europa

Grazie all’euro Berlino ci ha battuti sette a zero

Grazie all’euro Berlino ci ha battuti sette a zero

Libero

Germania-­Italia? Finisce 7 a 0. Non si tratta di uno sfortunato incontro di calcio, ma del confronto tra i due Paesi nei principali indicatori economici dall’introduzione dell’euro (2001) al 2013 (ultimi dati disponibili). L’analisi impietosa è stata realizzata dal Centro studi “ImpresaLavoro” che condensa così lo sconfortante raffronto: in Italia la disoccupazione è passata dal 9 al 13% (a novembre 2014 al 13,5), il rapporto debito/Pil è cresciuto del 23,2%, senza dimenticare che l’Istat ha appena certificato come questo sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%. Insomma, se si trattasse di una sfida calcistica i tedeschi, negli ultimi 12 anni, ci batterebbero 7 a 0. Questo perché l’euro – secondo la ricerca – ha fortemente avvantaggiato la Germania aumentando proprio il divario con l’Italia.

Crisi: ImpresaLavoro, con l’euro sono peggiorati tutti gli indicatori

Crisi: ImpresaLavoro, con l’euro sono peggiorati tutti gli indicatori

Repubblica.it

Dall’avvento dell’euro ad oggi tutti i principali indicatori della condizione economica del nostro Paese sono nettamente peggiorati: la disoccupazione è passata dal 9 al 13%, il rapporto debito/Pil è cresciuto di più di venti punti percentuali mentre l’Istat ha appena certificato come il rapporto deficit/Pil sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%. Ad evidenziarlo il Centro studi di ‘ImpresaLavoro’ che azzarda anche un irriguardoso paragone calcistico: se si giocasse oggi Italia-Germania non finirebbe certamente 4 a 3 come nell’epico scontro dell’Azteca. I tedeschi, infatti, ci batterebbero oggi 7 a 0.

A tanto ammontano gli indicatori che il Centro studi ImpresaLavoro ha analizzato prendendo come base di partenza il 2001 (ultimo anno prima dell’entrata in circolazione dell’euro) e confrontandolo con gli ultimi dati disponibili. Ne esce un quadro chiaro nella sua drammaticità: l’euro – evidenzia l’istituto – ha fortemente avvantaggiato la Germania aumentando il divario con l’Italia e le rigidità che ci sono state imposte dalla moneta unica ci hanno impedito la flessibilità necessaria a fare riforme importanti in un tempo di crisi.

La moneta unica risulta determinante è nelle esportazioni. L’export tedesco ha visto salire il suo valore nominale dell’84,3% mentre quello italiano è cresciuto del 32,3%: mentre prima della moneta unica quindi l’export tedesco valeva il doppio di quello italiano, oggi vale quasi tre volte tanto (2,8 volte).

Quanto alla disoccupazione, in Germania i senza lavoro sono scesi di 2,2 punti mentre la nostra disoccupazione ha fatto segnare un’impennata del 4,4%. Se prima dell’euro il tasso di disoccupazione italiano era del 20% più elevato di quello tedesco, oggi per ogni disoccupato in Germania ce ne sono addirittura tre nel Belpaese.

Economia: dopo 13 anni di euro l’Italia perde 7 a 0 con la Germania

Economia: dopo 13 anni di euro l’Italia perde 7 a 0 con la Germania

ANALISI

Dall’avvento dell’euro ad oggi tutti i principali indicatori della condizione economica del nostro Paese sono nettamente peggiorati: la disoccupazione è passata dal 9 al 13%, il rapporto debito/Pil è cresciuto di più di venti punti percentuali mentre l’Istat ha appena certificato come il rapporto deficit/Pil sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%,
Volendo poi fare un irriguardoso paragone calcistico, potremmo dire che se si giocasse oggi Italia-Germania non finirebbe certamente 4 a 3 come nell’epico scontro dell’Azteca: i tedeschi, infatti, ci batterebbero oggi 7 a 0. A tanto ammontano gli indicatori che il Centro studi “ImpresaLavoro” ha analizzato prendendo come base di partenza il 2001 (ultimo anno prima dell’entrata in circolazione dell’euro) e confrontandolo con gli ultimi dati disponibili. Ne esce un quadro molto chiaro nella sua drammaticità: l’euro ha fortemente avvantaggiato la Germania, aumentando il divario con l’Italia e le rigidità che ci sono state imposte dalla moneta unica ci hanno impedito la flessibilità necessaria a fare riforme importanti in un tempo di crisi.
Veniamo ai numeri: il Pil pro-capite tedesco cresce a valore nominale del 29,5%, il nostro “solo” del 17,1%. Se prima dell’euro tra un cittadino di Roma e uno di Berlino c’era una differenza del 16%, oggi il gap è quasi di un terzo (il 28%).
I governi guidati da Schroeder e Merkel hanno visto il deficit passare da una cifra di poco superiore al 3% (3,1%) a un surplus di bilancio dello 0,1. L’Italia, invece, nonostante gli sforzi, è passata dal 3,4% del 2001 al 2,80% del 2013 fino all’attuale 3,7%. Contemporaneamente, rispetto al Pil, il nostro debito è passato dal 104,70 al 127,9% mentre il loro dal 57,5% si è fermato al 76,9%.
Dove la moneta unica risulta determinata è però nel settore delle esportazioni. L’export tedesco ha visto salire il suo valore nominare dell’84,3% mentre quello italiano è cresciuto del 32,3%: significa che mentre prima della moneta unica l’export tedesco valeva il doppio di quello italiano, oggi vale quasi tre volte tanto (2,8 volte).
Quanto alla disoccupazione, in Germania i senza lavoro sono scesi di 2,2 punti mentre la nostra disoccupazione ha fatto segnare un’impennata del 4,4%. Se prima dell’euro il tasso di disoccupazione italiano era del 20% più elevato di quello tedesco, oggi per ogni disoccupato in Germania ce ne sono addirittura tre nel Belpaese.
«Dall’adozione della moneta unica – osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – non c’è pertanto un solo indicatore economico che non sia peggiorato nel confronto con i tedeschi. Crescita, debito, bilancia commerciale. Senza inflazione che ridurrebbe il peso del debito e una valuta più debole in grado di aiutare, o quantomeno non penalizzare, le esportazioni delle nostre aziende anche le riforme di cui si parla da tempo rischiano di non bastare a rilanciare l’economia del nostro paese. Il semestre europeo si è concluso senza risultati apprezzabili e oggi l’euro appare sempre più come una gabbia e sempre meno come un’opportunità».

 

tabelle

 

Rassegna Stampa
Libero
Repubblica.it
La Notizia
Non fermate Draghi

Non fermate Draghi

Stefano Lepri – La Stampa

È facile prendere la disoccupazione a un nuovo massimo in Italia, a un nuovo minimo in Germania, come simbolo di ciò che non va nell’area euro. Difficile davvero sarà far capire ai tedeschi che non possono più dire agli altri Paesi «imitateci e starete meglio». Nelle condizioni straordinarie di oggi, rivelate dai prezzi che scendono, la ricetta tedesca offre solo altri anni di sofferenze. La Germania deve il suo successo all’essere arrivata alla crisi del 2007 con salari frenati rispetto alla. La Germania deve il suo successo all’essere arrivata alla crisi del 2007 con salari frenati rispetto alla produttività e conti pubblici in ordine. A noi, come ai francesi, tocca interrogarci su che cosa sbagliò chi governava allora. Ma nel frattempo il mondo è cambiato. Dalla bassa crescita l’Europa non può uscire stringendo la cinghia per esportare di più. Il crollo del prezzo del petrolio indica sfiducia che esistano al momento forze capaci di dare un impulso significativo all’economia dell’intero pianeta; non basta che negli Stati Uniti la ripresa si consolidi se la Cina rallenta. Il nostro continente non può affidare le sue speranze ad altri, o i suoi equilibri politici saranno travolti ove dalla xenofobia, ove dal massimalismo di sinistra.

Ci chiamerà alla prova la Grecia. Gli eccessi di debito sono caratteristici di un mondo globalizzato dove i capitali sono cresciuti più dei redditi; si formano in mercati finanziari volubili dove il credito un giorno facile (i Btp decennali ieri rendevano l’1,9%) a un cambio degli umori può venire a mancare (ì decennali greci hanno superato il 10%). Ad Atene occorre districare le due facce di un fallimento. Da una parte il governo uscente ha mancato nelle riforme di struttura (liberalizzazioni, privatizzazioni, efficienza amministrativa) dall’altra ha invece realizzato senza ricavarne vantaggi visibili l’unica «riforma» davvero caldeggiata dal potere economico tedesco, ridurre i salari. Ora anche Berlino dietro le quinte si prepara al negoziato. Non preoccupa più di tanto l’improvvisa simpatia mostrata dall’economista di riferimento della destra tedesca, Hans-Werner Sinn, per il leader dell’estrema sinistra greca Alexis Tsipras (nella speranza che un’uscita della Grecia dall’euro metta i brividi a Italia e Francia).

Da parte nostra dobbiamo tenere presente che una eventuale ristrutturazione del debito greco costerà, dati i tassi di mercato, più cara all’Italia che alla Germania dove molti sono pronti a strillare alla rapina. L’accordo da cercare con il nuovo governo di Atene comporterà rinunce per tutte le parti; occorrerà saperlo orientare verso un migliore coordinamento tra le politiche di tutti. Gia le elezioni greche rischiano di far slittare di un mese e mezzo, a inizio marzo, le prossime misure anti-deflazione della Banca centrale europea. Sarebbe grave, perché sono già in ritardo, come mostrano i dati di ieri sui prezzi. E sul ritardo contano i dottrinari tedeschi per giudicarle poi inutili (dopo aver volta a volta tentato di dimostrarle pericolose o illegali).

È vero che l’acquisto massiccio di titoli da parte della Bce ha controindicazioni. Può ad esempio gonfiare i valori di Borsa assai più che dare impulso reale all’economia: in altre parole, mettere più soldi in tasca ai ricchi invece di dare lavoro. Ma nelle condizioni in cui si trova l’Europa (anche al

di là dell’area euro), tutto va tentato. Era in linea di principio giusto chiedere alla Grecia di restituire i debiti contratti dai suoi cattivi governi. Ma imporle tempi stretti ha condotto attraverso la depressione economica all’effetto opposto, l’impossibilità a pagare per intero. Occorre concluderne, per tutta l’area euro, che il «Fiscal Compact» è inapplicabile finché dura la deflazione.

L’euro trattato come la Grecia

L’euro trattato come la Grecia

Davide Giacalone – Libero

In Grecia non si parla di uscire dall’euro e il leader del partito di sinistra, dato in vantaggio dai sondaggi, si dichiara sostenitore della moneta unica. Fuori dalla Grecia tutti parlano dell’uscita ellenica, valutandone le possibili conseguenze negative. Per gli altri. Una scena surreale. Come in una stanza in cui tutti urlano, nessuno ascolta e non si capisce niente. Certo che tutto è possibile, in queste condizioni. Perché sono irrazionali.

Uscire dall’euro, per i greci, sarebbe un suicidio. Potrebbero vedere aumentare i turisti, visto che la svalutazione violenta potrebbe indurre più stranieri a visitare le isole e mangiare feta a basso prezzo. Ma solo a patto che quei turisti desiderino vacanzeggiare in un Paese che non potrebbe più permettersi di importare le medicine e dove la povertà sarebbe crescente. Roba per stomaci forti. A parte i turisti, in ogni caso, uscendo dall’euro le banche greche salterebbero tutte. Per non chiuderle si dovrebbe nazionalizzarle, così prendendo sulle spalle un costo superiore a quello del mantenimento del debito. Non è un caso che Alexis Tsipras certe cretinerie non le dice. Ne diceva altre, a cominciare dall’idea di non pagare i debiti. Ora, però, mano a mano che si avvicina il giorno in cui potrebbe trovarsi al governo, ha corretto il tiro, intendendo rinegoziare le condizioni degli aiuti (leggi: soldi) ricevuti. Il che sembra ragionevole. Si sarebbe fatto in ogni caso. Quindi lasciamo i greci al loro voto.

Usiamo la memoria. Chi ha prestato soldi alla Grecia già subì un taglio dei propri crediti, ma solo se si trattava di privati. Prima di quella decisione, però, le banche che avevano in pancia titoli del debito greco, quindi prevalentemente banche tedesche, seguite dalle francesi, se ne liberarono, cedendoli alla Banca centrale europea e, quindi, non subendo il taglio. Bene ricordarsene, per non cadere nella somaresca trappola di ritenere bravissimi quelli che copiano il compito in classe. Varando il programma europeo di aiuti ciascun Paese s’impegnò a prestare soldi alla Grecia, in ragione della propria potenza economica. Dettaglio: siccome i tassi d’interesse praticati erano di favore è successo che chi attingeva soldi, dal mercato, ad un tasso inferiore, come la Germania, ci ha guadagnato, mentre chi li prendeva a un tasso superiore, come l’Italia, ci ha rimesso. Siamo noi che abbiamo finanziato i greci, mica i tedeschi.

Quei debiti vanno rinegoziati e allungati nel tempo, in modo che siano sostenibili. Ma, ed è questo il punto, ciò non può riguardare solo i greci, perché altrimenti va a finire che conviene essere sull’orlo della bancarotta, visto che i greci, già oggi, pagano (in rapporto al pil) i debiti meno degli italiani. Il tema del debito non può che essere unico e generale, nell’area dell’euro. Altrimenti non è la Grecia a uscire dall’euro, ma l’euro dalla storia. Ciò perché il senso della moneta unica è quello di rendere eguali, nei diritti e nelle opportunità, i cittadini che vi abitano. Se da una parte è giusto che chi si è indebitato, dilapidando in spesa inutile, paghi; dall’altra è evidente che tale condizione non può trasmettersi sui posteri, altrimenti replicando lo schema della schiavitù. C’è un solo modo per conciliare l’etica del debitore con l’equità della cittadinanza: che oltre alla moneta si abbiano anche debito comune. Ciò, però, comporta che ciascuno non possa fare di testa propria e a spese altrui.

In Grecia e in Spagna è la sinistra (detta estrema) a suonare la musica antirigorista. In Francia e Italia è la destra (detta estrema). Il che rende tutto estremamente confuso. È di destra o di sinistra, il rigore? Tutto sta a capirsi: quei debiti nazionali (il nostro compreso) non sono sostenibili senza sviluppo; ma se la spesa pubblica diventa all’istante spesa corrente e sostegno ai consumi (come gli 80 euro), anziché investimenti, non cresce la ricchezza, ma la zavorra. Al tempo stesso la possibilità di alimentare l’economia con credito al sistema produttivo e agli investimenti è come la carne per i debilitati: il minimo per non morire di anemia. Le due cose devono andare assieme.

2015, il nuovo rischio “figuraccia” per l’Italia

2015, il nuovo rischio “figuraccia” per l’Italia

Giuseppe Pennisi – Il Sussidiario.net

Sarebbe ingeneroso commentare il semestre in cui l’Italia ha avuto il compito di presiedere gli organi di governo dell’Unione europea raffrontando le aspettative suscitate dalle promesse dello scorso maggio/giugno con i risultati quali si possono constatare a fine dicembre. Le promesse contengono sempre una buona dose di retorica e si è puntato molto in alto (un’interpretazione  e tensiva di trattati e di accordi inter-governativi in materia di flessibilità) allo scopo di raggiungere  obiettivi più modesti, quali lo scomputo degli investimenti pubblici dal calcolo dei parametri  attinenti al rapporto tra indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni e Prodotto interno lordo (Pil). In effetti di concreto si è ottenuto molto poco: lo “scomputo” sarà consentito all’Italia, e ai nostri partner, unicamente per gli investimenti attinenti al quel “piano Juncker” che, come abbiamo scritto, si regge su complicate e strane alchimie e forse non decollerà mai.

Occorre dare atto alla tenacia e all’energia del Presidente del Consiglio, tuttavia, di aver contribuito alle richieste di altri Capi di Stato e di Governo di riportare il tema della crescita nell’agenda europea. Dobbiamo anche dare atto che il semestre ha avuto luogo in un momento particolarmente infausto caratterizzato dal cambiamento della Commissione europea, da un’eurozona additata dal G20 come il grande malato dell’economia mondiale, da una guerra al confine orientale (Ucraina-Russia) e dal Medio Oriente in subbuglio con il sorgere dell’Isis.

La crescita è tornata tra i temi dell’agenda europea, ma non è certo che ne sia l’argomento centrale. Perché l’Italia possa proporre, in seno agli organi Ue, che la crescita abbia un ruolo maggiore deve, innanzitutto, uscire dalla condizione di ultimo della classe, “rimandato e declassato” come ricordato su queste pagine. È necessario ammettere che Governo e Parlamento non hanno dato un bello spettacolo nel completare la Legge di stabilità con il voto di fiducia su un maxiemendamento le cui coperture non sono certe.

Ci sono casi, specialmente se si è stati rimandati agli esami di riparazione, in cui è preferibile qualche settimana di esercizio provvisorio per mettere bene a punto la normativa e presentarsi agli “esaminatori” con un compito ben fatto. Sarebbe disastroso se la prima relazione di cassa, coincidente con la verifica europea del “caso Italia”, mostrasse che siamo stati frettolosi e pasticcioni. Inoltre, le prospettive per il futuro non sono rassicuranti. Abbiamo spesso fatto riferimento alle stime del gruppo del consensus (20 istituti privati econometrici) che, però, hanno una durata di 24 mesi. Rivolgiamoci ad alcune a medio e lungo periodo approvate dai rappresentanti ufficiali del Governo italiano. Le più ottimiste sono quelle della Commissione europea, che mostrano una graduale ripresa sino a raggiungere il tasso di crescita dell’1,1% nell’ipotesi di energiche riforme dei mercati dei prodotti e dei servizi e di un serio programma di privatizzazione. L’Ocse vede un ritorno a un tasso crescita del 2% verso il lontano 2025 , sotto l’ipotesi di politiche ottimali, per poi riprendere a scendere a ragione dell’invecchiamento della popolazione. Per il Fondo monetario internazionale si giungerebbe a un tasso di crescita dell’1,3% (sempre con politiche ottimali) ma subito dopo tornerebbe il declino. L’ufficio studi economici ci vede ansimanti alla ricerca di un tasso di crescita dell’1% l’anno. Se dai grafici e dalle tabelle si passa ai testi, due sono i temi di fondo: la produttività dei fattori e il peso del debito. Sono stati affrontati con l’energia del caso nel corso del semestre? Ce lo chiediamo.

Semestre sbagliato

Semestre sbagliato

Davide Giacalone – Libero

Non è deludente il bilancio del semestre italiano di presidenza Ue, ne è stata sbagliata l’impostazione. Si è puntato tutto sul concetto di “flessibilità”, in modo da farci stare conti che non tornano, ma questo ha prodotto impotenza. Dire, come ha fatto Matteo Renzi, che l’ultimo vertice è stato vincente per i flessibilisti, dato che i contributi nel fondo per il piano Juncker non saranno contabilizzati in deficit, significa prendere in giro. O, peggio, prendersi in giro: quei soldi sono un’inezia, mentre l’occasione è stata colta per ribadire che ogni altra spesa pubblica va nei conti normali. Il che è ovvio, ma pur sempre l’opposto di quel che il governo italiano ha inutilmente cercato di sostenere.

Mentre il vertice europeo si chiudeva nell’inconcludenza, varando un piano senza fondi, mentre le previsioni economiche per il 2015 oscillano fra l’immobilità e il dinamismo dei bradipi, e mentre le agenzie di rating continuano a declassare stati, società e banche europee, i giornali hanno avvertito che i titoli del debito pubblico toccano record per i bassi tassi d’interesse e gli spread si rattrappiscono. Come è possibile che il male produca il bene? Tecnicamente: perché le iniziative della Banca centrale europea funzionano. Evviva. Ma la faccenda ha un risvolto inquietante, perché in Europa dove c’è potere non c’è politica e dove c’è politica non c’è potere. Pessimo.

Dove agiscono i governi, con alle spalle i parlamenti e alla base gli elettori, si producono rinvii e compromessi dilatori. Dove agisce la Bce si ottengono risultati positivi e immediatamente contabilizzabili. Se la politica degli europei, e il semestre italiano, si fossero posti il problema di colmare questo pericoloso divario, per tanto o poco che si fosse riusciti a fare ci si sarebbe mossi nella giusta direzione. Invece ciascuno vive l’Unione come vincolo o come pericolo, rivolgendo la propria attenzione ai conti interni e cercando di mascherarne le debolezze per non pagarne il prezzo elettorale. Da qui il macroscopico paradosso: il continente più ricco che brancola accecato.

È veramente prevalsa la flessibilità? A Palazzo Chigi tendono a dimenticare anche le cose che dicono, forse perché troppe. Sostennero che la flessibilità era dovuta in quanto già prevista dai trattati. E così è, ma, appunto, necessita di azioni e riforme conseguenti. Hanno anche detto che l’Italia avrebbe fatto valere lo svantaggio congiunturale (la recessione), per sfuggire alla morsa del fiscal compact. Agli sgoccioli del semestre resta l’appuntamento a immediatamente dopo l’inizio dell’anno, per rifare i conti e finalizzare l’esame a marzo. Detto in modo diverso: la bocciatura che poteva essere impartita a novembre s’è trasformata in un mero rinvio. Che ne produrrà altri, perché l’Italia è troppo grossa per essere commissariata. Ma i rinvii allungano l’agonia di politiche prive di visione e di governi incapaci di tagliare la spesa pubblica e la pressione fiscale, con il che la ripresa è indotta solo dalle esportazioni, la produttività resta bassa, il costo del lavoro (non il salario) alto, la sicurezza remota e il riassorbimento della disoccupazione spostata sempre di un anno più in là.

Questa non è la politica dei piccoli passi, ma l’immobilità con la politica a spasso. Questa è la ricetta per allontanare sempre di più l’urgenza dei rimedi, pagando il tempo con il progressivo indebolimento. Più la ricetta ha successo e più sarà duro il ritorno alla realtà. Ma noi ci raccontiamo come urgenti riforme che si dice di volere fare entrare in vigore fra tre anni. Noi c’interroghiamo sulla corsa al Colle, strologando di nomi e dimenticando sia la funzione che la cosa più importante: qual è la missione che si assegna al nuovo inquilino? Noi crediamo che mostrarsi presi da queste faccende, e scaricarvi tutta la pettoruta determinazione, posponga o addirittura evapori i pericoli che corre il Paese. E, del resto, quando si esprimono classi dirigenti del genere, non solo in politica, è segno che i guasti non sono superficiali. Continuo a credere che non ci sia ragione perché l’Italia debba rassegnarsi all’accartocciamento, essendoci cose serie da farsi subito, per evitarlo. Ma continuo a vedere che tale modo di pensare è considerato solo un fastidio da isolare.

Perché il piano Juncker non serve a niente

Perché il piano Juncker non serve a niente

Innocenzo Cipolletta – L’Espresso

Se ci aspettiamo una ripresa dell’Europa basata sul piano Juncker di rilancio degli investimenti, allora dovremo aspettare per molto tempo. Il piano Juncker è non solo inesistente per la pochezza dei mezzi messi a disposizione (21 miliardi di euro in tre anni) e per la fantasiosa ipotesi di un moltiplicatore pari a 15 che dovrebbe eccitare 315 miliardi di euro di investimenti pubblici e privati, ma è proprio sbagliato nelle sue ipotesi di base.

Nel suo desiderio di ricevere un voto favorevole al Parlamento europeo, Junker ha annunciato un piano per 300 miliardi di euro per investimenti in infrastrutture. Poi nella realtà. una volta nominato, ha scoperto le carte: il piano non esiste. Infatti gli investimenti che si spera di sollecitare devono tutti essere “bancabili”, ossia devono poter essere finanziati attraverso un sistema di prestito di tipo bancario. In altre parole devono essere investimenti capaci di produrre in tempi relativamente brevi un reddito sufficiente a ripagare le somme stanziate. Ma per questi investimenti c’è già il mercato che oggi ha sufficiente liquidità (anche in eccesso) per finanziare progetti che siano redditizi. Non c’è bisogno di alcuno strumento europeo per favorirli. Se non ci sono abbastanza investimenti vuol solo dire che non ci sono progetti validi.

In realtà quello che manca in Europa è proprio l’intenzione di investire. Le imprese hanno un eccesso di capacità produttiva in seguito a una recessione che di fatto dura da sette anni. In queste condizioni, non è l’assenza di credito che frena gli investimenti, ma l’assenza di prospettive di crescita. Fare investimenti produttivi per un’impresa che non vede crescere il suo mercato di sbocco rappresenterebbe un errore che rischierebbe di portarla al fallimento. Ridurre il rischio per un simile investimento significa aumentare le probabilità di fallimento. In queste condizioni, solo investimenti che si sarebbero comunque fatti anche in assenza di tali sostegni finirebbero per essere avviati. Con qualche vantaggio per le imprese coinvolte, ma con nessun vantaggio per l’economia nel suo insieme. Resta la possibilità di finanziare investimenti pubblici in infrastrutture. Ma quali tra questi sono bancabili? Non certo quelli più utili ed urgenti, come la messa in sicurezza del territorio contro le esondazioni dei fiumi (fenomeno che riguarda tutti i paesi europei) o contro i rischi di terremoti, e neppure il disinquinamento di parti del territorio o il recupero delle periferie urbane. Opere che avrebbero un elevato ritorno sociale e anche economico nel lungo termine, ma non generano redditi con cui assicurare la restituzione dei prestiti. E perciò l’area delle possibilità si restringe di molto.

Se parliamo di investimenti che possono produrre un reddito (autostrade a pedaggio, aeroporti, porti) allora si tratta di spese tuttte utili ma che, nuovamente, possono trovare finanziamenti sul mercato senza bisogno di agevolazioni particolari, a condizione che i progetti siano ben strutturati. Se finora non si sono manifestati, vuol dire che non ci sono. Ma, dice Juncker, nulla vieta di aggiungere risorse nazionali allo strumento europeo. Tutto vero. Però le risorse aggiuntive possono essere messe solo da quei paesi che non hanno uno stress nei conti pubblici. Cioè paesi che già adesso potrebbero, se volessero, rilanciare la loro domanda di investimenti infrastrutturali. Se non lo fanno è perché hanno deciso così. E se lo facessero solo per approfittare delle agevolazioni finiremmo per favorire chi non ne ha bisogno senza molti vantaggi per l’Europa.

In queste condizioni, spiace vedere le nostre autorità insistere a dare una qualche fiducia a questo piano. Si capisce che lo fanno per correttezza politica più che per convincimento. Ma l’Europa uscirà dalla crisi solo con una vera politica di rilancio della domanda interna che coinvolga tutti i paesi. E se la Germania insiste a sottolineare che non vuole assumersi i debiti degli altri paesi, occorre ricordarle che, in tale caso, non avrebbe neanche dovuto prendersi la parte di mercato di beni che le è arrivata in dote grazie all’istituzione del mercato unico a cui tutti abbiamo aderito.

La troika non ha aiutato i Paesi in crisi ma ha solo risolto i problemi tedeschi

La troika non ha aiutato i Paesi in crisi ma ha solo risolto i problemi tedeschi

Tino Oldani – Italia Oggi

I tedeschi sono convinti che la Germania ha già pagato troppo per aiutare i paesi in difficoltà dell’eurozona. Per questo dicono «nein» ad altre iniziative europee che, a loro avviso, si configurano come aiuti per i vicini spendaccioni, primo fra tutti il quantitative easing proposto da Mario Draghi, presidente della Bce. Contrastare ulteriori finanzia- menti ai paesi cicala è diventato addirittura il cavallo di battaglia di un partito tedesco euroscettico (Alternative fur Deutschland), che sta erodendo consensi alla Cdu di Angela Merkel. Per questo, la cancelliera non perde occasione per bacchettare quei paesi, come la Francia e l’Italia, che, a suo avviso, non fanno abbastanza per tenere i conti pubblici in ordine. A darle man forte, oltre al ministro delle finanze, Wolfgang Schauble, uno dei più solerti è il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, che in passato è stato il suo principale consigliere economico.

In questo senso, la recente intervista di Weidmann a Repubblica contiene alcune perle di ipocrisia politica che non devono passare sotto silenzio. A suo dire, «se titoli sovrani di basso rating (come sono ora quelli dell’Italia, ndr) venissero acquistati dalla Bce, rischi di politica finanziaria verrebbero messi in comune dalla Banca centrale, aggirando governi e parlamenti». Per questo il «nein» di Weidmann al quantitative easing di Draghi si configura anche come una lezioncina di democrazia. Peccato che finora nessuno in Italia, governo e Banca d’Italia compresi, abbia rispedito al mittente una simile accusa. Se in Europa c’è un vero specialista nell’aggirare governi e parlamenti per fare i propri interessi, questo paese è proprio la Germania. Ciò è vero soprattutto nel settore finanziario, dove, pur di salvare le proprie banche, che erano sull’orlo del fallimento a causa delle folli speculazioni sui derivati, il governo della signora Merkel non ha esitato a servirsi della Troika (Bce, Ue, Fmi) e dei suoi metodi anti-democratici. Le devastazioni sociali compiute dalla Troika in Irlanda, Spagna e Grecia, fatte con il pretesto dei conti pubblici fuori posto, ma con l’obiettivo tacito di salvare proprio le grandi banche tedesche e francesi, sono lì a dimostrarlo.

Premessa. A questi tre paesi, a partire dal 2000 (introduzione dell’euro), le banche tedesche hanno elargito per anni ingenti prestiti, impiegati per finanziare alcune grandi iniziative immobiliari, oltre all’importazione massiccia di prodotti tedeschi. In questo modo, con una tecnica chiamata «vendor financing», cioè prestando soldi agli acquirenti delle sue esportazioni, la Germania si è autofinanziata in parte il proprio miracolo economico. Ma nel 2008, allo scoppio della crisi dei subprime, le banche tedesche si sono trovate troppo esposte verso i paesi periferici dell’euro, ai quali avevano concesso crediti per 900 miliardi di euro, somma superiore di 2,5 volte il loro stesso capitale.

Come recuperare prestiti così ingenti, dopo che la crisi aveva investito i debiti sovrani dei paesi periferici dell’euro? Come evitare il fallimento? A conti fatti, la Troika è stata il grande alleato delle banche tedesche: i suoi interventi sono stati infatti decisivi per il loro salvataggio, mentre ben poco è rimasto ai paesi «aiutati». Anzi, questi ultimi sono stati costretti a massacrare i loro cittadini con le tasse e con il taglio drastico della spesa pubblica (che ha colpito sanità, pensioni, stipendi e occupati nel pubblico impiego), pur di restituire centinaia di miliardi alle banche tedesche.

I numeri parlano chiaro. L’Irlanda, a partire dal 2010, ha ricevuto dalla Troika 67,5 miliardi di prestiti (soldi di tutti gli europei e non solo dei tedeschi), a fronte dei quali ha poi trasferito 89,5 miliardi al settore finanziario, dei quali 55,8 miliardi sono finiti alle banche creditrici straniere, tutte tedesche e francesi. In Spagna, nel 2012, le banche locali avevano un’esposizione verso le banche tedesche per 40 miliardi. Sommandoli al debito totale del paese verso le banche tedesche, si arrivava a 100 miliardi. Per fare fronte a questi debiti, la Spagna ha chiesto e ottenuto dalla Troika un prestito di 100 miliardi, in cambio di riforme drastiche. Un’operazione che la rivista International Financing Review ha definito «un salvataggio nascosto delle banche tedesche».

In Grecia, la gran parte dei 240 miliardi del «piano di salvataggio» finanziato dalla Ue e dal Fmi è stato dirottato dalla Troika alle banche creditrici, per lo più tedesche e francesi, per circa 160 miliardi. Così il 77% degli aiuti ricevuti sono andati alle banche straniere, mentre alla Grecia sono rimasti solo 46 miliardi per ridurre il proprio debito pubblico, che tuttora ha un buco di 2,5 miliardi nonostante il governo abbia pagato 34 miliardi di soli interessi sul debito, imponendo sacrifici enormi alla popolazione. In pratica, come hanno rivelato i verbali segreti di una riunione del Fmi pubblicati dal Wall Street Journal, il salvataggio della Grecia «è stato concepito solo per salvare i creditori», cioè le banche tedesche. Il tutto, riducendo governo e parlamento greci a tappetini. Che ora Weidmann venga a dare lezioni di democrazia è davvero il colmo!

Gli “attacchi a orologeria” di fine anno sull’Italia

Gli “attacchi a orologeria” di fine anno sull’Italia

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Una mera coincidenza casuale? Si potrebbe pensare. Tuttavia, è curioso che proprio nei giorni di vigilia dell’ultimo Consiglio europeo a presidenza italiana (il prossimo avverrà almeno tra quattordici anni) uno dei più noti, se non più autorevoli, economisti europei, Daniel Gros, direttore del Center for european policy studies, divulghi un’analisi (il Ceps Policy Brief No. 326) che contraddice una delle linee di fondo dell’azione dell’Italia negli ultimi mesi.

E anche curioso che in parallelo, sempre sabato 13 dicembre, quando nei Paesi nordici si festeggia Santa Lucia al lume di candele, Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, in un’intervista a Repubblica, non a un quotidiano o periodico tedesco, si scagli apertamente contro il Presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi affermando: “L’acquisto di titoli sovrani nell’Eurozona è da valutare diversamente che in altre aree valutarie”. “In Europa accanto alla politica monetaria comune abbiamo 18 Stati con politiche finanziarie indipendenti e rating e situazioni di debito ben diversi. Ciò crea tentazioni di indebitarsi di più e scaricare le conseguenze sugli altri”. Frase non solitaria – Weidmann è considerato il proprio faro da un gruppo di Governatori di banche centrali europee – e con la quale si intende seppellire, una volte per tutte, quelle manovre monetarie “non convenzionali”, altro punto di fondo del semestre in cui l’Italia ha avuto l’onere di guidare gli organi di governo dell’Unione europea.

Ancora più curioso, infine, che il lavoro di Gros e l’intervista di Weidmann avvengano proprio mentre a Roma, il 12 e il 13 dicembre, si teneva una conferenza su “Investire sull’Europa a lungo termine”, in cui si sono alternati sul podio o nelle tavole rotonde circa quaranta relatori, tra cui due Ministri in carica, due Commissari europei, il Vice Segretario Generale dell’Ocse ed esponenti non solo delle maggiori istituzioni internazionali ma anche di quella che viene comunemente chiamata “società civile”.

Gli argomenti di Weidmann non solamente riflettono un punto di vista espresso, in maniera più sfumata, altre volte e chiariscono le posizioni assunte il 4 dicembre al Consiglio Bce, ma avvengono proprio mentre si paventa una nuova crisi greca, di cui, secondo studi interni della Bundesbank, l’Italia potrebbe essere la cinghia di trasmissione che contagerebbe il resto d’Europa.

Più complesso il lavoro di Daniel Gros, in quanto avanza un’ipotesi intrigante: il tanto lamentato declino del tasso d’investimento dal 2007 (particolarmente accentuato in Italia e altri paesi dell’Europa meridionale) sarebbe più fittizio che reale, poiché negli anni precedenti la crisi l’investimento sarebbe stato drogato da un eccesso di liquidità e di credito. Inoltre, un aumento dell’investimento avrebbe pochi effetti in un’Europa la cui popolazione e il cui apparato produttivo sono in veloce invecchiamento e in cui la produttività totale dei fattori produttivi ristagna. “Di per sé – afferma Gros in toni un po’ apodittici – la riduzione della produttività totale dei fattori produttivi abbassa il tasso d’investimento”.

Non è questa la sede per indicare come la conferenza sugli investimenti a lungo termine del 12-13 dicembre a Roma (gli atti saranno tra breve disponibili sul sito della Federazione delle Banche, delle Assicurazioni e della Finanza) abbia implicitamente risposto a queste critiche, specialmente alla seconda. In una fase come l’attuale, nell’eurozona, un aumento dell’investimento a lungo termine è essenziale sia per una migliore utilizzazione, nel breve periodo, della capacità di produzione, sia per un aumento, nel medio e lungo termine, della produttività dei fattori. Su questo punto, al convegno di Roma, la risposta è stata unanime. Soprattutto ha riguardato non solo l’infrastruttura tradizionale (strade, ponti, aeroporti), ma anche le reti e l’infrastruttura sociale (scuole, giardini d’infanzia, ospedali, social housing).

È difficile dire se l’appello per una politica di crescita imperniata sull’investimento di lungo periodo sia un esito del “semestre italiano” oppure il frutto dell’esigenza fortemente sentita che l’Europa riprenda a crescere. È certo comunque che se non si investe non si produce per il futuro e non si cresce.