economia

L’export non è questione di buona volontà

L’export non è questione di buona volontà

Antonio Armellini – Corriere della Sera

Le esportazioni italiane tirano, ma non quanto sarebbe necessario, e l’internazionalizzazione del «Sistema Paese» arranca. Il mercato globale richiede tanto una forte capacità di organizzazione da parte delle imprese, quanto una visione strategica da parte dei governi: le parole chiave sono sinergie e gioco di squadra. Come stanno da noi le cose?

L’Italia ha una grande abbondanza di strumenti per il sostegno delle esportazioni. Ci sono le ambasciate, con compiti di supporto generale e di coordinamento; l’Istituto per il commercio estero (Ice) per le analisi di mercato e l’assistenza agli operatori; la Servizi assicurativi del commercio estero (Sace), per l’assicurazione crediti all’esportazione; la Società italiana per le imprese all’estero (Simest), per il sostegno agli investimenti esteri; le Camere di commercio estero. La catena di comando è barocca: ambasciate e Ice fanno capo rispettivamente al ministero degli Esteri e a quello dello Sviluppo economico; di Sace e Simest è stata decisa la privatizzazione e sono entrate nell’orbita della Cassa depositi e prestiti; le Camere di commercio hanno una propria struttura federale. Molti Paesi hanno un numero di strumenti pari, se non superiore, al nostro: essi dispongono in genere di risorse ben maggiori e possono sopportare il peso di qualche ridondanza che, in clima di spending review, non potremmo permetterci. La vera differenza sta nel fatto che, diversamente da noi, la prassi di mettere a fattor comune esperienze e risorse è da tempo consolidata.

Di razionalizzazione si è parlato per anni, ma lo scontro fra incrostazioni burocratiche e logiche corporative ha finito per portare a un nulla di fatto. Nel tentativo di por mano alla situazione il governo Monti ha dato vita a una «cabina di regia per l’internazionalizzazione» che, riunendosi almeno una volta l’anno, dovrebbe fissare le linee strategiche della nostra politica per l’esportazione. L’intenzione è lodevole, ma tradisce il vecchio vizio italiano di affrontare i problemi non già creando linee operative snelle, bensì creando comitati dal carattere consociativo in cui non si capisce bene chi faccia cosa. Alla «cabina di regia» partecipano tutti, dai ministeri alle associazioni industriali, dalle autonomie alle Regioni: quello che ne viene fuori è un’azione informativa magari utile ma non certo una indicazione effettiva di priorità.

Lasciando alla «cabina» la sua funzione di cornice, sarebbe urgente stabilire una linea di comando univoca all’interno: oggi, come detto, essa è divisa fra due ministeri, costantemente tesi alla reciproca sopraffazione, mentre il rapporto con le istituzioni finanziarie – Sace e Simest – rimane in un limbo affidato alla buona volontà dei singoli. La riforma Monti una tale catena l’ha creata, ma solo per l’estero, affidandola alle ambasciate. Basterebbe eliminare la discrasia fra i due modelli per evitare ambiguità e recuperare efficienza. Non importa tanto a chi debba incombere la responsabilità finale: quel che conta è che – in analogia con quanto stanno facendo i nostri partner – questa sia chiara.

Siamo rimasti uno dei pochissimi Paesi in cui il supporto pubblico all’export è gratuito, o quasi, e la cosa non ha più alcuna ragione di esistere. Quello che è gratis è ritenuto spesso senza valore: succede così che quando il servizio è inadeguato – e la cosa succede, ovviamente – viene accettato come il portato delle carenze del settore, con il risultato di aggravarne le inefficienze. È necessario far pagare le attività di supporto agli operatori, a prezzi di mercato: otterremmo da un lato un miglioramento – necessario – della qualità e, dall’altro, una presa di coscienza del fatto che il supporto pubblico non è una concessione del sovrano ma un diritto del cittadino. Il gioco di squadra non riguarda solo il pubblico. L’«effetto chioccia» comune in tanti Paesi a partire dagli Usa – per cui le grandi multinazionali fanno da traino con le loro commesse a interventi a cascata di piccole e medie imprese che, da sole, non avrebbero alcuna possibilità – è da noi praticamente sconosciuto. I pochi grandi gruppi rimasti – Eni, Fiat (ma l’Iri dei tempi d’oro non era da meno) – hanno sviluppato diplomazie parallele, in autonomia e talvolta in contrasto con quella istituzionale, e l’idea di favorire l’inserimento complementare di altre imprese – quando non appartengano al loro stesso gruppo – non fa parte del loro lessico industriale.

Ci siamo cullati per anni con «piccolo è bello», nella convinzione che la flessibilità delle nostre piccole e medie imprese bastasse a garantirne il successo, ma la sfida della globalizzazione richiede dimensioni adeguate. Le nostre imprese sono perlopiù restie a unire gli sforzi, così come da tempo fanno i loro concorrenti, e finiscono spesso per ingaggiare lotte sfibranti fra loro sui mercati esteri per poi cedere, esauste, a concorrenti stranieri che hanno saputo consorziarsi. È stupefacente che il Paese che ha inventato i distretti industriali – nati per sfruttare al meglio le sinergie produttive – non sia stato capace di riprodurre questo modello al di là dei confini della provincia o, al massimo, della regione. C’entrano la nostra storia, la diffidenza nei confronti dello Stato visto come alieno, il peso dei localismi e l’individualismo della nostra società. L’uomo con la ventiquattrore della nostra mitologia industriale ha comunque fatto il suo tempo: potrà ogni tanto mettere a segno qualche colpo, ma andare oltre sarà vieppiù difficile. Pubblico e privato devono imparare a muoversi sempre più in maniera coordinata, per affrontare una concorrenza che non è agguerrita solo nei mercati emergenti, ma anche in quelli dove l’Italia ha occupato tradizionalmente posizioni di forza.

Non basta più tirare a campare

Non basta più tirare a campare

Giuliano Cazzola – Il Tempo

Quando Giulio Tremonti, ancora “folgorante in soglio”, osò affermare che con la cultura non si mangia, fu subissato giustamente di critiche. Eppure, adesso, tutti sembrano voler credere che la manomissione del Senato potrà risolvere i problemi dell’economia e riavviare uno sviluppo che non decolla. Del resto, che cosa possiamo aspettarci da un premier che, pochi giorni or sono, ha dichiarato: «Che la crescita sia dello 0,30, dello 0,80 o dell’1,5% non fa alcuna differenza per le persone»? Oggi l’Istat farà la fotografia dei principali indicatori economici del Paese. Come reagirà il governo se i trend saranno – come si teme – peggiori del previsto? Molti dei nodi dei nostri problemi possono essere sciolti a Bruxelles. Ma il governo italiano è davvero impegnato, grazie al turno di presidenza, a mettere in cantiere nuove regole e politiche innovative o si accontenta di sistemare Federica Mogherini al posto di Lady Pesc, soltanto per avere l’occasione di un giro di poltrone in patria? Certo, è in arrivo la conversione in legge del decreto competitività che dovrebbe sbloccare finanziamenti in opere pubbliche, ma il Jobs act è slittato in autunno. E la questione dimenticata del Mezzogiorno? L’economia sommersa ha un peso decisivo in quelle realtà. E riesce a taroccare anche le statistiche sull’occupazione. L’evasione fiscale è la condizione per la sopravvivenza di pezzi di economia. Non sarà, allora, che la società meridionale non è in condizione di attenersi a regole, anche contrattuali, forzatamente uniformi? Tutti ne siamo consapevoli; ma piuttosto che accettare una realistica diversificazione, al limite del dumping sociale, preferiamo chiudere un occhio e tirare avanti così.

Così stato e banche ammazzano le imprese: i pagamenti in ritardo costano 6 miliardi l’anno e le aziende che si fidano finiscono in rovina

Così stato e banche ammazzano le imprese: i pagamenti in ritardo costano 6 miliardi l’anno e le aziende che si fidano finiscono in rovina

Carola Olmi – La Notizia

Pagare paga. Ma saldando i suoi debiti in tempi biblici, alla fine la Pubblica amministrazione genera un costo mostruoso per i suoi fornitori: sei miliardi l’anno; 30 miliardi tra il 2009 e il 2013. Una media del 4,2% sul fatturato che se ne va fissa solo per farsi anticipare le fatture dalle banche o per far fronte con mezzi propri ai ritardi nel saldo di quanto dovuto. Secondo un rapporto del Centro Studi ImpresaLavoro, siamo di fronte a un furto in piena regola, che insieme alla stretta creditizia sta condannando ormai da anni migliaia di imprese sane a chiudere i battenti. Aziende la cui unica colpa è stata fidarsi dello Stato o degli enti locali per i quali hanno lavorato. In quelle gare vinte districandosi spesso tra richieste di tangenti e burocrazia, c’era infatti un costo occulto che non ha pari in Europa. Se per far fronte al ritardo dei pagamenti le imprese di casa nostra devono sacrificare quasi il 5% dell’intero fatturato (sempre che le banche facciano la loro parte) l’incidenza di questi stessi costi è pari a 4 volte meno per le attività omologhe francesi e 7 volte meno per quelle tedesche.

Nonostante il problema sia arcinoto al Governo, che si era impegnato ad accelerare i pagamenti senza però mantenere fino in fondo la promessa, il ritardo nei pagamenti ai fornitori e i debiti fuori bilancio della pubblica amministrazione continuano ad assumere un’urgenza crescente. A questo contribuiscono il peggioramento delle condizioni economiche generali, in particolare quelle delle imprese e il crescente fabbisogno finanziario sia dello Stato, sia degli enti territoriali. I ritardi nei pagamenti hanno iniziato ad accumularsi sia in termini di tempo che di quantità molto prima che il fenomeno fosse riconosciuto e definito come emergenza economica.

Secondo uno studio di Intrum Justitia (2013) i pagamenti del committente pubblico italiano arrivano in media dopo 170 giorni dal ricevimento della fattura, mentre i fornitori privati di norma pagano dopo 60 o 90 giorni a seconda dei termini concordati. Questo mismatching di uscite ed entrate aggrava la situazione finanziaria di migliaia d’imprese esponendole nei casi più gravi al rischio default. Il fenomeno ha assunto rilevanza maggiore a seguito dell’attuale congiuntura economica, poiché ha condotto a un progressivo aggravio della situazione di liquidità delle imprese in anni di severa restrizione del credito bancario. Nonostante le dimensioni e la rilevanza del fenomeno, allo stato attuale non esiste però una stima precisa dei debiti della nostra pubblica amministrazione verso le imprese. Secondo l’Istat la stima relativa al 2011 indicava un ammontare di 67,3 miliardi (62,5 miliardi nel 2010) di crediti commerciali delle imprese fornitrici della Pubblica amministrazione. Ma un’altra rilevazione condotta da Emanuele Padovani (2013) in collaborazione con Bureau Van Dijk, stima un’ammontare di residui scaduti interni ai bilanci di comuni, province e regioni di 136,9 miliardi. Banca d’Italia, che utilizza un’ulteriore metodologia per le sue stime, basandosi sulle rilevazioni campionarie dell’indagine Invid, nella rilevazione più recente (2011) prevede un ammontare di 91 miliardi (erano 84 nel 2010).

Che abbia ragione l’Istat o la Banca d’Italia, si tratta comunque di moltissimi soldi che finiscono per sottrarre capitale alle imprese. L’ammontare dei crediti commerciali infatti costituisce uno degli elementi fondamentali di fabbisogno di capitale circolante. Per farvi fronte, secondo un’indagine del 2013 dell’Ance (i costruttori), le aziende hanno fatto ricorso all’anticipo fatture in banca (72% del campione), nonché all’apertura di credito in conto corrente (22%), il 20% ha richiesto un finanziamento “a breve”, e il 18% complessivo ha provveduto a cedere (pro-soluto o pro-solvendo) il credito. Ma per le imprese costrette a usare lo scoperto di conto corrente senza affidamento, ovvero senza l’autorizzazione della banca (e sono sempre più numerose), il costo del finanziamento è stato nettamente superiore. Sei miliardi l’anno bruciati. E per tanti anche la beffa del fallimento.

C’è chi dice no, ecco chi ferma l’Italia

C’è chi dice no, ecco chi ferma l’Italia

Filippo Caleri – Il Tempo

Sono i più fieri avversari del cambiamento. Si oppongono sempre e comunque a qualunque riforma. Sono i sindacati italiani che spesso, in nome di difese corporative, si confrontano con le istanze di categorie nuove e con la complessità degli interessi da rappresentare. È il partito del «no», che non sperimenta soluzioni innovative e perpetua vecchi modelli di gestione delle relazioni industriali, facendo male a se stesso e al Paese. Con conseguenze per gli stessi lavoratori. L’inchiesta de Il Tempo ha preso in esame gli ultimi dossier economici passati al vaglio di Parlamento e governo. Ebbene, in ognuno di questi non è mai mancato l’atteggiamento pregiudiziale di chiusura verso ogni tipo di cambiamento. Una breve disamina, senza nessuna pretesa scientifica, che dimostra però come esista in Italia un autentico blocco di conservazione e resistenza al cambiamento.

Il partito del «Niet»
Un blocco che è in realtà trasversale ai vari schieramenti politici, ma nella cui composizione sono fortemente rappresentati i sindacati confederali Cgil, Cisl, Uil e una miriade di associazioni datoriali, dalle più grosse a quelle di particolari settori. Da loro tanti e reiterati sono stati i dinieghi nonostante i richiami degli organismi internazionali, della Bce e di Bruxelles, per riforme incisive in grado di aumentare la competitività del Sistema Italia. Una regola, quella del «mettersi di traverso», che ha portato un solo risultato: Italia paese del Gattopardo, nel quale si fa finta di cambiare ma alla fine non cambia nulla. Dalla riforma del lavoro alla legge sulla rappresentanza, dal blocco dell’aumento Iva allo spostamento della tassazione dal lavoro alle cose, ci sono almeno 20 cambiamenti che, negli ultimi anni, sono stati stoppati o svuotati, dal fuoco di veti incrociati provenienti dalle parti sociali.

La tattica
La lunga sequela di stop, rallentamenti, no mascherati, apre, sul cambiamento dell’Italia, una contrapposizione continua. Si adotta una tecnica dilatoria che allontana la soluzione e che si avvale dei bizantinismi usati nelle relazioni tra padroni e operai nel ’900. Un mondo, allora chiuso, stretto tra barriere nazionali e che oggi non esiste più. La dinamica lineare ha lasciato il posto alla «complessità» per dominare la quale gli strumenti e le logiche del passato non sono più adeguati. Resta ancora in auge, anche se in lento declino, l’ultima eredità della fine del secondo millennio. Il «compromesso» che spesso lascia le cose più o meno al punto di partenza. Ognuno fa il proprio mestiere e le rappresentanze hanno il diritto legittimo a tutelare gli interessi dei loro rappresentati. Ma attenzione, spesso, troppo spesso, per proteggere gli interessi di pochi si perdono le opportunità di modernizzazione ineludibili.

Cgil campione di no
Il partito del Conserva Italia non ha un colore definito, è liquido, permeabile, si spacca e si ricompatta a seconda delle convenienze. Ma la predominanza del «no preventivo» è congeniale alla Cgil. Che si mette puntualmente di traverso quando si tentano di modernizzare le norme in qualunque settore economico. Il sindacato guidato da Susanna Camusso ha detto no su quasi tutto. Dalla costruzione del Ponte di Messina (scelta che avrebbe anche motivate ragioni visto la sostenibilità economica dell’opera) alla flessibilità per facilitare l’ingresso al lavoro dei più giovani. La stessa confederazione si è dichiarata contraria anche al Job Acts che ha in parte aggiustato alcune storture introdotte dalla riforma Fornero. No anche all’utilizzo delle prove Invalsi nelle scuole italiane (metodo di confronto dei rendimenti scolastici che ci avvicina ai partner europei) e al taglio delle province. Così come alle dismissioni dei beni statali per l’abbattimento del debito pubblico. E non è da dimenticare il rifiuto al piano degli esuberi di Alitalia che ha messo a rischio la fusione della compagnia italiana con gli arabi di Etihad.

Compagni di viaggio
La Cgil non è però la sola a mostrare forti resistenze al cambiamento. Il «virus» della conservazione colpisce innanzitutto i compagni di viaggio della Cgil e cioè la Cisl e la Uil. Anche loro, con opportuni distinguo, sono sempre pronti a cavalcare il destriero del rallentamento per i provvedimenti di cambiamento. Fronte compatto delle tre sigle per norme che rappresentano una delle riforme più richieste dagli italiani come la mobilità obbligatoria nella pubblica amministrazione e per l’abolizione del Cnel.

Le associazioni
Non sono solo i sindacati a dire no e a opporsi ai tentativi di riforma. Insieme a loro, brillano per resistenza alle liberalizzazioni e alle norme anti corporazioni, tanti altri soggetti. Dai commercianti ai vescovi della Cei, ma anche farmacisti e balneari. Tutti pronti a erigere muri. Il caso emblematico è la riforma del mercato del lavoro, nata male e trasformata in peggio per la paura di stravolgere le protezioni oggi esistenti solo per chi lavora. Ebbene, doveva ridurre le tipologie contrattuali, la complessità dell’impianto normativo e introdurre i licenziamenti economici. Ad alzare le barricate le Pmi di Rete Imprese Italia sul primo punto, e quelle dei sindacati sul secondo. Stop che hanno prodotto una legge che non raggiunge quanto richiesto dai mercati: sui licenziamenti economici, dicono i giudici, non è cambiato quasi nulla. E la giungla di contratti non è stata disboscata.

Le professioni
Poca fortuna hanno avuto anche le liberalizzazioni delle professioni. I paletti posti dai sindacati delle categorie di farmacisti, notai e avvocati, l’hanno resa monca in partenza. Altro dossier e solito no, anche questo trasversale, sugli orari di apertura delle attività commerciali. Considerazioni economiche si scontrano con ragioni etiche. Così da una parte si sono schierate Confesercenti e Cei, dall’altra la Federdistribuzione. Una consuetudine che in altri paesi è la norma, con catene commerciali, aperte 24 ore su 24 ore per 365 giorni l’anno, in Italia è un tabù. La discrasia tra volontà di cambiamento e conservazione si ritrova nei tagli alla spesa statale: tutti d’accordo. Ma solo in via di principio. Poi prevalgono i no sindacali. Perfino sul taglio delle province sono arrivate le chiusure. La categoria Funzione Pubblica di Cgil si è opposta, così come l’Api che rappresenta gli enti.

Infratrutture
È uno dei campi preferiti nei quali si esercita il potere di veto dei sindacati. La Camusso, ad esempio, non è contraria alla Tav Torino-Lione. Ma ha sempre espresso una netta contrarietà alla costruzione del Ponte di Messina. Con Cisl e Uil, poi, il fronte è compatto per contrastare la costruzione di una centrale Centrale a biogas a Bertinoro tra Forlì e Cesena. Per tutte e tre le sigle è una scelta incompatibile con la vocazione turistico termale del territorio. La motivazione – spiegano le tre sigle – non è quella di una contrarietà a priori ma di una posizione di merito, legata principalmente alla scelta di quel territorio e alla mancanza di chiare garanzie sull’impatto ambientale». Per i sindacati l’approvvigionamento energetico non è una priorità.

Il fisco
Persino la grande battaglia contro l’evasione, che vede tutti d’accordo sull’obiettivo, non trova sintonia sui mezzi per contrastarla. Sul Durt – il documento unico di regolarità tributaria – tutte le associazioni di imprese hanno fatto la guerra. No corale anche per sulle norme di semplificazione che danneggiano i Centri di Assistenza Fiscale, i Caf, da cui sindacati e associazioni di imprese ricavano circa la metà degli introiti.

Il caso Alitalia
È l’esempio più recente ed emblematico di come il sindacato del «no» possa arrivare anche a far rischiare di naufragare una trattativa aziendale delicata in nome della conservazione dei posti anche quando l’azienda non è più in grado di remunerarli. Così nonostante il via libera della società all’arrivo di Etihad nel capitale sociale, le divisioni dei sindacati che si sono arroccate rispetto alla chiusura dell’accordo hanno fatto avvicinare pericolosamente Alitalia al fallimento. All’ostinazione della Cgil a non mollare sugli esuberi dei lavoratori si è aggiunta anche la Uil che ha puntato i piedi sul rinnovo contrattuale e sui piani di risparmio contrattati con i vertici aziendali. Divergenze rientrate ma che hanno messo in evidenza quanto ancora forte sia il potere di interdizione delle organizzazioni confederali nei processi di ristrutturazione aziendale.

La lezione Fiat
Nonostante la forza residuale il sindacato italiano non è più una parte attiva nel processo di governo dell’economia. Questo a causa della complessità connaturata ai mercati del mondo d’oggi. Il caso di scuola è quello della Fiat che ha compreso anzitempo l’impossibilità di reggere così come strutturata in Italia la competizione internazionale. Se n’è andata e ha lasciato i sindacati in balia di loro stessi. Un atteggiamento, quello di Marchionne, dettato dal fatto che oggi è il mercato che detta le regole e non più le corporazioni. La velocità di trasformazione del mondo industriale ha reso vetusti gli strumenti sindacali di un tempo. La concertazione è di fatto ridotta a una rappresentazione di interessi al tavolo delle trattative. Vecchi metodi per un nuovo mondo. Il no preventivo sta perdendo la sua forza. Forse è il momento di ripensare il sindacato in un’ottica più moderna.

E ora sistemate i conti

E ora sistemate i conti

Francesco Forte – Il Giornale

Adesso il premier Renzi non ha alibi per dilazionare le riforme economiche. Vi aveva anteposto la ambiziosa (e in parte opinabile e perfettibile) riforma costituzionale che ridimensiona il Senato e ridà allo Stato poteri che ora condivide con le «autonomie» regionali e comunali, con conseguenti veti e dilazioni. L’ostruzionismo alla riforma costituzionale dei nemici casalinghi di Matteo, che lo stava impelagando, è caduto non solo perché Ferragosto incombe, ma soprattutto a causa del supporto di Berlusconi. Ora Renzi ha la bici con la gomma davanti sgonfia: e dal primo settembre deve pedalare sulla strada delle riforme economiche. I tempi sono stretti, perché da ottobre l’Italia è sotto esame della Commissione europea, con la Merkel che l’attende al varco. Ma in primo luogo perché la Spagna ha ripreso a crescere, come l’Irlanda, mentre noi stentiamo. E ciò genera un debito altissimo, in rapporto al Pil: sfiora il 135 per cento. Berlusconi dovette dimettersi perché il rapporto debito/Pil nel 2011 era al 118% e poteva salire a 120. Fra Monti, Letta e un pochino di Renzi, in 32 mesi, lo hanno fatto crescere di 15 punti: quasi mezzo punto di Pil al mese, un bel record. Ciò è dovuto a una terapia errata fatta di maggiori imposte, in particolare sul risparmio e su chi fa più fatica e ha più meriti nel guadagno. Ciò doveva far quadrare il bilancio e ridurre il rapporto debito/Pil. Ma questo tipo di politica fiscale (con annessa guerra ideologica all’evasore vero, presunto o potenziale) ha generato depressione anziché crescita. La ripresa non c’è anche perché a queste errate scelte si sono aggiunte la riforma Fornero del mercato del lavoro che lo ha irrigidito e una politica populista e insieme neomercantilista fatta di bonus discriminati a lavoratori a basso reddito e di premi fiscali a favore di singoli settori di imprese o di singoli tipi di investimenti. E non si è privatizzato nulla. Agli eccessi di giustizialismo non si è risposto con semplificazioni e depenalizzazioni, ma con nuovi commissari. Anche Renzi ha fatto alcuni di questi peccati. Ma ha iniziato alcune riforme e prese di posizione contro lo strapotere dei sindacati e contro la adozione dei tecnocrati come surrogato alla responsabilità di chi governa. Ora che ha questa bicicletta, Renzi pedali. La più urgente riforma riguarda il mercato del lavoro. Una drastica, a modo suo, l’ha fatta la Spagna. Ed ora essa riparte bene, anche con nuove fabbriche estere di auto. Invece Fiat se ne va dall’Italia, innanzitutto perché incontrano veti e inghippi i contratti di lavoro aziendali Marchionne: un modello che essa adotta a Detroit e altrove in America. Si dia piena validità a questi contratti, anche se ciò dispiace alla Camusso e al capitalismo neocorporativo, che si intreccia con sindacato in cambio di favori di Stato. Occorre anche il ripristino delle partite Iva e di altri contratti della legge Biagi abrogati da Monti. Bisogna eliminare tutta l’Irap sui costi del lavoro. Le Regioni possono avere un contributo sanitario regionale equivalente, riducendo i contributi previdenziali diversi da quelli per pensioni e invalidità: costa 12 miliardi; lo si può fare in tre anni. Bisogna tagliare selettivamente la spesa improduttiva. Ciò a partire dalle sovvenzioni sia correnti che di investimento alle 8mila imprese pubbliche. L’investimento in infrastrutture si può fare meglio con un maggior ricorso a mercato. Sono da sfoltire anche le sovvenzioni ai privati. Riforme già note: non occorrono commissari e dossier. Renzi non ha più argomenti per evitare tali «compiti»: se i suoi non lo sosterranno, sa a chi può chiedere il voto.

GIUSEPPE PENNISI (Presidente Board Scientifico): serve un cambio di passo

GIUSEPPE PENNISI (Presidente Board Scientifico): serve un cambio di passo

Il Documento del Centro Studi Impresa Lavoro tratta, in modo originale, un tema non nuovo: gli effetti drammatici dei ritardi dei pagamenti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese sulla competitiva complessiva del sistema produttivo  italiano. Sono state proposte varie soluzioni. Il Documento ne delinea le principali.
Ma, nonostante , in seguito ad accordi con il resto della maggioranza e con il maggiore partito di opposizione, il Governo attualmente in carica abbia adottato misure per affrontare il problema, si tratta di provvedimenti parziali, la cui applicazione è molto più lenta di quanto anticipato dall’Esecutivo medesimo.
Se non c’è un cambiamento di passo, gli esiti non saranno positivi: sotto il profilo micro-economico molto imprese si troveranno in serie difficoltà tanto da dover chiudere i battenti, sotto il profilo settoriale si rischia la sparizione di interi settori prodottivi, sotto il profilo macro-economico, aumenta il pericolo di deflazione e prolungata recessione ove non depressione con un aumento del disagio sociale.
Giuseppe Pennisi, Presidente del Board Scientifico del Centro Studi ImpresaLavoro
NASCE IMPRESALAVORO: ridare voce a chi fa impresa

NASCE IMPRESALAVORO: ridare voce a chi fa impresa

Si chiama ImpresaLavoro e punta ad essere un centro studi di respiro nazionale e di ispirazione liberale, capace di “rimettere al centro del dibattito i temi dell’economia e del lavoro”. L’idea è dell’imprenditore udinese Massimo Blasoni che ha presentato oggi, anche su alcuni quotidiani nazionali, la sua ultima iniziativa. Il nome già dice molto perché, come scritto nella presentazione del Centro Studi, “le difficoltà che attraversa l’impresa italiana sono anche le difficoltà dei lavoratori italiani”, due mondi questi che rappresentano “le componenti fondamentali del nostro tessuto produttivo”.
Per Blasoni l’obiettivo è duplice: “da un lato – spiega – far parlare di economia chi l’economia la fa davvero riportando l’attenzione sui temi che veri che riguardano il nostro paese: c’è davvero qualcuno che pensa che i tanti giovani disoccupati o le partite iva che stanno chiudendo per colpa di una crisi senza precedenti siano interessati a conoscere le modalità di elezione dei nostri senatori? Credo piuttosto che dovremmo occuparci  con maggior attenzione di quel che davvero soffoca il nostro paese: burocrazia, tasse, regole che scoraggiano gli investimenti”. Poi c’è l’aspetto politico: “il centro nasce anche come luogo di aggregazione dei tanti ancora convinti che la ricetta liberale in economia sia la migliore e che si possa fare di più e meglio di quel che sta facendo Renzi: il debito continua a correre, la spesa pubblica cresce senza freno, le tasse hanno toccato livelli record. E’ difficile dire che il Presidente del Consiglio, politico da sempre, abbia la reale percezione di quel che sta accadendo nel paese”.
 Per “svegliare” la politica ImpresaLavoro produrrà ricerche e studi sul quadro economico italiano ed europeo, svolgerà un attento fact-checking sui provvedimenti economici del governo e soprattutto farà parlare gli imprenditori, attraverso focus mirati sui problemi di chi fa impresa in Italia. E proprio sul tema del rapporto tra Imprese e Pubblica Amministrazione si concentrerà il primo studio, in uscita il 4 Agosto.
A dirigere il centro ci sarà un altro udinese, Simone Bressan, mentre tra il board scientifico spiccano nomi di assoluto rilievo: Giuseppe Pennisi (economista, membro del CNEL ed editorialista), Salvatore Zecchini (Tor Vergata), Luciano Pellicani (Luiss di Roma) e Cesare Gottardo (Università di Udine). Accanto a loro un team di ricercatori per la parte relativa alla finanza d’impresa  e da Carlo Lottieri (Istituto Bruno Leoni) per l’ambizioso progetto di un atlante fiscale europeo.
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Debiti Commerciali della Pubblica Amministrazione: confronto con gli altri paesi europei. 

Ammontare debiti commerciali

Debiti Commerciali della Pubblica Amministrazione in rapporto al Pil: confronto con gli altri paesi europei. 


Debiti commerciali pil

 

Giorni medi per il pagamento dei debiti commerciali della Pubblica Amministrazione: confronto con gli altri paesi europei. 

Giorni di pagamento

 Costi a carico delle imprese italiane.  

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I governo sbaglia i conti, tutte le tasse in arrivo

I governo sbaglia i conti, tutte le tasse in arrivo

Renato Brunetta – Il Giornale

Se anche Eugenio Scalfari invoca la Troika, ancorché nella versione buona (per una politica economica espansiva, e non restrittiva), vuol dire che le cose vanno proprio male per l’economia italiana. Se è vero che il problema è di tutta l’eurozona, l’Italia è comunque il fanalino di coda: basta fare il confronto con Grecia e Spagna, che fino a un anno fa erano messe peggio di noi.

Questo vuol dire che l’Italia, dal governo Monti in poi, ha sbagliato tutto. Con l’aumento stellare della tassazione casa (triplicata); la controriforma del mercato lavoro; la riforma sbagliata delle pensioni; l’aumento della pressione fiscale su famiglie e imprese, per quanto riguarda Monti e Letta. E con il riformismo confuso, impotente, clientelare, inadeguato del governo Renzi: basti pensare al Jobs act; alla controriforma Madia della Pubblica amministrazione; allo sconquasso dei conti pubblici causato dal “bonus Irpef” di 80 euro; alla Spending review impantanata e alla svendita, senza logica e senza un piano, dei propri gioielli di famiglia (si veda, da ultimo, la cessione del 35% del capitale sociale di Cdp Reti, che contiene il 30% di Snam e il 29% di Terna, al gruppo che controlla le reti energetiche cinesi). Su quest’ultimo punto, del programma di dismissioni del ministro Vittorio Grilli, per un punto di Pil, pari a 16 miliardi, si è persa traccia. Così come restano ad oggi irrealizzati gli 11 miliardi all’anno di dismissioni contenuti nel Def 2014 di Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan.

In quasi 3 anni, passati invano, 3 distinti governi, tutti caratterizzati dal fatto di non essere stati eletti dal popolo, non hanno voluto, o non sono stati capaci di fare le cose che si dovevano fare, guarda caso contenute nella lettera che il 26 ottobre 2011 il governo Berlusconi inviò, ricevendo tanti applausi, ai presidenti di Commissione e Consiglio europeo. Misure di modernizzazione e rilancio dell’economia italiana in parte approvate a novembre 2011 con il maxiemendamento alla Legge di stabilità per il 2012 (ultimo atto del governo Berlusconi), ma poi, purtroppo, a causa dei tanti cambi di esecutivo, non attuate (si pensi alla mobilità obbligatoria per il pubblico impiego). Oggi le cose da fare sono chiare a tutti, perfino a Eugenio Scalfari, che invoca la Troika, delegittimando, di fatto, Renzi.

I dati parlano chiaro: per mantenere gli impegni presi con l’Europa nel 2014 mancano tra 29 e 32 miliardi di euro. E per mantenere le promesse che Renzi ha fatto agli italiani bisognerà trovare altri 37 miliardi nel 2015.

IL PIANO BERLUSCONI PER USCIRE DALLA CRISI

1) Attacco al debito pubblico ed elezione diretta del presidente della Repubblica: due facce della stessa medaglia, per una strategia credibile

Innanzitutto, per sopperire alla più grave debolezza italiana e rafforzare la nostra posizione in Europa, si rende necessario, dunque, un intervento straordinario, ma duraturo, di aggressione del debito pubblico. Una riduzione strutturale del debito sovrano dell’ordine di 400 miliardi (circa 20-25 punti di Pil) in 5 anni: 100 miliardi derivano dalla vendita di beni pubblici per 15-20 miliardi all’anno (circa 1 punto di Pil ogni anno); 40-50 miliardi (circa 2,5 punti di Pil) dalla costituzione e

cessione di società per le concessioni demaniali; 25-35 miliardi (circa 1,5 punti di Pil) dalla tassazione ordinaria delle attività finanziarie detenute all’estero (5-7 miliardi all’anno); 215-235 miliardi dalla vendita di beni patrimoniali e diritti dello Stato disponibili e non strategici ad una società di diritto privato, che emetterà obbligazioni con warrant. Altro che svendite per fare cassa. Il segnale strategico che si vuol dare con un piano di questo tipo è quello di aumentare l’efficienza, la produttività e la competitività dell’economia italiana; ridurre il peso dello Stato; liberare risorse oggi patologicamente impiegate per il servizio del debito. Vendita del patrimonio pubblico immobiliare, al centro come in periferia, liberalizzazioni e privatizzazioni delle Public utilities, riduzione del peso delle industrie pubbliche, sdemanializzazione nel territorio, emersione del sommerso, per trasformare il capitale morto, come direbbe l’economista peruviano Hernando De Soto, in capitale vivo. E per avere, come vedremo, lo spazio necessario e sufficiente per ridurre la pressione fiscale su famiglie e imprese, innescando così il circuito virtuoso meno debito-meno tasse-più crescita.

Ma l’attacco stabile e duraturo al debito pubblico, da solo, non basta: per scongiurare l’incertezza e l’ingovernabilità e per avere un’Italia credibile in Europa e sui mercati finanziari, ad esso occorre

accompagnare una parallela verticalizzazione delle istituzioni, che preveda l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e assicuri una guida stabile e democraticamente legittimata alla politica italiana. Altro che l’attuale riforma del Senato. Attacco al debito ed elezione diretta del presidente della Repubblica: due facce della stessa medaglia. Un doppio segnale fortissimo. L’operazione nel suo complesso avrebbe in sé tutta la forza, tutta l’etica, di una vera rivoluzione: si avvierebbe

finalmente un meccanismo positivo di modernizzazione del paese per essere europei a 360 gradi, che i mercati non potrebbero non apprezzare, sia da un punto di vista finanziario sia da un punto di vista di credibilità politico-istituzionale. Un grande, decisivo investimento collettivo nel senso di dare certezze, agli italiani innanzitutto, ai nostri severi (ed egoisti) partners europei, ai mercati, per tirare fuori il paese dalla crisi, dal pessimismo, dall’autolesionismo, dai suoi errori e dalle sue strutturali inefficienze: debito e cattiva politica. Una grande occasione non solo per l’Italia, maanche per tutte quelle forze politiche e sociali che se ne faranno interpreti.

2) Riduzione della pressione fiscale

Una volta avviato il piano di riduzione strutturale del debito pubblico, andrebbe parallelamente avviato un grande piano di riduzione della spesa pubblica, destinando le risorse così ottenute alla riduzione, di pari importo, della pressione fiscale. Nel programma elettorale 2013 della coalizione di centrodestra, che 10 milioni di italiani hanno votato, Berlusconi ha proposto di ridurre di 80 miliardi in 5 anni (16 miliardi all’anno) la spesa pubblica corrente (attualmente pari a circa 800 miliardi) e di ridurre di pari importo la pressione fiscale. Con l’ambizioso obiettivo di portare la nostra economia a crescere a un ritmo di almeno il 2%, stimolando così i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese. Con più gettito e più risorse per gli ammortizzatori sociali. Quindi più benessere. Se si riduce di 16 miliardi all’anno la spesa pubblica, di pari importo andrebbe ridotta la pressione fiscale, con provvedimenti per 8 miliardi all’anno a favore delle famiglie e per altri 8 miliardi all’anno a favore delle imprese. Il tutto per portare, in 5 anni (durata di ogni legislatura) dal 45% al 40% la pressione fiscale in Italia.

3) La politica economica europea

Questa è la vera Spending review: attacco strategico e strutturale al debito pubblico, taglio strutturale della spesa corrente, e pari riduzione della pressione fiscale per le famiglie e per le imprese. Cui aggiungere la richiesta, a livello europeo, non di una generica “maggiore flessibilità”, che non porta a niente, ma di una nuova politica economica nell’intera area dell’euro. A partire dalla reflazione in Germania; le riforme simultanee in tutti gli Stati dell’eurozona; l’accelerazione sulle 4 unioni: bancaria, di bilancio, politica e economica (significa Euro bond, Union bond, Stability

bond, Project bond). Solo in questo modo potranno crearsi le condizioni per consentire alla Banca centrale europea di utilizzare al massimo gli strumenti di politica monetaria previsti dal suo Statuto. Fino al Quantitative easing all’europea, di cui abbiamo tanto bisogno. Anche per deprezzare l’euro di almeno il 20%, in modo tale da far riacquistare competitività all’intera eurozona. E per questa strada “domare” i mercati.

4) Riforma del mercato del lavoro, Tfr in busta paga e pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione

Infine, la riforma del mercato del lavoro. Tutto parte dalla lettera della Bce al governo italiano del 5 agosto 2011, ove, pur riconoscendo gli sforzi dell’esecutivo Berlusconi sul tema e, in particolare, la giusta direzione in cui andava l’accordo del 28 giugno 2011 tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali, si chiedeva l’introduzione di una vera flessibilità nel mercato del lavoro, attraverso “un’ulteriore riforma del sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi a livello di impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”, nonché “un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”.

Realizziamo questi due punti, fondamentali per far funzionare veramente il mercato del lavoro, e avremo il plauso non solo dell’Europa e dei mercati, ma soprattutto dei nostri giovani, delle nostre famiglie, delle nostre imprese. A tutto questo andrebbe aggiunto uno stimolo immediato per riportare liquidità (fino a 6 miliardi di euro) nelle casse delle imprese e nelle tasche dei lavoratori, da un lato riassegnando alle aziende con più di 50 dipendenti la quota di Tfr non utilizzata per la previdenza complementare (attualmente accantonata presso l’Inps), dall’altro consentendo a tutti i

lavoratori di poter reclamare, in costanza di rapporto di lavoro e senza doverla giustificare, una anticipazione fino al 100% del proprio Trattamento di fine rapporto. Per quanto riguarda le imprese, il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione, per i 64 miliardi ad oggi restanti, fornirebbe ulteriore liquidità, di cui mai come oggi c’è bisogno. Insieme al Tfr, una manovra espansiva di politica economica.

Questo è il piano Berlusconi contro l’autunno nero che verrà. Renzi lo adotti per uscire dalla crisi. Se c’è stato e c’è ancora dialogo sulle riforme istituzionali, per le quali l’apertura di credito del presidente Berlusconi nei confronti del presidente Renzi è stata grande e generosa; e se la riforma elettorale è ancora in discussione (anche se dobbiamo ricordare che la gente non vive né di riforma del Senato né di riforma elettorale), dopo il fallimento della sua strategia di politica economica, Renzi mostri la stessa generosità che con lui ha avuto Berlusconi in tema di riforme costituzionali. Adotti il suo piano. Uno scambio alla luce del sole, per il bene del paese.

CARLO LOTTIERI: Stato-Imprese, un rapporto da ripensare

CARLO LOTTIERI: Stato-Imprese, un rapporto da ripensare

Come evidenzia lo studio di ImpresaLavoro, nel corso degli ultimi anni le imprese fornitrici della pubblica amministrazione italiana hanno subito un danno annuo di circa 6 miliardi a causa dei ritardi nei pagamenti. Si tratta di una cifra altissima, che ci pone al primo posto in questa speciale classifica europea, ma tutto ciò obbliga a fare due considerazioni.
In primo luogo, l’Italia resta ben lontana da ogni regola elementare del rule of law e dello Stato di diritto. La struttura pubblica non si ritiene vincolata al rispetto di quelle regole che i privati devono osservare. In altre parole, il mortificante trattamento subito dalle aziende fornitrici è la riprova del fatto che lo Stato impone regole che esso stesso non ritiene di dover rispettare. In secondo luogo, è chiaro che questo è anche il risultato di un’economia che registra un’eccessiva presenza dello Stato.
È l’interventismo pubblico che ha posto le premesse per tale situazione, in cui è alto il numero delle aziende che producono per la pubblica amministrazione e si muovono quindi nell’orbita del settore politico-burocratico. Di fronte a tale quadro generale, è necessario che si ripensi alla radice il rapporto tra pubblico e privato, tra Stato e imprese, perché solo in tal modo è possibile porre le premesse per un rilancio dell’economia.
Carlo Lottieri, Università di Siena
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