Ue alla svolta, ecco perché coordinare le riforme non è aggressione alla sovranità
Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore
Negli ultimi sette anni per sei volte gli europei hanno previsto una crescita maggiore di quella poi realizzata. Si dice che gli ottimisti vivano più felici, ma evidentemente in economia non funziona. Tra il 2008 e oggi la perdita di reddito dell’euro-area rispetto agli Usa è pari all’8% del Pil e molti milioni di posti di lavoro sono andati perduti. Dopo i dati di ieri, la revisione di quest’anno sarà tra le più ampie. Evidentemente ci illudiamo o vogliamo evitare misure eccezionali. Inoltre siamo abituati a utilizzare modelli che non colgono le interdipendenze economiche e le incertezze politiche nell’euro area. Ad esse infatti sono legati la debolezza degli investimenti e dell’export che stanno frenando tutte le maggiori economie dell’euro area.
Se tuttavia vogliamo proprio essere ottimisti, si può dire che le cattive notizie sull’economia arrivano al momento giusto. Il 30 agosto infatti i lavori del Consiglio Ue dei capi di governo riprenderanno sotto la sferza della recessione. Dopo aver risolto il puzzle delle nomine della Commissione (e ancora non mi capacito di come l’Italia stia rinunciando alla presidenza del Consiglio offertale su un piatto d’argento), i capi di governo discuteranno il dossier sui 300 miliardi di euro di investimenti annunciati dal nuovo presidente della Commissione Juncker. Fino a ieri quella di Juncker poteva essere una promessa elettorale, ora è una necessità vitale. Merkel, Renzi e colleghi dovranno decidere in quale modo finanziare l’ingente pacchetto, tra Bei, fondi strutturali od obbligazioni a progetto, e dovranno poi litigare su come destinare le risorse. E questo secondo capitolo promette di essere molto interessante.
La proposta di cui si sente parlare a Berlino è infatti di legare la disponibilità degli investimenti a «condizionalità» specifiche per il governo che riceve i fondi. In parole semplici, la realizzazione delle riforme strutturali diventerebbe la condizione per ottenere gli investimenti finanziati dall’Europa. Ci sono due metodi per far questo: assecondare il vecchio e criticato progetto della cancelliera Merkel di far stipulare accordi bilaterali tra il Paese richiedente e la Commissione Ue, oppure condividere la sovranità delle riforme strutturali. Nel primo caso alla fragilità economica corrisponde minorità politica. Nel secondo caso invece tutti i paesi crescono insieme coordinando le riforme: Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, ne aveva fatto cenno a maggio a un convegno della Bce; il ministro dell’Economia Piercarlo Padoan ne aveva già discusso con i colleghi a una riunione a marzo e poi in un articolo con il collega tedesco Wolfgang Schaeuble. Altri hanno parlato di un sistema di valutazione congiunta delle riforme strutturali. Il presidente della Bce, Mario Draghi, infine aveva suggerito a luglio di sottoporre le riforme dei singoli Paesi a «una disciplina a livello comunitario».
Alcuni giorni fa Draghi ha ripetuto l’idea della sovranità condivisa ma, per i meccanismi misteriosi del discorso pubblico italiano, si sono levati allarmi di aggressione alla sovranità nazionale. Il paradosso è che coordinando le riforme si fa esattamente il contrario: tutti i Paesi – non solo quelli deboli – procedono verso le stesse riforme negli stessi tempi e si scambiano esperienze e benefici. Un esempio concreto è venuto dall’Eurogruppo del 7 luglio che ha citato 11 Paesi – tra cui Italia, Germania e Francia – a cui chiede di ridurre il cuneo fiscale che grava sul costo del lavoro. I Paesi sono identificati dalla Commissione nelle “raccomandazioni specifiche” che essa ha elaborato e che sono sottoscritte dai capi di governo. Di arcane e oscure potenze nemmeno l’orrida ombra.
Non solo gli investimenti, anche la debolezza dell’export pongono a Merkel e Renzi un interrogativo politico. Buona parte dell’eccezionale crescita tedesca dal 2004 dipendeva dall’esorbitante privilegio di essere l’àncora dell’euro area: finanziandosi a bassi costi e investendo ad alto rendimento nella stessa valuta. Ridottosi questo privilegio con i rischi della crisi e poi con gli interventi della Bce, la crescita tedesca è rientrata nella normalità: 1,1% annuo dal 2013 a oggi. La Germania resta una delle poche economie che cresca al proprio reddito potenziale, ma il suo “limite di velocità” è basso ed esposto a rischi: nel 2014 l’export tedesco verso Usa e Cina sta aumentando del 7-10%, mentre crolla verso Turchia, Ucraina e Russia: il rischio “geo-politico” spiega dunque buona parte del calo del pil ed evidenzia le conseguenze economiche dell’assenza di una forte politica estera comune. L’economia dipende dunque dalla strategia politica europea. Il caso vuole che la presidenza Ue sia in mano italiana. È il momento di giocare bene questa formidabile mano di carte.