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Le mani sui risparmi

Le mani sui risparmi

Vittorio Malagutti – L’Espresso

Mettere le mani nelle tasche degli italiani passando dalla porta di servizio del loro conto in banca. Matteo Renzi e il suo governo hanno scelto di celebrare così la “Giornata mondiale del risparmio”, che cade, come ogni anno, il 31 ottobre. C’è poco da festeggiare, in effetti. Conti correnti e depositi vincolati, fondi d’investimento e gestioni patrimoniali, obbligazioni e dividendi. Con l’eccezione dei titoli di Stato e dei buoni postali, la legge di stabilità appena annunciata dall’esecutivo ha il suono sgradevole di una litania di nuove tasse per tutte le forme d’investimento. Nella storia repubblicana non si ricorda un’altra stangata di queste dimensioni al risparmio delle famiglie, se si esclude il prelievo sui depositi bancari varato nel 1992 dal governo di Giuliano Amato. Quella, però, fu un’operazione straordinaria, un intervento una tantum. Questa volta, invece, la manovra riscrive per intero la tassazione delle rendite finanziarie.

La tagliola finirà per colpite anche la previdenza. con una sorprendente inversione di marcia rispetto al passato. Ricordate gli inviti ad accantonare risorse in vista di un avvenire sempre più incerto? Niente da fare, adesso il governo vuole aumentare il prelievo fiscale anche sui fondi pensione. Perfino la rivalutazione del trattamento di fine rapporto (Tfr), cioè la parte di futura liquidazione che il lavoratore sceglie di lasciare in azienda, sarà tassata come mai prima d’ora.

I provvedimenti messi nero su bianco nella legge di stabilità rischiano di avere un primo, paradossale effetto sul piano psicologico. In una fase d’incertezza senza precedenti, tra recessione e disoccupazione, le nuove imposte vanno ad amplificare i timori per il futuro prossimo venturo perché colpiscono il gruzzolo, grande o piccolo che sia, messo da parte dalle famiglie per fronteggiare gli imprevisti. E se aumenta l’insicurezza è difficile che gli italiani riprendano a spendere. Gli acquisti vengono rimandati in attesa di tempi migliori. Addio crescita economica, allora. Il motore del Pil non riparte e la recessione si trasforma in stagnazione, con il corollario del calo dei prezzi, cioè la deflazione. Tutto il contrario, insomma, di quanto va predicando il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che nello stimolo ai consumi vede l’antidoto migliore alla crisi.

«Bisogna spostare il peso del Fisco dal lavoro alle rendite». Questo il mantra dei renziani, che hanno sbandierato per mesi il taglio dell’Irap alle imprese annunciato dal governo e in buona parte rinviato a tempi migliori nell’ultima stesura della legge di stabilità. Il premier non ha perso tempo. La scorsa primavera, da poco insediato a Palazzo Chigi, Renzi aveva già provveduto a smantellare la riforma della tassazione del risparmio varata a fine 2011 dal governo di Mario Monti. Allora la parola d’ordine era «semplificare». E così le aliquote. con l’eccezione di titoli di Stato e fondi pensione, furono unificate a quota 20 per cento. Non mancarono le correzioni al ribasso: l’imposta sui rendimenti dei conti correnti e dei depositi vincolati passò dal 27 al 20 per cento. Renzi invece ha di nuovo alzato l’asticella fino al 26 per cento. Con il risultato che, se la legge di stabilità verrà approvata nella versione attuale, alcune forme di risparmio, come i fondi d’investimento e le gestioni patrimoniali, subiranno un prelievo più che raddoppiato rispetto a due anni fa, quando andava al Fisco il 12,5 per cento dei proventi.

Stangata? Dipende dai punti di vista. Davide Serra, il finanziere grande sponsor e consigliere del presidente del Consiglio, in passato si è più volte espresso a favore di un giro di vite ancora più pesante sulle rendite finanziarie. «L’aliquota andrebbe portata dal 20 al 30-35 per cento», ha dichiarato l`anno scorso in un’intervista il gestore del fondo Algebris, con base a Londra. Il governo per ora si è fermato a mezza strada, a quota 26 per cento. L’obiettivo dichiarato è quello di rastrellare almeno 3,6 miliardi di entrate supplementari nel 2015. Questa almeno è la cifra che compare nei documenti presentati dall’esecutivo.

Costretto a trovare nuove fonti di gettito per finanziare voci di spesa supplementari come gli 80 euro di sgravi Irpef, il ministro Padoan ha pensato bene di attingere a un serbatoio di risorse che la crisi ha fin qui intaccato solo marginalmente. Anzi, secondo lo studio più aggiornato della Banca d’Italia, a fine 2012 le attività finanziarie di proprietà delle famiglie italiane, pari a 3.670 miliardi di euro, erano addirittura cresciute del 4,5 percento rispetto all’anno precedente. Lo stesso non si può dire dei salari oppure dei profitti societari, che invece sono diminuiti per effetto del rallentamento dell’economia. Di conseguenza sono calati anche i proventi del prelievo fiscale su queste due categorie di redditi.

Va detto che negli ultimi anni la geografia del risparmio degli italiani è profondamente cambiata. I titoli di Stato, che offrono rendimenti ridotti ai minimi termini, ormai rappresentano poco meno del 5 per cento del portafoglio complessivo delle famiglie, contro il 20 per cento di una ventina di anni fa. D’altra parte, i fondi d`investimento hanno visto crescere a gran velocità la raccolta. Nei primi nove mesi del 2014 le nuove sottoscrizioni hanno raggiunto i 97 miliardi, quasi il doppio rispetto ai 55 miliardi dell’anno precedente. Secondo i calcoli della società di ricerche Prometeia, da inizio 2012 al primo trimestre 2014 le famiglie italiane hanno riversato circa 95 miliardi su fondi, polizze assicurative e prodotti previdenziali, riducendo di oltre 100 miliardi le loro attività sotto forma di Bot, Cct e Btp.

Non basta. Il boom delle Borse, almeno fino a settembre, ha anche garantito guadagni importanti ai risparmiatori che hanno puntato sulle azioni, direttamente oppure tramite i fondi. Festeggiano gli investitori, ma anche il Fisco, perché le plusvalenze della compravendita di titoli si trasformeranno in un gettito supplementare per l’Erario. E con il rialzo dell’imposta dal 20 al 26 per cento previsto dalla legge di stabilità i proventi per le casse dello Stato saranno ancora maggiori. Tutto questo, ovviamente, a condizione che i mercati non si avvitino al ribasso e che la manovra proposta dal governo Renzi arrivi al traguardo dell’approvazione parlamentare senza perdere per strada il previsto aumento delle aliquote.

Molto più ridotto, invece, sarà l’incasso garantito dal prelievo sui rendimenti dei conti in banca. I tradizionali depositi ormai offrono interessi su base annuale di molto inferiori all’uno per cento. Secondo una simulazione della Cgia di Mestre (Associazione artigiani e piccole imprese) l’aumento d’imposta dal 20 al 26 per cento si dovrebbe tradurre in un aggravio pari nella media a 93 centesimi, per un conto di 12 mila euro. Briciole, rispetto alle nuove tasse sui ricchi proventi del trading azionario o di quote di fondi comuni.

Il vero salasso a carico dei risparmiatori è un altro. Si chiama imposta di bollo, una sorta di mini patrimoniale sulle attività finanziarie. È stata introdotta nel 2012 sotto forma di un prelievo pari allo 0,1 per cento del valore di tutte le attività finanziarie (esclusi i conti correnti bancari) di proprietà di ogni singolo contribuente. L’aliquota è poi stata ritoccata due volte.Dapprima è salita allo 0,15 per cento (nel 2013) per poi raggiungere la soglia dello 0,2 per cento dall’inizio del 2014. Come dire che un portafoglio del valore di 50mila euro subirà un prelievo di 100 euro, il doppio rispetto a due anni fa. A questa somma vanno poi aggiunte le tasse da pagare sui rendimenti o sui guadagni realizzati con la compravendita di prodotti finanziari.

Particolare importante: l’imposta di bollo e sulle rendite finanziarie non si applicano in modo proporzionale al reddito del contribuente o al valore del suo patrimonio. Chi possiede titoli per 10mila euro, con rendimenti per poche decine di euro, è sottoposto ad aliquote identiche a chi amministra un portafoglio milionario di attività. All’estero non funziona cosi. In alcuni Paesi, come la Francia o la Spagna, l’imposizione è progressiva per scaglioni sulla base dei guadagni realizzati. In Gran Bretagna, invece, le rendite finanziarie vengono inserite nella dichiarazione annuale dei redditi, tassati secondo aliquote via via più alte al crescere delle entrate del contribuente. Da tempo molti esperti segnalano che allinearsi a questi modelli stranieri porterebbe maggiore equità nel sistema italiano, che finisce per favorire i più ricchi. Ma per cambiare serve tempo e invece il governo ha una fretta terribile di far cassa. Tutto rinviato, allora. E più tasse per tutti.

Mammellone fiscale

Mammellone fiscale

Davide Giacalone – Libero

Chiamare gli italiani con i redditi più alti a contribuire straordinariamente, per abbattere parte del debito pubblico, ma farlo senza che questa sia una patrimoniale, bensì volontariamente. Dato che la volontà va incentivata, aggiunge Paolo Cirino Pomicino, ideatore della proposta, a chi vorrà versare si garantiscano quattro anni senza accertamenti fiscali, sempre che il loro reddito cresca dell’1,5% ogni anno. Mi convince. Non mi piace. Integro.

Il ragionamento è convincente perché (come qui si è cento volte ripetuto, facendo riferimento alla dismissione di patrimonio pubblico) far scendere d’un colpo, significativamente, il debito pubblico ne diminuisce l’enorme costo in interessi. Quindi non solo libera dal debito (in parte), ma libera risorse altrimenti impiegabili. Convincente. Non mi piace, però, il riferimento esclusivo alla sospensione dei controlli fiscali, per la semplice ragione che, automaticamente, escluderebbe me, e molti altri, da quanti potrebbero contribuire. Mi rifiuto, infatti, di sborsare un solo centesimo per prendermi pure il certificato di evasore fiscale. Avendo pagato sempre tutto, quindi già troppo.

Propongo un doppio binario: su uno viaggia il convoglio Pomicino; sull’altro si offra un patto al contribuente che se lo può permettere: tu anticipi, per due anni, una parte del gettito fiscale e lo Stato, in cambio, ti fa uno sconto più che proporzionale sull’aliquota che dovrai pagare, nei due anni successivi. È un patto virtuoso, perché da entrambe le parti si scommette sulla crescita: lo Stato risparmiando sugli oneri del debito, il contribuente contando che la ripresa porti con sé un aumento del reddito, quindi un buon affare fiscale. Ci si guadagna tutti.

La domanda cruciale, però, è: cosa si fa con i soldi risparmiati abbattendo il debito? Questa è la vera questione politica. Credo si debbano fare due cose: a. diminuire la pressione fiscale; b. innescare investimenti pubblici infrastrutturali. Paolo Cirino Pomicino dice che gli son cadute le braccia quando ha letto, nella legge di stabilità, che ci si accontenta di previsioni minimali circa la crescita del prodotto interno lordo. Non so cosa possa cadergli, a consuntivo. A me erano cadute prima, con gli 80 euro. Poi replicati. Mi son cadute perché l’idea che gli italiani siano poppanti e che il problema sia la quantità di latte erogabile, tramite il mammellone statale, non è solo sbagliata: è letale. Questa roba è un incrocio, bastardo, fra il keynesismo senza Keynes e il liberismo senza mercato. Fra la convinzione che il mercato possa riprendere velocità solo grazie alla spesa pubblica e il diffidare degli investimenti pubblici, supponendo migliori i consumi decisi dai privati. In questo modo, temo, si fa crescere il debito senza spingere la ricchezza. In altre parole, è un gesto che arricchisce elettoralmente e impoverisce economicamente.

Tale mutazione genetica, tale illegittima filiazione del fanfanismo e del reaganismo, entrambe presunti, è confermata dal fatto che a occuparsi dei grandi investimenti pubblici hanno messo un magistrato. Li guardano con sospetto, se non con un certo schifo. Non che i sospetti non siano fondati, ma se continuo a mettere gli spiccioli in tasca alle persone, senza corrispettivo di produttività, quelli li utilizzeranno in tre modi: a. pagare gli aumenti delle bollette; b. risparmiare il possibile, non fidandosi; c. comprare merce a basso costo, magari prodotta, importata e venduta illegalmente. Nulla che spinga la ricchezza. Gli investimenti pubblici, quindi, sono il giusto contrappeso degli sgravi fiscali e dei tagli alla spesa improduttiva. Resi possibili dall’abbattimento del debito. Altrimenti il solo “ismo” che prende corpo è il laurismo. A quel punto entrambe i binari, quello di Cirino Pomicino e il mio, sono da considerarsi morti. Nel senso che i soldi, chi li ha e può, li porta velocemente via.

In Italia 2 milioni e 300mila famiglie non possono permettersi una casa

In Italia 2 milioni e 300mila famiglie non possono permettersi una casa

Danilo Taino – Corriere della Sera

Sono anni che non si parla più di diritto alla casa, almeno in Occidente. Quasi che il problema fosse risolto. Non lo è: nelle città italiane, per dire, ci sono due milioni e trecentomila famiglie che non sono in grado, per ragioni economiche, di garantirsi un’abitazione minima. Il problema non è risolvibile con i vecchi modelli delle rivendicazioni sociali degli Anni Settanta e Ottanta, o con i piani di edilizia popolare del passato. Ciò nonostante, resta: è un guaio sociale e rimbalza in negativo sui livelli di istruzione e di salute del Paese e pesa sulla crescita complessiva. La società di consulenza McKinsey, attraverso il suo istituto di ricerca MK Global Institute, pubblicherà domani uno studio – globale e articolato per Paese – su questo che è uno dei temi essenziali del momento. E ha elaborato alcune proposte “di mercato” per affrontarlo.

Il gap
Al cuore della ricerca c’è il calcolo di un gap di accessibilità alla casa: in sostanza, quanto salario in più servirebbe a una famiglia media per comprare l’abitazione (nel caso italiano di 60 meri quadrati) senza dovere impegnare più del classico 30% del reddito stesso. Il risultato è che, in Italia, i 2,3 milioni di famiglie in difficoltà avrebbero bisogno di nove miliardi di dollari in più (7,1 miliardi in euro) ogni anno. Il gap maggiore si registra nell’area metropolitana di Milano: quattro miliardi di dollari. Seguono Roma, tre miliardi; Firenze, un miliardo; Torino, 500 milioni; Napoli, 300 milioni e Venezia, 200 milioni. «Due milioni e trecentomila famiglie in condizioni di difficoltà abitativa non sono cosa da poco per un Paese come il nostro. E un gap pari allo 0,5% del Pil è considerevole», dice Stefano Napoletano, il partner di McKinsey che ha seguito lo studio per l’Italia.

Le soluzioni possibili
Per ridurre questo gap di accessibilità alla casa, Napoletano vede quattro possibili interventi applicabili al caso italiano (che ovviamente è diverso da quello di altri Paesi). Vanno di molto ridotti i tempi e i costi della burocrazia per ottenere i permessi, soprattutto di ristrutturazione; il settore delle costruzioni, uno dei più lenti nei guadagni di produttività, va modernizzato; occorre una gestione delle case costruite meno costosa, il che significa introdurre innovazioni sin dalla progettazione, ad esempio nella sostenibilità energetica; vanno abbassati i costi di finanziamento per l’acquisto della casa e resi disponibili, attraverso strumenti di debito ad hoc, anche a chi ha redditi bassi e scarse garanzie da offrire. A livello globale, lo studio calcola che ci siano 330 milioni di famiglie in difficoltà finanziarie quando devono affrontare la questione abitazione. Che, in ragione degli intensi flussi migratori verso le metropoli nei Paesi emergenti, diventeranno 440 milioni nel 2025: almeno un miliardo e trecento milioni di persone coinvolte.

Nel mondo
Nel mondo, il gap di accessibilità alla casa – misurato a seconda delle caratteristiche di ogni Paese – è oggi di 650 miliardi di dollari all’anno: quasi l’uno per cento del Prodotto lordo mondiale. Ai costi attuali, per risolvere il problema occorrerebbe investire tra i novemila e gli 11 mila miliardi di dollari da qui al 2025, che salgono a 16 mila se si aggiungono i costi di acquisizione dei terreni da edificare. Evidente è che la chiave sta nel tagliare i costi: di costruzione, di gestione e di rendita data dalle molte restrizioni regolamentari (questi ultimi all’origine dei prezzi elevati nei centri delle città). McKinsey calcola che si possano ridurre tra il 20 e il 25 per cento.

Casa, se le tasse pesano più della rendita

Casa, se le tasse pesano più della rendita

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

Diciamo la verità. Fa un certo effetto confrontare la rendita catastale complessiva attribuita al patrimonio immobiliare italiano con il costo fiscale che tra imposte dirette, imposte indirette e tributi locali i proprietari sopportano ogni anno. Quasi 37 miliardi di euro di rendita contro oltre 50 miliardi versati annualmente al fisco fra tributi e balzelli.

Le tasse “pesano” molto più della rendita, per la precisione la superano di oltre il 35 per cento. Naturalmente, la rendita indica solo in teoria la redditività di un immobile. La realtà è diversa e sappiamo come la rendita non rappresenti il reddito figurativo che un proprietario ricava dal proprio immobile. Il nostro sistema di tassazione, infatti, utilizza come base imponibile il valore catastale di un fabbricato o di un terreno che si ottiene moltiplicando la rendita per determinati coefficienti che variano a seconda della tipologia dell’immobile.

In linea di principio, però, la sorpresa rimane. Perché, per azzardare un esempio, è come se un investimento finanziario fosse tassato non sul rendimento ottenuto (la rendita) ma sul valore del capitale, del patrimonio. Non scopriamo da oggi che la tassazione sul mattone ha raggiunto livelli esorbitanti (basti dire che prima del 2012, il gettito immobiliare complessivo del mattone non arrivava a 37-38 miliardi). È che ogni giorno diventa più evidente come sia urgente un ripensamento dell’intero sistema. Abbiamo, in primo luogo, un problema di tassazione locale degli immobili. C’è il caos della Iuc (Imu+Tasi) da risolvere, con l’impegno del governo ad andare verso un’imposta davvero unica, che consenta di superare la convivenza di Imu e Tasi, che sia più semplice da calcolare e, auspicabilmente, che, pur rispettando l’autonomia dei sindaci, possa evitare gli eccessi che abbiamo in questi mesi toccato con mano.

C’è, poi, un aspetto che la politica fatica a cogliere legato alla struttura dell’imposizione sul mattone. Nei sistemi in cui la tassazione è di stampo patrimoniale e il possesso dell’immobile subisce un prelievo significativo, la tassazione indiretta sui trasferimenti è generalmente contenuta. In Italia, non avviene così e alle pesanti pretese del fisco (locale) sul possesso di un immobile si aggiungono quelle altrettanto pesanti (dello Stato) sulle compravendite.

Sullo sfondo resta la riforma del Catasto. L’obiettivo è di eliminare le iniquità del sistema attuale (ci sono immobili simili con valori catastali molto diversi o valori catastali identici per immobili diversi tra loro). La revisione delle rendite restituirà basi imponibili molto più elevate rispetto a oggi, come molte simulazioni fanno chiaramente emergere. Se così stanno le cose, c’è allora da chiedersi che accadrà al gettito fiscale sul mattone. Crescerà con la stessa dinamica delle rendite? La delega fiscale, che fissa i criteri della riforma del Catasto, indica il principio dell’«invarianza di gettito». Quindi, nuove rendite più eque senza aumento di tasse. Ma ancora: sarà vero? E funzionerà il meccanismo che affida a governo e Parlamento il compito di vigilare per evitare i rincari? Qualche rischio, insomma, è dietro l’angolo. Ma attenzione: 50 miliardi di tasse sono già uno sproposito. Vediamo di non preparare il terreno a un nuovo pericoloso record.

Il Tfr in busta, il fisco vince anche sotto i 15mila euro

Il Tfr in busta, il fisco vince anche sotto i 15mila euro

Enrico Marro – Corriere della Sera

Bisognerà aspettare il testo definitivo del disegno di legge di Stabilità, quello che arriverà alla Camera. Ma se verrà confermato il nuovo regime fiscale sul Tfr (il Trattamento di fine rapporto) e sul fondi pensione, c’è da scommettere che questa sarà una delle parti sulle quali si concentreranno le richieste di modifica in Parlamento. Non solo perché le norme sarebbero retroattive, a partire dal 2014, ma perché penalizzanti sul piano fiscale. Bocciata, in particolare, l’operazione Ttr in busta paga. Non sarebbe per nulla conveniente trasferire il flusso annuale del trattamento di fine rapporto nella retribuzione mensile, nemmeno per quelle fasce di reddito che si collocano nella parte bassa.

Maurizio Benetti, esperto del settore ed ex dirigente generale dell’Inpdap, spiega che l’operazione non converrebbe neppure per le retribuzioni inferiori a 15 mila euro, quelle cioè che rientrano nel primo scaglione Irpef con aliquota del 23 per cento, questo perché, con l’aumento del reddito conseguente all’anticipo del trattamento di fine rapporto nello stipendio, diminuirebbero le detrazioni da lavoro dipendente e quindi «l’aliquota effettiva sul Tfr in busta paga sarebbe del 27,5%», un livello superiore a quello stabilito dal regime di tassazione separata previsto per chi lascia il Tfr in azienda e lo ritira al momento del pensionamento (liquidazione) oppure per chi se lo fa anticipare per gli usi consentiti dalla legge (acquisto della casa, spese per la salute, eccetera).

Per i redditi che arrivano fino a 15 mila euro infatti l’aliquota sarebbe intorno al 23%. E non scatterebbero le addizionali Irpef regionale e comunale, come invece sullo stipendio. Il governo, però, difende la manovra, sottolineando che si dà solo una possibilità in più al lavoratore il quale, se vuole, può prendere mensilmente il Tfr. Cariche di critiche arrivano in Parlamento anche le norme della manovra che prevedono l’aumento dall’11 per cento al 17 per cento dell’aliquota sulla rivalutazione annuale dello stesso trattamento di fine rapporto (ricordiamo che il possibile anticipo non vale per i dipendenti pubblici, i collaboratori domestici e i lavoratori agricoli) e al 20 per cento sui rendiment dei fondi pensione e al 26 per cento sugli investimenti delle casse previdenziali dei professionisti.

Bondage tributario

Bondage tributario

Davide Giacalone – Libero

Dal governo dicono: aboliamo il canone Rai. Bravi. Bravissimi. Applausi. Poi leggi con attenzione: hanno in animo di abolire la tassa per il possesso del televisore, ma introducono un obbligo di finanziamento della Rai, proporzionale al reddito e ai consumi, che grava su tutti i contribuenti, anche quelli che non possiedono il televisore. Meno bravi. Molto meno. Vabbe’, non lo aboliscono, ma lo riducono, facendolo passare dagli attuali 113.50 euro a una somma variabile fra 35 e 80 euro. Bravini. Però poi ci ragioni e ti accorgi che no, alla fine il prelievo fiscale aumenterà. E non solo perché sarà più facile colpire l’evasione, ma anche perché sarà lecito colpire le persone oneste. Che non è una bella cosa.

Come al solito, ci tocca ragionare sugli annunci. Costantemente divisi dai testi di legge da un congruo lasso di tempo. Questa volta l’attesa dovrebbe essere breve, dato che siamo alla fine di ottobre e sono prossimi alla stampa i bollettini da inviare agli italiani, in partenza a gennaio. Quei bollettini dovrebbero sparire e il corrispettivo dovrebbe essere pagato con il modello F24. Qui comincia la nebbia, perché dal governo dicono che ciascuna “famiglia” pagherà in ragione del reddito e dei consumi. Ma le famiglie non compilano dichiarazioni dei redditi e non pagano modelli F24, quelli sono i singoli contribuenti. Chi e come calcola il reddito e i consumi familiari? Ancora prima: cos’è una famiglia? Domanda pertinente, perché oggi la Rai non considera “famiglia” neanche marito e moglie, ove risiedano in case diverse, arrogandosi, una televisione di Stato, il diritto di stabilire che non basta un canone, ma ne devono pagare due. Una famiglia, due canoni. Del resto, pensate a tutte le unioni di fatto, etero od omosessuali: in attesa che si concluda l’ozioso dibattito su matrimoni, equiparazioni e diversità, fin qui era chiaro che se sto a casa mia (proprietà o affitto, non cambia) e pago il canone, ove ospiti, a scopo di lussuria o conversazione, un altro individuo, del mio sesso o di sesso diverso, quell’altro non è tenuto al pagamento del canone. Con la novità, invece, paghiamo tutti: quattro conviventi, quattro canoni.

Con la novità, del resto, paga il canone anche la badante del nonno. È stata assunta per assisterlo e conviverci, già oggi la Rai le manda il bollettino, trattandola da evasore senza che minimamente lo sia, ma domani non riceverà la missiva, non avrà casa propria, non possiederà un televisore, ma dovrà pagare. Diciamo che le stiamo fornendo una ragione in più per sposare il nonno. Sperando che il vegliardo sia ancora nelle condizioni di accorgersene e usufruirne, ma mettendo in conto che, in quel modo, ella s’appropria di una parte dell’eredità. Tirate le somme, si raggiunge una vetta d’illogicità ideologica: dopo avere sostenuto la bischerata che se pagassimo tutti pagheremmo meno, si realizza un sistema nel quale paghiamo tutti, paghiamo meno, ma ci costa di più. Segnalo la cosa perché, se riescono a farla, è degna dei manuali sulle perversioni fiscali. Una specie di bondage tributario.

Chiudo segnalando il reiterato imbroglio, dato che la Rai, nel succedersi di vertici politici, tecnici, professorali, al di sopra e al di sotto delle parti, continua a ripetere sempre la stessa solfa: il canone italiano è fra i più bassi d’Europa. È falso. Quel gettito copre il 50% del finanziamento Rai, ed essendo l’altra metà procurata da introiti pubblicitari, facilissimi da raggiungere perché con spazi illimitati, venduti anche a prezzi stracciati, in reti rette da soldi pubblici, ne deriva che ciò che lo Stato, con le sue leggi, garantisce alla Rai è il doppio del canone. Che, a quel punto, non è proprio per niente fra i più bassi d’Europa, ma il più alto. Si obietta: molti lo evadono. Sono dei cattivoni, perché non si evade. Ma hanno ragione, perché è un prelievo iniquo e insensato. Apposta sostengo che va abolito, cancellato, incenerito. Non camuffato e illegittimamente travestito da imposta progressiva sui redditi, quale con questa riforma diviene. E la Rai, come fa a campare? Vende, si ridimensiona. Magari prova anche a fare il servizio pubblico, sempre che si trovi qualcuno in grado di stabilire cosa sia.

Renzi tassa più di Letta

Renzi tassa più di Letta

Franco Bechis – Libero

Al momento la differenza è di 10 miliardi di euro, cifra che è sicuramente destinata a cambiare quando finalmente sarà rivelata la relazione tecnica alla legge di stabilità 2015. Ma fino a quel documento – che non incide sui conti del 2014 – la differenza fra il governo di Matteo Renzi e quello di Enrico Letta è esattamente quella: 10 miliardi. E non è poco, perché si tratta di tasse. Con i suoi provvedimenti fino ad oggi il governo Renzi ha segnato nelle relazioni tecniche che li accompagnavano 13 miliardi e 414 milioni di euro di nuove entrate fiscali. Durante tutto il governo di Enrico Letta, con la sola esclusione delle clausole di salvaguardia future (che vengono contabilizzate solo quando scattano), le nuove entrate nette furono di 3 miliardi e 436,5 milioni di euro (anche in questo caso la fonte è nelle relazioni tecniche dei provvedimenti che accompagnavano disegni di legge e decreti).

Sarete sorpresi dal Renzi tassatore. Il premier in carica sostiene infatti di avere fatto la più grande operazione di alleggerimento della pressione fiscale nella storia di Italia. E si riferisce al suo bonus 80 euro e alla riduzione Irap per le imprese. Gli 80 euro sono effettivamente arrivati in busta paga. Ma tecnicamente quelli erogati nel 2014 non hanno toccato nemmeno di un decimale di punto la pressione fiscale prevista. Era un bonus, una sorta di elargizione da parte dell’esecutivo in carica proprio alla vigilia delle elezioni europee (che infatti hanno premiato Renzi e il suo Pd più o meno come al- l’epoca la scarpa donata ai napoletani prima del voto aveva premiato Achille Lauro e la dc dell’epoca). È stato contabilizzato in aumento della spesa pubblica fra i trasferimenti alle famiglie, e così è stato inserito anche nei provvedimenti di finanza pubblica del governo. Non è andato quindi a diminuire la pressione fiscale complessiva, come invece ha fatto (per cifre molto inferiori) lo sconto Irap alle imprese che ora verrà completamente riassorbito nei 5 miliardi del 2015 previsti dalla nuova legge di stabilità.

Il cosiddetto decreto sugli 80 euro (che comprendeva anche l’Irap) aveva invece in relazione tecnica 10,8 miliardi di maggiori entrate tributarie, altri 4,7 miliardi di maggiori entrate extratributarie e 7,2 miliardi di minori entrate tributarie. La variazione netta che si è portata dietro era di 8,3 miliardi di maggiori tasse. Tre di queste erano state conteggiate per l’aumento di sei punti dell’aliquota di tassazione sulle rendite finanziarie, che è passata dal primo luglio scorso dal 20 al 26 per cento. Al governo Renzi spetta la firma anche sul decreto che fa entrate in vigore la Tasi: è stato il suo primo provvedimento, e poco importa che sia conseguente alle previsioni della legge di stabilità precedente. In quel decreto veniva di fatto riassorbita l’Imu sulla prima casa che il governo Letta aveva cancellato nel 2013: si tratta di 3,7 miliardi di tasse in più sulle famiglie. Ma la cifra è indirettamente aumentata, perché il governo precedente aveva approvato un fondo da 500 milioni per il 2014 da girare ai Comuni finalizzato per legge alla concessione delle detrazioni prima casa e figli per le famiglie con redditi più bassi (per loro la Tasi rappresenta una stangata imprevìsta, perchè di fatto con le detrazioni prima l’Imu non la pagavano).

Come suo primo atto Renzi ha incrementato di 125 milioni di euro quel fondo per i Comuni, ma ha abrogato la finalizzazione.Via le detrazioni, è come fosse aumentata la pressione fiscale sulla prima casa per 625 milioni di euro. Nei mesi scorsi con altri due provvedimenti Renzi ha aumentato la tassazione dei tabacchi di 163 milioni di euro l’anno e – per finanziare l’Ace – le accise sulla benzina di 435,4 milioni di euro in più anni futuri (ma già decisi con legge). Altre piccole tasse messe vanno da quelle inserite nel decreto sulla cultura, al nuovo contributo unificato previsto per i pignoramenti, alle maggiori entrate contributive obbligatorie previste dal primo decreto sul jobs act.

Anche Letta non ha scherzato con le nuove tasse, ma è riuscito ben più del suo successore a equilibrarle con la cancellazione di altri tributi. Ha tolto l’Imu e inserito le detrazioni sulla Tasi (poi cancellate da Renzi). Nella sua legge di stabilità ha messo nuove entrate da 8,5 miliardi di euro (in parte sulle banche), e previsto cali di tasse per quasi 3 miliardi di euro al netto delle clausole di salvaguardia. In tutto 5,6 miliardi in più. Ma ha tolto tasse sulla prima casa e anche su alcuni immobili produttivi per quasi 4,5 miliardi di euro. Ha aumentato la tassazione sui giochi e concesso sgravi contributivi più o meno per la stessa cifra. Ha costretto le imprese ad anticipi di imposta anche consistenti per 655 milioni di euro. Si è trovato di fronte a una clausola di salvaguardia messa da Mario Monti sull’Iva. È riuscito a rimandarla di tre mesi con uno sgravio di 1,05 miliardi di euro. Non è riuscito a farlo per gli ultimi tre mesi dall’anno, con un aggravio identico. Sul 2013 il risultato netto è stato nullo.

LA SCHEDA

Sgravi e aggravi
A fronte di sgravi Irap concessi alle imprese pari a 4,1 miliardi di euro la legge di Stabilità ha cancellato di fatto tutti i benefici sulla medesima Imposta introdotti dal governo Letta: 1,9 miliardi.

Clausola capestro
Qualora in corso d’anno (2015) le previsioni contenute nella finanziaria non fossero rispettate scatterebbe la clausola di salvaguardia che farebbe scattare nuove tasse, sotto forma di Iva e accise. Ben 18 miliardi nel 2016, 24 nel 2017 e addirittura 28 l’anno successivo.

Tagli lineari
Sia sui ministeri sia sulle amministrazioni centrali viene operato un taglio che complessivamente vale 6,1 miliardi. Il meccanismo è quello del taglio lineare applicato dall’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti e tanto criticato.

Regioni spremute
Altri 4 miliardi di risparmi dovrebbero arrivare da «efficientamenti» della spesa nelle Regioni. In questo caso, addirittura, l’esecutivo non fissa neppure le linee guida degli interventi. La scelta spetterebbe ai governatori. Palazzo Chigi non ha tenuto conto nemmeno del lavoro svolto al riguardo dall’ex commissario alla spending review Cottarelli.

Le patrimoniali nascoste nella manovra

Le patrimoniali nascoste nella manovra

Oscar Giannino – Panorama

Il problema del fisco in Italia è che continua a dar ragione a Mark Twain. Lui diceva che c’è una sola differenza tra l’impagliatore e l’esattore pubblico: l’impagliatore si accontenta della vostra pelle. Purtroppo, continua a essere vero anche nella bozza di legge di stabilità varata dall’attuale governo, che pure ha il vanto di abbattere di 18 miliardi le entrate, di azzerare la componente lavoro dell’Irap, di aggiungere 1,9 miliardi di incentivi agli assumi a tempo determinato, mezzo miliardo di bonus bebè, confermare gli eco-incentivi e quelli alla ristrutturazione, e via continuando. Che cosa fa storcere il naso a un irriducibile liberale, allora? Parecchie cose. Una certa qual disinvoltura su numeri e saldi, per cominciare. E poi tre scelte di fondo.

Sui numeri è presto detto: se si dice che ci sotto meno entrate per 18 miliardi, quanto meno insieme bisognerebbe dire che ce ne sono di aggiuntive per 3 miliardi e mezzo, che diventano 4 e mezzo a dire il vero se ci aggiungiamo il prelievo straordinario annunciato sui giochi legali (al momento nessuno ci fa caso o quasi, ma per i conti delle aziende concessionarie è una botta clamorosa, visto che lo Stato da loro ha ricavato 8,4 miliardi in tasse nel 2013). Direte voi: non sottilizziamo. Mica vero. In altri tempi, assumere 3,8 miliardi di euro di incassi dalla lotta all’evasione come copertura ex ante di nuova spesa pubblica avrebbe fatto urlare allo scandalo assoluto. Si tratta di questioni di sostanza, di sana e prudente gestione della contabilità pubblica, non di sfumature. Ma le cose più dure da mandar giù sono altre: le tre scelte di fondo che ispirano la filosofia delle entrate della legge di stabilità.

La prima è la stangata sul risparmio previdenziale, venduta come «allineamento alle medie europee». Si passa dall’11,5 per cento di tassazione dei fondi di previdenza integrativa, al 20. Per le casse previdenziali professionali, l’aliquota sale dal 20 al 26 per cento. L’allineamento all’Europa, già utilizzato per elevare al 26 l’aliquota sui conti correnti mentre i titoli di Stato restano tassati al 12,5, non c’entra assolutamente nulla. L’idea vera è quella di scoraggiare gli italiani al risparmio, perché occorre incentivare i consumi. È la tenaglia fiscale che risponde alla stessa filosofia del bonus di 80 euro sul versatile della spesa, confermato per il 2015.

Ma questa idea è profondamente sbagliata. Per almeno due ragioni. La prima è che viviamo in un Paese dove la previdenza pubblica, malgrado il drastico innalzamento dell’età pensionabile disposto dalla legge Fornero, pesa per il 16 per cento del Pil cioè 3 punti più della media europea e oltre 4 rispetto alla media Ocse. E questo bel peso si regge solo grazie a oltre 50 miliardi di euro l’anno che vengono dalla fiscalità generale, rispetto ai contributi raccolti, che sono l’unica fonte per pagare i trattamenti visto che il sistema resta a ripartizione. In un sistema tanto squilibrato, dopo anni trascorsi a tentare di convincere gli italiani a metter da parte quote crescenti del proprio salario per una pensione integrativa che si aggiunga a quella molto più magra di un tempo che maturerà col sistema non più agganciato alle ultime retribuzioni, diamo oggi agli italiani un messaggio totalmente opposto. Spendete cari italiani, perché sulla pensione integrativa lo Stato allunga le mani. Come le allunga sul Tfr sia che decidiate di ritirarlo in busta, visto che vi alzerà il prelievo Irpef complessivo, sia che lo facciate restare accantonato, visto che l’aliquota sale anche in quel caso di 6 punti rispetto a oggi.

Dicono che sia un’impostazione keynesiana. Non è vero per nulla. Dimenticano che per il buon economista invocato dai fautori di Stato e deficit la leva essenziale per uscire dalla crisi sono gli investimenti: e colpire il risparmio previdenziale significa proprio disboscare le masse finanziarie che, accantonate con versamenti rateali, intanto vengono impiegate sui mercati acquistando titoli privati e pubblici, e a sostegno delle imprese.

Ma la cosiddetta stretta sulle rendite finanziarie non è solo sbagliata economicamente, è anche una vera e propria trappola verbale cara alla sinistra. Oggi tornata platealmente di moda, citando a raffica Thomas Piketty e il suo tomo che invoca tasse patrimoniali à gogo. L’aliquota del 26 per cento sul conto corrente, che con il concomitante bollo titoli patrimoniale può arrivare per interesse composto anche a una tassa superiore al 40 per cento del rendimento maturato, colpisce il ceto medio e basso, non certo magnati e industriali. La stessa cosa avviene con lo stellare aumento della tassazione sugli immobili, ascesa in 4 anni da poco più di 9 miliardi annui a, ci scommetto, oltre 28 miliardi in questo 2014 (e occhio alla local tax semplificata annunciata dal governo, perché nelle bozze fino a due settimane fa si parlava di un plafond «contenuto»›, si fa per dire, in 30 miliardi annui di entrata, cioè un ulteriore aumento nel 2015).

E oggi si aggiunge un terzo pilastro: la sberla al risparmio previdenziale. Paragonare risparmi, pensioni e case alla manomorta dei latifondisti da colpire nel Settecento illuminista è un trucco che solo a dei malati di mente può risultare accettabile. Eppure così va il mondo, in un’Italia in cui parole e fatti coincidono in sempre minor misura.

Infine. Ancora una volta nella legge di stabilità lo Stato gioca da baro con la retroattività degli aumenti fiscali. Lo sgravio Irap annunciato per 5 miliardi nel 2015 in realtà vale poco più della metà, perché contestualmente si rialza al 3,9 per cento l’aliquota e lo si fa retroattivamente, cioè a partire dal primo gennaio 2014 quando alle imprese si era detto che quest’anno pagavano un 10 per cento in meno, sgravio che ovviamente scompare. Idem dicasi per gli aggravi di aliquota sul risparmio previdenziale. Anche quelli retroattivi dal 2014. Con tanti saluti alla delega fiscale innovativa, allo Statuto del contribuente, all’impegno di retrocedere al contribuente onesto almeno parte dei proventi della lotta all’evasione invece usati per coprire nuova spesa.

Peccato. Peccato continuare a prevedere clausole di garanzie con ulteriori aumenti fiscali nel triennio a venire: se i governi toppano sui conti dovrebbe bloccarsi automaticamente la spesa come negli Usa, non aumentare automaticamente le entrate. Peccato che le imprese ancora non saldate dallo Stato non siano ammesse a compensazione fiscale immediata. Peccato non far pagare all’Agenzia delle entrate un 15 per cento del petitum al contribuente come ristoro del danno e tempo perso, se è questi a vincere. Niente di tutto questo. Speriamo di essere ancora in grado di pagare qualcosa, quando il fisco italiano deciderà di cambiare strada e di non essere un impagliatore di cadaveri.

Radiografia di bonus, sconti e sgravi. La trappola delle tasse che verranno

Radiografia di bonus, sconti e sgravi. La trappola delle tasse che verranno

Mario Sensini – Corriere della Sera

Una manovra tutta puntata al rilancio della crescita, con un cospicuo taglio delle tasse, forti incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato e molte riforme, che segna una svolta espansiva nella politica economica, finora restrittiva. Ma che non è povera di rischi, legati all’efficacia delle misure e ai giudizi della Ue, ed impliciti nel mantenere il deficit ancora a lungo appena un pelo sotto il tetto massimo del 3% del prodotto interno lordo. Per la prima volta dopo tanti anni, è una legge di bilancio che dà più di quanto non toglie. Ma solo nell’immediato, perché lascia in eredità al futuro molte più tasse di quante non ne elimini oggi: 18 miliardi nel 2016, 24 nel 2017, 28 nel 2018. Almeno secondo quanto prevede il testo non ancora vidimato dalla Ragioneria generale e non ancora arrivato in Parlamento.

La riduzione delle tasse
Il bonus di 80 euro, dal quale si attende un rilancio dei consumi che finora non c’è stato, viene confermato, ma la platea non viene allargata. Restano, dunque, i problemi legati all’equità della misura, che non riguarda ad esempio gli incapienti o i pensionati (il che rende anche problematica la sua trasformazione in detrazione fiscale, a rischio costituzionale), e che ha qualche effetto perverso, come quello di penalizzare le famiglie povere monoreddito. Oltre al bonus per le famiglie arriva quello per i bebè, con un limite di reddito molto alto per poterne beneficiare, 90 mila euro, che fa discutere.

Per le imprese ci sono forti incentivi alle assunzioni. Non si pagherà più l’Irap sulla componente lavoro, ma vengono annullate le riduzioni precedenti dell’aliquota. Con effetto, sembra di capire, già sull’anno di imposta corrente, il 2014. Lo sgravio, così, vale 4 miliardi, e premia soprattutto le imprese ad alta intensità di manodopera. Accanto c’è la decontribuzione per i nuovi assunti a tempo indeterminato, ma non c’è molta chiarezza sui costi. Un miliardo, aveva detto Renzi, forse più si dice oggi. Lo stanziamento, in ogni caso, coprirebbe 850 mila nuovi contratti, più o meno metà di quelli che si fanno di solito in un anno.

Per le partite Iva viene esteso il cosiddetto regime dei minimi ad una platea più vasta, ma entro limiti di reddito più bassi e con l’aliquota passata dal 5 al 15%. La legge di Stabilità, poi, stanzia 1,5 miliardi per i nuovi ammortizzatori sociali, anche se per la Cig in deroga, nel 2013, si è speso quasi il doppio. E prevede l’opzione per il trasferimento del Tfr in busta paga. Soldi subito, anche a caro prezzo perché in molti casi si pagherebbero tasse più alte, e una pensione di scorta più leggera domani.

Tagli e nuove entrate
Finché si tratta di dare, i problemi sono relativi. Molto meno quando si tratta di recuperare le risorse. La manovra prevede 6,1 miliardi di tagli alle amministrazioni centrali dello Stato, di cui 4 dai ministeri e 2 dalla riduzione delle cosiddette spese «a politiche invariate», dalle missioni di pace al 5 per mille, che ora vengono coperte strutturalmente. Ma spuntate. I ministeri dovrebbero approfittare della centralizzazione degli acquisti, ma 4 miliardi sono comunque una cifra enorme. Tagliare usando discrezionalità è stato sempre difficile e lo è ancor di più con il bilancio ridotto all’osso: il rischio, di nuovo, è che per ottenere il risultato si ripiombi sui tagli lineari, molti dei quali creano un rimbalzo della spesa negli anni successivi. I tagli agli enti locali sono egualmente pesanti (4 miliardi per le Regioni, 2,1 per i Comuni, 1 per le Province), ma con il Patto di Stabilità interno il rischio di non portarli a casa è basso. Come, d’altra parte, è elevato quello di un parallelo aumento delle tasse locali. Con sindaci e governatori non sarà facile arrivare a un’intesa. C’è la possibilità che la sforbiciata finisca per colpire anche la spesa sanitaria.

La manovra prevede poi quasi 4 miliardi di recupero dall’evasione. È un punto critico, perché in passato queste cifre non venivano messe in bilancio come incasso sicuro, o a copertura di spese certe. Alcune misure danno un maggior gettito automatico, come il «reverse charge» sull’Iva (900 milioni), o il prelievo delle banche, a titolo di acconto, sui bonifici relativi alle fatture per le ristrutturazioni edilizie ( altri 900). Meno sicuro è il gettito atteso da altre misure, dal nuovo ravvedimento operoso alla stretta sugli «split payments», cioè i pagamenti frazionati per ridurre l’imposta. Tanto che si affaccia la possibilità di sostituire queste coperture col classico aumento delle accise.

Le incognite sul futuro
Per coprire le spese e per correggere il deficit, dopo un 2015 di pausa nel percorso di risanamento, la manovra prevede fin da ora un forte aumento dell’Iva e, ancora una volta, delle accise. E sconta tuttora una riduzione molto forte delle detrazioni Irpef. Nel 2016 l’aliquota Iva del 10% passerebbe al 12, poi al 13% nel 2017, mentre quella del 22 salirebbe prima al 24, poi al 25 e al 25,5% nel 2018. Nello stesso tempo si prevede un taglio delle detrazioni Irpef per 4 miliardi nel 2016, e 7 negli anni successivi. La manovra, per ora, ha solo scongiurato una parte del taglio degli sconti fiscali, quello che doveva scattare già quest’anno, poi rinviato al 2015, da 3 miliardi. Sul futuro, dunque, pende un fortissimo aumento delle imposte, quasi 20 miliardi nel 2015, e 30 nel 2018. Misure che potranno essere sempre sostituite da altri provvedimenti, come i tagli di spesa. Anche se a blindare la manovra, ora, ci sono più tasse di quelle che si riducono.

L’origine della crisi è Mani pulite: troppe norme uccidono l’impresa

L’origine della crisi è Mani pulite: troppe norme uccidono l’impresa

Giorgio Oldoini – Libero

Nessuno ha il coraggio di ammettere che la perdita di competitività del Paese ha le sue radici nei primi anni Novanta. Da allora, tutte le leggi sono state concepite al solo scopo di «reprimere» il malaffare economico e tutti i cittadini sono diventati presunti colpevoli. Con un crescendo rossiniano inarrestabile: quando ci si accorgeva che nulla stava cambiando, si so- no aumentati i reati e inasprite le pene. I consigli di amministrazione delle società sono occupati da specialisti di diritto penale, mentre chi deve produrre ricchezza, è passato in seconda fila. Nessuna persona onesta e capace ha interesse a occuparsi della cosa pubblica, considerata la continua produzione di dossier e gli arresti facili. In questo modo abbiamo distrutto ciò che restava dell’autonomia individuale, il fattore di sviluppo più spontaneo, originale e utile a disposizione dei governi.

Cari «difensori dell’etica» rinchiusi in polverose stanze, nulla si muove senza l’iniziativa degli imprenditori e lo spirito d’iniziativa è un fattore altamente personale e dinamico, che si basa sugli «incentivi». Il più grande incentivo all’economia è convincere masse d’individui a lasciare il posto fisso e diventare imprenditori. Sarebbe questa l’azione opposta a quella svolta dai governi negli ultimi trent’anni. Occorrono incentivi potenti perché gli individui si decidano ad abbandonare posizioni sicure e per indurre il risparmiatore a rischiare i propri capitali nello sfruttamento di nuovi prodotti.

La prima rivoluzione è di natura culturale: il profitto d’impresa rappresenta un «valore», al pari del lavoro, perché senza il primo non c’è il secondo. La vera sicurezza sociale esiste solo con un alto livello di produzione e un’economia di espansione. Per molti italiani sicurezza significa certezza di conseguire un salario senza troppi sacrifici. Si tratta di una pericolosa illusione perché il mondo è in continuo mutamento e la sicurezza per certi gruppi accresce l’incertezza degli altri. Perché un individuo dotato di normale buon senso s’impegni nella vita d’impresa, è necessario che le possibilità di guadagno superino quelle di perdita. Queste prospettive devono essere chiare e attraenti in modo da stimolare le energie nuove: certezza del diritto, riduzione del costo dello stato sociale e della fiscalità allargata, eliminazione delle burocrazie oppressive, rivoluzione copernicana nelle scuole.

In una democrazia, la principale funzione dell’istruzione è quella d’unire piuttosto che dividere e di diffondere la tolleranza e il mutuo rispetto. È necessario insegnare ai giovanissimi alcuni principi fondamentali dell’economia. Bisogna dimostrare la relazione tra produzione e consumo e che gli elevati salari dipendono dalla produttività dei singoli lavoratori. Si può spiegare in che modo i vari fattori della produzione sono interdipendenti e che i problemi economici del Paese non consistono nel conflitto di classe. Più difficile sarà impedire a un magistrato di motivare una sentenza in funzione dei grandi «principi», costringendolo al semplice richiamo alla legge. Per questo bisognerà attendere un cambio generazionale e un mutamento dell’organo di autogoverno, che punisca i protagonismi diffusi e la tendenza alla giurisprudenza «creativa».

Bisogna insegnare ai giovani che il peggior governo è sempre stato quello del burocrate: esso complica a furia di teorizzare anche le cose più semplici, pensa in termini di regolamenti e di leggi, desidera costruire una socie- tà che abbia una regolarità geometrica e non si rende conto che in questo modo distrugge la libertà esistente e l’attività dei singoli. L’uomo semplice che govema un’impresa, che conosce per esperienza professionale il piacere e l’efficacia del lavoro concepito e compiuto in libertà, è meno pericoloso quando è al potere perché non c’è bisogno di dirgli che la legge è una cosa pericolosa, che può distruggerlo invece di aiutarlo.