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Imu alla Chiesa, la Ue riapre il caso

Imu alla Chiesa, la Ue riapre il caso

Alberto D’Argenio – La Repubblica

L’Unione europea riapre il caso sugli sconti fiscali alla Chiesa. Lo fa con una decisione, a suo modo clamorosa, della Corte di giustizia del Lussemburgo: i giudici europei hanno deciso di ammettere nel merito un ricorso che potrebbe costare agli enti ecclesiastici che operano in Italia fino a quattro miliardi di euro, l’ammontare di Ici e Imu non pagato dal 2008. E in discussione potrebbero entrare anche le nuove regole approvate dal governo Monti nel 2012 che, secondo i ricorrenti, hanno confermato gli sconti fiscali cambiando solo apparentemente le regole già condannate dalla Commissione europea come aiuti di Stato illegali.

Il caso è stato aperto nel 2006 da una denuncia dell’ex deputato Maurizio Turco e del fiscalista Carlo Pontesilli, esponenti del Partito Radicale, contro una legge varata dal governo Berlusconi in piena campagna elettorale. Dopo una serie di archiviazioni (secondo alcuni osservatori in odore di insabbiamento) da parte di Bruxelles e numerose contro denunce, nel 2012 hanno ottenuto la condanna del regime fiscale di favore concesso ad alberghi, scuole e cliniche gestite dagli enti ecclesiastici. Si trattava dello sconto del 100% sull’Ici, poi diventata Imu, e del 50% sulle tasse sul reddito, ovvero l’Ires sulle attività nei settori dell’istruzione e della sanità privata. Un sistema di favore che per l’Antitrust europeo distorceva il mercato, favorendo i beneficiari rispetto ai concorrenti che invece le tasse le pagavano tutte. Aiuto di Stato discriminatorio. Ma allora Bruxelles non è andata fino in fondo e rinnegando una giurisprudenza ultra trentennale non ha ingiunto al governo di recuperare i balzelli non pagati negli ultimi cinque anni. Una montagna di soldi che l’Associazione nazionale dei comuni appunto stima intorno ai quattro miliardi.

Ora – con una decisione del 29 ottobre dell’Ottava sezione del Tribunale che ha applicato una nuova norma del Trattato di Lisbona – la Corte del Lussemburgo ha dato torto alla Commissione europea che chiedeva l’irricevibilità della causa e rinvia la questione a un giudizio sul merito. Bruxelles avrà tempo fino al 10 dicembre per presentare una memoria difensiva in grado di giustificare la decisione di non chiedere i rimborsi per «generale e assoluta» impossibilità di procedere al recupero. Poi saranno i ricorrenti a presentare una memoria e infine si arriverà a sentenza. Nel caso immediatamente esecutiva, appellabile ma i cui effetti non potranno essere sospesi se non da un ribaltamento definitivo del giudizio.

Ma la partita non si chiude qui. I ricorrenti sono convinti che la decisione della Corte possa aprire a ulteriori sviluppi. Nel 2012 il governo Monti dopo un lungo negoziato con la Commissione Barroso (allora si sussurrava di insistenti telefonate da entrambe le sponde del Tevere in direzione Bruxelles) non solo era riuscito a limitare i danni e ad evitare il recupero dei soldi trattenuti dagli enti ecclesiastici, ma aveva anche ottenuto la chiusura del dossier sul futuro varando nuove regole che avrebbero dovuto rendere più rigoroso l’accesso agli sgravi fiscali. Insomma, norme scritte per impedire che attività no-profit beneficiarie di sconti fossero in concorrenza sul mercato svolgendo attività commerciali. Ma i ricorrenti non la pensano così, e sono pronti ad allegare alla causa pendente di fronte ai giudici del Lussemburgo la documentazione per dimostrare che di fatto rispetto alla condanna del 2012 nulla è cambiato, impugnando anche la circolare del Ministero dell’Economia della scorsa primavera che ha definito nel dettaglio le nuove norme, secondo i denuncianti interpretando in modo troppo estensivo la legge di Monti e tornando a favorire la Chiesa, anche permettendo a qualsiasi ente formalmente no-profit di operare di fatto sul mercato senza pagare le tasse. La stessa denuncia sarà poi inoltrata ancora una volta alla Commissione europea ora guidata dal lussemburghese Juncker, che come commissario alla Concorrenza ha scelto la liberale danese Margrethe Vestager.

L’Europa dei burocrati ci ha tradito

L’Europa dei burocrati ci ha tradito

Gaetano Pedullà – La Notizia

Dovrebbero fargli una statua a Renzi. E invece a Bruxelles fanno gli offesi a sentirsi chiamare euroburocrati. Spiegano che se avessero dovuto valutare i conti italiani burocraticamente ci avrebbero bocciato. Dunque, sostengono, la loro è una valutazione politica. Una bella politica quella che ci impone da anni tasse a non finire, che ci ha messo in ginocchio, che ha innescato un ciclo recessivo da cui chissà quando e come ne usciremo. Questa Europa che ha tradito i suoi Paesi, non aprendo l’ombrello quando la Grecia affondava, continuando a tenere la Banca centrale inerte mentre Usa e Giappone stampano moneta e oggi possono dare ai loro giovani prospettive ben diverse da quelle che abbiamo noi qui in Europa. A questi burocrati – perché questo sono e non c’è nulla di male a chiamarli con il loro nome – per la prima volta un governo italiano sta chiedendo rispetto. Abbiamo avuto premier che hanno fatto i camerieri alla Merkel e a Barroso. È chiaro che non sono abituati a vederci con un po’ d’orgoglio nazionale. Renzi poi sarà discutibile e pieno di sé, ma visto cosa hanno portato a casa i suoi ultimi predecessori più buio di mezzanotte non può fare.

“Garanzia Giovani” labirinto burocratico: ogni offerta di lavoro è costata 58.700 euro

“Garanzia Giovani” labirinto burocratico: ogni offerta di lavoro è costata 58.700 euro

Emanuela Micucci – Italia Oggi

Garanzia Giovani sale a quota 273.124 iscrizioni, di cui 76.003, il 28%, sono giovani presi in carico e profilati. Mentre 29.229 sono i posti di lavoro disponibili. Un trend, quello delle registrazioni, salito negli ultimi due mesi a 50mila iscrizioni al mese, come ha sottolineato in Commissione Lavoro del Senato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti indicandolo come «un buon risultato».

Dedicato ai 2.254.000 giovani tra i 15 e i 29 anni che né studiano né lavorano (i Neet), di cui circa 1,27 milioni hanno fino a 24 anni e tra questi 181mila sono stranieri, cioè il 21% dei ragazzi di questa fascia di età, il programma Garanzia Giovani «più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, si è purtroppo rivelato un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte», osserva il Centro Studi ImpresaLavoro nella ricerca “Il labirinto della Garanzia Giovani” (www.impresalavoro.org). Analizzando i report periodici del ministero del Lavoro dall’avvio del programma (il 1 maggio scorso) fino al 9 ottobre, quando vi avevano aderito 250.770 giovani, di cui 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema Garanzia Giovani ed erano stati offerti 25.747 posti di lavoro. Numeri leggermente aumentati a fine ottobre, come riportiamo in apertura del nostro articolo, ma che sostanzialmente confermano la conclusione di ImpresaLavoro: ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e ogni offerta di lavoro ci è costata finora la somma ragguardevole di 58.700 euro.

«Sulla base dei dati sui Neet – spiega Giancamillo Palmerini, curatore della ricerca – il nostro Pese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative) pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del programma sarà, pertanto, pari a circa 1.512 milioni di euro». Risorse su cui è intervenuto Poletti in Commissione Lavoro al Senato, indicando in 1,5 milioni la platea massima potenziale di giovani e in 900mila quella ragionevole, ma precisando che le risorse disponibili sono in grado di garantire il servizio potenzialmente a 400-500mila giovani». A oggi, ha aggiunto, «complessivamente sono stati impiegati 561 milioni di euro».

Secondo l’analisi di ImpresaLavoro, la maggior parte delle occasioni di lavoro è concentrata al Nord, ben il 71,7%, contro il 14,3% al Centro e il 13,9% al Sud mentre quelle all’estero rappresentano solamente lo 0,1%: percentuali rimaste invariate nel corso del mese.

Se rigore e riforme non bastano per crescere

Se rigore e riforme non bastano per crescere

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

«Debole? No. L’aggettivo è superfluo, evitiamo i qualificativi». «Beh, tutto si può fare ma negare che oggi in Europa la crescita sia debole è ignorare la realtà». Il battibecco tra Angela Merkel e Matteo Renzi si svolge nel rassegnato silenzio generale intorno al tavolo dell’ultimo vertice di Bruxelles. François Hollande tace, risucchiato dalle disgrazie politiche in casa che ne fanno un fantasma in Europa. L’aggettivo naturalmente sparisce dal comunicato finale, dalle righe in cui si parla della situazione economica dell’Eurozona. In questo modo però la sua assenza diventa ancora più eloquente. Assordante. Perché dice che, siccome la Germania cresce meno ma cresce ancora e più degli altri, il problema non esiste a livello collettivo, è questione individuale, nazionale.

Ovviamente se il problema della crescita debole non è europeo, per risolverlo non servono iniziative europee e piani di investimento continentali: se e quando arriveranno, non potranno essere che una gentil concessione, un gesto più o meno simbolico, non certo la sferzata di rilancio necessaria a battere recessione, deflazione e disoccupazione che deprimono molti Paesi e cominciano a trascinare verso il basso anche la congiuntura tedesca, a rischio di recessione tecnica. Tutto questo significa anche, chiacchiere a parte, che le molle fondamentali dello sviluppo in Europa restano sempre le stesse, due e non tre, le solite. Cioè riforme strutturali e rigore, un po’ più temperato sì ma con estrema moderazione e la flessibilità delle regole Ue ridotta al minimo indispensabile. Evidentemente agli occhi del cancelliere tedesco la credibilità delle norme oggi è più importante della stabilità economica e finanziaria: di fronte ai mercati o all’elettorato tedesco?

La conferma che ben poco per ora è destinato a cambiare sotto il cielo europeo è arrivata del resto nelle ultime 48 ore. Alla fine Italia e Francia hanno evitato la clamorosa bocciatura delle rispettive leggi di bilancio per il 2015. Francia e Italia hanno ottenuto qualche margine di manovra in più vista l’avversa situazione economica in cui si trovano ma, per scongiurare una sanzione politica senza precedenti (che l’Europa poteva permettersi solo a proprio rischio e pericolo) hanno dovuto andare a Canossa, rassegnarsi a ridurre, a suon di miliardi in più messi in finanziaria, gli scostamenti dagli impegni che avevano previsto. Jirki Katainen, che sarà dal primo novembre uno dei due vice-presidenti Ecofin nella nuova Commissione Juncker, ha comunque immediatamente provveduto a rovinare la festa dissipando ogni possibile equivoco. Ha chiarito che lo sconto sarà una tantum: non varrà retroattivamente anche per l’anno in corso, quindi le verifiche di Bruxelles potrebbero anche concludersi con la comminazione di multe agli indisciplinati. Nessuna grazia nemmeno per altre deviazioni dalla retta via macro-economica. L’Italia è già nel mirino di una procedura Ue per superdebito ed eccessivi divari di competitività. Pacta servanda sunt : il concetto è impeccabile, difficile non condividerlo. Del resto il timore che una flessibilità di manica larga possa indurre i Governi ad allentare gli sforzi di risanamento e modernizzazione, nasce non dalla paranoia di pochi ma da un’esperienza consolidata.

La realtà però questa volta stride, deborda dalle gabbie giuridiche quando l’economia europea rischia la sindrome giapponese, elettroencefalogramma piatto per una decina di anni. Non si esce dal tunnel, ha avvertito il presidente della Bce, Mario Draghi, all’ultimo vertice Ue, con «la strategia della speranza». Se rigore e riforme sono urgenti e necessari, a patto di non farne indigestione, oggi da soli non bastano. Oltre a una politica monetaria accomodante e a un euro dal cambio più competitivo, ci vuole anche la crescita e al più presto, senza attendere i tempi fisiologici in cui la cura di risanamento darà i suoi frutti positivi. Altrimenti l’Europa finirà impiccata alle sue regole. Anche la Germania, che si illude di essere immune dai problemi altrui, ne pagherebbe lo scotto. Del resto già si avvertono i primi segnali.

Can che abbaia

Can che abbaia

Enrico Cisnetto – Il Foglio

In Europa abbiamo perso 2-0. Ora non commettiamo l’errore di far finta che non sia così, altrimenti sarà impossibile metterci rimedio e continueremo a perdere. Di quale partita sto parlando? Di quella che misura il peso specifico dell’Italia nell’eurosistema. In particolare, i due gol li abbiamo beccati sul terreno del nostro potere decisionale sulle politiche di bilancio e su quello del sistema bancario e gli obblighi che è costretto a contrarre.

Che il primo sia un gol a tutti gli effetti lo ha certificato un arbitro di vaglia come Jean-Paul Fitoussi: Italia e Francia non hanno affatto rotto gli schemi di gioco di Bruxelles, anzi, si sono fatte imporre i vincoli europei molto più di quanto abbiano raccontato ai propri cittadini. E non è tanto o solo questione di numeri. Infatti, che la correzione dei conti rispetto al mezzo punto percentuale previsto dall’Europa sia stata dello 0,33 come dice il Tesoro o dello 0,38 come sostiene chi ha rifatto i calcoli, poco cambia: 17 o 12 decimi di punto che sia, non siamo certo di fronte non dico a una rottura, ma neppure a una significativa presa di posizione. Non abbiamo detto, come pure i francesi: noi facciamo così, poi ne riparliamo. O meglio, questo abbiamo raccontato in casa di averlo detto, per mostrare muscoli che in realtà non abbiamo o che comunque non usiamo oltre confine. Al contrario, abbiamo negoziato per ridimensionare una forzatura che già era meno importante di quanto non fosse stato fatte immaginare con le solite slide, e che strada facendo è diventata ancor meno significativa. Alla fine lo scarto sul deficit programmato è troppo per passare inosservato e poco per determinare un cambio di linea, rispetto a quella a marchio tedesco dell’austerità.

Ma proprio perché abbiamo provocato – il cane che abbaia dà fastidio anche se non morde – è arrivato il secondo gol: le bocciature agli stress test bancari. Nove banche sulle 25 mandate in purgatorio, 4 (poi scese a 2) su 13 quelle bocciate, significa che è stato acclarato che un terzo dei problemi del sistema bancario europeo è tricolore. Possibile? Ragionevolmente no. A parte le considerazioni da me svolte in questa sede venerdì scorso sull’inopportunità di procedere a un pubblico lavacro di questo genere quando nel sistema finanziario mondiale ci sono problemi di ben maggiore portata e pericolosità (oggi nel mondo c’è il 25 per cento in più della massa di derivati esistenti nel 2008 al momento della scoppio della grande crisi) e quando sarebbe stato sufficiente ricorrere a una più silenziosa ma ben più efficace azione di moral suasion, basta mettere in fila alcune questioni per capire che l’operazione stress test richiedeva ben altra attenzione e attività lobbistica da parte del governo di Roma.

Quali? Prima di tutto il trattamento concesso alla Germania: le casse dei Lander non erano tra le 131 banche europee esaminate, non ha importato a nessuno che il 70 per cento degli attivi degli istituti tedeschi sia relativo a rischi finanziari (per quelli italiani è circa il 40 per cento) e solo il rimanente riguardi impieghi rivolti a imprese e famiglie, ma soprattutto non si è tenuto per nulla conto dei 250 miliardi spesi a sostegno del sistema bancario tedesco dal 2008 a oggi. A fronte, per esempio, del quasi nulla (i bond dati al Paschi, per di più al tasso usuraio del 9 per cento, e già quasi del tutto restituiti) dato dall’Italia alle sue banche. Se poi a questo si aggiungono le diverse modalità di giudizio usate, sapendo che il patrimonio dipende da come lo calcoli (se fossero stati usati i dati 2014 anziché quelli dell’anno precedente, Mps e Carige non sarebbero state bocciate) e a quali elementi lo parametri, ecco che ne esce un quadro di disparità in cui come minimo c’è disparità di trattamento tra nord e sud dell’Europa, se non proprio un trattamento specifico per l’Italia.

Di fronte a queste considerazioni, che era possibile fare da tempo se solo si fosse posta un po’ di attenzione a un tema così delicato, forse avremmo potuto far presente le buone ragioni italiane, e se del caso anche alzare la voce. Anche perché, siccome tutta questa “ammuina” è stata fatta per arrivare al (lodevole) obiettivo del mercato bancario unico europeo, una volta fatta l’integrazione poi non si può più tornare indietro. Qualcuno faccia il calcolo di cosa ci è costata la pazza idea di cedere a Londra il controllo di Piazza Affari, e poi ne parliamo.

Insomma, la vicenda delle banche non è cosa che riguardi solo loro, i loro azionisti e obbligazionisti – che già sarebbe un buon motivo per occuparsene – e neppure solo dei loro clienti – che sarebbe motivo di preoccupazione – ma riguarda l’intero sistema economico. Tanto più in un paese dove il cavallo dell’economia non beve da sette anni. Dunque, non era il caso di aprire un fronte con la signora Merkel anche su questo tema? Trasparenza per trasparenza, possiamo sapere cosa hanno fatto i signori del Tesoro in questa circostanza? Magari stamattina il ministro Padoan alla giornata del risparmio officiata dall’Acri ce lo potrebbe raccontare. Magari.

Le vere risposte che l’Italia doveva dare a Bruxelles

Le vere risposte che l’Italia doveva dare a Bruxelles

Massimo Blasoni – Formiche

Martedì è arrivato lo scontato “via libera” europeo alla manovra italiana: un dato atteso ma non banale perché costringe il nostro governo ad uno sforzo ulteriore per far calare il deficit strutturale dello 0,3% del Pil. In parole povere si tratta di reperire ulteriori 4,5 miliardi di euro che saranno in larga parte garantiti dal fondo nato per abbattere la pressione fiscale. Lo stesso ministro Padoan ha ammesso come si tratti tutto sommato del “male minore” e di una mossa che benché finisca per indebolire l’effetto espansivo della manovra, ci rimette in linea con i desiderata europei.
In questi anni la nostra adesione all’Unione ci ha garantito stabilità, un mercato libero e un progresso sociale e civile innegabile. Dal 2011 in poi, però, l’Eurozona ha iniziato a palesare alcuni suoi limiti politici: posti davanti alla sfida della Grande Crisi, forse anche peggiore di quella del ’29, gli organismi comunitari non sono stati capaci di liberarsi da una visione burocratica e tecnicista, rimanendo impigliati in numeri, percentuali, meccanismi probabilmente superati dal tempo straordinario che stiamo vivendo.
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Vincoli Ue, partiamo col bonus

Vincoli Ue, partiamo col bonus

Gaetano Pedullà – La Notizia

Speriamo che duri. In altri tempi e con altri governi mica ce la cavavamo con un minuscolo Consiglio dei ministri e un aggiustamento di quattro miliardi e mezzo spostati con la punta di matita da una pagina all’altra della nostra Legge di Stabilità. Il piede con cui parte la nuova Commissione europea è però quello giusto. E di fronte a una crisi senza precedenti, che i trattati su cui si basa la stessa Unione non potevano immaginare nemmeno, il responsabile degli affari economici Katainen ieri si è scordato di essere stato messo li dove sta per fare il falco. Italia e Francia partono quindi con il bonus. Nessuno però si illude che questo sarà sufficiente a invertire un ciclo drammatico. Basta guardare i dati dello Svimez sul Mezzogiorno per capire che qui serve ben altro che l’aspirina dello zero virgola in più o in meno sul deficit con cui destinare qualche spicciolo alla ripresa. L’Italia e l’Europa hanno bisogno di un grandissimo piano di rilancio. Juncker ha promesso 300 miliardi. Ma consentire agli Stati di derogare un po’ di più ai vincoli riuscirebbe ad amplificare enormemente questo sforzo. Senza far finta di credere ai conti scritti a matita.

Garanzia giovani, impegnato solo un terzo dei fondi

Garanzia giovani, impegnato solo un terzo dei fondi

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Finora «sono stati impegnati 561 milioni di euro» (sugli oltre 1,5 miliardi complessivi a disposizione di Garanzia giovani per il biennio 2014-2015); ma la programmazione attuativa nei territori va avanti ancora a passo lento. Solo 12 regioni (Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Lazio, Campania, Puglia, Sicilia, Sardegna, provincia autonoma di Trento) hanno pubblicato avvisi per misure dirette ai Neet; il Piemonte è in dirittura d’arrivo, mentre la Calabria è «in grave ritardo».

Registrati 262mila giovani Neet
I giovani registrati al programma Ue antidisoccupazione giovanile, partito in Italia lo scorso 1° maggio, sono poco più di 260mila (262.171 al 23 ottobre – appena 62mila hanno fatto un primo colloquio con i servizi per l’impiego). Le opportunità di lavoro pubblicate sono 19.109, per un totale di 27.393 posti disponibili (il 71,6% delle occasioni è concentrata al Nord, il 14,6% al Centro, il 13,8% al Sud, solo lo 0,1% all’estero). La fotografia sullo stato di avanzamento di «Youth Guarantee» è stata scattata, ieri, direttamente dal ministro, Giuliano Poletti, nel corso di un’audizione dinnanzi la commissione Lavoro del Senato, presieduta da Maurizio Sacconi. A livello internazionale solo Italia e Francia hanno approvato piani attuativi di Garanzia giovani (gli altri paesi sono indietro). Ma da noi, da Milano a Palermo, «la messa a punto» del programma viaggia a macchia di leopardo: «Alcune regioni, come Lombardia e Piemonte, sono più avanti perchè disponevano già di piani territoriali per i giovani. Altre sono indietro».

Risorse da impegnare entro il 2015
Il punto, ha ricordato Poletti, è che le risorse vanno impegnate entro fine 2015 (tassativamente). Poi possono essere spese nell’arco dei tre anni successivi. Finora sono stati impegnati circa 230 milioni per le misure nazionali (oltre 188 milioni per il bonus occupazionale e quasi 40 milioni per il servizio civile). Altri 70 milioni (nazionali) sono in corso d’impegno. Mentre le risorse oggetto di programmazione attuativa regionale sono poco più di 260 milioni, il 22,01% degli 1,1 miliardi totali (al netto dei fondi per bonus occupazionale e servizio civile). Il ministero del Lavoro «sta operando a stretto contatto con le Regioni – ha detto il dg per le politiche attive, i servizi per il lavoro e la formazione, Salvatore Pirrone -. Da un lato, stiamo monitorando le iniziative già messe in campo, dall’altro cerchiamo di dare una spinta propulsiva». Del resto, gli iscritti a Garanzia giovani viaggiano al ritmo di 50mila giovani Neet al mese, e con i soldi attualmente a disposizione il servizio potrà essere garantito «potenzialmente a 4-500mila ragazzi». «Il ministro ci ha dato l’immagine di un piano nazionale che solo alcune Regioni riescono in qualche misura a implementare, sia pure con un generale ritardo – ha commentato il giuslavorista, senatore di Sc, Pietro Ichino -. Cè il grave rischio che gran parte delle risorse messe a disposizione dall’Ue restino inutilizzate».

Stress e test

Stress e test

Davide Giacalone – Libero

Il problema non è farsi misurare, ma non misurarsi. In una Unione europea sempre più conflittuale. I test sulle banche sono andati, per l’Italia, alla grande. Certo che ci sono dei problemi, ma guai a non ricordarsi di come eravamo messi due o tre anni addietro. Abbiamo una singolare propensione a ingigantire i nostri svantaggi e miniaturizzare i vantaggi. Non si tratta di praticare un ottimismo di maniera, ma di usare il materialismo realista. Altrimenti si creano classi dirigenti subalterne e incapaci. Dunque: una premessa e sei osservazioni.

La premessa: la vigilanza bancaria unica europea è una cosa positiva, se la si interpreta e usa al meglio. Gli stress test sono cosa buona e giusta. Se li avessero fatti per tempo, negli Usa, non sarebbe successa la tragedia che s’è vista. Il sistema bancario non può essere accusato, a intermittenza, oggi di non prestare a tutti e domani di avere prestato senza considerare i pericoli. Veniamo alle osservazioni, che sono la sostanza.

1. Nel corso della bufera, dal 2010 in poi, le nostre banche non hanno avuto aiuti di Stato, al contrario di quelle francesi, inglesi, spagnole e tedesche. I soldi prestati al Monte dei Paschi sono stati restituiti. Non solo: l’intervento europeo, con il fondo salva stati da noi cofinanziato, ha salvato le banche che avevano investito, per lucro e speculazione, nei titoli dei paesi avviati al default. Tali banche sono principalmente tedesche e francesi.

2. I tedeschi hanno chiesto e ottenuto di tenere le casse dei Lander, le Landesbank, fuori dalla vigilanza comune. Tale situazione deve essere cancellata, perché se uno scolaro si rifiuta di fare i compiti a casa non è un buon motivo per escludere tale rifiuto dalla valutazione della sua condotta e della sua preparazione.

3. Si ritrovano in difficoltà, e nella necessità d’integrare il proprio capitale, due banche italiane: Mps e Carige. Lo sapevamo di già. Ce lo siamo raccontati in tutte le salse. Semmai s’è fatto finta di niente, propiziando il calo borsistico successivo. Mentre altre sette banche, italiane, non vengono bocciate perché le operazioni sul capitale, effettuate l’ultimo anno, sono esaustive. Bene, vuole dire che se si vuole e si sa fare, si può fare.

4. Il presidente dell’Associazione bancaria, Abi, Antonio Patuelli, ha giustamente osservato che non è stato certo un favore all’Italia andare a fare i conti usando i dati del 2013, che risentono del momento peggiore per la divaricazione degli spread. Sarebbe stato meglio usare i dati del 2014. Certamente, ma vado oltre: si è introdotta l’idea che anche i titoli di Stato comportano un rischio e si è considerato che le banche italiane ne hanno in pancia per 427 miliardi, le tedesche per 359 e le francesi per 275. Se si calcola la percentuale rispetto al prodotto interno lordo, l’esposizione delle nostre banche a quel rischio cresce. Ci sto. Ma si deve fare osservare che l’Italia, al contrario della Germania, non ha mai mancato di pagare i propri debiti. Come anche che noi teniamo al nostro interno il 65% del nostro debito pubblico, mentre la Francia ne ha fuori il 55%. Chi crea maggiori rischi sistemici e collettivi?

5. Le banche sono state utilizzate per spegnere l’incendio della speculazione sui debiti sovrani, in tal senso ricevendo soldi all’1%, dalla Bce. Ha funzionato, applausi. Ma ora che i pompieri sono vittoriosi non si vorrà mica considerare peggiori quelli che hanno usato più acqua, avendo più fiamme da domare?! Così la recessione si perpetua, i prestiti si contraggono e i conti delle banche peggiorano. E queste non sono faccende tecniche, ma terreno di schietto scontro politico.

6. Infine, stress test e vigilanza comune preludono al mercato bancario unico. Evviva. Ciò porta con sé la necessità di aggregazione fra le banche (come in Italia s’è già fatto). Chi governa questo processo? Occhio, perché se i titoli del debito italiano sono considerati più rischiosi dei derivati spericolati nella pancia delle banche tedesche la conseguenza è che gli scassoni saranno in grado di comprare banche forse non modernissime, certamente non spericolate, sicuramente troppo generose con i peggiori e avare con chi produce, ma decisamente meno malate e più trasparenti di quelle da cui si spera che non prendano esempio.

Ecco perché questa è una faccenda politica. A noi italiani è mancata la politica. Sono stati i governi supposti tecnici (Monti) e di salvezza nazionale (Letta) ad avere accettato condizioni tecnicamente svantaggiose e di affossamento nazionale. Guai, oggi, a leggere i risultati di quei test senza cogliere i punti di forza che nascondono. Quelli da far valere con fermezza, senza mettersi a fare gli ondivaghi sui conti pubblici.

L’ultimo inganno di Bruxelles, la Garanzia Giovani è un flop

L’ultimo inganno di Bruxelles, la Garanzia Giovani è un flop

Sergio Patti – La Notizia

Un’altra grossa fregatura dall’Europa. Più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, l’applicazione italiana del Programma comunitario Garanzia Giovani (che il Ministero del Lavoro ha di fatto delegato nella sua gestione alle singole Regioni) si è purtroppo rivelata un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte. Lo dimostra una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” (consultabile all’indirizzo www.impresalavoro.org) le cui conclusioni sono sconfortanti, a maggior ragione se si tiene conto che tale programma è volto in particolare a risolvere il fenomeno dei giovani Neet 15-24enni (non impegnati in un’attività lavorativa, né inseriti in un percorso scolastico o formativo), stimabili, in Italia, in circa 1,27 milioni (di cui 181mila stranieri) e che corrispondono al 21% della popolazione di questa fascia di età. Un dato estremamente rilevante in ragione della stretta connessione tra l’identificazione della platea dei destinatari e l’entità delle risorse attribuite, per la gestione della Garanzia Giovani, dalla Commissione Europea.

L’Italia ha peraltro deciso di allargare il target group ai giovani di età compresa tra 25 e 29 anni, per un totale di ben 2.254.000 ragazzi. Sulla base di tali dati il nostro Paese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative), pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del Programma sarà, pertanto, pari a circa 1.513 milioni di euro. Una montagna di denaro pubblico che ha partorito un costosissimo topolino: la ricerca di “ImpresaLavoro” rende noto che al programma comunitario hanno infatti aderito 250.770 giovani, di cui solo 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema di Garanzia Giovani.

Mentre l’Europa chiede ai sistemi Paese ingentissime risorse, persino aumentando il budget dei trasferimenti dei singoli Stati alla Comunità, dall’inizio del programma sono stati offerti ai Neet 25.747 posti di lavoro. Questo significa che ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e che ogni offerta di lavoro ci è costata finora la somma ragguardevole di 58.700 euro. Mentre molte iniziative valide sono rimaste escluse dai fondi.