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Eurolandia non si fida dell’Italia

Eurolandia non si fida dell’Italia

Federico Fubini – La Repubblica

Se c’è un’istantanea dell’Italia che resta nella testa di Angela Merkel è quella dell’agosto 2011. Non è la foto da uno dei suoi tanti soggiorni a Ischia. È il ricordo di quello che la cancelliera visse come un tradimento. A quell’epoca, con una lettera di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet sul tavolo, il governo italiano promise misure importanti in cambio del soccorso della Bce. L’aiuto di Francoforte arrivò, le promesse di Roma finirono in soffitta poche ore più tardi.

In Italia di quell’episodio oggi si ricorda il fatto che fu Silvio Berlusconi, allora premier, a determinare il voltafaccia. In Germania invece si continua a pensare che responsabile ne fu semplicemente l’Italia, anche perché da allora tutti i governi seguiti a Berlusconi hanno omesso gran parte degli impegni. Quel passaggio del 2011 torna attuale nella mente della Merkel ora che, di nuovo, in Europa si parla di grandi compromessi. Interventi in Italia o in Francia per mettere le due economie in condizioni di competere, in cambio di un po’ di più pazienza a Bruxelles. Un taglio di spesa e di tasse sulle imprese, insieme a nuove regole sul lavoro, in contropartita a una certa tolleranza sul deficit e sul debito pubblico.

Varie versioni di proposte di questo tipo circolano fra i governi da almeno un anno. C’è però un dettaglio che passa quasi inosservato a Roma, mentre a Berlino resta la tessera centrale del mosaico: niente più concessioni all’Italia in cambio di impegni solenni o altri esercizi verbali. Qualunque accordo sulla “flessibilità”, cioè la speranza per l’Italia di non rischiare una multa e una sorveglianza stringente a Bruxelles, prevede prima i fatti. Precise riforme dell’economia approvate come leggi, tradotte in provvedimenti, applicate nella vita reale del Paese. Nient’altro basta ad avviare un negoziato in buona fede su come applicare il Fiscal Compact, cioè le regole di bilancio, in maniera meno burocratica. Forse perché in Italia sono cambiati quattro governi in meno di tre anni, spesso sfugge alla classe politica come l’erosione della credibilità in Europa oggi riguardi l’intero Paese: non il primo ministro di turno o quello appena sostituito da uno nuovo, forte o debole nei sondaggi che sia. È praticamente certo che di questi argomenti Merkel non parli esplicitamente con Draghi. Il canale di comunicazione diretta fra la cancelliera e il presidente della Bce da anni è aperto e funziona benissimo, fondato com’è sul rispetto dei rispettivi ruoli. Due anni fa, Draghi sapeva di avere l’as- senso di Merkel quando salvò l’Italia dal collasso annunciando che avrebbe fatto «qualunque cosa» per preservare l’euro. Anche oggi il banchiere centrale e la cancelliera la vedono in modo simile, almeno su un argomento: l’Italia, la sua stasi e la depressione in cui si dibatte da cinque anni. Entrambi vorrebbero vedere subito progressi nelle norme sul lavoro e nel taglio fiscale al costo di fare impresa, perché nel frattempo il Paese sta restando indietro anche rispetto alle economie più fragili o ai suoi stessi alleati.

La Francia di François Hollande, in teoria in “asse” con Roma, si è messa in marcia. Manuel Valls, il premier, ha espulso dal governo i dissenzienti e ora procede verso un piano di tagli di spesa da 50 miliardi di euro e riduzioni di tasse sulle imprese da 40 miliardi. Se lo porterà a termine tra tre anni, come da programma, l’export transalpino avrà guadagnato competitività su quello dell’Italia per qualcosa come il 2% del Pil francese. Le imprese francesi torneranno ad assumere, quelle italiane, surclassate, continueranno a chiudere. Quanto alla Spagna, è già avanti nel cambiamento e da anni gode della “flessibilità” di cui parla Matteo Renzi. Il deficit di Madrid viaggia intorno al 7% del Pil, ma il Paese non rischia sanzioni da Bruxelles. Nel frattempo, ha cambiato in profondità le regole sul lavoro e sui rischi d’impresa. Le procedure di fallimento delle aziende piccole e medie sono rapide, concluse senza giudici e a basso costo: gli investitori possono mettersele alle spalle e ripartire. I contratti di lavoro sono commisurati alla capacità di un’impresa di stare sul mercato e guadagnare. I licenziamenti per ragioni economiche o organizzative ora sono più facili, eppure la Spagna sta creando nuovi posti di lavoro ogni mese. L’Italia invece ne distrugge e resta in recessione – non il modo migliore di difendere i diritti acquisiti – mentre la Spagna cresce al ritmo del 2% annuo.

È di fronte a queste realtà che Draghi e Merkel fanno i conti e si trovano d’accordo. La cancelliera deve gestire le pressioni verso il rigore da parte della sua Corte costituzionale tedesca, del suo ministro finanziario Wolfgang Schaeuble e dell’opinione pubblica. Ma, come Draghi, sa che l’Italia è troppo grande per non essere aiutata: l’Italia che fa, ovviamente. Non quella che promette.

Le aspettative crescenti dell’uomo della Provvidenza

Le aspettative crescenti dell’uomo della Provvidenza

Gianfranco Summo – La Gazzetta del Mezzogiorno

Il bluff è uno degli aspetti più affascinanti del poker, almeno per gli appassionati del gioco. In fin dei conti è la strategia dove si mette sul tavolo la personalità del giocatore piuttosto che le sue carte. A vincere una mano con la scala reale sono buoni tutti, a zittire gli avversari con un punticino ci vuole forza, carisma, credibilitá.

Non coraggio, ma credibilità. Ecco, Matteo Renzi con il decreto (annunciato) Sblocca Italia sta puntando le sue ultime fiches di credibilità. Un grande italiano d’Europa, Mario Draghi, giocò nell’estate del 2012 una mano di poker con un bluff memorabile: annunciò al mondo di essere pronto a tutto per salvare l’euro e questa semplice «minaccia» fu sufficiente a rassicurare mercati, Ue e singoli Paesi. In realtà la Bce non spese un euro. Ma bastò l’autorevolezza di Draghi a rendere credibile l’annuncio. Però quell’annuncio non era stato preceduto da un’altra diecina di affermazioni pirotecniche e non si è mai visto il presidente della Bce mangiare un gelato davanti all’Eurotower per fare dispetto alle critiche di un giornale. E quindi Draghi è tuttora un pilastro dell’Europa, al punto che si scomoda la Merkel in persona se legge che il presidente della Bce prende posizione contro il rigorismo germanico. 

Non si può bluffare ad ogni giro, come sa pure un mediocre giocatore di poker. O anche solo di briscola- Allora, il decreto Sblocca Italia: per non tramutarlo in una bufala, innanzitutto il governo Renzi dovrà dimostrare che i dieci miliardi promessi siano soldi «nuovi». Se (come sembra) si tratta solo di mettere insieme opere già finanziate, se si tratta di attingere a fondi europei già disponibili, allora il bluff è scoperto fin da ora. E non basta sostenerlo dicendo che il decreto accelera le cantierizzazioni. Perché se solo di questo si tratta, allora vuol dire che il governo si scomoda e «occupa» un decreto semplicemente per una operazione di pura burocrazia. Che ci stanno a fare, dunque, ministri e ministeri? Non basta che facciano il loro lavoro, individuino priorità e disponibilità e diano corso a quello che dovrebbe essere la normalita di un Paese, cioé rispettare termini e scadenze di una opera pubblica? 

Verrebbe da pensare che il decreto Sblocca Italia serva a fare marketing e allo stesso tempo mascherare i limiti di una squadra di governo non ancora padrona delle proprie prerogative. E sarebbe doppiamente grave. Triplamente grave, poi, se consideriamo che in amministrazione, come in natura, non esiste il vuoto e lì dove la politica non riesce a fare il suo lavoro, ci pensano i burocrati. Esattamente il senso contrario a quello promesso da Renzi. 

Con una delle sue (tante) battute che farebbero invidia a Berlusconi, Renzi spiegò agli italiani in una intervista televisiva a La7 che lui ha detto che vuole cambiare verso, non può cambiare l’universo. Un simpatico modo per frenare forse gli entusiasmi che egli stesso ha acceso, quegli entusiasmi che lo hanno portato a guidare il governo e dell’Italia senza essere neppure stato eletto una sola volta al Parlamento. Dalle primarie del Pd, alla guida del partito e di lì alla presidenza del Consiglio dei ministri a furore di popolo. Tanto viscerale consenso ha come contraltare inevitabile una aspettativa altrettanto vertiginosa. 

Quindi Renzi non si stupisca se dopo soli sei mesi gli imprenditori cominciano a mugugnare, proprio quegli imprenditori che avevano traslocato armi e bagagli dal berlusconismo ad un Pd finalmente decomunistizzato. Ha cominciato due mesi fa la Confindustria di Giorgio Squinzi, poi la Confcommercio e ieri è arrivato il presidente dell’Ance, l’associazione dei costruttori, Paolo Buzzetti: servirebbero progetti per cento miliardi, ma basterebbero anche dieci miliardi purché siano «veri».

Ora Renzi non si spazientisca, non se la prenda con gli italiani che non apprezzano la sua buona volontà. Non faccia come l’italiano medio per il quale la colpa è sempre di qualcun altro. Renzi è un uomo politico giustamente ambizioso e ha ancora una grandissima fortuna dalla sua parte: l’Italia è allo stremo e non ha neppure la voglia, oltre che la forza, per cercare un altro leader; l’Europa, in tutte le sue articolazioni, è preoccupatissima perché l’Italia non è il Portogallo (che in termini di pil vale quanto la provincia di Treviso…) e salvare l’Italia o lasciarla affondare è roba da far crollare l’intero sistema dell’Unione e forse anche mezzo mondo. Due circostanze che fanno di Renzi l’uomo della provvidenza malgrado tutto e tutti, lui stesso compreso. Allora, un po’ di pazienza, Matteo Renzi: le carte buone arrivano, meno chiacchiere e più serietà. Anche perché i soldi sul tavolo da gioco sono i nostri ultimi risparmi.

In economia dobbiamo rimontare la classifica

In economia dobbiamo rimontare la classifica

Romano Prodi – Il Messaggero

Sarà stato il tempo autunnale di questa strana estate ma è certo che le ferie estive non hanno dissolto nessuna delle nebbie che gravano sull’economia mondiale. L’Asia continua a tirare ma con qualche incertezza in più, gli Stati Uniti hanno rallentato la loro crescita, molti Paesi in via di sviluppo stanno perdendo l’energia degli ultimi anni (persino il muscoloso Brasile va sotto zero) e l’Europa non si sveglia dal suo lungo sonno, anche perché la tensione ucraina, con le conseguenti chiusure del mercato russo, completa il quadro negativo di questa stagione.

Sarebbe tuttavia inappropriato attribuire principalmente alle tensioni politiche il cattivo andamento dell’economia europea: la nostra crisi ha radici lontane e ben poco è stato fatto per cambiare direzione. Per più di un anno e mezzo abbiamo ripetuto con noiosa monotonia che la crescita tedesca, fondata esclusivamente sulle esportazioni, non poteva avere vita lunga e che la Germania avrebbe potuto svolgere il suo ruolo di locomotiva dell’Europa solo se avesse iniettato nuovo potere d’acquisto nel suo mercato interno.L’illusione che la virtù germanica fosse più forte di ogni regola economica, che l’inflazione rimanesse l’eterno grande nemico e che i mercati esteri avrebbero per sempre sostenuto la crescita, ha impedito alla Germania di svolgere il ruolo di locomotiva che la sua dimensione economica e la sua responsabilità politica avrebbero dovuto comportare.

Finite le ferie estive ci accorgiamo di due nuove realtà. La prima è che la Germania non solo non è più in grado di fare da locomotiva ma ha cominciato ad essere un freno e che le previsioni dei suoi operatori economici peggiorano di giorno in giorno. Gli investimenti tedeschi veleggiano ormai verso un minimo storico, nonostante la necessità di recupero sia del settore pubblico che di quello privato. La seconda è che non solo non esiste alcun pericolo di inflazione ma che siamo ormai in piena deflazione. L’aumento dei prezzi non raggiungerà in ogni caso il mezzo punto all’anno mentre l’obiettivo della Banca Centrale Europea lo fissava intorno al due per cento.

Nessuna seria correzione è in vista né da parte delle autorità europee né dei singoli governi dell’Unione. È vero che il nuovo presidente della Commissione Juncker ha sottolineato la necessità di dare una spinta allo sviluppo ma poi si è dovuto accontentare di mettere a disposizione dell’intera UE una somma di cento miliardi all’anno per tre anni. Un passo nella direzione giusta ma non paragonabile a quello che fece Obama quando, per contrastare la crisi, iniettò nel sistema economico americano ottocento miliardi di dollari in un solo colpo. Quanto alla politica dei singoli Paesi, i messaggi di fine agosto sono a dir poco contrastati: in Francia il ministro dell’Economia è stato licenziato perché reputato uno spendaccione contro l’austerità mentre in Austria il “falco” Spindelegger si è dimesso per l’opposto motivo.

Il ruolo di armonizzare le diverse politiche ricade ancora una volta sulle spalle della BCE, anche se essa ha poteri assai più limitati di quelli della sua consorella americana. Nella cacofonia europea le parole di Draghi sulla necessità di utilizzare “una maggiore flessibilità nell’ambito delle regole esistenti” in modo da aiutare la ripresa e diminuire i costi delle riforme strutturali hanno fatto compiere un salto in alto a tutte le borse ed hanno contribuito ad abbassare i differenziali dello “spread” fra i titoli pubblici dei diversi Paesi europei. Una risposta positiva dei mercati al messaggio della BCE, nella convinzione che il cambiamento di politica europea fosse maturo, dato che la ripresa europea era ormai divenuta una condizione essenziale anche per la ripresa della crescita germanica.

A porre fine a queste illusioni ci ha pensato rapidamente il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Shauble, che ha brutalmente affermato che Draghi è stato male interpretato. Per rincarare la dose il responsabile dell’economia tedesca ha aggiunto che la BCE ha già usato tutti gli strumenti che essa ha disposizione nella lotta contro la deflazione e che quindi deve starsene buona. In poche parole la Germania non solo non intende cambiare politica aiutando a fermare il declino europeo ma dice a Draghi di non fare nulla perché ormai è andato oltre i suoi compiti.

Gli osservatori internazionali (a cominciare dall’Economist) pensano che una situazione di questo genere possa portare a una nuova crisi dell’Euro. Io non lo penso anche perché Draghi ha ancora molte armi da usare per combattere la recessione e ha ripetutamente espresso la volontà di usarle. In questo quadro tuttavia non mancheranno le tensioni e, come ben sappiamo, le tensioni speculative sono selettive e tendono a colpire i Paesi a uno a uno, cominciando dall’ultimo della classe. Purtroppo, tra i grandi membri dell’UE, noi siamo ancora gli ultimi della classe. È bene prenderne nota e reagire con serietà e con rapidità.

Adesso Draghi spari forte con il bazooka

Adesso Draghi spari forte con il bazooka

Carlo De Benedetti – Il Sole 24 Ore

Il giorno del segno meno davanti all’indice dei prezzi è arrivato anche per l’Italia. Il triste club europeo dei Paesi a inflazione negativa si allarga ed è chiaro da mesi che il problema riguarda l’Europa tutta. Quando due anni fa cominciai a lanciare l’allarme con gli articoli che il Sole ha gentilmente ospitato, sapevo di costituire una voce isolata, fuori dal mainstream economico. Tuttavia mai avrei pensato che saremmo scivolati in deflazione senza che nessun serio sforzo fosse messo in campo.

E invece è accaduto proprio questo. Ancora in questi mesi, in tutti i documenti ufficiali delle banche centrali si è letto del pericolo della bassa inflazione non della deflazione. È come se quella parola desse fastidio. Non c’è da sorprendersi allora se l’obiettivo che la Bce dovrebbe perseguire, cioè quello di una inflazione vicina al 2%, sia rimasto il più dimenticato, e quasi sconosciuto ai più, tra i parametri economici europei. Come siamo arrivati alla deflazione se il parametro di riferimento era il 2%? Perché non si è visto quel piano inclinato che avrebbe portato l’Europa all’accoppiata tragica deflazione/recessione?

Oggi sento dire che l’Europa ha una cultura anti-keynesiana, mi sembra francamente una sciocchezza. Ma di sicuro in Europa tutti coloro che in questi anni hanno avuto e hanno le leve della politica economica e monetaria si sono formati in una stagione in cui l’inflazione, non la deflazione, era il pericolo pubblico numero uno. È come se il loro Dna fosse predisposto per lanciare segnali di allarme solo quando l’indice dei prezzi tende all’insù. Se i prezzi sono freddi poco male, forse meglio. Ecco allora che gli uffici studi delle banche centrali e dei grandi organismi internazionali hanno continuato a sovrastimare gli andamenti sia della crescita sia dell’inflazione. L’economia continentale gelava e la Bce continuava ad avere nelle sue previsioni di medio termine prezzi in tensione verso l’aumento. Intanto l’interesse nazionale della Germania a tenere un euro forte e gli squilibri determinati dalla bilancia dei pagamenti tedesca facevano il resto. Ecco allora che dietro la deflazione di oggi c’è un mix esplosivo di cultura economica inadeguata e di interesse nazionale, di una sola nazione intendo.

Fatto sta che non si è voluto vedere quello che era sotto gli occhi di tutti. Sarà che ho imparato da anni a fidarmi più delle analisi di qualche vecchio e buon amico che lavora alla Fed, ma non era davvero difficile vedere quello che stava accadendo. Bastavano considerazioni di pura logica. È evidente che se diminuiscono i soldi per i consumi (salari fermi), e dunque non esistono ragioni per le imprese per aumentare la produzione in mercati calanti, aumenta la disoccupazione e diminuiscono i prezzi. Se poi questa dinamica si inquadra nella logica della globalizzazione, per cui tanta parte delle cose che consumiamo vengono prodotte altrove da alcune centinaia di milioni di lavoratori che sono stati inclusi di fatto nel nostro ciclo produttivo e che hanno salari proporzionati al costo della vita dei loro paesi d’origine, non era difficile prevedere gli esiti di oggi. Il problema è che ora ci siamo dentro. E tutto diventa maledettamente più difficile. È la logica distruttiva della deflazione: un avvitarsi verso il basso da cui è difficilissimo uscire. E la difficoltà per noi europei è doppia, proprio per la mancanza di know-how specifico di un’intera classe manageriale e politica che non ha mai dovuto confrontarsi con questo problema.
Pragmaticamente, allora, mi sembra opportuno in questa situazione seguire, se pur con ritardo, la politica di altre banche centrali. E non mi riferisco solo alla Fed che ha struttura e compiti diversi, ma anche alla politica espansiva della Banca d’Inghilterra, che ha contribuito non poco a fare del Regno Unito l’economia più efficiente dei G7, sia in termini di crescita che di rischio di deflazione.

Con il discorso di Jackson Hole Draghi ha dimostrato di avere coscienza del problema. È un’intelligenza politica vivida quella del nostro Mario e ne comprendo la prudenza. I tedeschi della Bundesbank sono lì a presidiare i propri interessi e la propria cultura: la reazione del ministro tedesco Wolfgang Schäuble, del resto, ha fatto capire a tutti i vincoli che frenano il presidente della Bce sulla strada dell’allentamento quantitativo. Perciò Draghi ha bisogno di un sostegno ampio e coraggioso perché la Bce proceda a un acquisto di titoli, anche americani, senza precedenti.

Come scriveva ieri il Sole 24 Ore, usciremo dal tunnel in cui ci siamo infilati se ciascuno farà la sua parte: se i governi nazionali faranno le riforme strutturali per rendere le economie nazionali più competitive, se l’Europa varerà una politica massiccia di rilancio di investimenti, se si utilizzerà tutta la flessibilità possibile nei trattati continentali, se la Bce userà tutte le sue armi contro la deflazione. Ma tutto questo funzionerà se si avrà il coraggio di uscire immediatamente da una visione macroeconomica chiaramente sbagliata. La deflazione è un problema nuovo per l’Europa, va affrontato con spirito nuovo. E il bazooka, in questo senso, ce l’ha ancora Francoforte. Che spari subito. E molto forte.

L’idea sbagliata di classe media e il rischio catastrofico dell’euro

L’idea sbagliata di classe media e il rischio catastrofico dell’euro

Paul Krugman – Il Sole 24 Ore

Un nuovo studio dell’istituto economico tedesco Iw mette a confronto le percezioni della disuguaglianza nelle nazioni avanzate: uno dei dati più significativi è che gli americani tendono, molto più degli europei, a pensare di vivere in una società di classe media, nonostante il reddito da quella parte dell’Atlantico sia distribuito molto meno equamente che in Europa. Mettendo a confronto Stati Uniti e Francia, per esempio, esce fuori che i francesi pensano di vivere in una società gerarchica, piramidale, quando in realtà la maggioranza di loro appartiene alla classe media. Gli americani hanno la convinzione opposta. Come sottolineano gli autori della ricerca, anche altri dati indicano che gli americani sottovalutano enormemente la disuguaglianza presente nella loro società, e quando gli si chiede di scegliere un modello di distribuzione ideale della ricchezza, rispondono che gli piace la Svezia. 

Quali sono le ragioni di questa differenza? Io, come molti altri, sono del parere che l’eccezione americana riguardo alla distribuzione del reddito (la nostra peculiare diffidenza e ostilità verso il welfare e i programmi anti povertà) sia strettamente legata alla nostra storia razziale. Tuttavia questo non spiega direttamente perché abbiamo una percezione cosi distorta della disuguaglianza effettiva: la gente potrebbe essere contraria ad aiutare “quelli là”, ma non per questo essere inconsapevole di quanto siano ricchi i ricchi. E’ possibile, tuttavia, che ci sia un effetto indiretto: la divisione razziale rende più forti le formazioni di destra, di ogni tipo, e queste formazioni a loro volta producono propaganda in gran quantità che ignora e minimizza il problema della disuguaglianza.

I sentimenti anti-keynesiani
In un articolo per il Washington Post, Matt O’Brien recentemente ha sottolineato che l’Europa sta andando peggio che ai tempi della Grande depressione. Nel frattempo, il presidente francese François Hollande (che con la sua mancanza di spina dorsale e la sua disponibilità a bersi le fandonie rigoriste ha condannato al fallimento la sua presidenza e forse anche il progetto europeo) incomincia finalmente a suggerire, molto timidamente, che forse ancora più austerità non è la risposta giusta.

L’economista di Oxford Simon Wren Lewis è del parere che l’abbraccio entusiasta delle politiche rigoriste nel Vecchio continente sia dovuto a una contingenza storica: in sostanza, la crisi greca ha rafforzato le posizioni degli austeriani in un momento critico. Secondo me la spiegazione non è così semplice. La mia idea è che in Europa esistevano forti sentimenti anti-keynesiani anche prima della crisi greca e che la macroeconomia così come la intendono gli economisti anglosassoni non ha mai avuto davvero cittadinanza nei corridoi del potere europei. Qualunque sia la spiegazione, sta di fatto che ci troviamo di fronte, come sottolinea O’Brien, a una delle più grandi catastrofi della storia economica.

Dai vincoli politici armi spuntate per la Bce

Dai vincoli politici armi spuntate per la Bce

Riccardo Sorrentino – Il Sole 24 Ore

L’inflazione scende ancora. Dove andrà? Qualcuno argomenta che ora può solo salire; ma anche se cosi fosse non sarebbe un buon motivo per pensare che la politica della Bce sia oggi sufficiente. Non si può infatti sperare in un vero aumento dei prezzi. L’inflazione, a fine anno, potrà forse allontanarsi un po’ dalla temuta quota zero, ma resterà bassa. Troppo bassa per consentire quel riequilibrio delle economie europee che richiede prezzi alti dove la ripresa ha più forza e prezzi più competitivi dove invece l’attività e più lontana dalle potenzialità del paese. È così quasi scontato che le nuove proiezioni della Bce, giovedì prossimo, indicheranno un peggioramento delle previsioni di inflazione: le indicazioni date a giugno per 2014 (+0,7%) e 2015 (+1,1%) non sono raggiungibili. 

Non si può allora dire che le misure della banca centrale stiano avendo effetto. Soprattutto a giudicare dalle aspettative di inflazione, che sono il vero obiettivo della politica monetaria e che, con i dati di agosto e i prossimi di settembre – destinati a essere altrettanto brutti – non potranno che peggiorare. A luglio, la Bce già ammetteva nel suo bollettino che «le aspettative di mercato suggeriscono» che l’inflazione possa tornare «vicino al 2% non prima del 2020». A inizio mese, scegliendo il meno favorevole degli indicatori a disposizione, il presidente Mario Draghi ha detto che le aspettative di inflazione a cinque anni puntano all’1%, e il 22 agosto a Jackson Hole ha ammesso che queste aspettative sono peggiorate. L’obiettivo del 2% a medio termine è lontano. 

Possono bastare allora le prossime operazioni finalizzate ai prestiti alle imprese? Forse no. Innanzitutto lasciano tutta l’iniziativa alle banche (mentre occorre chela Bce sia attiva nell’aumentare la liquidità). Aumenta poi la sensazione che, in assenza di domanda, questi Tltro possano solo favorire la concorrenza sui tassi tra le aziende di credito, in un gioco quasi a somma zero. È troppo poco, e questo poco può segnalare due cose. O la politica della Bce è asimmetrica, teme l’inflazione che sale troppo sopra il 2% ma non quella che scende troppo sotto il 2%, e questo è un errore. Oppure i vincoli politici sono troppo forti, e questo è un male.

Le recenti ingerenze del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, sono state in questo senso un segnale molto brutto. Schäuble prima si è sentito in diritto di dare l’interpretazione autentica delle parole di Draghi a ]ackson Hole, dicendo che è stato frainteso. Poi ieri ha detto di non ritenere «che la Bce abbia gli strumenti per combattere la deflazione». Detta da un giornalista, sarebbe una sciocchezza, ma detta da un ministro è una dichiarazione politica: quegli strumenti non vanno usati. Perché? Perché aiutano la politica fiscale. Il punto – se si vuole il problema – è però proprio questo: la politica monetaria può sostenere prezzi e crescita anche, se non soprattutto, aiutando la politica fiscale. Altrimenti gli obiettivi sfuggono e la politica monetaria fallisce.

La prova del trapezio

La prova del trapezio

Leonardo Becchetti – Avvenire

I dati Istat sui consumi nel primo mese del bonus degli 80 euro indicano calma piatta, e questo proprio mentre l’Italia entra in deflazione. Il vero difetto del bonus è stato parlarne così tanto, quando lo stesso Governo Renzi attribuiva a tale misura un effetto marginale sui consumi dello 0,1%. Ora che l’opinione pubblica comincia a capire i guasti del “rigorismo”, il timore è che i nostri governanti (e chi li consiglia) non siano ancora del tutto liberi da quell’errore di prospettiva.

Nel novembre 2012, su queste colonne, abbiamo cominciato a scrivere del «dividendo monetario della globalizzazione». I Paesi ad alto reddito sottoposti a una concorrenza feroce di Paesi poveri ed emergenti potevano e dovevano difendersi con politiche monetarie molto espansive che controbilanciassero il calo della domanda aggregata. Agendo così, l’inflazione non sarebbe decollata come negli anni 80, perché il vento della concorrenza globale è un vento deflattivo che limita le possibilità di rialzo dei prezzi. Prova ne sia che l’Italia è entrata ufficialmente in deflazione, per la prima volta dopo il 1959, con i dati di ieri sui prezzi di agosto (vale la pena di ricordare che il governatore della Bce Mario Draghi, ancora nel febbraio scorso, gettava acqua sul fuoco escludendo il rischio di un calo dei prezzi). Stati Uniti, Regno Unito e Giappone hanno deciso di sfruttare pragmaticamente il “dividendo monetario”. I risultati si sono visti, sono stati riconosciuti da tutti e l’inflazione non è ripartita in nessuno dei tre Paesi nonostante le massicce iniezioni di moneta effettuate dalle rispettive Banche centrali. La Ue è invece rimasta al palo, perché Draghi, aristotelicamente parlando, è stato abilissimo in potenza (quando ha sconfitto la speculazione contro l’euro avvertendo che la Bce sarebbe intervenuta con qualunque misura possibile), ma non in atto (per attuare una politica monetaria espansiva avrebbe dovuto varare due anni fa una strategia di acquisto dei titoli pubblici dei 18 Paesi dell’area euro).

Il premier italiano Matteo Renzi e Draghi si sono incontrati quest’estate per cercare di dare risposte alla crisi nella quale continuiamo a esser immersi, e ne è uscito quello che i mass media definiscono un «nuovo accordo». In cambio delle riforme strutturali italiane la Ue varerà le attese politiche fiscali (Juncker e i suoi famosi 300 miliardi di investimenti) e monetarie espansive. Il rischio insito nell’accordo è quello di un’interpretazione rigorista delle nostre riforme strutturali che le riduca al taglio dei salari e della spesa pubblica. Ovvero a due interventi che deprimeranno ulteriormente la domanda aggregata e che saranno drammaticamente controproducenti se non bilanciati effettivamente da europolitiche espansive. In questo passaggio, Renzi è simile al trapezista che si lancia nel vuoto sperando che il suo partner che si dondola sull’altalena dal lato opposto tenda la mano per afferrarlo. Il partner Draghi lo farà con solerzia o si fermerà al primo ostacolo interno affidandosi alla rete di protezione sotto il trapezio che lui stesso ha steso? In quel caso, la brutta figura sarebbe solo del trapezista Renzi.

Si dice che dobbiamo continuare nella spending review per ridurre tasse su lavoro e imprese, e l’obiettivo è sacrosanto. Ma un Paese come il nostro che ha un’imposizione di quasi 20 punti percentuali superiore all’Irlanda quanta produzione effettiva e contabile pensa di poter recuperare con gli interventi di uno o pochi punti consentiti dai tagli di spesa e dai vincoli del pareggio in bilancio? Se in Italia le Marche abbassassero di 20 punti le imposte sulle imprese tutti correrebbero a fissare lì la propria sede legale. Il problema dell’armonizzazione fiscale nella Ue (e non solo) è il problema del momento e il governo deve sostenere lo sforzo che le istituzioni internazionali e le ong (Ocse e Transparency in primis) stanno facendo per porre fine a una corsa al ribasso che rende concreto lo spettro di una ricchezza senza nazioni e di nazioni senza ricchezza.

I sostenitori della versione rigorista e semplificata delle riforme strutturali fanno spesso l’esempio della Spagna, che ha registrato nell’ultimo trimestre una variazione positiva del Pil. Ma la Spagna è uno dei casi peggiori di sostenibilità del debito con un rapporto corrente deficit/Pil al 6.6% e un debito che è esploso dal 37% del 2007, all’inizio della crisi finanziaria, fino al 94% dell’ultimo dato ufficiale del 2013. E la sua crescita dell’ultimo trimestre è drogata da deflazione e crollo dell’import. Se noi italiani avessimo seguito il “miracolo spagnolo” nella dinamica del debito, saremmo oggi già in bancarotta. Per tutti questi motivi, ripetiamolo ancora una volta, il nostro futuro si gioca in Italia e (soprattutto) in Europa. Abbiamo bisogno di un governo che superi il bias rigorista (qualcuno ha ancora dubbi sul fatto che si tratti di un errore sistematico?) e che dimostri coi fatti che le riforme davvero strutturali sono la riduzione dei tempi della giustizia civile (bene, nonostante alcune tutt’altro che marginali questioni, l’insieme della riforma), una scuola e un’università moderne che ci consentano di ridurre il gap di anni di scolarizzazione con i maggiori Paesi europei, investimenti sulla banda larga che ci tolgano dalle ultime posizioni nella classifica Ue, riduzione dei costi della burocrazia pubblica e dei tempi di avviamento di attività d’impresa. E che faccia capire che per fare queste riforme (che neanche la Germania ha operato senza allentare temporaneamente i vincoli di spesa) la camicia di forza del Fiscal Compact e il pareggio di bilancio (che un referendum per il quale si stanno raccogliendo le firme in questi giorni vuole abolire) sono anticaglie del passato e residui della sbornia rigorista.

Il vincolo del 3% nel rapporto deficit/Pil è una misura prudenziale che basta e avanza, ma senza la mano del trapezista Draghi sarà difficile uscire dalla crisi economica. L’economia è come una macchina da guidare artigianalmente con perizia sui terreni sempre nuovi ed accidentati della congiuntura mondiale. Per di più, nella Ue, alcuni comandi della macchina (tasso di cambio, politica monetaria) non li azionano i singoli Paesi. Pensare di farcela da soli, senza un serio impegno in Europa per far prevalere riforme sensate che correggano le asimmetrie tra gli Stati membri, sarebbe un grave errore.

Lucciole in Europa

Lucciole in Europa

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Occhio a non prendere lucciole per lanterne, in Europa. Il rischio è credere che siano illuminate strade che in realtà sono buie 0 addirittura non esistono, e farsi male. Per esempio, in molti hanno creduto di vedere, o comunque di ritenere possibile, un’aggregazione mediterranea contro la Germania in nome dello sviluppo e della tutela del Welfare. Ora, a parte che non c’e nessuno nell’Eurozona che più e meglio dei tedeschi pratica la crescita e tutela lo stato sociale, comunque ecco il risultato: Hollande licenzia i ministri più ostili alla politica tedesca, a costo di spaccare il suo partito, genuflettendosi ancora una volta al cospetto del mai rinnegato, nei fatti, asse franco-alemanno; la Merkel e Rajoy si giurano amore imperituro e mostrano i denti ai, veri o presunti, nemici dell’austerità. Alla faccia di chi immaginava che nell’eurosistema in salsa berlinese si potesse fare a meno della Germania o anche solo mettersi di traverso. 

Stesso discorso, seppure rovesciato, vale per chi insegue la chimera dell’economia Ue a trazione tedesca. Così non è per due semplici motivi. Il primo è di carattere strutturale: il successo dell’economia teutonica è dovuto alla sua capacità di competere sui mercati mondiali con prodotti hi-tech e servizi d’alta gamma, ed è quindi basato sulle esportazioni verso le aree extra Uc del mondo – un export, non dovremmo mai dimenticarcene, in cui c’e un pezzo importante di made in Italy – e non sui consumi interni, che dunque non trascinano le esportazioni degli altri paesi europei. Scelta intelligente e per certi versi obbligatoria – sia perché questo e il destino dell’Europa nella divisione internazionale del lavoro imposta dalla globalizzazione, sia perché per troppo tempo un po’ tutti noi del Vecchio Continente, chi più (paesi del Sud) chi meno (paesi del Nord), abbiamo vissuto al di sopra delle nostre reali possibilità – che comunque non cambia anche se ora l’Spd spinge la Merkel ad aumentare i salari minimi. Il secondo motivo è di natura congiunturale: per le riforme a suo tempo fatte e per come si è configurata l’integrazione (solo monetaria) europea, la Germania lucra un doppio vantaggio, la bilancia commerciale patologicamente in avanzo e un basso costo di accesso ai capitali, cui non intende – comprensibilmente – rinunciare. E questo non la rende certo una trainante locomotiva per le altre economie continentali.

Lucciole per lanterne stiamo rischiando di prendere anche sulle conseguenze delle recenti dichiarazioni di Mario Draghi. Non ci voleva certo il ruvido ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, per capire che sulla necessità di un allentamento delle politiche di rigore c’è stato un clamoroso misunderstanding. Anzi, Draghi ha detto che dopo averlo fatto negli ultimi due anni, la Bce non e più disposta a “comprare tempo” a favore dei governi europei senza che questi facciano i compiti a casa delle riforme strutturali. Un messaggio inequivocabile – la politica monetaria la sua parte l’ha fatta e continuerà a farla, ma non pensiate che abbia anche il compito di scongiurare la ricaduta nella recessione, quello spetta alle politiche economiche nazionali – su cui quasi certamente il presidente della Bce aveva acquisito preventivamente il consenso dei tedeschi. Allora, perché far finta che abbia detto altro? Perché non guardare in faccia la realtà, la quale ci dice che la Bee non può andare oltre, anche volendo. La diga eretta da Francoforte è stata preziosa, tagliando le gambe agli spread e alla speculazione che scommetteva contro l’euro, ma non ha risolto, né poteva, alcun problema di fondo che compone il puzzle delle eurocontraddizioni. Ha solo aperto un ombrello protettivo sulla testa dei governi, lasciando a loro il compito di approfittarne, pena essere esautorati dalla cosiddetta Troika. Così non è stato, per lo più. Non ne ha approfittato l’eurosistema nel suo insieme – per colpa dei diversi ma convergenti retaggi tedeschi e francesi – e non ne ha approfittato l’Italia, pur avendo nel frattempo sperimentato tre governi (Monti, Letta, Renzi), o forse proprio per questo. 

Insomma, nessun aiutino in vista. Perché non sta nelle cose, e perché comunque non ce lo meriteremmo. Si dice: ma avremo – ormai è pressoché certo – la guida della politica estera europea. Peccato che sia materia di piena sovranità nazionale e che dunque quel ruolo sia solo formale. Inoltre, per quel poco che conta, l’incarico arriva proprio mentre lo scenario geopolitico, con gli annessi e connessi energetici, si sta facendo maledettamente complicato. Anche qui, vietato scambiare lucciole per le lanterne: a decidere se fare o meno accordi con Putin, e di che tenore, e a parlarne con gli americani, sara la Merkel – che deve decidere se mantenere o far saltare la sempreverde ostpolitik tedesca (niente nemici a oriente) – non la Mogherini (come ieri non era la Ashton). Così, giusto per sapere con che carte si gioca.

Una politica fiscale espansiva per curare la deflazione

Una politica fiscale espansiva per curare la deflazione

Francesco Saraceno – Il Sole 24 Ore

Non è stato un bel mese d’agosto per l’economia europea. La notizia che ha catalizzato l’attenzione è stata la brusca frenata della Germania. Tra aprile e giugno, nessuna delle tre maggiori economie dell’eurozona è cresciuta. Questa è una cattiva notizia, perché la ripresa sembra già finita (dove è iniziata), e perché dimostra che contare quasi esclusivamente sulle esportazioni espone l’economia agli shock esterni (vedi per la Germania la crisi ucraina).

Ma la notizia peggiore è un’altra. Nel numero di agosto del bollettino mensile della Bce, a pagina 53, si trova un grafico che dovrebbe far passare notti insonni a Mario Draghi e ai leader europei: mostra che il consenso degli analisti sull’inflazione si è fortemente modificato. Un anno fa più del 50% si diceva convinto che nel medio peridodo l’inflazione sarebbe tornata al 2% o oltre, oggi la percentuale è poco più del 35%. Può sembrare che si parli di uno di quei dati esoterici che interessano solo gli addetti ai lavori, ma le aspettative hanno costituito il pilastro della strategia della Bce durante la crisi (soprattutto negli ultimi mesi). La prudenza di Francoforte e la resistenza alle sollecitazioni per una strategia più aggressiva di contrasto alla deflazione, si basavano sull’idea che le aspettative di medio periodo fossero stabili e “ancorate” al 2% di inflazione, obiettivo della banca centrale. Anche di fronte ai nuovi dati la Bce sembra optare per la strategia dello struzzo: a poche pagine di distanza si legge che «le aspettative di inflazione per l’area dell’euro nel medio-lungo periodo continuano a essere saldamente ancorate in linea con l’obiettivo di mantenere il tasso di inflazione inferiore, ma vicino al 2%».

In questi mesi il mantra della Bce è stato che la stabilità delle aspettative rendeva remoto il rischio deflazione, nonostante un tasso di variazione dei prezzi che si avvicinava allo zero. Era l’ultimo bastione che consentiva di sperare in una ripresa della spesa per consumo e investimenti. Se i mercati iniziano a prevedere, anche nel medio periodo, una situazione di deflazione strisciante, è facile stimare che la dinamica futura della spesa privata rimanga anemica: famiglie e imprese tenderanno a rinviare la spesa, attendendosi prezzi più bassi di oggi. È il rischio della deflazione. 

I dati sulle aspettative spingono a credere che non esista più alcun ostacolo tra noi e una stagnazione di tipo giapponese (durata più di un decennio). Non c’è riforma che tenga; è difficile individuare, oggi, una dinamica autonoma che porti l’economia a lasciarsi alle spalle la crisi e se l’economia si trova invischiata in una stagnazione dalla quale non è in grado di uscire da sola non si può che puntare sulla politica economica. I riflettori sono tutti puntati sulla Bce, probabilmente anche per la sua eccessiva prudenza.

Ma anche se la Bce adottasse una politica più aggressiva è dubbio che questo basterebbe a rilanciare la crescita. Il bollettino della Bce riporta anche i risultati dell’ultima inchiesta (giugno 2014) sulle condizioni creditizie nell’Eurozona: il mercato del credito è anemico non solo perché le istituzioni finanziarie esitano a prestare, ma anche perché imprese e famiglie non domandano credito. Anche se il quadro è eterogeneo, e per alcuni paesi i vincoli creditizi possono avere un ruolo nel mantenere la spesa privata anemica (in Italia per esempio), aumentare l’offerta di credito, come dovrebbe fare la Bce in autunno, potrebbe avere meno effetti di quanto non si creda. L’economia europea è ancora invischiata in una trappola della liquidità. Procedendo per esclusione, non rimane che uno strumento da usare: una politica fiscale espansiva, che significa forte aumento della spesa pubblica (soprattutto per gli investimenti) nei paesi che possono permetterselo (la Germania, per cominciare) e una pausa nel consolidamento fiscale dei paesi le cui finanze pubbliche sono meno solide (Italia in primis). La Bce potrebbe e dovrebbe accompagnare queste politiche con l’impegno a non aumentare i tassi fin quando l’inflazione non sarà stabilmente risalita e la crescita non sarà tornata robusta.

Il «cuneo finanziario» che pesa sull’impresa

Il «cuneo finanziario» che pesa sull’impresa

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

Cullati dall’abbondante liquidità, i mercati finanziari internazionali continuano ad essere improntati all’ottimismo e assorbono (anche considerando il calo di ieri sulle Borse europee) le cattive notizie che vengono dai venti di guerra sullo scenario internazionale o da un quadro macroeconomico ancora deludente, soprattutto in Europa. Lunedì l’indice S&P500 ha superato quota 2000, mentre in Europa i tassi dei titoli pubblici si mantengono sui minimi degli ultimi tre anni. Ma questi segnali positivi non devono far dimenticare i molti punti critici che riguardano la finanza delle imprese, soprattutto italiane.

La crisi ha messo a nudo e anzi aggravato i tradizionali punti deboli della struttura finanziaria del nostro mondo produttivo e quindi rischia di mantenere, o addirittura aumentare, il ritardo delle nostre imprese rispetto ad altri Paesi, creando un vero e proprio “cuneo finanziario” che si aggiunge a quello fiscale, già di per sé preoccupante. Guardando ad esempio ai dati della Bce sul costo medio dell’indebitamento delle imprese, si osserva che a luglio le imprese italiane pagavano per il breve termine un tasso superiore a quelle di Francia, Germania e Spagna compreso fra 1,68 e 0,31. Il differenziale per i tassi a lungo termine risulta inferiore, ma siccome il nostro è il Paese in cui è più diffusa l’indicizzazione ad un tasso a breve per i prestiti a medio termine (e anche questo è un problema), il primo spread è quello che conta.

La ricerca economica sugli effetti della crisi sulla finanza delle imprese europee è ormai vasta e ha raggiunto risultati che si possono considerare non controversi. Uno di questi, ribadito nel numero di luglio del Bollettino della Bce è che le nostre piccole e medie imprese, cioè i due terzi del mondo produttivo, rispetto a prima della crisi hanno visto aumentare sia il differenziale rispetto ai tassi delle grandi imprese del Paese (per l’Italia questo spread, fatto pari a 100 il 2006, è circa 150) sia i tassi per i nuovi prestiti alle piccole e medie imprese. Mentre in Germania e Francia questi tassi sono oggi inferiori di circa 1,5 punti rispetto al 2006, l’Italia registra un incremento di quasi mezzo punto.

L’articolo della Bce ci avverte che ci sono motivazioni fondate: un’analisi econometrica dimostra che esiste una correlazione molto stretta fra i punti critici della finanza d’impresa e gli ostacoli ad ottenere credito. Le imprese con alto grado di indebitamento, con alto livello di oneri finanziari e bassi profitti sono quelle penalizzate. E ancora una volta è l’Italia (insieme alla Spagna) che risulta svantaggiata rispetto a Germania e Francia. Basta questo per capire quanto sarebbe sterile, prima ancora che ingiusto, prendersela solo con le banche che negano credito e/o lo fanno pagare troppo caro. Intendiamoci: il credit crunch è stato causato anche da fattori di offerta, cioè da comportamenti riconducibili alle banche. Anche qui esiste ormai un’ampia evidenza, in gran parte merito di ricerche della Banca d’Italia, che dimostra che le banche più deboli, in termini di patrimonio e/o di struttura della raccolta sono quelle che hanno stretto in modo più deciso e indiscriminato i cordoni della borsa. E se si potesse mettere fra questi fattori di debolezza anche i prestiti “di sistema” nazionale o locale, i risultati sarebbero ancora più robusti.

L’azione di vigilanza della Banca d’Italia, ora in collaborazione con la Bce, sta gradatamente risolvendo i problemi delle banche e con la ormai imminente pubblicazione dei dati sulla qualità dell’attivo di bilancio e sulla robustezza patrimoniale in condizioni di stress, le condizioni dovrebbero decisamente migliorare, soprattutto per le banche italiane. Rimane però il problema di mettere finalmente mano ai problemi di fondo della finanza delle imprese. Le tanto attese operazioni della Bce condizionate alla concessione di nuovi prestiti rischiano di essere frenate proprio dalla (comprensibile) riluttanza delle banche a concedere prestiti ad imprese finanziariamente fragili, magari privilegiando investimenti delle imprese di carattere finanziario, meno aleatori ma privi praticamente di effetti dal punto di vista produttivo. Lo stesso vale per le annunciate operazioni di securitisation a favore di piccole e medie imprese che dovrebbero essere utilizzate per accedere alle capaci tasche della Bce, risolvendo i problemi di liquidità delle banche. Un’iniziativa di grande rilievo, ma per la quale imprese finanziariamente fragili rischiano di trovare la porta sbarrata.

In altre parole, bisogna evitare di guardare a Francoforte per risolvere problemi che sono di carattere esclusivamente nazionale. Ammesso che il paese dei balocchi esista, non si trova certo in Germania. È vero che in Italia molte iniziative sono state varate e rafforzate nel corso del tempo dagli ultimi governi: dalle garanzie pubbliche agli strumenti alternativi di finanziamento per piccole e medie imprese. Ma il ritardo da colmare è troppo grande per ritenere che questi passi, pur nella giusta direzione, siano sufficienti a portare l’Italia ad avvicinare gli altri grandi paesi e in particolare la Francia che su questo terreno si è sempre mossa con notevole lungimiranza. Diversamente da altre, questa è una riforma che impegna non solo il governo, ma le parti interessate, cioè banche e imprese. E’ ormai tempo che entrambe capiscano che la competitività internazionale, prima ancora che la ripresa economica, richiede menu finanziari ben più sofisticati del solo credito a breve di cui entrambe si sono finora nutrite.