi malumori della Merkel. Ma l’ipotesi di una moratoria biennale sul Six pack, la possibilità cioè per l’Italia di non dover incidere brutalmente col bisturi sui conti 2014-2015, risparmierebbe al Paese di certo una legge di Stabilità lacrime e sangue. Nessuna procedura di infrazione, dunque, se il deficit strutturale non è “close to balance”, vicino allo zero, il prossimo anno. Nessuna bacchettata se il percorso di riduzione del debito pubblico parte nel 2016, dodici mesi dopo. Più margini per fare politiche espansive e provare a rianimare il paziente, dopo la cura da cavallo. E cioè a far ripartire la crescita. Insomma, anziché una maxi manovra da 25 miliardi, ad ottobre l’Italia potrebbe evitare altri tagli draconiani o maggiori tasse per 8-10 miliardi. Una cifra pari quasi al costo del bonus degli 80 euro per il 20 1 5. Non male. 

«Un accordo di questo tipo sarebbe un aiuto importante, è evidente», riflette Enrico Zanetti, sottosegretario all’Economia. «Eviteremmo i rischi di inflazione. Resteremmo sotto il 3% nel rapporto deficit-Pil. Le manovra sarebbe meno complicata, da 15-16 miliardi anziché 23-25, coperta dalla spending review. E saremmo in grado di mantenere tutte le promesse, come il bonus, oltre a scongiurare tagli alle detrazioni fiscali. Non dover fare la correzione da almeno mezzo punto di Pil aiuterebbe, certo». Fermo restando, ricorda Zanetti, che oltre alla moratoria «è anche tempo di rivedere, nelle sedi tecniche europee, il Pil potenziale dell’Italia». Così com’è – pari a zero – «ci penalizza e rende gravosi gli aggiustamenti dei disavanzi strutturali».

Per ora vediamo se l’intesa sin qui solamente abbozzata e informale tra Juncker e la commissione Ue uscente reggerà alla prova (tedesca) dei fatti. «Sarebbe però sbagliato vedere la moratoria come una concessione da scambiare ad esempio con minori tutele per i lavoratori», avverte Stefano Fassina, ex viceministro pd dell’Economia. Quell’obiettivo di riduzione dello 0,5% annuo del deficit strutturale, cioè al netto del ciclo economico avverso, «è assolutamente irrealistico, in uno scenario di recessione come l’odierno». Tra l’altro fissato con un’inflazione al 2%, mentre ora l’Eurozona si avvia alla deflazione. «Il Six pack non si applica punto. E non per concessione, ma perché il quadro è diverso». Sorpresa per la svolta europea che si prefigura, Sergio De Nardis, capo economista di Nomisma, ne soppesa però i vantaggi per l’Italia. «Una corda che si allenta, indubbiamente. Gli sforzi per l’aggiustamento del bilancio strutturale si sposterebbero al 2016. Non saremmo insomma costretti a modificare il tendenziale già ora, con la legge di Stabilità di ottobre. Un passo avanti imponente che tuttavia scavalca anche i possibili margini di flessibilità annunciati da Mario Draghi a Jackson Hole e inquadrati “nei limiti del fiscal compact”, le regole di riduzione del debito pubblico”. Qui siamo ben oltre». 

Sarà per questo che la Merkel è in ansia. «Se ci concederanno davvero questo margine, l’impatto sarà minimale sulla recessione», avverte però Luigi Guiso, economista e docente al Luigi Einaudi Institute for Economics and Finance. «Attenzione poi a non farne un uso cattivo. Il bonus da 80 euro doveva essere finanziato con tagli alla spesa. Allentare questo processo e magari usare la nuova flessibilità per coprire quello sconto fiscale potrebbe essere controproducente. Lo sconto ci toglie qualche castagna dal fuoco nell’immediato, certo non ci aiuta a uscire dalla crisi».

Dagli Usa all’Italia aspettando la vera ripresa

Dagli Usa all’Italia aspettando la vera ripresa

Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore

Prima c’era la crisi finanziaria, poi la Grande recessione, poi la crisi da debiti sovrani, ora i tremori geopolitici da Ucraina, Gaza e Medio Oriente… Non c’è pace per l’economia mondiale e diventa difficile discernere, nella nebbia del ciclo, il ruolo dei fattori strutturali, congiunturali e politico-militari.
L’analisi deve partire dagli Stati Uniti, e non solo perché sono tuttora – ma di poco – la più grossa economia del mondo. Nella costellazione delle economie gli Usa sono ancora la stella polare, che segna la direzione del ciclo internazionale. E questo sia per fattori reali – l’assorbimento dell’export diretto verso il più grande mercato del pianeta – che per fattori di fiducia – il mondo guarda all’America per confortarsi e ignorare i tristi epigoni di una supposta “stagnazione secolare” che dovrebbe invischiare le economie avanzate.

Allora, qual è lo stato di salute dell’economia americana? Buono, grazie. Gli Usa furono colpiti da una recessione diversa dal solito, una recessione che riguardava i fondi e non i flussi, una recessione da eccesso di debito che aveva incrinato i bilanci, specie delle famiglie. Questa balance sheet recession – recessione da bilancio – richiede una terapia lunga, ché il solo modo di uscirne è quello di raddrizzare il bilancio riducendo il debito, cioè risparmiando di più e consumando di meno. Una terapia ammirabile e nobile dal punto di vista della singola famiglia, ma che, praticata su vasta scala, toglie carburante alla caldaia dell’economia. Ora, tuttavia, i bilanci delle famiglie sono stati risanati, il debito è tornato a livelli fisiologici e la ricchezza, grazie ai tassi d’interesse bassi che sostengono il valore delle obbligazioni, all’effervescenza dei mercati azionari che continuano a macinare record e alla ripresa dei prezzi delle case, è a livelli tali da confortare i consumi. C’era però un problema in questa vicenda. Per contenere la recessione lo Stato si era doverosamente sostituito al settore privato nello spendere e nello spandere, e i deficit risultanti avevano poi costretto il settore pubblico a tirare anch’esso la cinghia.

La lentezza della ripresa americana è dipesa proprio da questo “uno-due”: sia le famiglie che lo Stato avevano un problema di risanamento del bilancio, e sia le une che l’altro dovevano faticosamente risalire la china del deficit andando cauti nella spesa. Ma, come per i conti delle famiglie, anche i conti pubblici negli Stati Uniti hanno mostrato rapidi miglioramenti e le previsioni dei saldi per l’anno in corso continuano a migliorare: il deficit federale viene visto oggi al 2,9% del Prodotto interno lordo. Sgombrato il campo, quindi, dalla fatica del risanamento dei bilanci, l’evoluzione dell’economia viene a dipendere dalle forze spontanee del ciclo, che negli Stati Uniti continuano a essere vive e vitali: il progresso tecnico non si arresta, la fucina dell’innovazione è sempre accesa, le condizioni monetarie sono permissive ed è ampia la disponibilità di lavoro e di capitale. La Borsa americana è fin troppo contenta (e naturalmente, spuntano come funghi le cassandre che annunciano “il grande crollo del 2014”), ma in fondo riflette, pur con qualche esagerazione, l’evoluzione dei profitti che sono, in quota di Pil, vicini ai livelli massimi del dopoguerra.

“L’altra metà del cielo” – i Paesi emergenti – sono in realtà più della metà, ché quest’anno c’è stato lo storico sorpasso: hanno oltrepassato il 50% dell’economia mondiale. Dietro a questo sorpasso ci sono quei fattori fondamentali che, fortunatamente, continuano a spingere la crescita: voglia di crescere, catch-up delle tecnologie, disponibilità di manodopera a basso costo, abbraccio dei valori di mercato e gradi di libertà delle politiche monetarie e di bilancio.

Cruciale è il ruolo della Cina, i cui problemi sono di una varietà che tutti vorrebbero avere: problemi da troppa crescita. Il rallentamento in corso nell’economia del Celeste impero – si fa per dire: dal +10% al +7/7,5% – non è segno di crisi incipiente: è un desiderabile scalar di marcia da una velocità di crociera insostenibile. Un giorno la Cina avrà una vera crisi, ma sarà dovuta a ragioni politiche, a una rivendicazione di libertà civili che mancano all’appello, adesso che le libertà economiche sono state in gran parte conquistate. Ma per adesso non ci sono grossi ostacoli a una crescita che si sta spostando verso la domanda interna e la faretra delle politiche economiche ha dentro molte frecce che possono essere utilizzate per sostenere l’espansione.

Per restare in Asia, quali sono le prospettive del Giappone? In un certo senso, la situazione giapponese ha alcune analogie con quella dell’Italia. La “terza freccia” all’arco del governo guidato da Shinzo Abe – le riforme strutturali, che avrebbero dovuto seguire le due frecce di politiche monetarie e di bilancio espansionistiche – stentano a carburare, come succede in Italia, dove purtroppo anche le prime due frecce non sono state di supporto alla crescita. Ma l’impressione è che la “Abenomics” costituisce un cambiamento di regime irreversibile e il Giappone ha una buona probabilità di tornare a crescere.

E in Europa? C’è, se pure su scala più modesta rispetto all’Italia, la stessa discrasia fra indicatori di fiducia e indicatori reali. Ma recentemente – e in questo caso la spiegazione è più geopolitica che economica – anche gli indicatori di fiducia mostrano segni di ripensamento. Segni specialmente evidenti in Germania, più vicina e più esposta alle preoccupanti vicende in Ucraina.

In conclusione, l’economia internazionale sta subendo i contraccolpi delle tensioni: fra rumor di sciabole e conflitti sanguinosi, l’economia segna il passo, anche se i fattori di crescita rimangono intatti. L’Italia – che il passo lo segna da molti anni – potrà vedere una vera ripresa solo se il resto del mondo riprende il cammino.

Pil, consumi, investimenti: il barometro delle economie

Pil, consumi, investimenti: il barometro delle economie

Chiara Bussi – Il Sole 24 Ore

L’atleta americano sembra aver ritrovato slancio. L’eterno rivale cinese continua a correre, ma non viaggia più a pieni giri come prima. L’allievo giapponese, invece, fatica a rialzare la testa. E il Vecchio continente? Arranca sotto la spinta del mix letale tra recessione, deflazione e disoccupazione alle stelle. L’economia mondiale si presenta così alla prova d’autunno, con i nuovi rischi geopolitici in Ucraina e in Medio Oriente che si sommano alle incognite già esistenti. Tanto che a fine luglio il Fondo monetario internazionale ha ridimensionato le stime per l’anno in corso: il Pil mondiale crescerà del 3,4%, appena lo 0,2% in più rispetto al 2013. Una ripresina, insomma, con una forbice che va dal 7,4% della Cina all’1,1% dell’Eurozona e dove l’Italia secondo i pronostici rischia di essere la maglia nera tra i big, con una crescita di appena lo 0,3 per cento. E non sono da escludere ulteriori revisioni al ribasso nei prossimi mesi.

Tra le tante ombre si intravedono però alcuni spiragli di luce. La settimana scorsa la raffica di dati macroeconomici provenienti dall’altra parte dell’Atlantico ha portato buone notizie. Dopo la doccia fredda del primo trimestre da aprile a giugno il Pil americano ha segnato un balzo del 4,2 per cento. Non solo: i consumatori guardano con ottimismo agli sviluppi dell’economia e i prestiti alle aziende sono in netta accelerazione. Un test per verificare se esistono davvero buone prospettive per il terzo trimestre arriverà questa settimana con l’indice di fiducia del settore manifatturierio (previsto per domani) e con i dati sulle vendite di auto, in agenda per mercoledì.

Nei prossimi mesi gli occhi dei mercati saranno comunque ancora puntati sulla Fed. A ottobre, come preannunciato, calerà il sipario sul quantitative easing, il massiccio programma di acquisto di titoli di Stato, e il focus si sposterà sulla tempistica di un possibile rialzo dei tassi atteso nella seconda metà del 2015. Il numero uno della Fed, Janet Yellen, al simposio di Jackson Hole ha però scelto la strategia della prudenza e ha chiarito che la stretta potrebbe arrivare prima solo se i dati sul mercato del lavoro registrarenno un ulteriore miglioramento.

Dall’altro capo del mondo la Cina continua a correre, ma rallenta il passo. Il Pil del secondo trimestre ha segnato un rialzo del 7,5%, lo 0,1% in più rispetto ai tre mesi precedenti, ma ben lontano dalla performance a due cifre dei primi anni Duemila. L’obiettivo del governo è arrivare a una crescita «intorno al 7,5%» e puntare sui consumi interni. Nell’ultima pagella sullo stato di salute dell’economia cinese il Fmi ha però invitato il governo a evitare un eccessivo rallentamento. «L’andamento del Pil cinese nei prossimi mesi – sottolinea Ferdinand Fichtner, responsabile previsioni e politica economica del Diw di Berlino – è una delle grandi incognite per l’economia mondiale, perché non è chiaro se si tratti di un andamento pilotato o meno».

Il Giappone sembra aver definitivamente archiviato la deflazione che l’ha flagellato per una quindicina d’anni e il livello dei prezzi ha imboccato la via del rialzo. Il grattacapo principale per il premier Abe è ora la ricerca della via della crescita, dopo il segno negativo (-1,7% su base trimestrale e -6,8% annualizzzato) registrato nel secondo trimestre. Una contrazione così spiccata non si vedeva dal marzo 2011 ed è stata innescata dal crollo dei consumi di oltre il 5% scatenato dal rialzo progressivo dell’Iva. Il dato va di pari passo con una produzione industriale fiacca e investimenti in calo. Un duro colpo per l’Abenomics, l’ondata di riforme avviata da premier e Banca centrale nel 2012, con un quantitative easing su modello della Fed e numerosi propositi finora rimasti incompiuti. «L’unico modo che il governo ha per reagire a questa situazione di stallo – osserva Fichtner – è tenere la barra dritta e attuare le riforme annunciate».

In salita sarà nei prossimi mesi anche la strada della Zona euro. «Temo che dovremo convivere con la debolezza dell’area ancora per un po’», sottolinea l’economista di Diw. La spirale negativa del Pil è una minaccia sempre più concreta e nel secondo trimestre non ha risparmiato neppure la Germania. Come ridare vigore alla crescita? Fichtner non ha dubbi: «La strada è una sola: occorre ripartire dagli investimenti privati con la creazione di un nuovo Fondo europeo focalizzato sui prestiti alle Pmi, partendo dalla piattaforma già esistente alla Bei, la Banca europea per gli investimenti».

Se la mancata crescita toglie il sonno ai governi, gli ultimi dati hanno visto materializzarsi anche lo spettro della deflazione in Italia e Spagna. L’attenzione è ora rivolta alle prossime mosse della Bce e alla possibilità di un maxi-acquisto di titoli di Stato su modello della Fed. Per gli economisti di Intesa Sanpaolo la probabilità di un’azione in questa direzione resta però bassa ed è difficile che si avveri prima del nuovo anno. Ulteriori indicazioni potrebbero arrivare giovedì nella riunione dell’Eurotower. Comunque vada, in molti angoli del mondo l’autunno sarà rovente.

La sfida della crescita, l’importanza delle riforme

La sfida della crescita, l’importanza delle riforme

Mauro Calise – Il Messaggero

Sul lavoro che sta compiendo il governo Renzi resta ancora da capire quanto il premier sia davvero bravo nel gestire i dossier più scottanti, dal lavoro all’economia e alla giustizia. Per non parlare dei fascicoli aperti a tempo indeterminato, come le grandi riforme che sono, per definizione, incompiute. Tutti continuano a ripetere che i risultati tardano a venire, come se tutti ce l’avessero in tasca, la ricetta miracolosa. Dimenticando che i predecessori hanno fallito pur disponendo di maggioranze bulgare: politica per Berlusconi, tecnica per Mario Monti, bipartisan per Enrico Letta. E che i pari-grado all’estero versano in acque ben peggiori: Hollande continua a cambiare i titolari dei ministeri chiave, e a scendere in picchiata nei sondaggi. Ma a Renzi, anche per la giovane età, tocca almeno un esame al giorno. E i voti si van facendo più severi. Al premier, però, tutto questo non dispiace. Anzi, gli va a pennello. Ciò che conta, per i prossimi mesi, non è sfornare improbabili vittorie sul fronte dei dati duri di una ripresa economica che – Draghi ce l’ha fatto capire – non darà frutti prima di un paio di anni. Ma restare ben piantato al centro dei riflettori mediatici, tenendone saldamente il monopolio. Inventandosi ogni giorno un evento, un cambiamento di agenda, uno slogan accattivante. O un repentino cambio di passo, da sprinter a maratoneta. 

Ed ecco serviti tutti quelli che si erano adagiati sull’immagine di un Renzi obbligato a correre, costantemente proteso al sorpasso delle sue stesse iniziative. Il premier, da oggi, rallenta. Si prende tutto il tempo necessario a rimettere in pezzi un Paese scassato da cima a fondo. Da piè veloce Achille a tartaruga. Tanto, per dirla con Zenone, chi è in grado di superarlo? L’asso nella manica di Renzi resta questo: non ha concorrenti. Non c’e nessuno oggi in grado di sfidarlo sul grande palcoscenico mediatico, prima ancora che su quello politico. Ed è questa la principale dote di cui il premier ha dato prova straordinaria. Una gestione geniale, impeccabile della comunicazione personale col grande pubblico trasversale. 

In questo, gli va dato atto, è andato oltre lo stesso Berlusconi, che certo l’ex sindaco ha studiato in ogni minimo dettaglio. Il Cavaliere aveva un suo partito e proprie reti televisive. Renzi agisce da battitore libero. Si è inventato tutto da solo. E chi pensa che questa capacità non rientri tra le qualità di uno statista, non ha capito niente di quello che è successo in questi ultimi decenni. Col passaggio dalla democrazia rappresentativa a quella incentrata sul leader. E sulla sua capacità di catturare l’immaginario collettivo. 

Rientra in questo stesso scenario anche la scelta, difesa coi denti, di ottenere per la Mogherini – una renziana d’acciaio – il ruolo di portavoce agli Esteri dell’Unione Europea. Una scommessa che riguarda la possibilità che, nel caotico panorama internazionale che si va sempre più surriscaldando, si creino spazi per sortite – coraggiose, fuori dal coro – ad alto potenziale di impatto sulla opinione pubblica, italiana e più in generale occidentale. E’ improbabile che il premier si faccia illusioni che nostre eventuali proposte riescano a condizionare play-maker ben più pesanti, come gli Usa o la Germania. Ma al carnet del suo agenda-setting, fino ad oggi ristretto all’ambito nazionale, Renzi ha aggiunto un teatro a visibilità illimitata. Schierando una donna giovane, con mestiere e temperamento, che suscita curiosità e simpatia. All’immagine di un’Europa impantanata nel proprio passato, non potrà che giovare questa incursione di futuro.

Massimo Blasoni: «Per tornare sani servono 28 anni, non mille giorni»

Massimo Blasoni: «Per tornare sani servono 28 anni, non mille giorni»

Chiara Daina – Il Fatto Quotidiano

La risposta per le rime a Renzi arriva da Massimo Blasoni, 49 anni, imprenditore udinese, che ha comprato un’intera pagina su Il Giornale di ieri. Due tondi, una con la foto del premier come è adesso, l’altro con un fotomontaggio che lo ritrae anziano e canuto. Sotto, la scritta “Torneremo ai livelli del 2008 quando Renzi avrà 67 anni”. Non è una stima sparata a caso. All’inizio di agosto Blasoni ha fondato il centro studi ImpresaLavoro, che ha ipotizzato il conto e di cui fa parte anche Salvatore Zecchini, presidente del gruppo di lavoro dell’Ocse su Pmi e imprenditoria.
Come è venuto in mente di comprare una pagina di giornale?
«Volevo comunicare a Renzi con un linguaggio schietto e mediatico come il suo. Il governo aveva previsto un livello di crecita del Pil dello 0,8 per cento. Balle. Per tornare ai livelli pre-crisi, considerando una crescita media tra il 2008 e il 2014 dello 0,3%, ci serviranno altri 24 anni».
Cosa le fa più paura?
«Quella di Renzi è solo una politica degli annunci. La pressione tributaria non è diminuita. Nessuna semplificazione burocratica per le imprese e nessuna facilitazione per l’accesso al credito. Imsomma, zero segnali di ripresa, nonostante le belle parole. Lo sa quanto costano i ritardi nei pagamenti della Pa alle imprese?».
Quanto?
«Cinque miliardi di euro l’anno. Lo abbiamo calcolato nella nostra prima ricerca».
Lei ha votato Renzi?
«No, anche se all’inizio gli davo fiducia. Ma di riforme vere finora neanche l’ombra. Renzi è un politico di vecchio corso con una faccia da giovane. Ma noi l’abbiamo già invecchiato».