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La condanna di Maastricht

La condanna di Maastricht

Giorgio La Malfa – Il Mattino

I dati dell’Istat indicano che nell’ultimo trimestre del 2014 il reddito nazionale italiano non è diminuito. È la prima volta negli ultimi anni. Quanto al 2015, trova conferma nelle previsioni la stima del governo di un aumento del reddito dell’ordine dello 0,5%. Che il Ministro dell’Economia possa trarre un sospiro di sollievo dopo un flusso ininterrotto di dati negativi che dura da anni è comprensibile. Ma sostenere che la crisi è finita e che si apre per l’Italia una specie dell’età dell’oro, come si sente dire negli alti livelli del governo, appare francamente eccessivo. Questi dati non giustificano né l’esultanza, né tanto meno l’inerzia. Con una crescita di questo ordine non si mette a posto ne la disoccupazione, né il debito pubblico.

Per quello che riguarda il passato, rimane il giudizio negativo sulla inutilità della cura “tedesca” imposta a noi (ma non soltanto a noi) dall’Europa, in materia di deficit. La cura ha avuto effetti devastanti sulla domanda interna, sulla produzione industriale e sulla disoccupazione. Anche se le cifre della disoccupazione sono meno drammatiche che in Grecia e in Spagna, l’Italia ha contratto il proprio patrimonio industriale di quasi il 25% nel corso di questi anni, come testimoniano le migliaia di capannoni e di opifici chiusi in tutte le aree del Nord. E rimane anche il profondo rammarico per la sostanziale rassegnazione dei quattro governi che si sono succeduti dal 2011 in avanti – Berlusconi, Monti, Letta e Renzi – rispetto a una politica che aveva conseguenze visibili.

Quanto al presente e, soprattutto, al futuro, deve essere detto con chiarezza ed a scanso di ogni possibile equivoco, che una crescita dello 0,5 o anche dell’1%, cui forse si potrebbe giungere quest’anno per effetto della flessione dell’euro e della caduta dei prezzi del petrolio, non è l’inizio della fine dei nostri problemi. Una crescita a tassi inferiori al 2-3% è insufficiente a incidere sulla disoccupazione, perché contemporaneamente i guadagni di produttività che si verificano nel sistema tendono a fare crescere la disoccupazione. E nello stesso tempo, se il reddito nazionale cresce dello 0,5-1%, mentre i prezzi sono sostanzialmente stabili, il problema del debito pubblico tende ad aggravarsi, a meno che il governo non intenda compiere un’ulteriore stretta fiscale con il rischio di distruggere anche quei piccoli segni di ripresa che si colgono nelle statistiche e nelle previsioni di questi giorni.

Il punto che il mondo della politica non ha voluto e saputo cogliere in questi anni è che c’è una contraddizione inevitabile nella nostra situazione fra il rispetto delle regole di Maastricht e la possibilità di sostenere una ripresa economica più solida e consistente. Non vale illudersi che questa contraddizione si possa evitare: il rispetto delle regole di Maastricht rende impossibile sostenere la ripresa e dunque lascia il Paese nella crisi e in prospettiva aggrava le condizioni stesse del debito pubblico (la Grecia, all’inizio della cura durissima che le è stata imposta dalla Troika, aveva un rapporto fra debito pubblico e Prodotto Interno dell’ordine del 110%. Dopo 4 anni di deflazione, con un reddito nazionale di un quarto più basso e una disoccupazione triplicata dall’8 al 27% ha un rapporto fra debito e Pil del 170%).

Una politica di sostegno alla ripresa richiede ed impone il superamento del deficit del 3%. Nessuno dei governi succedutisi in questi anni ha avuto il coraggio di farlo. Anche il governo attuale si è limitato ad auspicare che sia l’Europa a cambiare idea, ma non se la è sentita di prendere con coraggio la strada del sostegno della ripresa. Questo è stato in questi anni e rimane oggi il nodo gordiano da tagliare. È certamente positivo che i dati economici abbiamo cessato di peggiorare. A una condizione: che questa schiarita non illuda il governo di illudersi e non lo convinca a cercare di illudere gli italiani che l’inerzia sia una politica.

Così Craxi “risolve” la  trattativa Tsipras-Ue

Così Craxi “risolve” la trattativa Tsipras-Ue

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Oggi 16 febbraio verrà parafato (il termine del lessico diplomatico per dire siglato) un nuovo accordo tra la Repubblica ellenica da una parte e i partner dell’eurozona, la Commissione europea, il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, dall’altra. L’Ocse è, per così dire, un nuovo arrivato; su richiesta in gran misura della delegazione greca, in ragione della sensibilità mostrata dall’organizzazione parigina con sede a Chateau de la Muette per i temi sociali, la distribuzione del reddito e lo sviluppo sostenibile. Non ci sarà la Banca centrale europea non perché Alexis Tsipras abbia Mario Draghi in antipatia (in seguito alla decisione di non accettare titoli del Governo greco a garanzia di prestiti alle banche elleniche), ma perché è un bene per tutti che la Bce mantenga una veste puramente tecnica e in tale ambito possa, se del caso, concedere aiuti al di fuori di un accordo eminentemente politico.

L’intesa è Tak blizko!, Tak blizko! Bliko (ossia a portata di mano, dice un economista russo mio amico non coinvolto nella trattativa, ma come molti economisti russi ben informato poiché costretto ad “arrotondare”, facendo altre cose, il suo modesto stipendio universitario). Quali sarebbero i termini? Il punto principale sarebbe una dilazione della scadenza per il pagamento di una tranche del debito ora dovuta il 28 febbraio. Il dilazionamento potrebbe essere di sei mesi; la Grecia può sopravvivere in autonomia sino a fine maggio, se non è costretta a far fronte alla scadenza. Una dilazione di sei mesi consentirebbe di preparare un piano di riassetto strutturale con la collaborazione dell’Ocse e forse anche quella della Commissione europea e del Fmi, istituzioni gradite invece ai suoi creditori. Tuttavia, Tsipras potrebbe dire al proprio elettorato che la troika non è più l’interlocutore-vessatore in quanto la Bce esce e l’Ocse entra. Non si parlerebbe di ulteriori riduzione dei tassi d’interesse principalmente perché già adesso i termini sono così generosi che il servizio del debito della Grecia (pari al 170% del Pil) è appena il 2,6% del Pil rispetto al 5% del Portogallo (il cui debito è il 132% del Pil), al 4,7% dell’Italia (132% del Pil), al 3,3% della Spagna (95%).

Secondo il centro di ricerche Bruegel (abbastanza coinvolto nella trattativa), se il programma preparato con il supporto Ocse (e verosimilmente di Commissione Ue e Fmi) porta a ulteriori dilazioni, i risparmi di spesa pubblica potrebbero arrivare al 15-17% del Pil ed essere disponibili per nuovi investimenti (da selezionare con cura). È probabile che a questo punto l’intesa non vada oltre in attesa del programma di riassetto strutturale.

Andare più a fondo rischierebbe di fare saltare il tavolo in una fase in cui nessuno vuole farlo. Non tanto perché dal 2008 il Pil nominale greco ha subito una contrazione del 22%, i salari reali un taglio di pari portata (ma del 40% per la fascia di età tra i 18 e i 24 anni), il valore delle abitazioni (la prima destinazione del risparmio delle famiglie anche nella Repubblica ellenica) una riduzione del 40%. E neanche perché si temano i riflessi dell’uscita della Grecia dalla moneta unica sull’intera eurozona. Ma a causa della situazione nel Mediterraneo e dell’avamposto in Cirenaica posto dall’autoproclamato Califfato islamico. Oggi tutti vogliono pace e stabilità sul fronte greco: la situazione è drammaticamente cambiata nel giro di una settimana.

Sono state scartate le proposte di prestiti i cui interessi siano collegati all’andamento del Pil reale oppure di prestiti senza scadenza ma tali di assicurare una “rendita” ai creditori (in gran parte Stati e organizzazioni internazionali). In effetti, il pittoresco Varoufakis ha mostrato di avere poca fantasia ripescando idee e strumenti della Russia zarista (per finanziare la transiberiana) e dell’Italia mussoliniana (per la “Guerra d’Abissinia” che ci avrebbe fatto diventare un Impero).

Tuttavia, proprio Ocse e Fmi hanno suggerito che se il programma di riassetto strutturale è di qualità (e non si basa su grandi incrementi del gettito da imputarsi a una maggiore e migliore lotta all’evasione e alla corruzione), per la Grecia si potrebbe riprendere una proposta del Rapporto Craxi del 1990 all’Assemblea Generale Onu per i paesi più indebitati: rimettere, in fasi, parte del debito greco man mano che le riforme strutturali hanno effetto e aumenta la produttività complessiva del Paese.

Occorre dire che Tsipras contava molto sull’apporto e appoggio di Renzi poiché sia Portogallo che Spagna sono guidati da Presidenti del Consiglio di centrodestra. Non solo, ma il leader italiano aveva ostentato amicizia e comunanza d’intenti con forti abbracci durante la visita fatta dal greco a Roma. Tuttavia, Renzi è stato molto preso dal fronte interno, e la manifestata intenzione di andare avanti senza il contributo dell’opposizione nella riforma della Costituzione e della legge elettorale gli ha fatto perdere quel po’ di autorevolezza che aveva conquistato nell’eurozona.

A tendere la mano a Tsipras (e a rammentare come per vent’anni i negoziati per i Paesi poveri più indebitati sono stati guidati dal Rapporto Craxi) sono stati, oltre all’Ocse e al Fmi, i tedeschi. Pare che a Palazzo Chigi, alla Farnesina e a via Venti Settembre nessuno se ne ricordasse. La prossima volta Tsipras saprà chi abbracciare.

Nessuno è innocente nella tragedia greca

Nessuno è innocente nella tragedia greca

Luigi Zingales – L’Espresso

Nelle tragedie dell’antica Grecia l’eroe era al tempo stesso colpevole e innocente. Si pensi ad Edipo, che uccide il padre e sposa la madre. Ha commesso due orribili crimini, parricidio ed incesto, e in quanto tale è colpevole. Ma ha agito inconsapevolmente. Non è forse anche innocente?

Nella stessa situazione si trova oggi il popolo greco, di fronte alla tragedia economica. Da un lato è colpevole. Colpevole di aver vissuto per anni al di sopra delle proprie possibilità, per di più mentendo al mondo intero sulla reale situazione delle proprie finanze. Una volta ricalcolato correttamente, il deficit di bilancio del governo greco nel 2009 era 16% del Prodotto interno lordo. La cosiddetta austerity, ovvero il taglio della spesa pubblica, non è una cattiveria imposta dalla Troika, ma una necessità, il frutto inevitabile di una colpa. Il popolo greco è anche colpevole di aver dilapidato una fortuna nelle Olimpiadi del 2004 (Renzi pensaci finché sei in tempo) e in spese improduttive e clientelari. Infine il popolo greco è colpevole di aver votato per anni due partiti, uno più corrotto dell’altro: vivevano di clientelismo finanziato dalla spesa pubblica e di favori fatti ai potenti oligarchi, che controllano quel poco di economia privata che funziona, e ai capi sindacali, che controllano il resto. Ma allora hanno ragione i tedeschi che sostengono che la Grecia deve pagare per le sue colpe?

Come nelle tragedie greche, la risposta non è così semplice. Il popolo greco, al pari di Edipo, era per lo più inconsapevole. Inconsapevole dei falsi in bilancio dei propri governi, almeno quanto lo erano i funzionari dell’Unione Europea che oggi si ergono a giudici. Inconsapevole dell’insostenibilità della propria situazione economica, almeno quanto le banche francesi e tedesche che hanno prestato, senza troppa attenzione, i soldi che hanno permesso ai greci di continuare a spendere. Inconsapevole che l’aiuto offerto dall’Unione Europea e dal Fiondo Monetario Internazionale era innanzitutto un aiuto alle banche tedesche e francesi. Ma allora ha ragione Syriza a chiedere un taglio del debito e la fine dell’austerità? Anche in questo caso la risposta non è semplice. Oggi un taglio nominale del debito sarebbe difficile da ottenere e forse nemmeno così necessario. Se in termini nominali il debito rimane elevato, in termini reali no. La maturità del debito è stata allungata a tassi di favore. Quindi il peso reale del debito non è così elevato come appare.

Il vero problema della Grecia rimane la bilancia dei pagamenti. Per lunghi anni il paese ha importato più di quello che ha esportato. Negli ultimi anni si è avvicinata al pareggio, ma lo ha fatto solo grazie a un crollo delle importazioni: la contrazione del reddito interno ha ridotto i consumi e soprattutto i consumi di beni esteri. Purtroppo le esportazioni non sono cresciute. Una ripresa del reddito, quindi, porterebbe inevitabilmente un deficit della bilancia commerciale difficilmente sostenibile. Per risolvere questo problema non c’è che una svalutazione. Ma finché la Grecia rimane nell’euro non ha questa possibilità. Il nuovo governo greco capeggiato da Syriza vorrebbe una ripresa dei consumi in Grecia senza un’uscita della Grecia dall’euro. A meno di un drammatico cambio della competitività della Grecia, i due obiettivi sembrano incompatibili. Prima o poi Syriza dovrà cedere su uno dei due. È più facile che ceda sul secondo.

Nelle tragedie di Euripide, l’ultimo degli autori classici, venne introdotto il “deus ex machina”, ovvero un personaggio divino calato sulla scena mediante una macchina teatrale per risolvere la situazione quando l’azione era tale che i personaggi non avevano più vie d’uscita. Anche l’odierna tragedia greca ha un disperato bisogno di un deus ex machina. Senza di esso, un’uscita della Grecia dall’euro sembra inevitabile, anche contro la volontà del popolo greco, che a stragrande maggioranza vuole rimanere nella moneta comune. Senza un deus ex machina a rimetterci saremo anche noi spettatori.

È al capolinea l’Europa dei piccoli passi

È al capolinea l’Europa dei piccoli passi

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Se è vero, come è vero, che l’Europa riesce a fare passi avanti soltanto quando arriva sull’orlo del burrone, questa volta si potrebbe essere molto ottimisti sul suo futuro. Al momento, infatti, di precipizi davanti non ne ha uno ma due. La Grecia di Alexis Tsipras che, se tirerà troppo la corda pensando di stare a un tavolo di poker invece che a una partita negoziale regolata da Trattati e patti precisi e vincolanti, finirà per fare default trascinando nella sua caduta coesione, irreversibilità e credibilità dell’euro, con tutte le incognite del caso.

E la Russia di Vladimir Putin, la sfinge che da un anno non cessa di mestare nelle disgrazie dell’Ucraina, di fare la guerra parlando di pace, firmando gli accordi di Minsk dopo aver annesso la Crimea e poi alimentato, imperturbabile, la secessione del Donbass e domani chissà di cosa ancora. Raramente per l’Europa una giornata ha avuto una carica di potenziale portata storica come quella di ieri, con la riunione straordinaria a Bruxelles dell’Eurogruppo per discutere le richieste ufficiali di Atene ai partner e, nelle stesse ore, l’incontro a Minsk tra il cancelliere tedesco Angela Merkel, i presidenti francese François Hollande, ucraino Petro Poroshenko e Putin. Con la speranza di veder finalmente attuati gli accordi di Minsk finora vilipesi e violati tanto che nei loro cinque mesi di vita hanno cambiato la situazione sul terreno: l’Ucraina si è fatta più piccola, i separatisti con l’appoggio russo non cessano di combattere e allargarsi. Tensione altissima, incomunicabilità diffusa intorno ai due tavoli paralleli. E tra loro il rischio di intrecci pericolosi.

Come ha già fatto con Cipro, Putin corteggia apertamente con profferte di aiuti la nuova Grecia (il suo ministro degli Esteri proprio ieri era in visita a Mosca), la quale coglie la palla al balzo per dire che, se non li otterrà dai partner europei, si rivolgerà altrove, a Russia, Cina e Stati Uniti. Gradassate? Anche: di questi tempi le casse russe non straripano e l’80% dei greci vuole restare nell’Unione. L’Europa comunque non sta solo a guardare. Al vertice di oggi a Bruxelles ha invitato Poroshenko, una scelta politica che è anche uno sgarbo deliberato allo zar del Cremlino. La verità è che è ormai al capolinea l’Europa dei piccoli passi, delle mezze misure, degli accordi ambigui, delle inclusioni “buoniste” a garanzia del quieto vivere, l’Europa che si illudeva che la storia, la geografia e le sue stesse contraddizioni non le avrebbero un giorno tirato brutti scherzi e presentato il conto. Era convinta di cavarsela con l’integrazione selettiva, il mercato unico incompleto e l’unione monetaria senza quella economica e neanche politica, unico caso al mondo di moneta comune e pluricefala. Incassato lo shock della riunificazione tedesca, si era addormentata sul dopo Yalta, certa che l’inviolabilità delle frontiere fosse un dogma intoccabile per tutti, la pace sul continente una conquista eterna e irreversibile, la cultura pacifista una sorta di dovere sociale e l’euro-difesa un diritto troppo costoso e anche inutile con le garanzie della Nato e dello scudo americano.

Improvvisamente il crollo delle certezze, le violente spallate all’ordine costituito, economico e geo-politico, dalla democrazia greca in rivolta contro l’eccesso di rigore e di sacrifici e da un Putin in visibile difficoltà di fronte a un paese allo sfascio, entrambi accumunati dalla stessa accecante emotività nazionalista. E così l’Europa è costretta a guardarsi in faccia, a decidere senza perdere altro tempo, che cosa vuole fare di se stessa e del suo futuro. La sfida di Tsipras può trasformarsi in una provocazione intelligente e costruttiva solo se saprà fermarsi al momento giusto e negoziare con realismo dentro i paletti delle regole europee. Solo così potrà alleggerire il fardello del debito e dell’austerità in Grecia. In caso contrario, Grexit potrebbe essere dietro l’angolo. Tutti i creditori sono in linea e i tempi di un’intesa sono strettissimi: quelli dell’Eurogruppo di lunedì. L’assistenza Ue scade a fine mese e per approvare eventuali modifiche agli accordi il Budenstag sarà in sessione tra il 23 e il 28 febbraio. Con Putin l’Europa è condannata a subire: non è in grado di ristabilire lo status quo ante in Ucraina, le sanzioni non servono. Potrà solo prendere atto, con un futuro accordo Minsk-2, delle nuove frontiere scavate dalla guerra e sperare che questa volta funzioni. Portando davvero la pace e fermando il contagio della destabilizzazione continentale prima che attraversi i confini Ue per colpire i Baltici o qualche paese dell’ex-impero. Comunque la si guardi la lezione della doppia crisi che l’aggredisce è la stessa: non è più tempo di abdicare alle proprie responsabilità rifugiandosi nel gioco degli equivoci. L’Europa a metà non funziona: né in casa né fuori. Sia pure in modo molto diverso, Tsipras e Putin ne sono la prova.

Quel baluardo così fragile delle banche greche

Quel baluardo così fragile delle banche greche

Fabio Pavesi – Il Sole 24 Ore

Nel delicato (e pericoloso) gioco a scacchi tra la Troika e il Governo di Alexis Tsipras le prime a rischiare sono le banche greche. Un’eventuale rottura nel difficile negoziato si propagherebbe come un uragano sul sistema creditizio, primo fragile baluardo della zoppicante economia ellenica. Le profonde oscillazioni dei titoli bancari che avvengono pressoché giornalmente ne sono la prova più evidente. Certo le condizioni di base non sono quelle della prima crisi di Atene che diede vita a una fuga eclatante dei depositanti che sono culminati nel settembre 2012 in una emorragia di ben 90 miliardi di soldi sottratti dai conti correnti, oltre il 30% dello stock totale. Da allora il sistema si è stabilizzato ma non ripreso. I volumi dei depositi sono risaliti da allora di soli 15 miliardi. E la nuova fiammata di tensione ha fatto uscire dai conti correnti almeno 3 miliardi in pochi giorni. Se le cose dovessero precipitare la fuga dalle banche potrebbe riprendere vigorosamente corpo, facendo ricollassare l’intero Paese.

Gli effetti di quella fuga mai colmata sono stati devastanti. Le pericolanti banche greche non solo hanno dovuto attingere ai rubinetti della Bce per ben 160 miliardi per sopravvivere, ma hanno dovuto drasticamente tagliare gli impieghi per un centinaio di miliardi. Ecco il cortocircuito che ha aggravato la già traballante economia ellenica. Ora il fabbisogno da Francoforte è sceso a 60 miliardi e le banche greche hanno ricominciato a approvvigionarsi sul mercato interbancario. Ma basterebbe molto poco, un passo falso di troppo per far riesplodere il bubbone. Nuova potente fuga dai conti, mercato interbancario di nuovo congelato e nuova richiesta di assistenza. Una via oggi difficilmente ripercorribile come allora. Ma non solo. Le banche greche sono solo apparentemente sicure: nonostante il taglio dei prestiti, la recessione ha portato un fardello enorme nei conti. Solo le quattro principali banche hanno in pancia tuttora sofferenze pari in media al 30% del totale degli impieghi. Difficile credere che ci possa essere un prodigioso rientro dei crediti inesigibili da molti anni nel breve termine. E allora quei bilanci andranno incontro nei prossimi mesi a nuove perdite per le rettifiche sempre rimandate, ma prima o poi da effettuare. Ecco perché la partita a scacchi di Tsipras vede come epicentro di un’eventuale nuova devastante crisi proprio il sistema creditizio. Il primo baluardo che cadrebbe in un attimo se la trattativa dovesse naufragare in malo modo.

La doppia morale di Tsipras

La doppia morale di Tsipras

Alberto Mingardi – La Stampa

Ci sono diversi modi per raccontare la crisi greca. Uno, molto semplice, punta l’attenzione su un dato di fatto. Per certo, sappiamo che una delle parti in trattativa è il governo, piaccia o non piaccia, democraticamente eletto (quand’anche con poco più di un terzo dei suffragi) dal popolo greco. Chi sia la controparte è meno chiaro. C’è la Banca centrale europea, monumento di sapienza tecnocratica che suscita sospetto e diffidenza. C’è il Fondo monetario internazionale. E poi la Commissione europea: non c’è un solo europeo che si senta «rappresentato» da questo esecutivo continentale, che non si capisce bene cosa faccia né tantomeno a chi risponda. Sono della partita anche i governi nazionali: Matteo Renzi ha chiuso la porta a soluzioni «creative» del problema greco, non prima di aver regalato una cravatta ad Alexis Tsipras. I governi nazionali temono una Grecia insolvente, perché essi stessi le hanno prestato quattrini. Sui giornali sono apparse le simulazioni del costo pro capite di un default di Atene, per gli altri cittadini europei. La gente, però, presta poca attenzione. Sono decisioni che sente lontane. Alzi la mano chi, alle scorse elezioni europee, ha votato pensando non a vaghi ragionamenti sulla «austerità» ma alle concrete modalità di funzionamento dei meccanismi anti-crisi.

La narrazione, lo storytelling, democrazia contro tecnocrazia è appassionante. Ecco perché ci sta investendo proprio Tsipras, il cui motto è «democrazia dappertutto». Nel suo discorso al Parlamento, ha rinnovato gli impegni elettorali: aumenterà il salario minimo, fermerà le privatizzazioni, alzerà la soglia della no tax area. Un programma centrato su un aumento di spesa pubblica, senz’altro non bilanciato dalla riduzione del 50% del parco macchine blu e neppure dalle sforbiciate ai costi della politica o dalla lotta all’evasione. Auguri ai greci, ma almeno in Italia sembra il solito libro dei sogni delle coperture. Secondo Tsipras, «l’austerità non ha soltanto impoverito il nostro popolo ma lo ha privato del diritto di decidere». Decidere, ma coi soldi di chi? Nello storytelling democrazia contro tecnocrazia, il «diritto di decidere» viene sottratto ai popoli per la vendetta di entità misteriose, i «mercati», che si divertirebbero a calpestarne le prerogative. A questi «mercati», gli Stati, fra cui la Grecia, hanno per anni chiesto prestiti: che per definizione a un bel momento devono essere ripagati. Questi prestiti li hanno chiesti per «decidere», direbbe Tsipras. Decidere stanziamenti, programmi, sussidi.

Indebitarsi non è mai stato obbligatorio. Se uno Stato vuole fare più cose, può sempre aumentare le tasse. In questo caso, la popolazione si accorge immediatamente del costo di «solidarietà», «investimenti» e «Stato sociale». Accorgendosene, potrebbe pensare che è meglio vivere in un Paese dove la spesa pubblica è un po’ meno generosa, ma le persone possono decidere da sé che fare di una quota maggiore dei propri redditi. Se lo Stato s’indebita, il problema non si pone: qualcuno un bel giorno il conto lo dovrà pagare, ma non gli elettori che votano alle prossime elezioni. La classe politica promette allegramente: nel lungo periodo, saremo tutti morti. Non ha torto chi ricorda che gli Stati hanno sempre disposto dei loro debiti in modo diverso dalle famiglie o dai comuni cittadini: cioè che hanno sempre evitato, quando possibile, di onorarli. Il ricorso alla svalutazione li aiutava a diluirne il peso. Grazie all’odiata Troika, la Grecia di Tsipras oggi ha un avanzo primario e potrebbe, nel breve, continuare a pagare gli stipendi. Nel medio periodo, farebbe fatica a chiedere nuovi prestiti, come qualsiasi debitore insolvente.

Diceva Adam Smith: «Ciò che è saggezza nella gestione di ogni privata famiglia, difficilmente può risultare follia nel governo di un grande regno». La questione è tutta qui. È giusto che ci sia una «doppia morale»? Gli Stati già fanno cose che nessun altro può fare: se vengo fermato dopo aver rapinato una banca, ho un bel dire alla polizia che volevo soltanto ridurre le diseguaglianze. È auspicabile che gli Stati possano considerare i loro debiti carta straccia? Se così fosse, non si capirebbe perché qualcuno debba prestar loro dei soldi: e non solo alla Grecia. Tanto peggiore è la reputazione dei governi, tanto più alti sono gli interessi che dovranno corrispondere, per avere credito. E perché di uno Stato che non paga i suoi debiti i cittadini dovrebbero fidarsi quando promette loro la pensione, quando giura che non abuserà dei dati confidenziali in suo possesso, quando dice la sua verità alle famiglie delle vittime di un dirottamento aereo? Dove passa il confine fra le bugie lecite e quelle illecite? Per «decidere» Tsipras intende: scegliere senza subire le conseguenze delle proprie scelte. È un diritto che tutti sogniamo, ma che nessuno dovrebbe avere.

Non è tempo di agenti provocatori sul debito

Non è tempo di agenti provocatori sul debito

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Forse, evocando il rischio bancarotta dell’Italia, Yanis Varoufakis sperava di stornare l’attenzione dai guai in cui le sue acrobazie economico-finanziarie stanno cacciando la Grecia che pure, dopo sei anni di recessione, di sacrifici e sofferenze anche eccessive, finalmente vede un po’ di luce: nel 2015 crescerà del 2,5% e poi del 3,6 per cento. Forse ha provato a fare di tutta l’erba (del debito) un fascio scommettendo sull’effetto “mal comune mezzo gaudio”, illudendosi di procurarsi con la “forza” quella solidarietà che con i sorrisi non ha trovato a Roma e, peraltro, neanche a Parigi. Per non dire altrove. O forse ha semplicemente voluto strafare e ha compiuto un passo falso di cui potrebbe presto pentirsi amaramente. Il suo ruolo di agente provocatore che sobilla i mercati e tenta di diffondere il contagio della destabilizzazione nella moneta unica, mentre rifiuta di rispettare i patti che la Grecia ha sottoscritto, non lo aiuterà infatti nei negoziati con Eurogruppo, Bce e Fmi. La cui priorità assoluta è la garanzia della stabilità e della coesione del club.

Le azioni di disturbo da parte di chi è scampato al default – vero – grazie agli aiuti europei ma ora pretende di ignorarne le condizioni e, ciò nonostante, vuole ottenere nuove concessioni, cioè pescare di nuovo nelle tasche dei contribuenti europei, non sono certo accolte di buon occhio. Come non lo sono la pretesa mano libera su rigore e riforme nè un generoso rinegoziato sul debito che passi per lo stop all’attuale programma di assistenza euro-internazionale per elaborarne un altro, con prestito-ponte nell’attesa. Una cosa per ora appare certa: l’attacco del ministro delle Finanze greco al debito italiano appare la carta della disperazione perché dà l’esatta misura dell’isolamento nel quale si trova la Grecia dopo il clamoroso fallimento della tournée europea del premier Alexis Tzipras e di Varoufakis che invece speravano di conquistare alleati nell’eurozona soprattutto, per ragioni di bandiera politica, tra i Governi socialisti di casa a Roma e Parigi.

L’incidente si è chiuso ieri dopo il chiarimento con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Che ha dovuto precisare l’ovvio. Il parallelismo tra Grecia e Italia non regge. E per vari motivi. Anche se per dimensioni quello nostrano (come del resto il nostro Pil) è quasi sette volte quello greco, il debito italiano è sostenibile al contrario di quello di Atene che, senza aiuti, esploderebbe. I mercati lo sanno tanto bene che ieri lo spread Btp-bund non si è sostanzialmente mosso. Se Grexit resta uno scenario assolutamente non auspicabile ma possibile per la taglia ridotta dell’economia, del debito (2 e 3% del totale eurozona) e dell’interdipendenza bancaria scesa negli ultimi tre anni, un “Itexit” non viene nemmeno preso in considerazione perché il divorzio dalla terza economia dell’euro non sarebbe sostenibile per nessuno. Sarebbe la fine della moneta unica. Esattamente come nel caso di una fuga della Francia.

C’è infine un altro particolare non trascurabile: l’Italia oggi è anche il terzo creditore della Grecia. Siamo esposti per circa 40 miliardi: volenti o nolenti, dunque, qualsiasi “regalo” ad Atene sarà in un modo o nell’altro pagato dal contribuente italiano. Il default greco sarebbe quindi un disastro e un salasso proibitivo, da evitare per il bene dei nostri conti pubblici e delle regole del patto di stabilità. Comunque anche un’operazione soft come il riscadenziamento del debito con tassi di interesse ridotti avrebbe un costo, più contenuto, ma sempre un costo. Per l’Italia come per tutti i creditori euro. Nell’interesse della Grecia e dell’intera eurozona, dunque, le passeggiate nell’economia e nella politica dell’irrealtà oggi sono altamente sconsigliabili. Alla fine rischiano di far avverare Grexit, un lusso che nessuno si può permettere. Meno che mai l’apprendista stregone di Atene che forse alza la posta e la confusione per saggiare i punti di resistenza dei partner e poi cominciare a negoziare seriamente. Senza accorgersi che in questo modo può spezzare la corda usurata che lega il suo paese all’euro.

Oggi l’imperativo collettivo della crescita, il rigore esagerato e anche controproducente imposto per troppi anni ai greci , le pressioni internazionali perché l’Eurozona esca dal torpore ed eviti strappi interni sono tutti fattori che aiutano la causa della Grecia. Purché smetta di menare fendenti al vento e cominci ad aiutare l’Europa ad aiutarla. Ma forse non ci si improvvisa statisti né è scontato che un brillante economista diventi un buon ministro delle Finanze. O forse sì?

Così il Piano Juncker può  sbloccare la trattativa Ue-Tsipras

Così il Piano Juncker può sbloccare la trattativa Ue-Tsipras

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

La prima notizia è senza dubbio buona: il tanto temuto “mal di Grecia”, ossia il contagio della crisi finanziaria ed economica greca, al resto dell’eurozona, non avverrà – oppure se ci sarà, sarà in forma molto limitata blanda e l’Italia non ne sarà, come si era temuto, il vettore. I mercati internazionali hanno reagito con calma e souplesse alle richieste ad alta voce del nuovo Governo della Repubblica ellenica, anche a quelle del pittoresco ministro delle Finanze Yanis Varoufakis. E, soprattutto, la Banca centrale europea ha detto chiaro e tondo a tutti che “misure monetarie straordinarie” non vuole dire accettare in garanzia, per nuovi prestiti, titoli che domani possono essere carta straccia.

La seconda notizia è abbastanza buona. I nuovi governanti della Repubblica ellenica hanno iniziato la trattativa con quello che, in termini di “teoria dei giochi”, si chiama un gioco a ultimatum: un duello in cui una delle due parti deve soccombere (quale quello tra Don Giovanni e il Commendatore nelle varie versioni del mito del burlador de Sevilla). Ma appena la Bce ha mostrato non un bazooka ma un regolamento (e una dose di buon senso) hanno fatto marcia indietro, nonostante ad Atene (e non solo) le piazze si agitassero. Ciò vuol dire che si sta aprendo un negoziato che verosimilmente sarà lungo e difficile.

Le parti in causa sono numerose: i 19 Stati membri dell’eurozona, gli altri dieci dell’Unione europea, la Commissione europea, la Bce, il Fondo monetario internazionale e il resto del mondo in trepida e nervosa attesa. Ciascuna parte deve massimizzare due obiettivi: “la reputazione”, nel senso del rispetto delle regole nei confronti di tutti gli altri, e “la popolarità” nei confronti del proprio elettorato. Il Prof. Pier Carlo Padoan, attualmente ministro dell’Economia e delle Finanze dell’Italia, è un maestro di “teoria dei giochi multipli a più livelli” e potrebbe dare lezioni in materia. Potrebbe anche avere un ruolo centrale nella trattativa. Tuttavia, le divergenze tra gli obiettivi sono tali e tanti che è arduo prevedere che venga svolta unicamente sulla base della logica economica.

La terza notizia non è affatto buona. L’affaire Grecia ha scoperchiato la pentola di tutte le contraddizioni di un’unione monetaria (l’unica che io rammenti) effettuata non come conseguenza di un’unione politica, anche solamente confederale, ma come disegno puramente a tavolino tra Governanti di Paesi con storie, tradizioni, culture, strutture economiche profondamente differenti nella speranza che il resto arrivi come conseguenza del Trattato di Maastricht e degli accordi intergovernativi a esso successivi.

Gli esiti sono stati tali che ne sono nati movimenti che guardano con diffidenza (per parlare in toni gentili) alla moneta unica. La ripresa in atto nel Nord America e l’andamento abbastanza buono dell’economia mondiale mostrano che l’eurozona è il “grande malato” e che dal 2010 le difficoltà in cui versa non possono essere attribuite alla crisi dei mutui subprime venuta dagli Stati Uniti, ma, come ha chiaramente scritto la Banca d’Italia, a “una crisi del debito sovrano europeo”. Per risolverla, sarebbe auspicabile una conferenza dei debitori (numerosi) e dei creditori (pochi) e un metodo condiviso per procedere. È difficile pensare che un’assise del genere possa essere convocata in tempi brevi, anche e soprattutto poiché manca un metodo condiviso.

Nel breve periodo preverrà un approccio multi-bilaterale, termine elegante per dire di fare sì che tutti “salvino la faccia”, senza incorrere in costi eccessivi, quali il Piano Marshall per la Grecia che qualche anima bella ogni tanto evoca. Una soluzione potrebbe essere quella di allungare le scadenze del debito greco e dare un’allocazione speciale degli investimenti del “piano Juncker” alla Repubblica ellenica. Il prolungamento delle scadenza pare, in ogni caso, necessario per evitare un vero e proprio default: i greci lo presenterebbero al loro pubblico come una riduzione del debito (in sostanza lo è), i “duri e puri” direbbero ai loro elettori che non si è fatto alcun taglio ma soltanto somministrato un dosaggio di vitamine e antibiotici, le anime belle (poche e dubbiose come le vergini nelle processioni delle Pasque greche e non solo) inneggerebbero (a torto) alla flessibilità.

Un’allocazione straordinaria del “piano Juncker” non danneggia alcun partner della Grecia (principalmente poiché il pipeline di progetti di qualità ed effettivamente cantierabili non è affatto pieno) e permetterebbe al Governo greco di annunciare di avere portato fresh money a casa. Nel complesso si metterebbe una pezza. Sempre che non ci sia l’intenzione di acquistare un nuovo paio di pantaloni.

Ecco come uscire dall’euro senza far scoppiare l’Europa

Ecco come uscire dall’euro senza far scoppiare l’Europa

Renato Brunetta – Il Giornale

Yanis Varoufakis. Chi è costui? A volte bastano poche parole, per capire chi si ha di fronte. E la descrizione di se stesso fatta nel suo profilo Twitter ci dice chi è il nuovo ministro delle Finanze greco: «Economista, ho scritto testi accademici per anni senza che nessuno si accorgesse di me, fino a che non sono stato spinto nella scena pubblica dall’incapacità dell’Europa di gestire una crisi inevitabile». E noi diciamo, sempre con poche parole: per salvare la Grecia servono 10-15 miliardi. Così come ne bastavano 50 nel 2010, e la storia avrebbe avuto un corso diverso. Ma oggi gli effetti di scelte sbagliate da parte dell’Europa potrebbero avere effetti ancor peggiori di quelli che abbiamo visto negli anni della crisi, perché ai problemi economici e finanziari si aggiungono possibili guerre molto vicine a noi, dall’Ucraina alla Serbia, fino alla minaccia dell’Isis.

Oggi il nuovo governo greco illustrerà il suo programma al Parlamento. L’Europa, ancora tedesca, chiede che sia diverso da quello con cui Tsipras ha vinto le ultime elezioni. Come può un premier appena eletto seguire un programma diverso? Da quello che Tsipras dirà oggi dipenderanno le decisioni dell’Eurogruppo di martedì e del Consiglio europeo di mercoledì. L’Europa si trova a un punto di svolta. Viva l’euro, viva l’Europa. Ma quella amata dai suoi cittadini, non temuta. Non l’Europa emotiva, della deterrenza, dei drammi (anche solo minacciati) o delle costrizioni ma l’Europa solidale, coesa, unita. Non si pone, almeno per ora, il tema dell’uscita della Grecia dall’euro, ma non per questo non bisogna parlarne né sapere come si fa. Finora ha prevalso la vulgata per cui dall’euro non si può uscire, o salta tutto. Invece basta solo attuare bene la procedura, con i tempi necessari. Senza drammi dalla moneta unica si può uscire. E anche la reazione dei mercati può essere meno dura di quanto si immagini.

Lo prevede l’articolo 50 del Trattato, che rimanda, per la procedura puntuale, all’articolo 218. Una procedura tutta burocratica, di ping pong tra le istituzioni europee, che dura 2 anni. Ma lo Stato che ne fa richiesta è considerato fuori dall’Unione da subito, anche nel periodo in cui la procedura è ancora in corso. Amen. Si può uscire dall’euro restando nell’Unione? La dottrina dice che si può. Ci sono 4 vie alternative: referendum sull’euro; uscita unilaterale mediante modifica dei Trattati; recesso dall’Eurozona in base agli articoli 139 e 140 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue); recesso dai Trattati europei secondo il Diritto internazionale. Quest’ultima è la strada più facile, e basta addurre come unica motivazione il cambiamento delle condizioni economiche e politiche rispetto al momento in cui il Trattato era stato firmato. La Gran Bretagna non ha l’euro ma ha indetto per il 2017 un referendum per uscire anche dall’Unione. Non è escluso, pertanto: che si possa uscire dall’Unione senza uscire dall’euro; che si possa uscire dall’euro senza uscire dall’Unione; che si possa uscire contemporaneamente dall’Unione e dall’euro. È un atto di sovranità che, conformemente alle proprie regole costituzionali, ciascuno Stato può fare. Senza drammi.

Azzardiamo con qualche perversa malizia un’ipotesi che potrebbe avere più fondamento di quanto sembra. E se Stati con monete diverse dall’euro (si pensi alla Cina, al Giappone, ma soprattutto agli Stati Uniti d’America, in perenne conflitto con la Germania) decidessero di «appoggiare» l’uscita di uno dei paesi dell’Eurozona dalla moneta unica? Chi ci dice che non riuscirebbero a mantenere calmi i mercati? Poniamo, poi, che questo Stato sia la Grecia, presa da noi ad esempio in quanto molto chiacchierata nelle ultime settimane: se Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis dimostrano che uscire dall’euro si può, e che in due, tre anni il paese ricomincia a prosperare grazie a una moneta diversa e senza aver subito traumi, che posizione prenderanno i partiti degli altri paesi dell’Eurozona chiamati a votare, magari nel 2018, come l’Italia?

Avevamo accennato ai Trattati. L’articolo 50 del Tfue recita testualmente: «1. Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione. 2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione. L’accordo è negoziato conformemente all’articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Esso è concluso a nome dell’Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo. 3. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato membro interessato, decida all’unanimità di prorogare tale termine. 4. Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano. 5. Se lo Stato che ha receduto dall’Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all’articolo 49».

Chiaro. E l’articolo 218 lo è ancor di più. Ne riportiamo solo stralci: «(…) Il Consiglio autorizza l’avvio dei negoziati, definisce le direttive di negoziato, autorizza la firma e conclude gli accordi. (…) La Commissione (…) presenta raccomandazioni al Consiglio, il quale adotta una decisione che autorizza l’avvio dei negoziati e designa, in funzione della materia dell’accordo previsto, il negoziatore o il capo della squadra di negoziato dell’Unione. (…) Il Consiglio (…) adotta la decisione di conclusione dell’accordo: a) previa approvazione del Parlamento europeo (…) ovvero b) previa consultazione del Parlamento europeo. (…). Uno Stato membro, il Parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione possono domandare il parere della Corte di giustizia circa la compatibilità di un accordo previsto con i trattati. In caso di parere negativo della Corte, l’accordo previsto non può entrare in vigore, salvo modifiche dello stesso o revisione dei trattati».

Ecco come si esce dall’Unione europea e, perché no, dall’euro. È scritto nei Trattati. Basta applicarli, se si vuole. E se si è forti/credibili abbastanza per farlo. La decisione è tutta politica. Quanto alla Grecia, siamo sicuri che tutto questo non accadrà. Il «problema» greco è oggi, ancora una volta, drammatizzato in termini di immagine, ma è contenuto nella sostanza dei numeri. Il punto è uno e uno solo: l’Europa non deve di nuovo sbagliare. Non c’è tempo da perdere. Si affronti la questione, con freddezza, subito. O sfuggirà nuovamente di mano. In questo caso il precedente c’è: a ottobre 2009, quando è emerso il buco dei conti pubblici di Atene sarebbero bastati poco più di 50 miliardi per risolvere l’emergenza. Invece sappiamo tutti com’è andata.

Errare è umano, con quel che segue. L’Europa oggi è a un punto di svolta. Non si può più insistere con la filosofia (sbagliata) dei compiti a casa. L’Europa oggi deve cogliere l’occasione per cambiare se stessa, realizzando quelle riforme da anni ormai annunciate, ma ferme al palo: l’unione economica, l’unione politica, l’unione bancaria e l’unione di bilancio. Argomenti che si trascinano stancamente a causa delle resistenze sempre dei soliti paesi. E deve cambiare la mission della Bce, oggi anch’essa troppo condizionata dagli interessi dei partner più forti (leggi: Bundesbank), affinché diventi una vera banca centrale (che funga, cioè, da prestatore di ultima istanza per gli Stati), al pari di tutte le altre principali banche centrali mondiali. E smettiamola, una volta per tutte, di farci del male.

Dati non dati

Dati non dati

Davide Giacalone – Libero

Cresciamo meno della metà dell’eurozona, non riuscendo a riassorbire la disoccupazione. Ciò dovrebbe imporre, a tutti, il tema di cosa fare per rimediare. Invece si cerca su chi scaricare la colpa, agevolati dal fatto che al governo hanno appena provato a prendersi il merito di dati e previsioni di pura fantasia. Nelle scorse settimane abbiamo letto di previsioni di crescita del prodotto interno lordo, per l’anno in corso, del 2,1%. Alcuni, più prudenti, supponevano un +1,6. Domandavamo: da dove arriva questa manna? Rispondevano: dal calo del petrolio e dalle politiche espansive della Banca centrale europea. Più le meravigliose riforme già fatte e che solo chi si picca di leggere i documenti non riesce a vedere.

Ora arriva la previsione della Commissione europea: 1’Italia dovrebbe crescere dello 0,6%. Dopo tre anni di recessione. L’intera zona dell’euro, noi compresi, è data in crescita dell’1,3%. Considerato che in quella media ci siamo noi, ed è già più del doppio della nostra, risulta evidente che gli altri crescono allargando il distacco. Le cose non andranno meglio nel 2016, perché è vero che noi dovremmo crescere dell’1,3, ma l’area e previsto che faccia +1,9. Lo svantaggio relativo diminuisce solo dello 0,1, mentre quello assoluto cresce. Tale crescita, inoltre, non è il frutto delle riforme che facciamo all’interno, ma del trascinamento che subiamo dall’esterno, tanto è vero che un’eventuale flessione della domanda globale è segnalata come possibile causa di problemi nei nostri conti. Sono le esportazioni a funzionare, prevedendosi un saldo attivo del 2,6 fra importazioni ed esportazioni. Ciò vuol dire che a tirare la carretta ci sono le aziende che esportano, agevolate da null’altro che dal deprezzamento dell’euro. Cioè da quel che non dipende da scelte politiche compiute all’interno dei nostri confini. Occhio a quel che segue.

Nelle stime fatte a novembre si prevedeva una crescita del nostro pil dello 0,6. Esattamente quella che si prevede ancora oggi. Ma si pensava che quella crescita avrebbe portato al 12,6% la disoccupazione, nel corso del 2015. Posto che il 2014 si era chiuso con la disoccupazione al 12,9. Ora, invece, si corregge la previsione, peggiorandola: dovremmo chiudere l’anno con il 12,8% dei disoccupati. Ovvero quelli che abbiamo oggi. Ma non ci era stato raccontato che solo a gennaio si erano creati 100mila posti di lavoro? Peccato fossero 94mila e compensassero a malapena gli occupati persi da ottobre. Nel 2016 dovremmo trovarci con il 12,6% di disoccupati, quindi con un calo dello 0,2. Nessuno, intellettualmente onesto, può sostenere che sia colpa di questo governo, visto che scontiamo una lunga e devastante perdita di competitività e crescita dei costi interni. Però nessuno, intellettualmente onesto, può continuare a vendere la balla che le riforme denominate all’inglese sono in grado di mettere al lavoro i disoccupati in vernacolo. L’Italia arranca e scivola anche perché al gran clamore delle polemiche seguono risultati striminziti e contraddittori.

E veniamo ai conti pubblici, dove si trova la polpetta avvelenata, fin qui nascosta agli italiani. Qui la Commissione si fa prudente, perché i conti italiani devono ancora essere rivisti. Fin qui siamo alla fede rispetto a quel che dice il nostro governo. E sentite che dice: nel 2014 il deficit è stato al 3% (che il cielo ci assista e che non si trovi nulla a farlo crescere); nel 2015 sarà del 2,6; nel 2016 del 2. Come si ottiene questo risultato? Mediante l’aumento del gettito fiscale. Avete letto bene. E io lo leggo nelle carte europee: perché aumenta la pressione fiscale. Laddove ci era stato detto che sarebbe diminuita nell’anno in corso. La verità è che rispetto ai conti a sua volta fatti dal governo italiano c’è una imponente novità, ovvero la Bce che fa scendere significatívamente il costo del debito pubblico. Bravissimi, ma com’è, allora, che tale meravigliosa cosa non produce da sola, senza tasse, la discesa del deficit? Risposta: perché non sono capaci d’imbrigliare la spesa pubblica. Vedi al capitolo Collarelli e secretazione dei suoi lavori. Saldo finale: debito pubblico che cresce al 133% del pil quest’anno e si spera scenda (si fa per dire) al 131,9 il prossimo.

Torno da dove sono partito: dobbiamo chiederci cosa fare per disincagliare l’Italia, posto che il motore produttivo funziona, come dimostrano le esportazioni. Rispondiamo: abbattimento del debito, mediante dismissioni; tagli della spesa corrente; tagli alla pressione fiscale; smantellamento della pressione burocratica. I dettagli illustrati molte volte. Ma, prima di tutto, piantiamola di prenderci per i fondelli fa soli. Operazione impossibile per la fisica, ma praticata dai parolai.