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Una manovra di respiro strategico

Una manovra di respiro strategico

Marco Leonardi – Europa

I commenti alla manovra finanziaria si sono concentrati principalmente sui saldi di una manovra che ad alcuni appare coraggiosa e ad altri pare un azzardo. Vorrei invece concentrarmi sul disegno complessivo della manovra e sul progetto politico sottostante. Prima ancora che essere un insieme di poste di entrate e di uscite, la legge di stabilità è la principale proposta politica che un governo fa al paese e merita quindi di essere analizzata dal punto di vista della coerenza.

Matteo Renzi per la prima volta ha adottato un atteggiamento diverso nei confronti dell’Europa rispetto i suoi predecessori. Oggi è possibile fare una manovra che prevede 11 miliardi di debiti in più di quello che era stato previsto per via delle condizioni di crisi persistente e per via della posizione similmente critica della Francia che, nella sua legge finanziaria, va bene oltre il limite del 3 per cento del deficit. Tuttavia è da notare che l’atteggiamento di Renzi verso l’Europa è rovesciato rispetto ai tempi che lo precedono. Mentre finora i presidenti del consiglio sostenevano di dover fare a malincuore delle riforme impopolari per far fronte alle richieste dell’Europa, ora Renzi sostiene di agire non perché ce lo chiede l’Europa ma perché le riforme, anche se impopolari, servono all’Italia. In questa cornice di una nuova assunzione di responsabilità nazionale si legge meglio l’architettura e il merito dei provvedimenti della Finanziaria 2015.

L’architettura principale della legge di stabilità mantiene la promessa che tutti i tagli di spesa verranno utilizzati per ridurre in maniera equivalente le tasse e non andranno a finanziare nuova spesa. Questo punto non è affatto scontato visto che nelle passate manovre finanziarie erano previsti aumenti di tasse accanto a tagli di spesa. E visto che ancora oggi la critica principale da sinistra della manovra finanziaria è proprio che non si prevedono nuovi investimenti pubblici. La filosofia della manovra è incentrata sulla visione che i tagli di tasse (necessariamente a livello nazionale) siano il miglior volano della crescita, mentre gli investimenti pubblici sono meglio concepiti su scala europea piuttosto che nazionale (i famosi 300 miliardi di Juncker). All’interno delle riduzioni di tasse c’è lo spostamento del carico fiscale dal lavoro alle rendite, già iniziato con l’aumento della tassazione sulle rendite nei mesi passati.

Al di là di qualche spesa aggiuntiva come quella per l’assunzione dei precari della scuola e lo stanziamento per le forze dell’ordine, tutte le altre maggiori uscite sono riduzioni di tasse. Oltre alla conferma del bonus di 80 euro per i lavoratori dipendenti, che dall’anno prossimo prenderanno forma di riduzione fiscale, l’abolizione dell’Irap sul costo del lavoro (limitata al lavoro a tempo indeterminato) e la previsione di 1,9 miliardi per la decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato firmati nel 2015 per tre anni costituiscono il cuore della legge finanziaria 2015.

Il disegno della manovra non si comprende se non in un contesto collegato alla riforma del mercato del lavoro. La proposta del governo è infatti quella di passare gradualmente da un mercato del lavoro fatto principalmente di contratti a termine per i giovani ad un mercato del lavoro costituito da contratti a tempo indeterminato. Per fare questo sì è affrontato il tema spinoso dell’articolo 18 e nella legge finanziaria coerentemente con questo disegno sono presenti due misure necessarie a far funzionare il contratto a tempo indeterminato: il taglio dei contributi sociali per tre anni e il taglio dell’Irap sul costo del lavoro, non a caso entrambe le misure sono limitate ai soli contratti a tempo indeterminato.

Questo è il tratto di coerenza della manovra finanziaria: il governo scommette tutto sulla trasformazione del mercato del lavoro. Il decreto Poletti ha rilanciato le assunzioni con la liberalizzazione del contratto a termine e la semplificazione dell’apprendistato, ma certamente il contratto a termine non può essere considerato il centro della proposta politica del governo. La sfida sta nella trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato e possibilmente nell’aumento complessivo dell’occupazione.

Anche il provvedimento sul Tfr in busta paga assume un senso diverso se inteso nel progetto complessivo di trasformazione del mercato del lavoro. Se si passa a un mondo in cui la tutela del posto di lavoro non è più reale (l’articolo 18) ma è un’indennità monetaria, allora si può pensare che il Tfr sia meno necessario di prima. L’istituto del Tfr (che è un unicum italiano) nacque infatti nel contesto di un mercato del lavoro in cui il posto di lavoro era presumibilmente per sempre ma nello sfortunato caso del licenziamento non c’era altra forma di compensazione (se l’impresa non avesse avuto la cassa integrazione). Il Tfr quindi non è solo una forma di risparmio “forzoso” a integrazione della pensione ma anche il sostituto di un’indennità monetaria in caso di licenziamento. Oggi, dopo la riforma, questa indennità monetaria ci sarebbe per legge e quindi una delle due ragioni per accumulare Tfr viene meno. Se si utilizza il criterio della coerenza interna della legge finanziaria si capiscono anche il perché di alcune scelte che a prima vista possono sembrare penalizzanti. In primo luogo il governo ha deciso di sottoporre a tassazione ordinaria invece che all’aliquota agevolata il flusso di accantonamento del Tfr che il lavoratore, dal 2015 potrà chiedere gli venga messo nello stipendio anziché andare al fondo pensione o restare in azienda ai fini della liquidazione. Allo stesso modo ha deciso di innalzare il prelievo sui rendimenti del Tfr dall’11,5 al 17% (e dei fondi pensione dall’11,5 al 20%). Può essere una misura penalizzante della previdenza integrativa ma è sicuramente coerente con il progetto di trasferire parte del carico fiscale dal lavoro alle rendite finanziarie: saranno pure Tfr o fondi pensione ma pur sempre rendite finanziarie sono. In secondo luogo la deducibilità totale del costo del lavoro dalla base imponibile riguarda esclusivamente la forza lavoro a tempo indeterminato. Ed è controbilanciata dalla cancellazione del taglio del 10% dell’aliquota Irap decisa ad aprile. L’Irap torna quindi al 3,9% (dal 3,5%) sulla componente lavoro a tempo determinato (e sui profitti e interessi passivi). Significa che il governo fa sul serio nel tentativo di promuovere il contratto a tempo indeterminato. Si è sempre detto che il miglior modo per incentivarlo è farlo costare di meno rispetto ai contratti a termine. Ecco un modo concreto per farlo.

Merita un commento anche la scelta della decontribuzione per tre anni dei nuovi contratti a tempo indeterminato. La preoccupazione è che lo stanziamento di 1,9 miliardi non basterà. Con questa somma, le aziende potrebbero assumere poco più di 300mila persone a tempo indeterminato mentre ogni anno vengono attivati circa un milione e mezzo di contratti a tempo indeterminato. Per questo è possibile che si metteranno dei vincoli all’utilizzo degli incentivi (tipicamente si limita la platea alle aziende che creano occupazione addizionale rispetto all’anno precedente). Senza esagerare però, perché anche i due governi precedenti avevano stabilito degli incentivi ai nuovi contratti a tempo indeterminato ma le difficoltà burocratiche per accedere agli incentivi stessi e il loro limitarsi agli occupati con livelli di istruzione bassi e ai disoccupati di lungo periodo, li hanno resi inefficaci.

Certo è che l’esperienza internazionale ci insegna che i sussidi all’occupazione sono efficaci se oltre ad essere universali sono strutturali, ma il governo anche in questo caso ha scelto degli incentivi generosi e brevi (tre anni) invece che incentivi più modesti ma strutturali. A mio parere è il segno ancora una volta che si punta tutto sul contratto a tempo indeterminato sapendo che dovrà superare la concorrenza del contratto a termine e che su questo il governo verrà giudicato a breve. Solo in un futuro più certo si potrà agire per via legislativa e limitare la facilità dei contratti a termine. Solo quando si è sicuri che è cambiata la percezione del contratto a tempo indeterminato nella testa degli imprenditori e quindi non si rischia, limitando il contratto a termine, di ostacolare la creazione di posti di lavoro.

Regioni senza cassa, Stato in bolletta

Regioni senza cassa, Stato in bolletta

Roberto Sommella – Europa

Se si vuole cercare una data precisa per capire da quando le finanze pubbliche hanno cominciato a prendere una brutta piega, non ci si può sbagliare. è il primo gennaio 2002, l’anno della nascita dell’euro e della concreta attuazione della riforma del titolo V della Costituzione. Se l’avvento della moneta unica ha comportato un passaggio storico in termini di minore costo del denaro, dall’altra ha segnato una costante devoluzione dei poteri economico-monetari alle istituzioni comunitarie.

La stessa cessione di sovranità che è avvenuta in contemporanea a favore delle regioni, sulla base della nuova suddivisione delle funzioni legislative tra stato centrale e periferico. è allora che si è aperta la forbice che sta ora dilaniando i rapporti tra il governo (Renzi arriva buon ultimo dopo Berlusconi, Monti e Letta) e i governatori. Il primo, a causa della crisi finanziaria del 2008 e della recessione che dura dal 2011, ha dovuto varare manovre per oltre 200 miliardi di euro, soprattutto fatte di tasse, per ottemperare ai Trattati. I secondi, si sono trovati a fare i conti con una situazione sempre più precaria dal punto di vista dei trasferimenti dello Stato alle regioni, governando di fatto in mezza Italia uno situazione di pre-default finanziario.

In sostanza, con la riforma fatta a maggioranza dal centrosinistra nel 2001, mentre lo Stato centrale si consegnava mani e piedi alle rigide regole di bilancio di Bruxelles e di Francoforte, inevitabilmente indebolendosi, dall’altra gran parte del peso della gestione amministrativa locale si spostava sulle spalle di regioni ognuna diversa dalle altre, in un federalismo del tutto incompiuto. Con il risultato all’amatriciana: abbiamo i lander, ma chi li presiede non ha poteri compiuti dal punto di vista della devolution fiscale né dei costi standard da applicare alla spesa per beni e servizi. Sono proprio questi gli anni (dal 2001 ad oggi) in cui, non sarà un caso, il debito pubblico italiano è passato da 1.620 miliardi di euro (solo il 108% del Pil) a 2.148 miliardi (oltre il 133% del Pil, ora 127% per via dei nuovi criteri di calcolo Eurostat): in termini assoluti, 528 miliardi in più, uno score catastrofico.

Eppure basta rileggersi con attenzione l’articolo 117 della Costituzione, novellato proprio da quella revisione di inizio millennio, per capire che si sarebbe andati a sbattere. È lunghissima e piena di ricadute finanziarie la lista delle cosiddette materie “di legislazione concorrente” e cioè di competenza esclusiva delle regioni, un mare magnum che soffoca ogni logica senza un adeguato sistema di controlli ex ante della spesa e un analogo potere impositivo territoriale, che permetterebbe agli elettori di giudicare i propri amministratori anche e soprattutto dal punto di vista dei servizi offerti. Vale la pena ricordarli, solo per farsi un’idea della mostruosità e economica e forse anche giuridica. Rapporti internazionali e con l’Unione europea; commercio con l’estero, tutela e sicurezza del lavoro; istruzione (salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale); professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Gran parte di queste mansioni va gestita con i soldi dello Stato centrale. Un’assurdità.

L’interminabile elenco spiega più di tante altre parole come sia potuto accadere che oggi, nel 2014, lo Stato abbia un debito pubblico che lo impegna per 80 miliardi di euro di interessi all’anno e ben sei regioni (Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Molise, Sicilia) siano costrette ad attuare forzosi piani di rientro dal deficit sanitario che per alcune di esse supera e di molto il miliardo di euro. Spetta alla Corte dei conti, ma solo a babbo morto e quindi ex post, cercare di fare luce su una situazione al limite del collasso; ai governi, come quello attuale, tocca invece il gravoso compito di chiedere sacrifici anche agli amministratori locali tagliando, come nel caso della legge di stabilità, 4 miliardi su 36 di computo totale.

È una strada ancora percorribile quella di impugnare le forbici a palazzo Chigi quando molti poteri (persino molti beni, come nel caso della devolution immobiliare) sono volati via? Se si ragiona nell’ottica dei sacrifici necessari data l’urgenza del momento, la risposta è affermativa. Ma in un’ottica di lungo periodo diventa impossibile andare avanti così. Esecutivo e amministratori regionali devono mettersi intorno ad un tavolo non tanto per avviare il consueto balletto di modifiche ai tagli inseriti nella manovra, quanto per porre mano alla doverosa e non più procastinabile revisione della riforma del Titolo V. Se è vero che senza rappresentanza non può esserci tassazione, a maggior ragione senza poteri fiscali non si possono delegare funzioni cruciali del vivere sociale a mega-organismi dai piedi (e dai bilanci) d’argilla. Questo al netto degli scandali che hanno colpito quasi tutti i consigli regionali e delle inchieste che ne seguono in alcuni casi l’evolversi. Lo Stato è diventato una Ferrari che deve consumare come una Panda, il sistema delle Regioni è l’esatto contrario. La benzina è la stessa e sta finendo per tutti.

Una condotta inaccettabile

Una condotta inaccettabile

Davide Giacalone

Mettiamo, per pura ipotesi teorica, che la Ragioneria generale dello Stato abbia avuto ragioni per non “bollinare” la legge di stabilità, non convalidandone le coperture, o che il Quirinale, dopo l’attento esame promesso, ne abbia rilevato le incongruenze e ne chieda la riscrittura. A quel punto il governo italiano dovrebbe ritirare il testo inviato alla Commissione europea, totalizzando una continentale figura barbina. Uscendo dall’ipotetico e dal teorico, quindi, se qualche aggiustamento dovrà essere fatto si dovrà procedere quasi di soppiatto, per evitare di danneggiare l’Italia.
Ciò significa che l’invio temerario, l’esposizione scoppiettante, l’integrazione nelle trasmissioni televisive innescano un pericoloso conflitto istituzionale, mettendo la Ragioneria e il Colle nelle condizioni di dovere rinunciare al proprio ruolo (più la Ragioneria, per la verità, perché questa storia che al Quirinale si debbano sempre rifare i conti e rivedere tutto è fuori dai binari costituzionali, è un allargamento smisurato della prudenza che volle la firma del Colle).
In altre parole, sono con le spalle al muro: o validano o ci espongono a pericoli eccessivi. Proprio per ragioni di convenienza, nel braccio di ferro che si è determinato nell’intera Unione europea, era stato suggerito al governo italiano di anticipare la legge di stabilità. Di presentarla ben prima della scadenza ultima (15 ottobre). Hanno preferito attendere l’ultimo minuto. Per essere precisi, però, lo hanno sforato, perché è vero che il testo è stato spedito entro i termini, ma, come si dimostra, privo dei necessari visti. Senza contare che il dibattito pubblico, da una settimana, si sviluppa senza che esista un testo da leggere e studiare, ma solo slides e interviste da commentare. Non è semplice malcostume. È una condotta inaccettabile.
Se Berlino approva investimenti «con rigore»

Se Berlino approva investimenti «con rigore»

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Esce la Commissione di José Manuel Barroso, entra quella di Jean-Claude Juncker. Due ex primi ministri, due popolari, uno portoghese, l’altro lussemburghese. Il cambio della guardia si celebrerà il 1° novembre. Sarà vera svolta? È il grande interrogativo che pesa sul nuovo quinquennio europeo che va a incominciare e alla vigilia di un nuovo vertice Ue che domani e venerdì a Bruxelles, nel mezzo di una congiuntura sempre più negativa, dovrebbe parlare di crescita e investimenti e invece quasi certamente ripiegherà sui soliti mantra del rigore e delle riforme strutturali, dei patti di stabilità quali veri e unici motori di uno sviluppo sano.

Da anni la chiave di tutte le scelte europee sta a Berlino dove regna Angela Merkel, la cui proverbiale cautela è sempre più condizionata da destra, da Alternativa per la Germania che erode ai fianchi la Cdu-Csu, invece che dai socialisti della Spd, i suoi partner nel governo di grande coalizione. A favorirne una benefica sterzata di sicuro non aiuta l’incomunicabilità crescente con la Francia di François Hollande, che sfida apertamente le regole Ue pur professando al contempo il proposito di rispettarle… con il tempo. Né aiuta l’altrettanto crescente divaricazione del credo e delle ambizioni di popolari e socialisti, i due maggiori partiti europei, alfieri gli uni di un’assertiva politica di risanamento e modernizzazione dei vari sistemi-Paese e gli altri di un grande piano europeo di investimenti capace di rimettere in moto crescita e occupazione, come complemento indispensabile della dottrina dei sacrifici e delle riforme.

La plateale cacofonia programmatica tra i due fronti, che del resto ricalca quella franco-tedesca, alla lunga rischia non solo di far saltare la grande coalizione che oggi governa anche l’Europarlamento ma di mettere alle corde la nuova Commissione Juncker e i suoi margini di mediazione in casa e fuori. Il tutto in un clima di ambiguità fatto apposta per aumentare la confusione sugli obiettivi condivisi e paralizzare una macchina decisionale già molto complessa. Del resto quando, per superare l’esame delle audizioni parlamentari, il socialista francese Pierre Moscovici, nuovo commissario agli Affari economici, invece di difendere, alla luce dei guasti indotti dall’austerità eccessiva, in modo forte e chiaro l’urgenza dello sviluppo nell’interesse collettivo e della tenuta dell’euro, ha preferito dissimulare le sue convinzioni facendo il “tedesco” tutto d’un pezzo, come sperare in un’Europa diversa e migliore?

Nel grande malessere che contrassegna il principio del nuovo quinquennio c’è però anche dell’altro. C’è l’ignavia di Francia e Italia, seconda e terza economia dell’euro: non brillano per coerenza e serietà nel rispetto di regole e impegni europei eppure non esitano a contestarli in nome della causa giusta della crescita, che però diventa inevitabilmente meno giusta alla luce delle rispettive e incontestabili inadempienze. C’è la sfiducia della Germania circa le reali intenzioni dei suoi maggiori partner, tanto profonda da indurla al pareggio di bilancio nel 2015 invece di rilanciare domanda e investimenti: prima di tutto nell’interesse della sua economia che frena in modo sempre più allarmante. E poi nel suo ricorrente auspicio di una politica monetaria della Bce meno sensibile ai problemi del Sud e più favorevole agli interessi tedeschi, per esempio a ritrovare tassi di interesse più remunerativi per il risparmio di una popolazione che invecchia. C’è infine la stanchezza tra i tradizionali alleati di ferro di Berlino, come Austria, Finlandia, Olanda e Belgio, che pur non misconoscendo, al contrario, il valore aggiunto di conti in ordine e riforme, invocano con insistenza una spinta a crescita e occupazione. «La sollecitazione di Bruxelles a raggiungere il pareggio di bilancio nel 2015 è un’opinione interessante che non condividiamo. La frugalità è una cosa buona ma l’austerità non serve per stimolare l’economia» ha dichiarato il cancelliere austriaco Werner Faymann. Insomma il rigore va bene ma non al punto di fermare gli investimenti necessari alla ripresa.

Nel suo testardo rifiuto di una politica espansiva che altro non sia che il meritato premio di sacrifici, cure dimagranti e riforme, la Germania appare autolesionista e sempre più isolata, con il solo conforto di Paesi come Portogallo, Spagna, Irlanda che sono passati e usciti dal calvario della troika e ora pretendono che a nessuno sia risparmiato. Il prossimo giudizio sulle varie leggi di bilancio nazionali appena consegnate a Bruxelles, il modo con cui sarà reso e articolato dirà molto presto se in Europa esiste ancora e fino a che punto lo spazio per venirsi incontro, per arrivare a ragionevoli compromessi. Al momento appare molto stretto. Strappare però la corda tra gli opposti estremismi in campo, rischiare la rottura con la Francia equivarrebbe a un salto nel buio. Il cancelliere Helmut Kohl amava ripetere al presidente francese François Mitterrand: «Per fare una buona politica europea devo prima vincere le elezioni». Angela Merkel ne ha già vinte tre ma ancora non ci riesce. Forse non ha la stoffa né il coraggio dei grandi leader.

Ristrutturazioni, l’Iva scende al 4% ma c’è il dubbio Ue

Ristrutturazioni, l’Iva scende al 4% ma c’è il dubbio Ue

Antonella Baccaro – Corriere della Sera

Ristrutturazioni edilizie con tassazione Iva ridotta dal 10% al 4%. E il rischio di una procedura d’infrazione europea per la norma che modifica le concessioni autostradali in essere. Sono le novità emerse rispetto al decreto sblocca Italia, approvato dalla commissione Ambiente della Camera e ieri approdato in Aula. Il taglio dell’Iva dal 10% al 4% costituisce un altro vantaggio per chi ristruttura il proprio immobile o ne migliora le prestazioni energetiche, che si aggiunge alla possibilità di avvalersi della detrazione Irpef del 50% sulle ristrutturazioni edilizie, sui mobili e sui grandi elettrodomestici e di quella Irpef e Ires del 65% sui lavori per il risparmio energetico, prorogata al 2015 dalla legge di Stabilità.

La riduzione sarà coperta con l’aumento dell’Iva per le nuove costruzioni prima casa vendute direttamente dalle imprese, che passa dal 4 al 10%. Al riguardo il Servizio Studi della Camera segnala che quella del 4% è un’aliquota «ultraridotta», «adottata con una deroga specifica al momento della emanazione della prima direttiva Iva per una tabella predefinita di beni e servizi, e pertanto non modificabile: la normativa europea consente agli Stati membri di adottare due aliquote ridotte rispetto all’aliquota ordinaria, comunque non inferiori al 5%. Lo Stato italiano ha adottato una sola aliquota ridotta, al 10%. Occorrerebbe pertanto valutare la compatibilità comunitaria dell’aliquota introdotta dalla norma».

L’altra novità del decreto sblocca Italia è quella per cui, in base a un emendamento M5S, la deduzione Irpef del 20% della spesa per l’acquisto delle case (nuove o ristrutturate) non è più condizionata alla destinazione all’affitto dell’immobile. Un secondo emendamento, questa volta del Pd, ha circoscritto la norma alle sole case già costruite e rimaste invendute alla data della conversione del decreto. Le due norme si compenserebbero dal punto di vista finanziario ma il ministero delle Infrastrutture non condivide la modifica «grillina» perché eliminerebbe la ratio per la quale è stato pensato il provvedimento: è probabile che l’articolo venga riemendato in Aula.

Intanto sulla norma che modifica le concessioni autostradali sulla base di nuovi piani economico-finanziari, finita nei giorni scorsi nel mirino dell’Autorità dei trasporti e dell’Antitrust, l’Unione europea ha aperto una preprocedura di infrazione Eu-Pilot, chiedendo alle autorità italiane di fornire alcuni approfondimenti. In una comunicazione inviata il 17 ottobre alle autorità italiane dalla Dg Mercato interno e servizi, si osserva che la misura sembra consentire la realizzazione di «significative modifiche» ai contratti di concessione esistenti riguardanti, in particolare, lavori nell’ambito del rapporto concessorio e livello delle tariffe». Inoltre la Commissione paventa che le modifiche «potrebbero consistere in proroghe significative della durata di concessioni esistenti», in violazione delle direttive Ue sugli appalti pubblici che consentono lavori complementari non previsti nella concessione in essere «solo quando divenuti necessari, a seguito di una circostanza imprevista, per l’esecuzione dell’opera prevista», con specifiche condizioni.

L’Europa eviti la deriva “dogmatica”

L’Europa eviti la deriva “dogmatica”

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Il documento programmatico di bilancio 2015 (Dpb-2015, fondamento del disegno di legge di stabilità) dovrà superare due ostacoli. Quello del Parlamento italiano e quello delle Istituzioni Europee. L’Italia sta concludendo il sesto anno di crisi nel cui ambito gli ultimi tre anni sono stati di recessione piena. Intanto abbiamo cambiato quattro governi. È ora di rendersi conto che una delle condizioni necessarie per superare la nostra crisi è quella di mostrare la massima coesione all’Europa e ai mercati. Speriamo quindi che le rappresentanze istituzionali, economiche e sociali italiane sappiano guardare all’interesse nazionale tenendo conto delle scelte innovative del Governo in termini di spinta fiscale (unita a riforme) agli investimenti, alle imprese, all’occupazione. La Francia ha deciso di disattendere i parametri di bilancio europei e di premere, come pare, con qualche margine di successo, sulla Germania perché, ai tagli di spesa richiesti agli altri, affianchi in pari misura suoi investimenti infrastrutturali. L’Italia rispetta invece nella sostanza (salvo che per il debito) i parametri europei ma la sua strada non sarà tutta in discesa.

Rigore e sviluppo
Nel DPB-2015 inviato dall’Italia alla Commissione europea si pone un problema cruciale: come evitare che l’Eurozona affondi nella recessione-deflazione riprendendo invece a crescere creando occupazione nella stabilità. Il Presidente Napolitano, il presidente Renzi, il ministro dell’Economia Padoan si sono molto impegnati per mobilitare la fiducia e la responsabilità dell’Europa. Parlare, come fa la cancelliera Merkel, di compiti che vari Paesi (tra cui l’Italia) devono fare a casa, è per noi una banalizzazione di fronte a più di 18 milioni di disoccupati della Uem e a più di 3 milioni del nostro Paese. Questo spiega perché personalità tedesche autorevoli, tra le quali di recente Joschka Fischer, stiano criticando senza sconti la Merkel e il suo ministro delle Finanze. Le forze del rilancio, comprese quelle imprenditoriali europee, devono però essere più coalizzate non contro qualcuno ma per lo sviluppo. Anche il Parlamento europeo (ai cui vertici l’Italia conta parecchio) va valorizzato appieno perché lo stesso si è dimostrata in passato assai più lungimirante della Commissione e del Consiglio europeo. Bene fa perciò il DPB-2015 a sottolineare: che la crisi europea ha intaccato la fiducia di imprese e consumatori; che la politica monetaria non basta pur avendo evitato il peggio; che le necessarie riforme strutturali nei singoli Paesi producono effetti differiti mentre in recessione ci vogliono interventi ad effetto rapido; che senza crescita anche l’innovazione e la competitività si attenuano e la stessa sostenibilità dei debiti pubblici ne risente. La critica al rigore che genera crescita è chiara e su questa si innesta il programma italiano. Lo stesso coniuga una politica di bilancio euro-compatibile, che stimoli nel breve termine investimenti ed occupazione, con delle riforme strutturali che nel medio (1.000 giorni) e nel lungo termine generino più competitività e produttività del sistema Italia.

Riforme e crescita
Il DPB-2015, già approfondito su queste colonne, si fonda inoltre su un concetto centrale. Le riforme (con sostegni di bilancio rispettosi del vincolo europeo del 3% di deficit su Pil), generano crescita che favorisce il miglioramento nel tempo nei rapporti del deficit e del debito pubblico sul Pil. Questo concetto poggia su due basi. La prima base è sostanziale e riguarda le riforme strutturali sempre richieste dalla Ue all’Italia (pubblica amministrazione e semplificazione, giustizia, competitività e fiscalità, mercato del lavoro) per gli effetti sulla crescita, sull’occupazione e sulle finanze pubbliche. In termini di Pil, le misure che hanno costi di finanza pubblica (taglio Irap, bonus Irpef, jobs act e azzeramento triennale contributi, crediti di imposta per R§S), dovrebbero generare entro il 2018 un incremento cumulato di 0,7 punti percentuali che rimane poi incorporato nella dinamica del reddito nazionale specie per gli aumenti di investimenti e occupazione. L’effetto cresce considerando anche le riforme non meno importanti (semplificazioni e giustizia, fonti di potenziali risparmi e a costo zero) che avranno tuttavia forti resistenze e quindi effetti difficilmente misurabili. Quanto al debito pubblico sul Pil già dal 2016 sarebbe più basso di quello conseguibile “risparmiando” gli 11 miliardi che il DPB-2015 destina alla crescita . Quindi la minore correzione fiscale nei prossimi tre anni verrebbe presto compensata dalla crescita del Pil. La seconda base è istituzionale e riguarda il rispetto delle prescrizioni europee nel loro insieme. Il DPB-2015 argomenta da un lato che la grave recessione in atto (che peggiorerebbe con ulteriori rigidità fiscali) e dall’altro che le riforme in cantiere consentono il posponimento del pareggio strutturale di bilancio. Anche perché in tal modo migliora la sostenibilità di lungo periodo del debito pubblico sul Pil.

Una conclusione euro-italiana
L’Italia non “sfida” perciò l’Europa ma le chiede una lettura non dogmaticamente formale della situazione con l’uso di una razionalità politica ed economico-fiscale. Sono le argomentazioni condivisibili del DPB-2015 alle quali andrebbe sempre aggiunta quella, non meno importante, del rilancio degli investimenti infrastrutturali europei finanziati su scala europea con l’uso di europroject bond o eurounionbond. Strategia che si connette sia a quella del presidente della Commissione europea Juncker per il suo piano da 300 miliardi di investimenti in 3 anni sia ai gradi di libertà di cui potrà fruire Draghi per canalizzare liquidità agli investimenti. Quanto al nostro Governo, senza rinunciare alle critiche costruttive (su cui ritorneremo), crediamo si debbano attendere le prove dei fatti dando alle innovazioni aperture di credito come quelle di Moody’s e Financial Times. Due valutatori non abituati a fare sconti, specie all’Italia.

Un’altra tempesta perfetta rischia di travolgere l’Europa

Un’altra tempesta perfetta rischia di travolgere l’Europa

Renato Brunetta – Il Giornale

Se anche Paul Krugman fatica a capire come andrà a finire la «faccenda» dell’euro, o meglio, come farà a finire in modo non catastrofico, e si spinge fino a ipotizzare/auspicare l’uscita di paesi fondatori, come la Francia, dall’Unione europea e dalla moneta unica, vuol dire che la situazione è non poco compromessa. Che ormai le abbiamo provate tutte senza risultato, tanto in termini di politica economica quanto in termini di politica monetaria.

In politica economica si è sbagliata la linea: si pensi alla dottrina calvinista dei «compiti a casa» e alle ricette «sangue, sudore e lacrime» imposte ai paesi sotto attacco speculativo dall’Europa a trazione tedesca. Le misure di politica monetaria, invece, si stanno rivelando inefficaci, o meno efficaci del previsto. Siamo nel momento di maggiore debolezza non solo dell’Europa politica, ma anche della Bce, sempre più bloccata dai veti della Bundesbank, di cui gli operatori sono perfettamente a conoscenza e su cui cominciano a speculare. Dopo 2 anni e mezzo di attesa, i mercati dicono «vedo» al «faremo di tutto» di Mario Draghi del luglio 2012. Se la risposta non sarà immediata e forte l’Eurozona avrà finito le munizioni. E, questa volta sì, l’euro potrebbe implodere davvero.

La Germania dovrebbe ridurre il suo surplus della bilancia commerciale, aumentare gli investimenti e la domanda interna, magari facendo un po’ di deficit, ma non lo fa. La Francia dovrebbe dimostrarsi un po’ meno sfrontata nei confronti delle regole europee, indebolite dal suo atteggiamento sprezzante, ma non lo fa. E l’Italia sta perdendo la sua grande occasione di mediazione e sintesi: dimostrare a Germania e Francia che la verità sta nel mezzo, che le regole di bilancio si possono rispettare, utilizzando al meglio i margini di flessibilità già previsti dai Trattati. Basta essere credibili facendo le riforme che generano crescita e garantiscono un percorso di rientro da eventuali lievi discostamenti dai parametri di Maastricht.

Il vuoto di leadership lasciato dall’Italia è stato, quindi, ancora una volta, colmato dalla Germania. Giovedì, parlando davanti al suo Parlamento, Angela Merkel lo ha detto in maniera esplicita: la tempesta sui mercati, innescata mercoledì 15 dalla Grecia, è il risultato del mancato rispetto, da parte di alcuni paesi dell’area euro, delle regole del Patto di stabilità e crescita. La calma in Europa c’è stata solo quando le regole non sono state violate. La Germania è riuscita a coordinare disciplina di bilancio e crescita, e anche gli altri paesi devono fare lo stesso. La Cancelliera si è poi riservata di chiedere un rafforzamento della disciplina di bilancio già al prossimo Consiglio europeo del 23-24 ottobre a Bruxelles. Che significa ricadere nel circolo vizioso.

Ma questa è solo l’interpretazione tedesca della bufera finanziaria. C’è, infatti, chi la vede in maniera opposta: il crollo delle borse e il balzo in alto degli spread della scorsa settimana è dipeso dagli ennesimi dati negativi sull’andamento dell’economia nell’area euro, Germania inclusa. Recessione e deflazione sono il risultato delle politiche economiche sbagliate adottate negli anni della crisi e le istituzioni europee, pur avendo compreso l’errore, non accennano a cambiare rotta, anzi perseverano nel «sangue, sudore e lacrime». In un contesto come questo, in cui le politiche economiche dei paesi dell’Unione sono tutt’altro che coordinate tra loro e in cui, nel vuoto decisionale lasciato dalle istituzioni europee, l’unico paese che prende in mano la situazione è sempre e soltanto la Germania, portando l’Europa sulla strada sbagliata, neanche la Bce è più in grado di assicurare la calma sui mercati. Quello che emerge dalle decisioni di politica monetaria degli ultimi mesi, infatti, è che anche all’interno della Banca centrale europea sta prevalendo la linea tedesca.

L’ultima «zampata» di Mario Draghi risale ormai a quasi sei mesi fa, poi non è più riuscito a incantare i mercati. Proprio perché alla conferenza stampa mirabolante di giugno scorso, in cui annunciava un grande piano di 400 miliardi di finanziamenti agevolati alle banche, da destinare esclusivamente alla concessione di credito a famiglie e imprese, e un grande piano di acquisto di Abs (titoli obbligazionari che «impacchettano» prestiti a privati e imprese), per alleggerire i bilanci delle banche, non è seguito, al contrario di quanto prevedevano tutti, un programma di acquisto di titoli di Stato sul modello del quantitative easing americano, ma una clamorosa marcia indietro.

Se negli ultimi anni gli errori di politica economica sono stati compensati dalle misure di politica monetaria della Bce e l’Europa ha potuto beneficiare di un periodo di calma apparente sui mercati, si pensi al whatever it takes di luglio 2012, oggi la ritrovata incertezza e la debolezza della Bce scoprono la realtà vera: la moneta unica è una costruzione imperfetta e al suo interno i singoli Stati nazionali non sono in grado di camminare con le proprie gambe.

Il momento in cui tutto questo avviene non è dei migliori: il prossimo 26 ottobre saranno resi noti i risultati degli stress test di 124 banche europee (di cui 15 italiane) e i rumors non lasciano prevedere nulla di buono. Pare che già alcune delle vendite di Borsa della scorsa settimana siano state causate dal fatto che si dia quasi per certo il fallimento dei test di molte banche, non solo italiane. Inoltre, il 17 settembre la Fed ha ridotto ulteriormente la sua iniezione mensile di liquidità sui mercati, annunciando che gli acquisti di ottobre, pari 15 miliardi di dollari, potrebbero essere gli ultimi. Con meno soldi in circolazione le scelte di portafoglio dei gestori diventeranno più selettive e i primi titoli che saranno smobilizzati saranno quelli dei paesi europei considerati più deboli (come, per esempio, l’Italia, se continua a non fare le riforme). Al primo segnale di incertezza, di debolezza o di comportamenti opportunistici, inoltre, ricomincerà la corsa al Bund tedesco, considerato «bene rifugio», con il relativo aumento degli spread. Anche di questo la scorsa settimana abbiamo avuto già un assaggio.

La prossima riunione del comitato operativo della Fed è in agenda per il 29 ottobre. Solo allora sapremo se la linea della presidente Janet Yellen verrà confermata, o se prevarranno le istanze del presidente della Federal Reserve di Saint Louis, James Bullard, che, invece, preme per il prolungamento del quantitative easing . Il consiglio direttivo della Bce si riunirà il 5 novembre. Deciderà quello che i mercati si aspettano, vale a dire l’allentamento monetario, o prevarrà l’attendismo degli ultimi mesi, che, come abbiamo visto, ha neutralizzato l’accelerazione di giugno, e le borse precipiteranno ancora più giù? Un tale evento nefasto troverebbe l’Italia in mezzo al guado.

L’Italia manca di credibilità sul piano internazionale e dei mercati. L’esecutivo si regge su una maggioranza di partito e non su una maggioranza parlamentare. Nel paese protestano tutti, incluse le Regioni, governate da rappresentanti dello stesso Pd che è a palazzo Chigi. La finanza pubblica è fuori controllo e le previsioni macroeconomiche del governo appaiono fin troppo ottimistiche agli occhi di tutti. La legge di Stabilità presentata mercoledì va nella direzione opposta rispetto a quella auspicata dalla Commissione europea e dagli organismi internazionali. In controtendenza rispetto all’attuale mood dei mercati, come l’abbiamo descritto. Più che domare la tempesta, e cogliere l’occasione per assumere un ruolo di leadership in Europa, Matteo Renzi sembra fare di tutto per esserne travolto. Davvero vuol passare alla storia come colui che ha affossato l’Italia e, con l’Italia, l’euro?

La finestra (stretta) per la flessibilità europea

La finestra (stretta) per la flessibilità europea

Enzo Moavero Milanesi – Corriere della Sera

In Europa, i governi degli Stati dell’Eurozona hanno inviato, entro la data prevista del 15 ottobre, il progetto del rispettivo bilancio (la «legge di Stabilità»). Si è aperto un periodo cruciale, durante il quale ne saranno valutate sostenibilità e prospettive. La Commissione europea ha il compito di effettuare un’analisi approfondita e di emettere un parere di cui Governi e Parlamenti nazionali dovranno tener conto. Un parere motivato e pubblico; molto atteso nei mercati finanziari, da chi decide se acquistare, e a quale tasso d’interesse, i titoli dei debiti pubblici dei vari Paesi. È opportuno che, insieme agli investitori, si allertino anche i cittadini, facendosi sentire dai loro rappresentanti nelle istituzioni democratiche. Infatti, nel caso di «bocciatura» europea di un progetto di bilancio o di inosservanza delle indicazioni contenute nel parere, gli inevitabili effetti sui mercati si ripercuoterebbero velocemente anche su di noi cittadini, in termini di costi sociali e maggiori tasse. Non dobbiamo cadere in errore: il vero snodo è la reazione, l’atteggiamento dei mercati, ben più della posizione di questo o quel Paese dell’Unione europea.

Considerato l’elevato livello del debito pubblico accumulato dall’Italia e il peso sul bilancio dello Stato degli interessi passivi che paghiamo per sostenerlo, la fase di esame, iniziata da qualche giorno, merita tutta la nostra attenzione. Il meccanismo di esame europeo – come spesso succede con l’Ue – sembra comprensibile solo agli addetti ai lavori; d’istinto, lo percepiamo troppo «tecnocratico», probabilmente influenzato da interessi a noi estranei, magari ostili. Provo a illustrarlo, in estrema sintesi. L’obiettivo è di permettere la valutazione dei bilanci nazionali, quanto prima possibile, per individuare gli eventuali problemi e i relativi rimedi. Il sistema è stato introdotto nel 2013, quale difesa contro il rischio di conti pubblici divergenti fra Stati che condividono la stessa moneta. Un rischio che la crisi globale ha mostrato essere concreto: tale da pregiudicare stabilità e integrità dell’Eurozona, con grave danno, in particolare, per le economie meno salde. Le caratteristiche base del meccanismo sono tre. La prima è la sua natura preventiva: evitare disavanzi eccessivi nei bilanci nazionali che determinerebbero procedure d’infrazione e sanzioni, previste sin dagli inizi dell’euro per proteggerne la solidità. La seconda è la tutela dell’interesse generale e della trasparenza: è la Commissione europea (indipendente dagli Stati e controllata dal Parlamento europeo – eletto dai cittadini – nonché dalla Corte di giustizia Ue) che svolge la verifica e le sue risultanze sono pubbliche (già ora, i progetti di tutti i governi si trovano sul sito della Commissione). La terza sono i tempi (posto che le leggi di bilancio vanno approvate per il 31 dicembre): la Commissione, ricevuti i progetti (15 ottobre), se ravvisa «un’inosservanza particolarmente grave degli obblighi», pubblica il suo parere, entro due settimane (29 ottobre), dopo aver sentito lo Stato in causa; quest’ultimo ha, poi, tre settimane (19 novembre) per presentare un nuovo progetto, che sarà oggetto di un ulteriore parere entro altre tre settimane (10 dicembre); qualora, invece, non rilevi una tale patologia, la Commissione diffonde, entro il 30 novembre, i pareri per ciascun Paese e una valutazione delle prospettive d’insieme dell’Eurozona; il tutto è presentato all’Eurogruppo, ai ministri economici dei vari Paesi, il cui avviso è reso pubblico «ove appropriato»; anche il Parlamento europeo e i Parlamenti nazionali possono richiedere una presentazione.

Dunque, le due settimane in corso sono nodali, al fine di comprendere se qualche progetto di bilancio sarà «bocciato» e di sapere cosa andrà modificato per scongiurare procedure d’infrazione, sanzioni e turbolenze sui mercati. Le regole base hanno un’intrinseca flessibilità, così spesso invocata a livello politico. Tuttavia, poiché si tratta di conti che devono quadrare e di precisi obiettivi di prospettiva, l’esame è prevalentemente tecnico: occorre che i risultati siano credibili e verificabili. L’interdipendenza delle economie nell’Eurozona, amplificata dalla crisi, ci condiziona: tutti gli Stati hanno un interesse diretto alla diligenza degli altri. I mercati e gli investitori attendono, osservano e reagiranno. C’è apprensione per la Francia e l’Italia, data l’importanza delle loro economie. È fondamentale che teniamo un costante, intenso, ben preparato e argomentato contatto con le istanze Ue e con gli altri Paesi. Come cittadini possiamo vigilare, affinché Governo e Parlamento operino al meglio, in sede interna ed europea, con efficace dialettica democratica. Dovremmo farlo: per tutelare – anche noi! – i nostri interessi.

Il pericolo dell’infarto finanziario

Il pericolo dell’infarto finanziario

Mario Deaglio – La Stampa

Meno 4,4 per cento; meno 1,21 per cento; più 3,42 per cento. Queste cifre mostrano la variazione del Ftse Mib, il principale indice della Borsa di Milano nelle ultime tre sedute della settimana scorsa e ripetono, un poco amplificati, gli andamenti delle Borse di tutto il mondo. Variazioni di queste dimensioni, per di più senza una direzione precisa, escono dai limiti della normalità, soprattutto se si tien conto che, in questi giorni, nell’economia reale non è cambiato pressoché nulla, con l’Europa sull’orlo di una recessione – che potrebbe anche non arrivare o essere molto lieve – e gli Stati Uniti impegnati in una ripresa non del tutto convincente (nella prima metà dell’anno la crescita americana è risultata di poco superiore all’1 per cento, meno dell’aumento della popolazione).

Siamo quindi di fronte a una fibrillazione dei mercati. Potrebbe derivarne un infarto? Perché? Perché proprio ora? Il pericolo di un infarto finanziario deriva dal fatto che la trasparenza e la regolazione dei grandi mercati mondiali non hanno compiuto molti passi avanti dal 2007-08 anche se non c’è oggi una specifica categoria di titoli ma a rischio, come erano allora i famigerati americani mutui «subprime». Una parte importante della risposta va cercata nella politica mondiale. Inforcando le lenti della politica occorre guardare al paese che vanta il maggior mercato finanziario globale nonché (ancora per poco, ossia finché non sarà superato dalla Cina, probabilmente nel 2015) il maggior sistema economico del pianeta.

Naturalmente stiamo parlando degli Stati Uniti dove ogni due anni viene rinnovata gran parte del Congresso. Tra una ventina di giorni, e precisamente il 4 novembre, si terranno negli Stati Uniti le cosiddette «elezioni di metà mandato» ed esiste la possibilità che i democratici del presidente Obama si trovino in minoranza sia al Senato (che attualmente controllano) sia alla Camera dei Rappresentati, dove già oggi sono in netta minoranza.

Se così fosse, Obama diventerebbe ciò che nel gergo politico di quel paese si chiama un’«anatra zoppa», non più in grado di perseguire efficacemente alcuna vera azione politica né interna né internazionale senza il «permesso» dei suoi oppositori repubblicani. La prossimità delle elezioni sta inoltre frenando il possibile intervento militare americano in Siria-Iraq soprattutto perché gli elettori americani sono stanchi di guerre. Ai curdi che difendono accanitamente la città di Kobane arrivano soprattutto le armi mandate dagli alleati europei degli Stati Uniti e l’aiuto di un numero non elevato di incursioni di aerei americani.

Nei prossimi venti giorni, l’incertezza sui risultati elettorali americani potrebbe incidere negativamente sui listini, così come potrebbe avere un impatto negativo una sconfitta dei democratici di Obama proprio per la paralisi governativa che ne deriverebbe. Un possibile vuoto di politica economica potrebbe riguardare anche l’Unione Europea, dove la nuova Commissione muoverà in novembre i suoi primi passi, necessariamente incerti. Non va però trascurata la politica estera.

Il vuoto politico si aggiunge così al vuoto economico, la politica contribuisce, e non poco, a bloccare l’economia. E questo non solo – o non tanto – in Italia dove il processo di approvazione della «manovra» non ha la rapidità auspicata dal presidente del Consiglio, ma comunque procede molto più celermente che in passato; ma anche, e soprattutto, a livello mondiale. Alle Borse non rimane altro che guardare alle relazioni trimestrali delle imprese e alle previsioni di crescita dei diversi settori e quel che vi possono scorgere non è precisamente entusiasmante: a livello mondiale, sono dati molto variegati mentre la Fed parla di crescita complessivamente «moderata» o «modesta». E Janet Yellen, da pochi mesi a capo della Fed, sottolinea la crescente diseguaglianza della ricchezza e dei redditi negli Stati Uniti come motivo di preoccupazione perché costituisce un blocco alla ripresa.

Ai pazienti a rischio d’infarto i medici prescrivono spesso una serie di pillole e suggeriscono di cambiare stile di vita. Alle economie ricche (e ai ricchi mercati finanziari) a rischio d’infarto è necessario proporre qualche pillola di nuova liquidità e un cambiamento di politica economica che introduca qualche modificazione nella distribuzione dei redditi in modo da incoraggiare, quanto meno nel breve periodo, un certo rilancio dei consumi interni. Spesso il malato non segue i buoni consigli e la Signora Merkel non ha, nelle ultime settimane, dato prova di quel pragmatismo, di quel «buon senso» del quale l’Europa e l’intera economia mondiale hanno disperatamente bisogno. C’è da sperare che l’aria di Milano, dove si è svolto un inedito incontro Europa-Asia la convinca (e convinca i suoi ministri economici) che economia e ragioneria sono due discipline diverse e che la politica economica non si fa contando i decimali di – eventuale – sforamento del tre per cento del rapporto deficit/prodotto lordo.

Le due trappole che l’Europa non vede

Le due trappole che l’Europa non vede

Paul Krugman  – Il Sole 24 Ore

Chiunque studi l’economia monetaria internazionale conosce bene la Legge di Dornbusch: «La crisi ci mette molto più tempo ad arrivare di quanto pensavate, e poi si svolge molto più in fretta di quanto avreste pensato» (lo disse in un’intervista, nel 1997, il compianto economista tedesco Rudi Dornbusch). E con l’ultima crisi dell’euro è successo esattamente questo.

Fino a poco tempo fa gli austeriani che dettano la politica macroeconomica della zona euro andavano in giro tronfi a cantar vittoria per una modesta risalita della crescita. Poi l’inflazione è precipitata e l’economia dell’Eurozona ha cominciato a incepparsi, e tutti sono andati a riguardarsi i fondamentali e si sono resi conto che la situazione rimaneva molto seria. Anche nell’estate del 2012 la situazione sembrava grave, e Mario Draghi, il presidente della Bce, riuscì a evitare che il vecchio continente precipitasse nel baratro. E forse riuscirà a farlo di nuovo, ma adesso il compito appare molto più difficile.

Nel 2012 il problema erano gli interessi sui titoli di Stato dei Paesi della periferia dell’euro, che in realtà, come adesso sappiamo, crescevano più per questioni di liquidità che per problemi di solvibilità. Una volta sgombrato il campo dalla prospettiva di una carenza di liquidità, il panico rientrò. Ma quello che sta succedendo adesso è ben diverso. È una crisi al rallentatore e coinvolge tutta la zona euro, che sta scivolando verso una trappola deflativa. Draghi può cercare di imprimere una spinta attraverso politiche di allentamento quantitativo, ma non è affatto scontato che possano servire allo scopo. E la politica limita i suoi margini di azione.

Un’altra cosa che mi colpisce è la quantità di confusione intellettuale che ancora c’è in giro. La Germania continua a voler vedere tutta la crisi come l’effetto di una gestione irresponsabile dei conti pubblici, e questo non solo esclude la possibilità di stimoli di bilancio efficaci, ma azzoppa l’allentamento quantitativo. E un’altra cosa incredibile è il fatto che la logica della trappola della liquidità, dopo sei anni- sei anni! -di tassi di interesse quasi a zero, continui a non essere compresa Ho letto recentemente, e non è neanche l’esempio peggiore, un editoriale su FT di Reza Moghadam, vicepresidente della Morgan Stanley, che scrive che «i salari e il costo del lavoro in generale sono semplicemente troppo alti, anche per gli standard dei Paesi ricchi e tanto più rispetto al concorrenti dei mercati emergenti». Santo cielo! Se è la concorrenza esterna che vi preoccupa allora bisognerebbe svalutare l’euro, non tagliare i salari. E tagliare i salari in un’economia incastrata in una trappola della liquidità quasi sicuramente aggraverebbe la recessione. Com’è possibile che ci sia ancora qualcuno che non lo capisce?

L’Europa ha sorpreso molte persone, me compreso, con la sua capacità di resistenza. E penso che la Bce di Draghi sia diventata un importante elemento di forza. Ma faccio sempre più fatica (come altri) a capire come andrà a finire tutta la faccenda (o meglio a capire come farà a finire in modo non catastrofico). Se trovate implausibile una storia in cui Marine Le Pen porterà la Francia fuori dall’euro e dall’Unione Europea, ditemi qual è il vostro scenario alternativo.