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Ma sul debito di Atene i conti son già fatti.  Anche da Cottarelli

Ma sul debito di Atene i conti son già fatti. Anche da Cottarelli

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Rispunta Carlo Cottarelli. Questa volta ad Atene. Non nella veste di autore di spending review secretate, quindi, ma di “avvocato difensore”  della Grecia alle dirette dipendenze di Alexis Tsipras, in quanto rappresentante della Repubblica ellenica («oltre che dell’Italia e di un’altra mezza dozzina di Stati») nel consiglio del Fmi, il partner senior della troika se non altro per l’esperienza e le risorse professionali di cui dispone.

Cottarelli è avvezzo a trattare di debito pubblico. Per di più trova il terreno pronto. Nel novembre 2014 – a Washington, Bruxelles ed Atene è il “segreto di Pulcinella”, anche se a Francoforte si afferma di non saperne nulla – il presidente del Consiglio greco allora in carica Antonis Samaras aveva concluso un patto top secret con i partner europei che contano. Atene avrebbe dovuto rientrare quanto il dovuto nei loro confronti – quasi 190 miliardi su 300 – entro il 2057. Non si possono toccare i crediti privilegiati targati Fmi e Bce, perché salterebbe l’intero sistema. Ma la Grecia avrebbe forse avuto un periodo di grazia (senza pagare nulla ai maggiori creditori) fino al 2020. Da quella data avrebbe poi rimborsato a tassi di interesse “calmierati”, pari a solo lo 0,53% annuo in aggiunta al tasso armonizzato d’aumento dei prezzi pubblicato nel Bollettino Mensile della Banca centrale europea. Tsipras è ovviamente perfettamente al corrente.

Su questa base è anche facile non solo fare il gioco delle tra carte, ma mostrare risultati differenti a seconda dell’uditorio. Mediamente il debito greco ha scadenze di 16 anni, oltre il doppio di quelle di Francia, Germania ed Italia. Ad un tasso d’attualizzazione nominale (l’inverso del tasso d’interesse) medio del 2,5% (il 2% definito come “obiettivo d’inflazione” della Bce più lo 0,53%) il prolungamento delle scadenze comporta una riduzione di un terzo di quanto dovuto – e un taglio ancor maggiore se nel pacchetto rientra anche il “periodo di grazia”.

Mediaticamente sarebbero tutti contenti. Tsipras sottolineerebbe ai suoi che ha ottenuto un bel taglio. La troika che si è trattato di un allungamento “tecnico” per meglio consentire alla Grecia il rientro del debito e l’avvio dello sviluppo. Ai contribuenti italiani l’operazione costerebbe circa 15 miliardi. Spalmati, però, su una ventina d’anni.

La barriera dell’euro e l’abisso incertezza

La barriera dell’euro e l’abisso incertezza

Alessandro Plateroti – Il Sole 24 Ore

In un’Europa divisa e senza leadership, politicamente in stallo ed economicamente fragile, non c’è evento straordinario a cui non venga ormai attribuito un potenziale dirompente per il futuro dell’Eurozona. Che si tratti di crisi geopolitiche, di tensioni finanziarie o monetarie, di elezioni nazionali o di scelte politiche su austerity e riforme, poco importa. Più il destino dell’euro viene messo in gioco, più chi lo fa guadagna: guadagnano denaro gli speculatori di Borsa, come avviene ormai dal 2011 con l’altalena di tassi, azioni e valute, e guadagnano consenso partiti e movimenti antagonisti, che proprio negli slogan contro l’euro e l’Europa hanno trovato ragion d’essere.

In questo senso, gli eventi dell’ultima settimana offrono più spunti di riflessione sia per chi difende l’Unione monetaria sia per chi l’attacca all’origine: in particolare, il quantitative easing della Bce e le elezioni in Grecia. Entrambi gli eventi sono stati caricati di tensione e di significati ben oltre il dovuto, con palesi distorsioni della realtà dei fatti. Da un lato, si è attribuita infatti alla Germania una cinica determinazione nel bloccare la manovra monetaria di stimolo economico e di contrasto della deflazione: bloccando il Qe, è stato il coro, Berlino farà saltare per i propri interessi la Grecia, l’Italia e l’euro, affermandosi come potenza egemonica. Risultato: il sentimento anti-tedesco è lievitato nell’Europa mediterranea, mentre in Grecia ha fornito a Syriza e a Tsipras la spinta decisiva per il successo elettorale. Le cose sono andate però diversamente: non solo Draghi ha ottenuto il via libera al Qe, ma l’entità della manovra – 1.100 miliardi di euro in acquisti di bond sovrani – è andata ben oltre le attese del mercato. Le Borse sono quindi salite, i tassi periferici (a cominciare da quelli dei BTp italiani) sono scesi ai minimi storici e l’euro ha perso terreno sul dollaro, come appunto si voleva. E con la manovra Draghi, ha stimato la Confindustria, il Pil italiano potrebbe mettere a segno un balzo dell’1,8% nell’arco di due anni, mentre per le imprese ci sarà un risparmio di 3,2 miliardi sugli interessi.

È forse questa la dimostrazione del sentimento anti-europeo della Germania? In Borsa non la pensano certamente così, visto il rally degli indici e dei listini europei: per i mercati, il QE non è certo la panacea della crisi e la ripresa economica resta una sfida da vincere con le riforme, ma l’Euro e la sua difesa da parte della Bce sono la vera garanzia a protezione degli investimenti finanziari e produttivi. Se l’Italia sta già beneficiando di questa percezione malgrado la durezza della crisi, è solo perché il mercato non attribuisce ai movimenti anti-Euro la forza per spingere politicamente un ritorno alla lira. Nell’ottica di chi investe, la sfida al rigore non è un delitto: un conto è dare fiducia a un Paese in crisi che chiede meno vincoli e condizioni migliori per tornare a crescere, un altro è investire su una nazione indipendente ma isolata, con una valuta “sudamericana” in balia degli eventi, con scarse possibilità di riaccedere al mercato dei capitali e senza reti di protezione internazionale sui tassi di interesse.

Un discorso analogo vale per la Grecia: se i mercati ieri hanno reagito in modo composto alla vittoria di Tsipras è soltanto perchè hanno capito bene che il leader di Syriza non ha alcuna intenzione di abbandonare l’Euro. I greci non vogliono la Dracma, ma comprensione, solidarietà e migliori condizioni dai loro creditori. I mercati non votano, non sono né di destra né di sinistra, cercano solo garanzie e certezze finanziarie: la Grecia oggi è un fattore di rischio, ma circoscritto, quantificabile e gestibile.

Chi ha attribuito alla Grecia e a Tsipras la volontà di uscire dall’Unione monetaria lo fatto insomma per esigenze politiche nazionali o per rincorrere il vento del populismo. E lo stesso è stato fatto con la Germania. Anche se Berlino e la Bundesbank hanno la propria parte di responsabilità nell’escalation delle tensioni sul voto greco, sarebbe un errore pensare che la Germania o l’Europa siano pronte a espellere Atene dall’Unione monetaria solo perché chiede di rinegoziare le condizioni dei prestiti e dell’austerity. A questo proposito, è bene ricordare che già nel 2012 l’Europa accettò la rinegoziazione dei prestiti alla Grecia proprio per evitare l’uscita di Atene dall’Euro e il rischio di un devastante contagio europeo, sia politico sia finanziario. Perchè ora non si dovrebbe fare altrettanto?

Abbandonare ora la Grecia sarebbe non solo sbagliato, ma in contrasto con lo spirito solidaristico con cui l’Europa sta cercando di ripartire. E d’altra parte, proprio i mercati finanziari sembrano aver capito meglio di altri osservatori politici che non sarà certamente la Germania a mettersi di traverso sul salvataggio della Grecia o sulle manovre di stimolo della Bce. A dirglielo è stata direttamente la Merkel lunedì scorso, nel pieno delle polemiche contro Berlino: «Questa settimana – ha risposto la Merkel alle domande dei giornalisti sullo scontro in Bce – non sarà affatto determinante per l’Europa: tanto il risultato della riunione in Bce sul quantitative easing quanto l’esito delle elezioni in Grecia non rappresenteranno fattori di rottura o di sopravvivenza per l’Euro». E così è stato. Detto questo, è chiaro che i prossimi mesi saranno determinanti per l’Eurozona. Il caso greco, per le sue dimensioni finanziarie limitate, può rappresentare l’occasione giusta non solo per ricalibrare, secondo un principio di equità e di tolleranza, il peso dei sacrifici nei Paesi ancora schiacciati dalla recessione, ma anche una grande opportunità per dimostrare che l’Europa è molto più di un’espressione geografica.

Amore a prima vista

Amore a prima vista

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Al fattore “G”, G come Grecia, l’Italia dovrebbe sempre prestare attenzione. Per ragioni geografiche e storiche, ma oggi soprattutto perché il ciclone Tsipras investe di nuovo l’Europa e preme anche alla nostra porta. Il problema è che tipo di attenzione: quella fondata sul dato emozionale, ad esempio, può rivelarsi controproducente. Alexis Tsipras, leader del partito di sinistra radicale Syriza e neo capo di un governo frutto dell’alleanza con il partito (destra nazionalista) dei Greci Indipendenti, è un pragmatico quarantenne che con un programma aggressivo all’insegna della “fine dell’austerità e della Troika” (Bce, Commissione Ue e Fondo Monetario) vuole riportare Atene fuori da una crisi drammatica in gestazione già in passato da molti anni e poi deflagrata nel 2010. E dove l’Europa e la sua governance a trazione tedesca, va detto con chiarezza, hanno compiuto una serie di vistosi e colpevoli errori.

Vedremo a cosa porterà, in concreto, questo innesto a presa rapida tra un partito di sinistra-sinistra ed uno di destra-destra cementati dalla richiesta di rinegoziare alla radice i piani d’aiuto concordati dalla Grecia (la sola eurozona si è esposta direttamente per 194,7 miliardi) in “cambio” delle riforme. Quello che è certo è che l’Italia non può non occuparsi di un caso che la riguarda da vicino. In tutti i sensi. Perché è la terza economia dell’eurozona. Perché è creditrice come Stato, alle spalle di Germania (55,3) e Francia (42), per 36,8 miliardi (50,2 se consideriamo l’esposizione indiretta via Bce e Fmi) nei confronti della Grecia. Perché, dopo la sola Grecia, è detentrice in Europa del più alto debito pubblico in rapporto al Pil. Perché ad inizio febbraio la Commissione europea presenterà le sue previsioni economiche che faranno da sfondo al negoziato sulla flessibilità (a colpi da zero-virgola ma non per questo, date le regole del gioco, meno impegnativo) per passare gli esami di bilancio. Tutti ottimi motivi per ragionare, a Roma come a Bruxelles, e con lo stesso Tsipras, sui modi migliori per disinnescare strappi sui mercati e insieme per trovare nuove strade per la crescita.

Fatto è che la prima ondata dell’effetto-Tsipras si è distinta per un’indistinta reazione della classe politica italiana. Destra, sinistra, centro, uomini di governo: tutti o quasi erano Tsipras o suoi potenziali e stretti alleati per un assalto alla fortezza-Europa. Con risultati paradossali. Come quello per il quale il capogruppo dei socialisti in Europa, il Pd Gianni Pittella, ancora a scrutini aperti twittava: «Da Atene un messaggio chiaro all’Europa: basta austerità e Troika». O come quello per cui, dalle file del Pd, è emersa una nuova convinzione identitaria: «Noi il nostro Tsipras già ce l’abbiamo e si chiama Renzi». Naturalmente nessuno sembra aver nemmeno dato un’occhiata al programma con il quale Syriza ha stravinto le elezioni. Nazionalizzazioni a tappe forzate, patrimoniali e molto altro, compresa una politica estera che farà molto discutere. Ma tutti Tsipras, per fare cosa ancora non è dato sapere.

Il compagno non paga i debiti e l’Italia ci rimette 24 miliardi

Il compagno non paga i debiti e l’Italia ci rimette 24 miliardi

Antonio Signorini – Il Giornale

Le promesse elettorali costano e quelle di Syriza non fanno eccezione. Unico particolare: il conto della Tsipranomics rischiano di pagarlo, non tanto gli elettori che hanno portato la sinistra al governo il giovane ex no global, quanto gli altri contribuenti europei. Italiani in testa. Già si può ipotizzare una cifra di quanto ci potrebbe costare il voto ellenico: 24 miliardi di euro. Più di due anni di coperture del bonus Renzi, un anno di gettito delle odiatissime tasse comunali sulla casa, Imu e Tasi, sacrificati sull’altare dell’ennesimo ritorno della sinistra.

Soldi bruciati, è bene precisarlo, non perché le nostre banche o gli investitori privati a un certo punto abbiano deciso di rischiare comprando titoli greci. Come hanno fatto, ad esempio, i tedeschi. L’Italia è esposta verso Atene per 40 miliardi di euro. Ma dentro questa cifra, per nulla irrilevante, ci sono praticamente solo i prestiti bilaterali dell’Italia alla Grecia e poi la quota che paghiamo al fondo europeo salva stati, nelle due versioni Esm ed Efsf. In sostanza, se Tsipras deciderà di rinegoziare il debito, di non pagarlo o di fare qualunque azione unilaterale sui soldi che la Grecia deve al mondo, penalizzerà automaticamente i contribuenti dei Paesi che gli hanno dato fiducia. Italiani in testa. Non il mostro euroliberista che in campagna elettorale il suo partito (insieme all’estrema destra) diceva di volere combattere, né i grandi speculatori della finanza internazionale, ma lavoratori, cittadini e contribuenti francesi, tedeschi e anche italiani. Compresi quelli che domenica sera hanno festeggiato l’ascesa della sinistra estrema al governo della Grecia in nome di un ritorno del «fattore umano».

Più esposti degli italiani, ci sono solo la Germania con 60 miliardi e la Francia con 46 miliardi di euro. I tre Paesi insieme fanno quasi la metà dei sottoscrittori del debito pubblico greco, che ammonta a 322 miliardi di euro. Possono sembrare pochi a noi che viaggiamo sopra i 2mila miliardi, ma quella cifra corrisponde al 177% del Pil ellenico. Quello che colpisce, e non in modo positivo, è che, a differenza degli altri due Paesi europei, l’unico credito che noi vantiamo verso la Grecia è quello degli aiuti, europei e bilaterali.

L’esposizione delle banche italiane sul debito greco, pubblico e privato, è di appena 1,1 miliardi secondo la Banca dei regolamenti internazionali, contro i 22,3 miliardi della Germania. Gli investitori italiani hanno evitato il rischio greco, salvo poi ritrovarlo sotto forma di partecipazione ai piani di aiuto europei e attuazione dei patti tra i due Paesi. Gli investimenti privati italiani sul debito estero preferiscono mete più sicure. Ad esempio, ci sono 43 miliardi italiani in Francia, 55 miliardi sulla Gran Bretagna, ben 96 miliardi sull’Austria e 258 miliardi sui titoli tedeschi (contro 126 miliardi tedeschi in Italia). Unici Paesi, non a rischio ma nemmeno virtuosi, con investimenti italiani, l’Irlanda con 12 poi 20 sulla Spagna e altri 20 sull’Ungheria.

Un ticket greco già lo paghiamo. Il debito dei piani di aiuto non rientra nel computo dei patti Ue, ma ci paghiamo gli interessi. Un impegno preso, al quale potrebbe aggiungersi, se Tsipras realizzerà veramente il suo programma, una perdita netta del credito che vantiamo nei confronti Atene. Il premier greco in pectore ha accennato a un taglio del 60%. Quindi, se il nuovo beniamino della sinistra italiana sarà coerente, dovremo rinunciare a 24 miliardi di euro. Una cifra che vale una manovra, bruciata per il voto di un altro elettorato, di altri contribuenti.

La Ue non può avere la Germania contro

La Ue non può avere la Germania contro

Lucrezia Reichlin – Corriere della Sera

La decisione assunta giovedì scorso dalla Banca centrale europea è stata coraggiosa. Ed è una buona notizia. Ce n’è anche una cattiva, però: ed è che il coraggio della Bce non sembra, per ora, essere accompagnato da un’azione altrettanto decisa da parte di Bruxelles e dei governi nazionali su debito, investimenti e politica fiscale: azione che invece è un indispensabile complemento della politica monetaria. Se l’economia dovesse deludere anche nel 2015 e la Bce fosse lasciata sola a fornire gli stimoli necessari, le tensioni all’interno del Consiglio dell’istituto sarebbero difficilmente gestibili e l’Unione non sopravvivrebbe ad un governo della politica monetaria che vede la Germania in sistematica opposizione.

Acquistare titoli sovrani (il cosiddetto Quantitative easing) fino al raggiungimento dell’obiettivo di inflazione — cioè finché i prezzi non torneranno a crescere ad un passo al di sotto, ma vicino al 2 per cento annuo — resta un avvenimento di rilevanza storica, con importanti conseguenze per il futuro del governo economico dell’Unione. L’avvenimento è storico perché il Qe combina, sempre, aspetti di pura politica monetaria (l’iniezione di liquidità sostiene i prezzi e spinge quindi al consumo) a aspetti cosiddetti fiscali. Metterlo in atto nell’eurozona, dove la moneta è comune ma l’autorità di bilancio (il «ministero del Tesoro») non è condivisa, è un esperienza per quanto necessaria, potenzialmente divisiva. L’acquisto, da parte della Bce, di titoli di debito sovrano diminuisce infatti il costo di rifinanziamento dello Stato e potenzialmente limita la disciplina esercitata dal mercato nei confronti dei Paesi con alto debito pubblico. Il problema – al centro delle preoccupazioni tedesche – è particolarmente rilevante nella situazione di oggi, in cui molti Paesi non solo della periferia dell’Unione, ma anche del suo «nocciolo» come la Francia, hanno un debito pubblico che continua a crescere in rapporto al prodotto interno lordo.

Se il debito di questi Paesi dovesse continuare ad espandersi, in quella che viene definita una «dinamica negativa», gli scenari possibili sarebbero due. Nel primo, la Bce continuerebbe ad acquistare titoli, sostituendosi così al mercato: questo genererebbe però un aumento incontrollato dell’inflazione e la perdita di credibilità della Banca centrale. Nel secondo scenario, invece, la Bce interromperebbe gli acquisti per non violare il suo obiettivo di inflazione e permetterebbe il default dei Paesi a rischio. In questo secondo caso, però, la Bce si troverebbe a pagare un prezzo elevato, particolarmente difficile da digerire per chi, tra i suoi azionisti, si trova nella condizione di creditore.

Il primo scenario è improbabile, date le attuali condizioni macroeconomiche e il vincolo posto dai Trattati sul limite dell’inflazione. Il secondo, cioè il caso di bancarotta di un Paese dell’Unione, pur essendo estremo, non è da escludere. Il problema è stato già sperimentato con la Grecia in passato, e una nuova discussione sulla rinegoziazione del debito e sullo stato della Bce come creditore ufficiale ritornerà sicuramente sul tavolo dopo la vittoria di Tsipras. Proprio per rispondere al problema posto dal secondo scenario, il Qe della Bce prevede che le banche centrali nazionali assumano una gran parte del rischio relativo agli acquisti. In altre parole, se uno Stato fallisse, il bilancio della sua banca centrale sarebbe colpito; e nel caso estremo in cui il capitale non fosse sufficiente, lo Stato dovrebbe intervenire, mettendo dunque i suoi cittadini nella condizione, di fatto, di «pagare il conto».

Questo aspetto del programma è stato criticato perché, limitando la condivisione del rischio, potrebbe far sorgere dubbi sull’impegno di tutti gli Stati a salvaguardare l’Unione. Ma in realtà questa è una discussione molto astratta. Il problema è un altro. Se a dover ristrutturare fossero più Paesi (o anche uno solo, ma con un grande debito) la sopravvivenza stessa dell’euro sarebbe a rischio e Francoforte dovrebbe intervenire per evitare il peggio. In caso contrario i costi sarebbero enormi: molto maggiori di quelli di cui si parla in relazione al Qe. La crisi ci ha insegnato che i Trattati portano a un paradosso: da una parte pongono molti limiti all’azione della Bce per evitare la monetizzazione del debito; dall’altra, quando l’euro è in pericolo, rendono inevitabile il suo intervento per assicurarne la sopravvivenza, rendendola implicitamente garante del debito di tutti e generando dunque un irrealistico appiattimento dello spread.

La Bce può uscire da questa alternanza tra bastone e carota solo chiedendo agli Stati a rischio un impegno su programmi di riforma. Ma la Grecia insegna che questa via è percorribile solo se le misure non sono eccessivamente punitive e si combinano con altre che favoriscano la crescita. Per questo il Qe è una buona notizia: una politica monetaria fortemente espansiva potrebbe facilitare e non inibire un percorso riformatore. Purché al coraggio della Bce si associ l’azione decisa di Bruxelles. Altrimenti si scaricherebbero sull’istituto di Francoforte le tensioni di una Germania all’opposizione, mettendo a rischio la sopravvivenza della stessa Unione.

Il miope abbraccio all’icona

Il miope abbraccio all’icona

Pierluigi Battista – Corriere della Sera

Il carro di Alexis Tsipras è sempre più affollato di sostenitori del giorno dopo, ma non è solo il consueto e patetico affannarsi nel soccorso del vincitore. Esultano a sinistra e a destra. Marine Le Pen e Matteo Salvini ammirano il «mostruoso schiaffone» assestato all’euro. I partiti che in Europa sono normalmente vituperati come xenofobi ed eurofobi, guardano ad Atene come alla nuova Gerusalemme che sconfiggerà l’euroburocrazia di Bruxelles e le rapaci «oligarchie bancarie». Del resto, oramai le barriere ideologiche del passato paiono molto fragili se in poche ore in Grecia l’estrema sinistra ha fatto un governo con un partito nazionalista che sembra quello del deploratissimo Farage in Gran Bretagna. A sinistra si rincorre il modello Syriza, il nuovo cavaliere che sgominerà il «liberismo selvaggio». Ma anche nel fronte della moderazione riformista di destra e sinistra, se non c’è proprio esultanza, affiora compiacimento. Forza Italia parla di «memorabile lezione». E Matteo Renzi, lungi dal temere la tentazione di una sinistra vecchio stampo che potrebbe sentirsi galvanizzata dal trionfo di Atene, si dice confortato dal possibile appoggio di Tsipras alla battaglia «anti austerità» (anche se l’Italia rischia di vedere svanire i circa 40 miliardi di cui è creditrice con la Grecia).

Ma se è così, per l’Unione Europea si tratta di una disfatta simbolica, e di un pericolo mortale. Come se tutto quello che è stato fatto sinora fosse da buttare in una discarica. E il pareggio di bilancio messo in Costituzione? E le riforme come «compiti a casa» amari ma necessari per superare la bufera? E i parametri da rispettare, i conti da tenere a bada, i debiti pubblici questi sì «mostruosi» da domare? Se, come è stato detto in queste ore, ci si commuove per le note di Bella ciao nelle piazze di Atene come simbolo di «liberazione» dalla dittatura finanziaria, così come quella trascinante canzone è il simbolo della liberazione dalla dittatura fascista, quale immagine dell’Europa esce da questo unanime stringersi al profeta dell’anti austerità Alexis Tsipras?

Il successo di Tsipras sembra funzionare come una ricerca collettiva di autoassoluzione. Se siamo messi così male, così recita il nuovo coro, non è perché abbiamo fatto le cicale nel passato, perché abbiamo accumulato debiti statali spaventosamente elevati, perché non abbiamo tenuto sotto controllo la spesa pubblica, perché nell’Europa soprattutto latina e mediterranea i bilanci in ordine sono stati un concetto un po’ troppo elastico e incompatibile con la ricerca di un consenso voracemente costoso. No, la colpa è «dell’Europa» e segnatamente, inutile girare attorno al vero nucleo che calamita su di sé ostilità e risentimenti sconfinati, della spietata Germania, e anzi, per dare un volto e un bersaglio, «della Merkel», che non è più una persona fisica, ma l’emblema stesso delle nostre difficoltà.

Ma se questo accade è perché l’Europa è stata costruita male, dando il senso di una sovranità usurpata, di una moneta senz’anima, di un carattere privo di ogni base culturale e soprattutto di ogni passione «popolare», come quella che pure ha preso forma nella configurazione moderna degli Stati nazionali e delle democrazie liberali. È questo deficit democratico che l’Europa, se vuole sopravvivere, deve saper guardare con coraggio per colmarne le lacune. Non solo una questione di conti virtuosi e di debiti da onorare. Altrimenti, stritolata dall’eurofobia montante di destra e di sinistra, l’Unione Europea ne uscirà travolta. Non c’è più molto tempo per correre ai ripari.

Perché dopo la scossa di Draghi serve privatizzare in Italia

Perché dopo la scossa di Draghi serve privatizzare in Italia

Giuseppe Pennisi – Formiche

Nei giorni in cui tutti azzardano stime sugli effetti del Quantitative Easing (Q.E.), volgiamo lo sguardo a cosa fare per rendere efficaci le “misure monetarie non convenzionali” varate il 22 gennaio dalla Banca centrale europee. Non solo mi concentro sulle materie strettamente nel nostro campo: ciò che possono (e che debbono) fare Parlamento e Governo della Repubblica Italiana mentre gli altri 18 membri dell’eurozona molto probabilmente si accapiglieranno su questa o quella virgola del compromesso raggiunto.

A mio avviso, il tema più urgente è quello delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni. Il Q.E. può darci lo spazio di manovra per farlo anche se i suoi effetti saranno inferiori a un tasso di crescita complessivo dell’1,8 % sui prossimi due anni (ossia, mediamente, 0,75% l’anno) come stimato dal Centro Studi Confindustria. La crescita sarà probabilmente – è la media delle proiezioni dei 20 maggiori istituti econometrici internazioni, tutti privati, nessuno italiano – sullo 0,4% nel 2015 e sul 0,6% nel 2016, pur sempre un’inversione di tendenza dopo tre lustri in cui alla stagnazione hanno fatto seguito una recessione ed una deflazione.

Le privatizzazioni (e la chiusura di enti inutili) sono particolarmente urgenti sia per contribuire a ridurre lo stock di debito (sarebbe illusorio, ove non puerile, fare conto, a questo scopo solo o principalmente sul Q.E.) sia per rendere più snello quello che un tempo si chiamava (grazie ad una definizione molto appropriata di Franco Reviglio) “settore pubblico allargato” sia per contribuire, in tal modo, ad aumentare la produttività dei settori di produzione (da quindici anni rasoterra). È un campo particolarmente ostico: basti pensare che l’unica privatizzazione portata a termine nel 2014 è quella dell’Unione Nazionale degli Ufficiali in Congedo e che dal 2011 il Ministero dell’Economia e delle Finanze non mette in rete la Relazione Annuale al Parlamento sulle Privatizzazioni (forse perché non riuscirebbe a riempire neanche una pagina). Anzi, stiamo andando verso la nazionalizzazione (tramite una SpA contenitore) per le aziende in crisi. Non solo ma la nostra proposta è di cominciare non con operazioni relativamente facili (cessioni di quote dell’Enel, dell’Eni, delle Poste), e neanche da quella giudicata come la “madre di tutte le privatizzazioni” dall’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa (la RAI, per cui si potrebbe stilare un programma tecnico dettagliato) ma dal terreno più difficile: quello del capitalismo (o socialismo) regionale e municipale.

Il campo è tanto ispido che il documento stilato dal buon, e caro, Carlo Cottarelli (chiamato a rimettere ordine e presto rispedito, dal Presidente del Consiglio, oltre-oceano, dove non potesse sapere troppo su ciò che avviene in Italia) è stato “segretato” come se svelasse segreti di Stato sul terrorismo mondiale. Interpolando dalle informazioni apparse sulla stampa a proposito del documento segretato, analisi apparse sulla bella rivista Amministrazione Civile del Ministero dell’Interno (ha cessato le pubblicazioni subito dopo avere toccato l’argomento), studi dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma e un saggio recente pubblicato dal Chief Economist della Cassa Depositi e Prestiti Edoardo Reviglio sulla rivista Economia Italiana, si giunge ad una base conoscitiva essenziale per trarre direttive operative.

In breve le “partecipate” a livello locale sono circa 25.000 mila (Cottarelli ne ha censite 8000), di un centinaio partecipate totalitarie, un migliaio aziende in cui la mano pubblica ha la maggioranza , 22.000 partecipate in cui gli enti pubblici hanno una quota inferiore al 49%, e ben 16.000 con una quota inferiore al 4%. Numerosissime sono mere scatole cinesi in cui sovente il numero dei dipendenti è inferiore a quello dei componenti degli organi di indirizzo di gestione. Secondo Giovanni Montemartini, che in età giolittiana teorizzò le municipalizzate, avrebbero dovuto generare reddito da utilizzare a fini sociali a beneficio degli ‘incapienti’, i più poveri dei poveri’. Molte di esse, invece, sono macchine per fare debiti (si parla di circa 120 miliardi l’anno).

Occorre dire che all’interno del Governo era stato proposto di fare pulizia, portando a non più di mille (nell’arco di tre anni) il numero delle partecipate e di dismettere quelle con disavanzi per due anni consecutivi, nonché un drastico dimagrimento degli organi di indirizzo e di gestione e chiusura delle ‘scatole cinesi’. Alcune norme erano stato nelle legge di stabilità. Tuttavia, con un emendamento all’articolo 15 della legge di stabilità al Senato, il Governo cancella con un colpo di spugna i tentativi di razionalizzazione delle società partecipate messi in campo negli ultimi anni. Niente vendite obbligatorie per le aziende dei Comuni fino a 50mila abitanti, previste dal 2010 e poi rinviate da una serie di proroghe, e niente privatizzazione delle società strumentali, cioè quelle che lavorano quasi solo con le amministrazioni controllanti, e che la spending review varata nel 2012 dal Governo Monti chiedeva di vendere o chiudere entro il prossimo 31 dicembre. Tutto abrogato: il panorama attuale delle società di enti locali, Regioni e ministeri può tranquillamente rimanere quello attuale.

Al posto delle sforbiciate, sempre rimaste sulla carta, il governo tenta la strada del controllo dei bilanci, imponendo agli enti che posseggono società in perdita di accantonare riserve e prevedendo, ma solo dal 2017, la chiusura obbligatoria delle aziende che chiudono bilanci in rosso per quattro anni consecutivi. Confermata, ma solo a partire dal 2015, la possibilità di “licenziare” gli amministratori delle partecipate che chiudono in perdita per due anni consecutivi. Sempre dal 2015, arriva un taglio del 30% ai compensi dei manager delle società controllate e titolari di affidamento in house che chiudono in perdita per tre anni consecutivi.

Dal 2015 è previsto che anche società partecipate, aziende speciali e istituzioni, anche di regioni e camere di commercio, debbano dare una mano nel «conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica». Come? In primo luogo, la norma promette di individuare “parametri standard” dei costi e dei rendimenti dei servizi, traducendo in termini societari il percorso dei fabbisogni standard degli enti locali che però al momento si mantiene lontano dal traguardo. Più immediato è invece l’obbligo per gli enti proprietari di accantonare in bilancio fondi di riserva, a garanzia delle perdite accumulate dalle società. Le regole di questi fondi procederanno in due tempi: nel 2014, ogni ente dovrà accantonare una somma pari alla perdita registrata dalla sua società nel 2013. Nel 2015-2017, invece, le regole dividono le società in due gruppi, a seconda del risultato medio del 2011-2013: se è positivo, l’accantonamento sarà pari a una quota della perdita conseguita nell’ultimo anno, altrimenti si calcolerà sulla media degli ultimi tre. Troppo poco e troppo tardi.

Tafazzieconomy

Tafazzieconomy

Davide Giacalone – Libero

Non capita spesso che i creditori si compiacciano dell’ipotesi che i debitori non paghino i loro debiti, quindi non perdete lo spettacolo offerto dai tanti dichiaratori e commentatori che festeggiano ciò di cui dovrebbero preoccuparsi. Bei tempi quando a orecchio si parlava di calcio, usando la pancia di politica e solo alla memoria di sesso. Ora son tutti economisti, esponenti di spicco della Tafazzieconomy. Grazie alla Grecia, allora, si porrà fine all’eurorigore? No. Intanto perché le politiche monetarie europee sono espansioniste, ovvero il contrario del rigore. Non si può porre fine a una cosa che non c’è. I greci lo sanno e il loro nuovo governo ribadisce: nell’euro siamo e ci restiamo. Alcuni degli scalmanati anti-euro, come Costas Lapavitsas, economista di spicco nel gruppo di Alexis Tsipras, già tirano il freno: dicevo che sarebbe stato meglio uscire, ma ora è diverso. Appunto. I greci, dunque, intendono restare nell’euro, ma vogliono rinegoziare il debito pubblico. E qui ci si deve intendere.

Un negoziato è necessario, perché così come è strutturato non possono pagarlo. Ma l’ipotesi della denuncia del debito, del suo disconoscimento, non solo sarebbe contro ogni regola europea, o anche solo di civile convivenza, sarebbe un danno per l’Italia, visto che i soldi li abbiamo prestati noi. Non solo: mentre le banche tedesche e francesi si alleggerirono dei titoli del debito greci, cedendoli al fondo salva stati, da noi cofinanziato, così sottraendosi a tagli del debito che sono già stati fatti (anche se sembra ci se ne sia dimenticati), mentre questo accadeva si è anche deciso che gli altri europei avrebbero prestato soldi ai greci a un tasso agevolato, solo che i tedeschi presero i soldi dal mercato, pagandoli meno di quanto venivano remunerati, mentre noi li prendemmo pagandoli più di quel che avremmo riscosso. Noi, al contrario dei tedeschi, abbiamo già fatto regali alla Grecia, sicché è demenziale festeggiare l’ipotesi che non restituiscano neanche il poco cui sono obbligati.

Ma mentre un negoziato sulla struttura del debito è necessario, ciò non significa che la Grecia possa tornare all’andazzo pre-crisi, quando la copertura dell’euro rese possibile una spesa pubblica torrentizia e clientelare, priva di compatibilità con la ricchezza reale prodotta dalla Grecia. E’ qui che i festeggianti italiani fanno confusione, confondendo il debito con la spesa. Fraintendimento sul quale trionfa la Tafazzieconomy, sicché si lanciano gridolini di soddisfazione all’idea di essere colpiti colà ove non batte sole. Il rigore nella spesa è non solo necessario, ma salutare. Se lo si perde si compromette il dolore subito e ogni prospettiva futura. Se si torna a scambiare l’investimento produttivo con la spesa produttrice di voti si otterrà solo la crescita del debito e la moltiplicazione della miseria, mediante satanismo fiscale. E questo concetto potete dirlo in greco tanto quanto dovete dirlo in italiano.

Alcuni gioiscono, da noi, perché sentono i tedeschi lamentarsi. Solo che in Germania si lamentano perché rivogliono indietro quello su cui hanno già guadagnato, mentre qui sembra che si goda a mollare quello su cui abbiamo già perso. A guardare questa scena capisci la differenza: in Germania si governa e si suppone di risponderne, qui si starnazza per cercare di non doverne rispondere. I tedeschi usano la posizione dei greci per mettere in forse la politica della Bce, cui si sono inutilmente opposti, perdendo. Noi dovremmo fare l’opposto, avendo vitale convenienza a che quella politica si sviluppi fino in fondo. Invece cerchiamo di dare loro ragione, sebbene ghignando del crucco disappunto. E dimostrando di avere capito poco e niente.

Mi spiace che Syriza non abbia preso la maggioranza assoluta. Il governo di coalizione potrà rivelarsi un rischio, se fra sinistra e destra partirà la concorrenza e si protrarrà la campagna elettorale. Sarebbe una maledizione, perché c’è più consapevolezza della realtà in chi ha vinto le elezioni greche che in tanti orecchianti italici, presi dal disorientamento di vedere l’estrema destra e l’estrema sinistra, in giro per il continente, dire le stesse cose. Motivo in più per non parlare a vanvera.

Italia, Cottarelli “batte” Draghi

Italia, Cottarelli “batte” Draghi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Tutti coloro che in questi giorni cantano le lodi del bazooka probabilmente non sanno cos’è un bazooka. All’inizio della Seconda guerra mondiale, i fanti avevano contro i carri armati ultimamente usando i fucili anticarro della Grande Guerra, praticamente impotenti: quando i carri migliorarono mobilità e protezione, infatti, i fucili diventarono solo un peso inutile per i fanti. A quel punto fu necessario utilizzare un tipo diverso di arma, i lanciarazzi, che furono sviluppati sia dai tedeschi che da inglesi e americani Quello degli yankee era il M1 Rocket Launcher 2.36 in Bazooka, che diede risultati soddisfacenti negli ultimi anni di guerra, ideato da Edward Uhl nel 1942. Il soprannome bazooka deriva dal fatto che un uomo, addetto ai collaudi, disse che il tubo assomigliava a uno strano strumento musicale, usato dall’attore radio Bob Burns per creare effetti comici. In effetti, il bazooka, se non è parte di una strategia ben pensata e di una tattica ben coordinata, ha effetti limitati. Vi ricordate il detto di Totò: Bazooka, ogni colpo una buca, ossia più si spara e meno si centra il bersaglio?

Eppure i mercati esultano. Non occorre essere il Premio Nobel Robert Shiller che con una fine teoria ha dimostrato come l’esuberanza delle piazze finanziarie possa essere “irrazionale”. I mercati brindano perché in caso di mancato accordo si sarebbe andati allo sfascio. Alla Banca centrale europea le bocche sono cucite, ma nei felpati saloni del Frankfurter Hof si bisbiglia che Draghi avrebbe minacciato le dimissioni, mettendo in crisi Bce ed eurozona. Ci sarebbe un accordo segreto – da lui smentito – con Renzi per farlo eleggere Presidente della Repubblica italiana, proprio per farlo andare lontano dalle rive del Meno.

In effetti, nella storia degli ultimi due secoli, i mercati hanno esultato solo per pochi giorni o settimane ad accordi monetari redatti unicamente da tecnici e politici, tranne che dopo una guerra mondiale, quando si doveva ricostruire il sistema dalle fondamenta, e quindi la politica, aiutata da grande tecnica (Keynes, White), doveva scendere in campo. Vi ricordate l’intesa del Smithsonian Institution del dicembre 1971, pubblicizzata dal Presidente degli Stati Uniti a reti unificate come “il più grande accordo monetario della storia dell’umanità” e lodato con pari enfasi dalla Commissione europea? Ebbe vita breve (tre mesi) e contrastata, arricchendo la speculazione sui cambi. Anche il Trattato di Maastricht venne esaltato come veicolo di crescita nella stabilità per gli Stati dell’unione monetaria. Soprattutto, sei mesi dopo la firma, Gran Bretagna, Danimarca e Italia ne chiesero la sospensione (dopo che molti, anche loro concittadini, si erano gonfiati i portafogli alle spalle di governi e banche centrali). Londra e Copenhagen restarono i fuori. Roma prese la via del rientro, un percorso come quello per andare al Santuario di Compostela. Lo guidava Carlo Azeglio Ciampi, che fece pagare agli italiani un dazio di un aumento di sette punti percentuali della pressione fiscale sul Pil. Da allora siamo a sviluppo rasoterra.

Oggi nessuno sa come i mercati reagiranno a un accordo contro il quale forze politiche dello stesso azionista di maggioranza (la Repubblica Federale Tedesca, unitamente ad Austria, Finlandia, Estonia, Lettonia) hanno espresso una tale opposizione che un gruppo di distinti cattedratici del diritto e dell’economia ha fatto ricorso alla Corte Suprema (che attende pazientemente sulla riva del Reno superiore, a Karlsruhe, l’evolversi degli eventi). Il problema è politico, non giuridico. Lo esprime con grande chiarezza Antonio Luca Riso dell’ufficio legale Bce nel documento pubblicato nel numero speciale di Imfs (Interdisciplinary Studies in Monetary anf Financial Stability) dedicato alle Outright Monetary Transactions (OMT) e pubblicato a metà gennaio.

Per “politico” deve intendersi che tutto dipende dalle altre politiche che gli Stati dell’eurozona metteranno in campo per dare corpo alla possibile politica di ripresa. Ovviamente, il tasso d’integrazione nell’eurozona sta nel fatto che le politiche di uno Stato incidono anche su quelle degli altri. Ad esempio, si dovrebbe dare maggiore attenzione alla crescita della propria domanda aggregata che, pur se in misura minore di quanto sostengono numerosi media e tanti politici poco informati, può avere un effetto di trazione su altri soci del club. In Italia, tuttavia, ci siamo inflitti dei nostri mali: uno studio del Centro Studi Impresa Lavorodocumenta che dal 2011 l’imposizione su conti correnti e investimenti è aumentata del 130% da 6,9 a 15,9 miliardi di gettito, azzoppando imprenditori e consumatori proprio in una fase in cui da recessione si scivolava in deflazione.

Cosa fare? Uno stop alla pressione tributaria, e se possibile una sua riduzione con paralleli tagli alla spesa corrente. Sono misure che si possono mettere in atto subito agendo su quel capitalismo (o socialismo) regionale e comunale, analizzato dal “segretato” Rapporto Cottarelli (alla faccia della trasparenza e della democrazia). Si può anche mettere in atto immediatamente un programma di privatizzazioni di vaste dimensioni; unitamente alle misure Bce, tale programma dovrebbe portare a una riduzione almeno del 30% dello stock entro il 2015 e rimuovere il blocco principale alla ripresa. In parallelo occorre rilanciare la politica dei prezzi e dei redditi, al fine di porre fine alla discesa nella povertà dei ceti medio bassi e liberalizzare i mercati di merci e di servizi (segnatamente delle professioni un tempo dette “liberali”) per aumentare, tramite la concorrenza, la produttività. Il Governo Renzi è pronto a mettere in atto questa batteria? Altrimenti – ricordiamoci Totò – il bazooka di Draghi farà “buca”.

L’austerità? In Italia mai provata

L’austerità? In Italia mai provata

Alberto Mingardi – La Stampa

La politica italiana è litigiosa e polarizzata, ma su alcune cose destra e sinistra hanno più in comune di quanto lascino ad intendere. Per esempio, è convinzione generale che «l’austerità ha fallito». Le differenze sono questione di sfumature: chi sta all’opposizione vuole uscire dall’euro, chi governa agisce per una maggiore «flessibilità» delle regole europee. Cambiano i mezzi, il fine è lo stesso: far ripartire il cuore dell’economia italiana, tornando a pompare denaro pubblico.

Che cosa sia l’«austerità», non è proprio chiarissimo. Solo alcuni anni fa si parlava di «consolidamento fiscale», per riferirsi a quell’insieme di politiche che dovrebbero riportare il bilancio pubblico verso il pareggio. Il consolidamento fiscale può avvenire dal lato delle entrate, e cioè con un aumento della pressione fiscale, o da quello delle uscite, e dunque con una riduzione della spesa pubblica. Nella narrazione oggi prevalente, l’austerità «fallimentare» è proprio quella che coincide con la riduzione della spesa (in alcuni casi, fraintesa con un rallentamento del tasso di crescita della spesa). Diminuire le spese pubbliche significherebbe «mettere in discussione il nostro modello sociale», cosa a cui nessun politico è disponibile, perché teme un’erosione dei consensi. L’esempio della Grecia è quello citato più spesso: l’austerità pilotata dalla «troika» farà il pieno di voti a Syriza e a Alexis Tsipras. Dal punto di vista delle classi dirigenti, il principale fallimento delle politiche d’austerità è il non assicurare la rielezione a chi le pratica, spalancando le porte alle forze d’opposizione.

Guardiamo però ai Paesi cosiddetti Piigs: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. In Italia il «consolidamento fiscale» è passato per la riforma delle pensioni, per un inasprimento della pressione tributaria, soprattutto sugli immobili, e per una «spending review» che prima di arrivare alla fase operativa è sparita dalle pagine dei quotidiani e dall’agenda politica. Negli altri Paesi, vi è stato un mix di interventi sul fronte della spesa e su quello delle entrate, orchestrato in Portogallo, Irlanda e Grecia dalla cosiddetta «troika». Le soluzioni sperimentate sono state sicuramente imperfette, ma hanno provato ad intaccare il corpaccione della spesa con maggior determinazione che dalle nostre parti.

Nessuno di questi Paesi pare avviato verso un turbinoso sviluppo alla cinese. Eppure le stime del Fondo Monetario Internazionale accreditano il Portogallo di una crescita di poco meno dell’uno per cento nel 2014, l’Irlanda di una crescita del 3.6, Grecia e Spagna rispettivamente dello 0,6 e dell’1,3. Per il 2015, le aspettative di crescita sono dell’1,5 % (Portogallo), del 3% (Irlanda), del 2,8 e dell’1,6% (Grecia e Spagna). Poco? Può darsi. Ciascuno di questi Paesi aveva problemi e criticità già prima della crisi: non esistono panacee. L’economia greca, per esempio, è ancora ingessata da bardature che rendono estremamente complessa l’attività produttiva. L’iper-regolamentazione è un male comune.

Quel poco però è di più della crescita negativa che il nostro Paese ha registrato nell’ultimo anno e dello 0,8% che il Fondo Monetario prevede per questo (la Banca d’Italia prevede invece lo 0,4%). L’essersi progressivamente avvicinata al pareggio di bilancio, raggiunto nel 2014 con un anno d’anticipo sulla tabella di marcia, non ha impedito alla Germania di essere il Paese più invidiato dell’eurozona. In Italia, secondo l’Istat, nell’ultimo trimestre del 2014 l’incidenza sul Pil delle uscite totali delle pubbliche amministrazioni è aumentata, dal 47,4 (2013) al 48% del Pil. Nei tre trimestri precedenti, il rapporto era rimasto invariato rispetto all’anno precedente. Si dirà che si è ridotto il denominatore, ovvero il Pil. Il che è verissimo, ma dimostra soltanto che la spesa pubblica è considerata una sorta di «variabile indipendente», com’era il salario per Luciano Lama.

Quello sull’austerità è un «dibattito filosofico-culturale», come ha detto Matteo Renzi al Parlamento europeo. Ma, quando affermano che l’«austerità ha fallito», i nostri leader politici chissà a quale Paese si riferiscono. Negli stessi Piigs, il fallimento non è affatto evidente. Della Germania meglio non dire. Quanto all’Italia, perché l’austerità potesse fallire, prima avremmo dovuto sperimentarla.