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Il “bazooka” per l’economia reale

Il “bazooka” per l’economia reale

Isabella Bufacchi – Il Sole 24 Ore

Sui Paesi membri dell’Eurozona pesa un macigno di debito pubblico da 9.200 miliardi di euro, equivalente al 92,7% del Pil contro i 7.900 miliardi rilevati nel 2010, all’epoca pari all’83,7% del Pil. La crisi bancaria e subito dopo la crisi del debito sovrano hanno aumentato lo stock del debito pubblico nell’Eurozona di circa 1.300 miliardi in quattro anni. Un debito che, se non proprio nella sua totalità, è entrato nei portafogli delle banche, degli investitori istituzionali, dei risparmiatori sotto forma di titolo di stato: sottraendo risorse finanziarie che direttamente sarebbero potute confluire nell’economia reale. Ed è lì che la BCE intende arrivare con il suo QE esteso ai titoli di Stato: acquistare sul mercato secondario BTp o Bund, OaT o Bonos per liberare risorse finanziarie e invogliare investitori, intermediari e risparmiatori a impiegare la liquidità altrove a caccia di rendimenti più elevati. Il QE tra le altre cose comprime anche i rendimenti dei titoli acquistati dalla banca centrale.

Rastrellare titoli di Stato in un’Eurozona afflitta dal “public debt overhang” è un’operazione che non ha precedenti. E della quale fino a ieri non si aveva alcun dettaglio. Quanti titoli verranno acquistati, con quale scadenza e per quanto tempo sono gli aspetti più rilevanti che il mercato si aspetta vengano rivelati oggi. Le zone grigie resteranno: è prevedibile che la Bce lasci qualche domanda senza risposta per mantenersi le mani libere, concedendosi qualche margine di manovra per ritocchi in corsa. Stando a fonti bene informate, è corsa voce ieri che nella rosa delle ipotesi esplorate dagli esperti dell’Eurosistema vi sia stata anche la possibilità di stabilire gli importi degli acquisti in base non soltanto al peso dei singoli Paesi nel capitale della Bce (che vedrebbe la Germania al primo posto con grandi quantità di Bund da acquistare) e alla montagna dei titoli di Stato in circolazione ma anche in base alle emissioni lorde del 2015 dei titoli a medio-lungo termine più liquidi (tipologia target del QE): in riferimento a quest’ultimo parametro, l’Italia primeggerebbe essendo il più grande emittente di titoli di Stato nell’Eurozona con 260-270 miliardi di emissioni lorde attese quest’anno sulle scadenze medio-lunghe (BoT esclusi).

Chi venderà i titoli alla banca centrale? Non lo Stato direttamente. La Bce non può acquistare titoli di Stato in asta perché il suo statuto (ispirato al Trattato di Maastricht) vieta il finanziamento diretto degli Stati. Gli acquisti non saranno realizzati sul mercato primario ma solo sul secondario , probabilmente con meccanismo d’asta: la Bce indirettamente sosterrà le aste facendo spazio nei portafogli di investitori e banche partecipanti alle emissioni dei titoli di Stato. Ma la domanda in asta potrebbe via via raffreddarsi a causa di un rapporto rischio/rendimento annacquato dall’eccesso di liquidità: meglio allora, è questo l’invito esplicito del QE, guardare altrove, oltre i titoli di Stato, per incassare rendimenti più elevati e maggiormente commisurati al rischio. “La politica monetaria espansiva delle Bce riduce i rendimenti attesi su investimenti di tipo finanziario e contribuisce a spostare l’interesse degli investitori verso l’acquisto di beni immobili di qualità”, ha detto ieri a un convegno organizzato alla Luiss sulle cartolarizzazioni CMBS Biagio Giacalone, responsabile Credit Solutions Group di Banca IMI. Con questo pronostico: “Il conseguente miglioramento delle quotazioni degli asset immobiliari rende i CMBS italiani più liquidi e attraenti per gli investitori specializzati sul mercato dei capitali, favorendo il finaziamento di operazioni immobiliari a costi più contenuti rispetto al passato”.

Il debito pubblico negoziabile italiano è detenuto prevalentemente (67,1%) da italiani, come risulta dalle ultime statistiche della Banca d’Italia al giugno 2014: 20,1% banche italiane, 13,6% assicurazioni italiane, 3,1% fondi comuni italiani, 12% famiglie italiane, 7,8% detentori italiani quali società non finanziarie, i fondi pensione e altre tipologie di investitori, 5,5% Banca d’Italia, 5% le gestioni patrimoniali e fondi comuni amministrati da operatori esteri ma riconducibili a risparmiatori italiani. Al giugno 2014 l’Eurosistema risultava detenere (al netto dei titoli in Banca d’Italia) il 3,7% dei titoli di Stato italiani in circolazione, acquistati con il Securities markets programme e con lo status di creditore senior (privilegiato, non pari passu) . Il resto, pari al 29,4%, risultava essere in mano a detentori esteri.

Il grande punto interrogativo riguarderà le banche italiane, che detengono oltre 420 miliardi di titoli di Stato italiani (circa 200 in più rispetto al periodo pre-crisi): fino a che punto saranno disposte a vendere i bond alla Bce per impiegare la liquidità altrove? È difficile rinunciare a bond utilizzati come collaterale per finanziarsi a tassi vicino allo 0% presso la Bce; ed è difficile rinunciare ai rendimenti che questi titoli offrono e che contribuiscono ad alzare la redditività della banca.

La sconfitta dei privilegi

La sconfitta dei privilegi

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

«Alle banche popolari quotate servono regole per un controllo più efficace dell’operato degli amministratori, un maggiore coinvolgimento degli azionisti in assemblea anche mediante deleghe. Come ho già osservato in passato, un intervento legislativo è necessario». «le modifiche statutarie, che pure abbiamo sollecitato, non possono essere risolutive». Era il 31 maggio 2011, e a dirlo era Mario Draghi, allora Governatore della Banca d’Italia. Il “necessario” intervento legislativo adesso è arrivato, indotto, se non “sollecitato”, dal Single Supervisionary Mechanism della BCE. Sette banche popolari di rilevanza sistemica, pur superando tutte lo stress test e l’asset quality review, hanno però dovuto usare il margine di tempo consentito per mettersi a posto: sono per così dire borderline. Per rafforzarsi le banche ricorrono perlopiù alle fusioni: ma se i loro statuti prevedono il voto capitario, solo con delle acrobazie di governance e di poltrone possono ricorrere a quello strumento, anche se sono quotate in Borsa. Il prezzo delle azioni non riflette il valore potenziale della banca, tant’è che basta l’annuncio dell’eliminazione del voto capitario perché i listini prendano il volo. La conseguenza è che abbiamo banche sistemicamente importanti, perlopiù efficienti, con buon radicamento sul territorio, che però risultano borderline nel nuovo panorama della Banking Union.

Il Governo ha deciso di eliminare gli ostacoli al superamento di questa situazione: entro 18 mesi 10 banche popolari, di cui 7 quotate, ma tutte sistematicamente importanti, dovranno diventare società per azioni. E lo ha fatto, perdipiù, con lo strumento del decreto, evidentemente, e a mio avviso giustamente, ravvisando la “necessità ed urgenza” di evitare che possano nascere problemi in quella parte del nostro sistema creditizio ( e magari sperando che in questo modo se ne possano risolvere alcuni, tanto per intenderci tra Siena e Genova). Evidentemente per Francoforte, e quindi per Roma, l’obbligo di trasparenza richiesto a una banca che per dimensione è sistematicamente rilevante, può essere soddisfatto solo con la governance di società per azioni, e non con quella a voto capitario.

C’è la retorica della cooperazione: le banche popolari – scriveva Raffaele Bonanni a proposito delle vicende BPM che mi indussero a dare le dimissioni da consigliere di quella banca– sono “la forma più compiuta di partecipazione al governo dell’impresa, la forma più avanzata di democrazia economica”. E c’è la realtà degli interessi, quelli di associazioni di soci, magari dipendenti e loro famigli, che organizzando e selezionando l’affluenza in assemblea, riescono a controllare il voto. Nel 2011 in BPM il 73% del capitale era in mano di non soci, il 27% in mano di 53.000 soci, di cui il 4% degli 8700 dipendenti organizzati nell’Associazione Amici. Questi controllano il voto in assemblea, hanno un improprio coinvolgimento nelle scelte gestionali, in particolare in quelle su avanzamenti e promozioni, senza nessuna responsabilità o rischio di sanzioni. Il problema di agenzia c’è anche nelle società per azioni, c’è, moltiplicato, nelle piramidi societarie, ma c’è perlopiù la possibilità di conquistare una maggioranza sufficiente a sostituire il management: una possibilità che invece non esiste in caso di voto capitario. Fin quando possono esistere isole felici in cui risparmiatori coscienti di non contare nulla corrono a dare i loro soldi a dipendenti perché la banca sia gestita in modo da dare a loro vantaggi sicuri, ovviamente a scapito della redditività? È nelle realtà di media dimensione che la cooperazione può non essere retorica, dove anzi si può supporre che si sia ancora capaci di assegnare correttamente il merito di credito alle imprese e ai loro progetti: che sono quindi fuori da quanto dispone il decreto del Governo.

Giuste le ragioni dell’intervento, a lasciar sorpresi è il momento scelto: perché non è che siano mancate le occasioni, nei 4 anni dopo il discorso del Draghi italiano e nei 4 mesi dopo il responso del Draghi europeo. Le banche popolari, proprio per le ragioni implicite al voto capitario, possono contare su sostenitori tra tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento. Se a suggerire l’intervento del Governo non c’è qualche brutta notizia di cui non si sia ancora a conoscenza, bisogna riconoscere che Matteo Renzi ha dato dimostrazione di grande determinazione prendendo un provvedimento che gli potrebbe alienare consensi proprio mentre in Parlamento hanno e avranno luogo votazioni di decisiva importanza per il futuro del Paese e suo. Consideriamola allora come una dimostrazione di forza, e attendiamo con fiducia la conversione del decreto.

Giungerebbe proprio a tempo. Infatti uno degli scopi del QE che oggi verrà annunciato dalla BCE è di consentire alle banche di erogare maggiori finanziamenti alle industrie. Ma se l’economia non cresce, gli investimenti diventano più rischiosi, più difficile diventa assegnare il merito di credito. Se è vero che molte banche popolari, anche alcune delle grandi, grazie a una maggiore prossimità alla clientela, hanno (ancora) conoscenze e competenze per saperlo fare, è questo il momento per loro di concentrarsi interamente a valorizzarle: libere dai conflitti di interesse tipici delle governance a voto capitario.

Il dilemma di Draghi

Il dilemma di Draghi

Stefano Micossi – Affari & Finanza

La Bce non può più rinviare la decisione di acquistare titoli a lungo termine dell’eurozona in gran quantità ( quantitative easing, o QE): perché l’inflazione mensile e annua in dicembre è diventata negativa, sta sotto l’1 per cento da ottobre 2013 ed è prevista scendere ancora; perché il suo bilancio si sta sgonfiando, invece di aumentare; perché il nuovo strumento di rifinanziamento delle banche ‘mirato’ alle imprese, il Tltro, non sta funzionando per la scarsa domanda di prestiti dall’economia.

La credibilità della Banca Centrale Europea è a rischio, le misure usuali delle attese d’inflazione nei principali paesi dell’eurozona puntano a zero. Se vuol esser creduta sull’obiettivo d’inflazione – il due o ‘vicino al’ due per cento – la Bce dovrà indicare un programma di acquisti adeguato. Può adottare un programma mensile open-ended – dunque potenzialmente illimitato – legato alla realizzazione dell’obiettivo d’inflazione, oppure continuare gli interventi fino al raggiungimento del target sulla dimensione del bilancio della Bce (i due ‘trilioni’ già decisi dal Consiglio direttivo). Se gli acquisti si fermassero a 500 miliardi, come qualcuno lascia trapelare, la credibilità dell’annuncio sarebbe in questione. Data la dimensione limitata del mercato delle obbligazioni private, inevitabilmente, gli acquisti dovranno includere ammontari consistenti di titoli pubblici.

Nell’intenso fuoco di sbarramento in atto contro il QE, molte voci ne negano l’efficacia, ma i loro argomenti non sono convincenti. L’intervento sosterrà l’attività economica sia spingendo al ribasso il cambio dell’euro (come già sta avvenendo per l’effetto annuncio, finalmente!), sia facilitando la riduzione dell’eccesso di debito (deleveraging) pubblico e privato attraverso la riduzione dei tassi a lunga – che a tal fine devono restare per molto tempo al di sotto del tasso di crescita nominale del pil. La discesa dei tassi sui debiti pubblici trascinerà al ribasso anche quelli sulle obbligazioni e i prestiti privati, dato che nelle condizioni attuali di segmentazione dei mercati finanziari il costo dei primi agisce come un ‘pavimento’ per quello dei secondi. Gli effetti espansivi saranno più intensi se finalmente la Commissione allenterà i vincoli del patto di stabilità per gli investimenti, come già indica la nuova comunicazione sulla ‘flessibilità’ pubblicata martedì scorso.

Due questioni cruciali da risolvere riguardano la scelta sui titoli da acquistare e la gestione dei rischi per il bilancio della Bce. Ogni acquisto di titoli da parte della banca centrale modifica anche lo spread tra i rendimenti dei titoli dei paesi dell’eurozona. Il processo di convergenza degli spread sarebbe più rapido se la Bce concentrasse i suoi acquisti sui titoli dei paesi più indebitati, ma avverrebbe anche se la Bce comperasse solo Bund tedeschi. Infatti, la nuova liquidità finirebbe comunque per affluire sul mercato dei titoli più rischiosi, che garantiscono rendimenti più elevati. Nella visione della Bundesbank, però, la riduzione degli spread è fonte di azzardo morale, attenuando l’incentivo a correggere gli squilibri di bilancio nei paesi spendaccioni; ma una politica monetaria espansiva che non modifica i prezzi relativi delle attività finanziarie semplicemente non esiste.

La soluzione più lineare e meno controversa per la Bce è di acquistare i titoli dei paesi dell’eurozona in proporzione data da una chiave non controversa, come le quote dei paesi membri nel capitale della Bce o nel pil aggregato dell’Eurozona. È importante che allo stesso tempo i paesi indebitati mantengano l’acceleratore pigiato sulle riforme economiche, che resta il miglior viatico per la capacità di Draghi di convincere i colleghi del Consiglio direttivo a espandere. La Bce ha gli strumenti per aumentare la pressione su chi eventualmente perdesse la direzione (Grecia post-elezioni inclusa).

La seconda questione cruciale è come gestire possibile perdite della Bce sul suo portafoglio titoli. Nel caso di una banca centrale nazionale, il rischio degli interventi di mercato aperto ricade automaticamente sul bilancio pubblico, che è il garante ultimo dell’offerta di moneta e delle passività della banca centrale. Nel caso della Bce, invece, un back-stop fiscale non esiste; peggio, se la Bce assumesse tali perdite a seguito dell’insolvenza di un debitore sovrano dell’eurozona, ciò configurerebbe secondo alcuni una violazione del divieto di bail out previsto dall’articolo 125 del Trattato di Lisbona.

La soluzione logica sarebbe di guardare per questa funzione di back-stop al bilancio del Meccanismo europeo di stabilità, che già costituisce il nucleo di una futura capacità fiscale dell’eurozona, ma per i tedeschi per ora questa è una bestemmia. Se ogni stato garantisse le perdite sui suoi titoli, l’effetto sui tassi dei paesi indebitati potrebbe attenuarsi fino a scomparire; superare il problema facendo acquistare da ogni banca centrale i titoli del suo paese equivarrebbe ad annunciare la fine della politica monetaria comune. In pratica, il problema è meno intrattabile di quel che sembra: con ogni probabilità all’inizio la Bce registrerà consistenti guadagni in conto capitale sui titoli acquistati, man mano che i tassi scenderanno. Questi guadagni costituiranno un cuscinetto più che adeguato per coprire eventuali perdite su alcuni dei titoli in portafoglio. In effetti, già in occasione della ristrutturazione del debito greco, nell’estate del 2011, la Bce compensò le sue perdite con guadagni realizzati in precedenza.

Il “gioco del cerino” che mette nei guai Draghi

Il “gioco del cerino” che mette nei guai Draghi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

In attesa della riunione del Consiglio della Banca centrale europea si stanno affilando i coltelli e la situazione appare ogni giorno (ove non ogni ora) più complicata. Un coretto a cappella di cronisti e commentatori ha scritto, sulla stampa italiana, che dopo il documento dell’Avvocato generale della Corte di Giustizia europea, il management della Bce deve considerarsi “sereno” e deve essere considerato acquisito il “via libera” al Quantitative easing (Qe) e alle misure “non convenzionali” che, insieme a un numero di componenti del Consiglio Bce, Mario Draghi vorrebbe mettere in atto per rilanciare l’economia dell’eurozona, specialmente le Outright monetary transactions (Omt). O non hanno letto il documento o vivono lontani dal mondo Bce.

Facciamo un passo indietro a un ricorso alla Corte Costituzionale tedesca fatto da un gruppo nutrito di economisti e giuristi tedeschi, secondo cui le Omt proposte dal Presidente Bce nel giugno 2012 avrebbero trasgredito vari trattati e la stessa Carta fondamentale della Repubblica Federale. Il massimo tribunale della Germania ha risposto chiedendo il parere della Corte di Giustizia Ue. È un parere non vincolante, ma è altamente probabile che la Corte Tedesca vi si atterrà. Se non altro per non restare con il cerino acceso in quel di Karlsruhe (dove i giudici rosso togati hanno sede).

Tuttavia, l’Avvocato generale Pedro Cruz Villalon, il cui parere verrà molto probabilmente recepito dalla Corte di Giustizia Ue (su questo punto concordo con il coretto a cappella) ha scritto un documento tra il fariseo e il pilatesco, passando il cerino agli organi dell’unione monetaria, in primo allo luogo alla Bce, il cui Consiglio si riunisce ben prima della Corte tedesca di Karlsruhe (peraltro ancora non convocata).

Il documento, infatti, afferma che la Bce deve avere «ampia discrezionalità» in materia di politica della moneta, ma unicamente in questa materia. In questo quadro, le misure “non convenzionali”, il Qe e soprattutto le Omt (non affatto amate a Berlino e dintorni) possono essere formulate e attuate purché siano uno strumento di politica monetaria e non aiuto finanziario a uno Stato membro. L’esatto contrario di quanto vorrebbe il management della Bce, che desidererebbe poter acquistare obbligazioni di Stati in difficoltà (ad esempio, titoli del debito italiano per ridurne il fardello).

Inoltre , secondo il documento, ciascuna operazione dovrebbe essere effettuata sulla base di un programma economico concordato dallo Stato membro con le autorità Ue, un po’ come le varie forme di structural adjustment lending che Banca mondiale e Fondo monetario internazionale attuano da quaranta anni – e che la Troika ha elaborato per Cipro, Grecia, Irlanda e Spagna. Infine, secondo il documento, le circostanze straordinarie per tale intervento eccezionale devono essere precisate, unitamente a un meccanismo di monitoraggio, perché il programma definito venga attuato.

Quindi, un “nulla osta” molto condizionato, pieno di paletti e vincoli che ne rendono difficile l’attuazione. Potrebbe il Governo Renzi essere messo nella condizione di dover rendere conto a un gruppo di eurocrati con cui concordare misure specifiche la cui attuazione verrebbe monitorata con attenzione? E quello Hollande?

Prima ancora di arrivare a questi nodi politici, dovrebbero essere sciolti spinosi nodi tecnici. Prendiamo la forma più semplice di Qe: l’acquisto di obbligazioni degli Stati dell’eurozona. L’acquisto avverrebbe in proporzione alla loro partecipazione al capitale della Bce per tutti i 19? O si terrebbe conto della “qualità” dei titoli di ciascuno? Quale metro di giudizio, in questo caso, verrebbe utilizzato per valutare la qualità? Quello delle quattro agenzie di rating (tre essenzialmente americane e una cinese)? Oppure si metterà in piedi un apparato specifico europeo? E come si tratterebbero le obbligazioni di Stati in cui forze politiche importanti (e che potrebbero presto avere responsabilità di governo) hanno annunciato l’intenzione di ripudiare parte del proprio debito sovrano?

In effetti, a questi interrogativi posti dai giuristi e dagli economisti che hanno fatto ricorso alla Corte suprema tedesca, i giudici rosso togati di Karlsruhe pensavano di avere qualche risposta dalla Corte di Giustizia europea. Sono stati, invece, rinviati non direttamente al mittente, ma al Consiglio Bce, nel cui seno infuria la battaglia.

Ove la situazione non fosse sufficientemente complicata, un numero crescente di economisti (anche italiani) ritiene che la Bce deve considerarsi causa dei suoi mali, in quanto, pur adottando una politica di inflatition targeting e fissando tale target, ha fatto cadere l’eurozona in deflazione. Altri documentano che con una crescita della quantità di moneta al 2,5% l’anno, non è la liquidità a far difetto, ma un sistema economico, regolamentare e giudiziario obsoleto che frena gli investimenti – Nomura lo ha scritto chiaro e tondo ai propri clienti. In tal caso, Qe, Omt e tante altre sigle servirebbero unicamente ad arricchire la galassia degli acronimi.

Cambio insostenibile con l’Europa ferma

Cambio insostenibile con l’Europa ferma

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

Non sempre i tappi che saltano fanno allegria. L’improvvisa decisione della Banca centrale svizzera di abolire il tetto al cambio con l’euro ha provocato un terremoto sui mercati e suscita pesanti interrogativi sulla capacità della politica monetaria di influire sui livelli dei cambi nelle condizioni odierne dei mercati finanziari.

Vi erano molte ragioni di buon senso alla base della decisione, nell’agosto 2011, di evitare un eccessivo apprezzamento del franco svizzero, da sempre considerato bene-rifugio per eccellenza. Eliminando la probabilità di un guadagno in conto capitale sul cambio a breve e mantenendo bassi i tassi di interesse interni (addirittura introducendo tassi negativi nel dicembre scorso), si sperava di porre un freno a movimenti di capitale considerati – non senza ragione – destabilizzanti. L’eterogenesi dei fini ha portato la Bns ad acquistare grandi quantità di titoli in euro, riducendo le pressioni sul mercato dei titoli pubblici dei Paesi periferici e togliendo quindi le castagne dal fuoco alla Bce il cui quantitative easing era ancora in attesa del via libera.

Ma sia la mancata ripresa europea e soprattutto la crisi russa rendevano sempre più difficile difendere un tasso di cambio insostenibile rispetto ai movimenti potenziali di capitali. Le crisi degli anni Novanta hanno insegnato che nessuna banca centrale può contrastare flussi che assumono sempre dimensioni multiple rispetto alle riserve che essa può mettere in campo. È stato così per i Paesi del Sud-Est asiatico, quando il flusso di capitali si è improvvisamente invertito; è stato così per Messico e Argentina che avevano ancorato la loro moneta al dollaro. E non può che essere così nelle condizioni odierne, visto che la dimensione complessiva dei movimenti a breve è cresciuta enormemente e il mercato dei cambi, secondo gli ultimi dati della Banca dei regolamenti internazionali, attiva ogni giorno scambi per 5mila miliardi di dollari, pari a circa un terzo del Pil mondiale, ovviamente annuale (erano 3,3 nel 2007, cioè prima della crisi). E poiché fra il 5 e il 6 per cento di questa frenetica attività di trading riguarda il franco svizzero, l’impegno della Bns a non sforare il tetto del cambio euro-franco non era più credibile.

La Banca centrale svizzera ha colto i mercati di sorpresa, ma proprio la decisione clamorosa mette a nudo le criticità della strategia di stabilizzazione adottata nel 2011. In primo luogo, perché ha inferto un duro colpo alla credibilità della stessa banca centrale, visto che solo un mese fa essa aveva baldanzosamente dichiarato che il tetto sarebbe stato difeso «con la massima determinazione». Poi, perché ha confermato ex post la strategia di investire sul franco svizzero come bene-rifugio: chi ha investito negli ultimi tre anni mette a segno da ieri guadagni in conto capitale di tutto rispetto. Infine perché sacrifica pesantemente gli interessi dell’economia svizzera ai problemi del cambio. Non a caso, la Borsa ha segnato pesanti perdite, soprattutto per le imprese più orientate all’export: i mercati europei rappresentano infatti metà del commercio estero svizzero. Niente male come bilancio.

La lezione più generale che deriva dai fatti di ieri è che l’economia mondiale e in particolare la finanza non hanno ancora trovato il modo per affrontare gli aspetti macroeconomici della globalizzazione e dei movimenti internazionali di capitali. Alla base dei problemi della Svizzera (prima con l’introduzione del tetto, poi con la sua improvvisa abolizione) sta il potenziale destabilizzante dei movimenti di capitale a breve in un mondo interconnesso, ma con politiche monetarie non coordinate fra loro per effetto degli inevitabili sfasamenti dei cicli.

I global financial imbalances, cioè la polarizzazione del mondo fra Paesi in permanente surplus di parte corrente (Cina e Germania in testa) e quindi esportatori di capitali e Paesi che si trovano nella condizione opposta (Stati Uniti e alcuni Paesi della periferia dell’eurozona) sono stati una delle cause fondamentali della crisi e da allora si sono ridimensionati, ma non in modo decisivo e continuano ad essere il primo alimento di flussi di capitale a breve troppo grandi rispetto alla capacità di contrasto di autorità nazionali. E ovviamente lo sfasamento ciclico amplia i differenziali dei tassi d’interesse e l’intensità dei flussi di capitale.

Il Fondo monetario internazionale ha documentato in un recente rapporto triennale il problema della fragilità del sistema finanziario internazionale e della trasmissione dei problemi da un Paese all’altro. È sempre il problema che si ponevano i padri fondatori del nuovo ordine monetario di Bretton Woods, che diede origine appunto all’Fmi, oltre che alla Banca mondiale. Come ha affermato Paul Krugman, commentando quel rapporto, si ripropone oggi il problema di assegnare al Fondo un ruolo almeno di sorveglianza e di monitoraggio sugli squilibri macroeconomici di ciascun Paese, che danno origine alla trasmissione di spinte destabilizzanti verso l’esterno. Una funzione di vigilanza preventiva, per così dire, basata solo sulla moral suasion nei confronti dei singoli Paesi. Ma fra l’enunciazione di questo principio, che pure non contrasta con lo statuto del Fondo (alla fine, dice Krugman, il Fondo è nato per fare il pompiere delle crisi e prevenire è meglio che curare) e la sua applicazione c’è un oceano intero di difficoltà politiche. E così le cause profonde della crisi non vengono affrontate e le banche centrali sono costrette ad andare avanti in ordine sparso, correndo tutti i rischi del caso come si è visto ieri a Zurigo.

Tasse sulle imprese: l’Italia resta la matrigna d’Europa e scivola al 141esimo posto al mondo

Tasse sulle imprese: l’Italia resta la matrigna d’Europa e scivola al 141esimo posto al mondo

NOTA

L’Italia resta la matrigna d’Europa per quanto riguarda le tasse sulle imprese. Lo dimostra un’elaborazione del Centro studi “ImpresaLavoro” sui nuovi dati riferiti al 2014 contenuti nel rapporto Doing Business 2015. Nel rank generale che misura la facilità per le imprese del sistema fiscale l’Italia si classifica ultima a livello continentale e 141esima nel mondo, riuscendo a fare addirittura peggio dell’anno scorso quando si classificò 137esima. Un risultato determinato da un mix micidiale composto da pressione fiscale elevata, sistema fiscale complesso, tempi lunghi anche per pagare quanto dovuto allo Stato. Tra i Paesi dell’Europa a 28 la palma di miglior sistema fiscale va all’Irlanda, seguita dalla Danimarca e dal Regno Unito. Dietro, ma comunque meglio dell’Italia, tutte le tradizionali economie dell’area euro: l’Olanda è sesta, la Germania 18esima, la Spagna 20esima e la Francia 25esima.
tabella 1
In termini di Total Tax Rate sulle imprese l’Italia fa leggermente meglio dello scorso anno e passa da un prelievo complessivo del 65,8% ad uno del 65,4%. Una cifra comunque inferiore alla sola Francia (66,6%) e che distanzia di molto tutti i principali partner europei. Anche volendo tralasciare sistemi di particolare favore verso le imprese come quello croato (Total Tax Rate al 18,8%) e Irlanda (25,9%), non si può fare a meno di notare come, tranne la Francia di cui si è detto, nessuno dei nostri partner tradizionali a livello comunitario sconti una pressione fiscale cosi asfissiante: la Germania si ferma a 16,6 punti percentuali di Total Taxe Rate in meno (48,8%) e anche Grecia (49,9%), Portogallo (42,4%) e Spagna (58,2%) fanno meglio di noi. Per tacere di una grande economia matura come quella del Regno Unito che riesce comunque a garantire alle sue imprese un prelievo statale complessivo del 33,7%.
tabella 2
Al prelievo elevato, nel nostro Paese, si associa anche un sistema burocratico particolarmente complicato. Tra IRES, IRAP, tasse sugli immobili, versamenti IVA e contributi sociali in Italia un imprenditore medio effettua in un anno 15 versamenti al fisco, 6 in più di un suo collega tedesco, 7 in più di un inglese, di uno spagnolo o di un francese e 9 in più di uno svedese. Anche per essere in regola con il fisco le nostre aziende sono costrette ad occupare una parte consistente del loro tempo: con 269 ore l’anno impiegate per adempimenti fiscali, l’Italia è sesta in Europa e prima tra le grandi economie. Un’azienda tedesca ha bisogno di “sole” 218 ore all’anno (51 in meno) e fa comunque peggio di Spagna (167 ore, 102 in meno dell’Italia) e Francia (137 ore, 132 in meno). Particolare la situazione del Regno Unito: a un sistema fiscale già leggero in termini quantitativi si accompagna un sistema di pagamento molto semplice. Gli imprenditori inglesi effettuano in un anno una media di 8 versamenti al fisco, occupando “solo” 110 ore del loro tempo, meno della metà di un imprenditore italiano.

tabella 3

 

tabella 4

 

Rassegna Stampa
Italia Oggi
Garanzia Giovani, un flop

Garanzia Giovani, un flop

Simona D’Alessio – Italia Oggi

Il ministero del welfare certifica il «flop» della Garanzia giovani: a fronte di «366 mila registrati» al programma d’inserimento al lavoro e formazione (con una dotazione di oltre 1,5 miliardi di euro), infatti, «il 39% è stato preso in carico da centri per l’impiego e strutture private accreditate», ma «non possiamo dirci soddisfatti». Ecco, perciò, spiegata la partenza della cosiddetta «fase 2» del piano, per stimolare scuole e imprese, affinché le misure per strappare dall’inattività gli under 29 vengano efficacemente realizzate. È lo stesso titolare del dicastero di via Veneto, Giuliano Poletti, a dare il polso della situazione del programma di matrice europea, la cui gestione e affidata alle regioni, iniziato ufficialmente il 1° maggio scorso, rispondendo ieri, nell’Aula di Montecitorio, a una interrogazione di Emanuele Prataviera (Lega Nord) sui costi dell’intervento nato con l’obiettivo di assicurare un posto di lavoro, un contratto di apprendistato, un tirocinio, o un iter di apprendimento ai ragazzi non ancora trentenni «entro quattro mesi dall’entrata in disoccupazione, o dalla fine di un percorso di istruzione».

L’autocritica per il mancato successo della Garanzia giovani, a meno di una settimana dalla diffusione delle cifre impietose sui senza impiego da parte dell’Istat (a novembre 2014 il tasso nella fascia 15-24 anni balza al 43,9%, in rialzo di 0,6 punti percentuali su ottobre, ndr) è preceduta da una puntualizzazione: l’Italia è il secondo paese dopo la Francia che in Europa ha visto approvare il suo programma. Tuttavia, otto mesi dopo l’avvio della possibilità di registrarsi sul sito nazionale (www.garanzia-giovani.gov.it) o sui portali regionali, ad oggi hanno aderito in «366mila, e 128mila sono stati presi in carico dai centri per l’impiego e dai privati accreditati», pari al 39%.

E quanto alla spesa, prosegue Poletti, «prevedendo l’intervento superi i 500 mila giovani, il costo medio» per ciascuna delle persone raggiunte dovrebbe aggirarsi «intorno ai 3 mila euro», mentre nella campagna pubblicitaria nelle sale cinematografiche sono stati investiti «145 mila euro». A fronte di ciò, «non diciamo che la montagna ha partorito un costoso topolino, ma neanche che siamo soddisfatti», osserva, puntando i riflettori sulle modifiche in corso d’opera, giacché «il governo, il ministero e le regioni hanno avviato quella che è stata definita una “fase 2” del progetto», che si augura «attraverso l’attivazione di rapporti con scuole, sistemi d’impresa e meccanismi di comunicazione con i giovani» possa «migliorare le performance» della Garanzia giovani.

Restyling in vista anche per il nuovo regime dei minimi; il ministro, confermando quanto annunciato giorni fa dallo stesso premier Matteo Renzi, dichiara che l’esecutivo prende atto che gli interventi nella legge di Stabilità «possono incidere», come il- lustrato nell’interrogazione di Tiziana Ciprini (M5s), «negativamente su alcune categorie di lavoratori autonomi, giovani professionisti e free-lance». E si prepara ad adottare «rapidamente un testo correttivo».

Crescita, debito, esportazioni: la moneta comune ha fatto bene solo a Berlino

Crescita, debito, esportazioni: la moneta comune ha fatto bene solo a Berlino

Sergio Patti  – La Notizia

Dall’avvento dell’euro ad oggi tutti i principali indicatori della condizione economica del nostro Paese sono nettamente peggiorati: la disoccupazione è passata dal 9 al 13%, il rapporto tra debito e Pil è cresciuto di più di venti punti percentuali mentre l’Istat ha appena certificato come il rapporto tra deficit e Pil sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%.Volendo fare un irriguardoso paragone calcistico, si potrebbe dire che se si giocasse oggi Italia-Germania non finirebbe certamente 4 a 3 come nell’epico scontro dell’Azteca: i tedeschi, infatti, ci batterebbero 7 a 0. A tanto ammontano gli indicatori che il Centro studi ImpresaLavoro ha analizzato prendendo come base di partenza il 2001 (ultimo anno prima dell’entrata in circolazione dell’euro) e confrontandolo con gli ultimi dati disponibili.

La forbice s’allarga
Ne esce un quadro molto chiaro nella sua drammaticità: l’euro ha fortemente avvantaggiato la Germania, aumentando il divario con l’Italia e le rigidità che ci sono state imposte dalla moneta unica ci hanno impedito la flessibilità necessaria a fare riforme importanti in un tempo di crisi. Veniamo ai numeri: il Pil pro-capite tedesco cresce a valore nominale del 29,5%, il nostro “solo” del 17,1%. Se prima dell’euro tra un cittadino di Roma e uno di Berlino c’era una differenza del 16%, oggi il gap è quasi di un terzo (il 28%). I governi guidati da Schroeder e Merkel hanno visto il deficit passare da una cifra di poco superiore al 3% (3,1%) a un surplus di bilancio dello 0,1. L’Italia, invece, nonostante gli sforzi, è passata dal 3,4% del 2001 al 2,80% del 2013 fino all’attuale 3,7%. Contemporaneamente, rispetto al Pil, il nostro debito è passato dal 104,70 al 127,9% mentre il loro dal 57,5% si è fermato al 76,9%. Dove la moneta unica risulta determinata è però nel settore delle esportazioni. L’export tedesco ha visto salire il suo valore nominare dell’84,3% mentre quello italiano è cresciuto del 32,3%: significa che mentre prima della moneta unica l’export tedesco valeva il doppio di quello italiano, oggi vale quasi tre volte tanto (2,8 volte).

Poche prospettive
Quanto alla disoccupazione, in Germania i senza lavoro sono scesi di 2,2 punti mentre la nostra disoccupazione è salita del 4,4%. Se prima dell’euro il tasso di disoccupazione italiano era del 20% più elevato di quello tedesco, oggi per ogni disoccupato in Germania ce ne sono addirittura tre nel Belpaese. “Dall’adozione della moneta unica – osserva il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni – non c’è pertanto un solo indicatore economico che non sia peggiorato nel confronto con i tedeschi. Crescita, debito, bilancia commerciale. Senza inflazione che ridurrebbe il peso del debito e una valuta più debole in grado di aiutare, o quantomeno non penalizzare, le esportazioni delle nostre aziende anche le riforme rischiano di non bastare a far ripartire il Paese”.