il giornale

Si impenna la spesa pubblica: in un anno 25 miliardi in più

Si impenna la spesa pubblica: in un anno 25 miliardi in più

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Monti, Letta e Renzi ha fatto flop. La spending review è stato un completo fallimento. È quanto certifica il centro studi di Unimpresa analizzando i dati della Banca d’Italia sul fabbisogno dello Stato nei primi cinque mesi del 2014. Se, infatti, ci si limita ai dati del Tesoro, si nota solamente il miglioramento dello sbilancio dei conti negli ultimi 12 mesi (il saldo era migliorato di 8 miliardi a maggio, valore ridottosi a un miliardo a giugno). Se, invece, si analizzano i dati di Bankitalia si nota un andamento alquanto preoccupante delle finanze pubbliche. Soprattutto perché Palazzo Koch analizza le voci “spesa corrente” senza tenere conto delle uscite degli enti territoriali (Comuni, Province, Regioni) né di quelle per gli interessi sul debito pubblico. La spesa dello Stato nel periodo gennaio-maggio 2014 si è pertanto attesta a 206,7 miliardi di euro, circa 25 miliardi in più (+13,6%) rispetto ai 181,9 miliardi dell’analogo periodo dell’anno scorso. A fronte di questo incremento delle uscite non ha fatto seguito un coerente incremento delle entrate, aumentate dello 0,1% a 157,8 miliardi.

Premesso che tra le rilevazioni di Bankitalia e quelle del Tesoro vi sono sempre delle discrepanze legate sia al ritardo fisiologico nel disporre di alcuni dati sia alle differenti metodologie utilizzate, non si può non restare sorpresi dall’andamento fuori controllo della spesa statale. Nel 2014, infatti, il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione non sembra aver fatto particolari passi in avanti. Il monitoraggio di via XX Settembre si è fermato alla fine dello scorso marzo, quindi è difficile pensare che i 22 miliardi stanziati per il 2014 siano stati già erogati (maggiori prelievi dai conti di tesoreria sono stati effettuati a giugno e, quindi, non computati in questa analisi). Analogamente, il bonus da 80 euro il cui costo è di circa 900 milioni al mese è partito alla fine di maggio, quindi la sua incidenza è minima. Tenuto conto che gli sgravi fiscali previsti dalla legge di Stabilità si iscrivono come minori entrate, ne consegue che quei 25 miliardi in più sono per la maggior parte spesa corrente.

Tra il 2012 e il 2013, prosegue Unimpresa, era già stata registrata una analoga situazione. L’anno scorso le uscite complessive dalle casse dello Stato sono state pari a 548,6 miliardi di euro, ben 38,5 miliardi in più (+7,56%) rispetto ai 510,09 miliardi totali del 2012. Nel 2013 le entrate tributarie sono state pari a 464,8 miliardi, in salita di 11,8 miliardi (+2,64%) rispetto ai 452,9 miliardi dell’anno precedente. L’aumento delle tasse, come si vede, non ha prodotto gli effetti sperati perché, con un’economia in contrazione, l’aumento della pressione fiscale non produce maggior gettito. Al contrario, lo Stato ha continuato a spendere e spandere.

Lecito, perciò, domandarsi che fine abbia fatto la spending review. Premesso che il lavoro di Carlo Cottarelli, iniziato a ottobre, sta giungendo solo ora a maturazione (primo step: sfoltire la giungle delle municipalizzate che costa 26 miliardi), c’è da registrare l’inefficacia dei governi Monti e Letta e la scarsa attenzione da parte del loro successore Matteo Renzi. Il presidente di Unimpresa Dario Longobardi però si scaglia contro Mister spending: «Il suo mandato è un bluff perché non ha portato a nessun risultato, mentre la politica del rigore è insufficiente: occorre abbassare la pressione fiscale sulle Pmi».

Deficit, tasse e spending review: Padoan risponda a 10 domande

Deficit, tasse e spending review: Padoan risponda a 10 domande

Renato Brunetta – Il Giornale

Le riforme costituzionali – Senato, Legge elettorale, Titolo V della Costituzione – sono indubbiamente un momento centrale della legislatura. Ma non è su questo terreno che si misureranno i successi o gli insuccessi governativi. Sarà l’economia il vero banco di prova. Nella risposta ad una crisi profonda, come mai lo è stata, si gioca sia il futuro di Matteo Renzi sia quello del suo ministro dell’Economia e delle finanze, Pier Carlo Padoan. Ma soprattutto quello dell’Italia. La nostra opposizione alle misure finora annunciate e, per la verità scarsamente attuate, si basa su queste considerazioni. Forza Italia non può essere travolta in un eventuale fallimento, per la semplice ragione di non avervi contribuito. Abbiamo cercato in tutti i modi di lanciare responsabili appelli ai naviganti. Conoscendo le difficoltà oggettive che frenano ogni slancio lungo il sentiero della ripresa, avevamo invitato alla prudenza. E suggerito vie alternative. A partire da un maggiore impegno programmatico per il decreto Poletti del mercato del lavoro e sul cosiddetto Jobs Act.

C’era una logica nel nostro modo di operare. All’appuntamento europeo, dopo le tante critiche subite e l’onta di essere considerati «vigilati speciali» al pari della Croazia e della Slovenia, dovevamo presentarci con risultati concreti. Nessun compito a casa, per carità. Ma riforme imprescindibili se si vuol ritrovare il senso di una possibile prospettiva. Che poi coincidano in parte con le raccomandazioni della Commissione europea è solo un dato di realtà. Operando nel senso indicato, saremmo stati più liberi di poter esprimere tutte le nostre critiche alla politica economica tedesca. E reclamare il rispetto dei Trattati, che non possono valere solo per taluni, ma devono essere impegnativi per tutti. Compresi quei Paesi il cui eccesso di surplus nelle partite correnti della bilancia dei pagamenti equivale a violazione. Si poteva reclamare una politica reflazionistica, basata sull’aumento della domanda interna di quel Paese, per ridurre il surplus commerciale e quindi contenere la rivalutazione dell’euro. Oppure creare nuove strutture finanziarie – si pensi agli eurobond – per il rilancio degli investimenti o la messa in comune almeno di una parte del debito sovrano.
Dicevamo: c’era una logica in questo nostro modo d’operare. Nasceva dall’osservazione attenta dei dati drammatici della situazione italiana: una produzione industriale che continua a regredire, un tasso di crescita complessivo ben al di sotto delle rosee e comunque minimaliste previsioni governative, una disoccupazione che ricorda la grande crisi del 1929; un debito pubblico che continua a crescere a ritmi forsennati; una finanza pubblica fuori linea; una povertà sempre maggiore. E potremmo continuare. Oggi il governo si trova di fronte la drammatica prospettiva di un’indispensabile manovra correttiva. E che rischia di complicare una situazione già estremamente difficile. Se questo avverrà, sarà l’intero castello di carte a venir giù. Rimarrà solo la testimonianza di un’opposizione – la nostra – che non ha mai avuto paura di sporcarsi le mani indicando vie alternative, proposte concrete per evitare ritardi ed errori, dimostrando la più totale e completa disponibilità al confronto. Un’occasione che il governo ha clamorosamente mancato, ma che consentirà ad una forza politica come la nostra di ripartire. Nell’interesse profondo dell’Italia.
Per questo ancora oggi poniamo al ministro dell’Economia e delle finanze, Pier Carlo Padoan, 10 domande alle quali dovrà rispondere in Parlamento.

1. Quanto peserà in termini di deficit la crescita italiana più vicina allo zero che non allo 0,8% delle previsioni?

2. Con ogni probabilità l’Ue non accetterà la proposta dell’Italia di posporre al 2016 il pareggio di bilancio. Come verranno corretti i conti pubblici?

3. Come e quando il governo intende far fronte alle raccomandazioni della Commissione europea?

4. Il governo intende render strutturale il bonus di 80 euro ed estenderlo ai pensionati, ai lavoratori autonomi e ai cosiddetti “incapienti”. Costo: almeno 15 miliardi. Con quali coperture?

5. Nel tendenziale di finanza pubblica sono incorporati tagli da realizzare attraverso la spending review. Come si recupereranno le risorse che mancano all’appello?

6. Debiti della Pa. Per Banca d’Italia ci sono ancora 75 miliardi da pagare. Come farà il governo a saldare tutto?

7. Il debito pubblico italiano già a maggio è superiore di 25 miliardi rispetto alle previsioni del Def. Come si intende rimediare?

8. Nei primi quattro mesi del 2014 le entrate fiscali sono aumentate dell’1,4% contro un’ipotesi di crescita del 3,1%. Il buco virtuale è d circa 8 miliardi. Come colmarlo?

9. Nel tendenziale di finanza pubblica sono previste privatizzazioni per 10 miliardi l’anno per il prossimo triennio. I tentativi finora portati avanti si sono dimostrati un flop. Come recuperare il tempo perduto?

10. Il presidente del Consiglio ha più volte escluso l’ipotesi di una manovra correttiva. Alla luce dei dati forniti, ci può indicare come avverrà il miracolo?

La flessibilità serve a poco: bisogna abbassare le tasse

La flessibilità serve a poco: bisogna abbassare le tasse

Renato Brunetta – Il Giornale

#matteohurryup: chi di ashtag ferisce di ashtag perisce. L’Economist ha elogiato negli ultimi giorni l’abilità di Matteo Renzi nell’uso dei social network. Ma non basta per essere un buon presidente del Consiglio. L’analisi dei primi 4 mesi di governo, infatti, è feroce: «A parole, Renzi è favorevole a ampie riforme e mercati più liberi. L’Italia deve cambiare per cambiare l’Europa, dice. Ma la sua promessa di una riforma al mese non è andata in porto. Ora Renzi dice di avere bisogno di 1000 giorni per fare la differenza, non più 100. Renzi è giovane ed energico, ma su di lui pesano anche inesperienza, improvvisazione e momenti di vacuità. Questa settimana ha pubblicato su Twitter una foto della sua scrivania che voleva dimostrare il suo duro lavoro, ma alcuni vi hanno visto solo un ammasso disorganizzato di carta e penne». E ancora: «L’attenzione sulle riforme istituzionali sta distraendo Matteo Renzi dalle riforme molto più urgenti sull’economia in stagnazione e la burocrazia asfissiante. Centinaia di leggi e decreti sono già stati adottati senza essere stati attuati. Il successo di Renzi in termini di riforme istituzionali non conterà nulla se non riuscirà a resuscitare l’economia. Ma lui spende troppo tempo a fare lobby a Bruxelles per più flessibilità sulle regole di bilancio, e troppo poco a parlare di più flessibilità nel mercato del lavoro e dei prodotti in Italia. Invece di chiedere esenzioni per alcune categorie di spesa, come gli investimenti nella tecnologia, dovrebbe fare di più per tagliare gli sprechi». Poi apprendiamo dai giornali nazionali che «È il numero magico del Pil a tormentare Renzi, non quello dei 2/3 in Parlamento sulla modifica del bicameralismo. L’enfasi usata per commentare le tensioni sulle riforme istituzionali è stata un modo per coprire le difficoltà sui conti pubblici e allentare la presa di quanti teorizzano la necessità di una manovra correttiva entro l’anno»; che «Sarà l’economia a determinare la tenuta o la caduta della popolarità del presidente del Consiglio». E, dulcis in fundo, che il presidente del Consiglio ha un suo libro preferito, sempre sottomano, un “livre de chevet”: il riassunto del bilancio dello Stato.

Insomma, Renzi comincia a rendersi conto che la vera partita si gioca sul campo dell’economia, e, oltre a definire la strategia di politica economica per i prossimi anni, deve porre rimedio alle misure in deficit varate dall’inizio del suo governo a oggi. Una per tutte: gli 80 euro. I risultati della Spending review tardano ad arrivare; l’Ecofin ha bocciato la richiesta di rinvio di un anno del pareggio di bilancio, dal 2015 al 2016, e ha chiesto all’Italia «sforzi aggiuntivi» per rispettare il Patto di Stabilità e crescita. La situazione non è per niente buona. Fa bene il presidente del Consiglio a svegliarsi alle 5 del mattino, sabato incluso, per cercare una soluzione. Anche perché tutto quanto sopra assume una valenza ancora maggiore in conseguenza della circostanza per cui dal 1° luglio e fino a dicembre l’Italia ha l’onore e l’onere della presidenza di turno del semestre europeo.

#matteononpuoisbagliare

In questo contesto, inutile insistere con le richieste di flessibilità. Si facciano le riforme in Europa e in Italia e la Germania reflazioni. La flessibilità ne sarà la diretta conseguenza. Senza neanche bisogno di chiederla. È nelle cose. Ecco la nostra soluzione per “superare” la soglia del 3% rimanendo europeisti. L’Italia non come eccezione, ma come strategia. Dicevamo: reflazione. Vale a dire aumento della domanda interna, quindi dei consumi, degli investimenti, dei salari, delle importazioni e, di conseguenza, della crescita, per il proprio paese e per gli altri paesi. È questa la parola d’ordine che deve segnare il cambio di passo nella politica economica europea. La Germania deve reflazionare per cause di forza maggiore, cioè per rispondere alle segnalazioni della Commissione europea nei suoi confronti a causa dell’eccessivo surplus della bilancia dei pagamenti (netta prevalenza delle esportazioni sulle importazioni). Gli altri paesi devono farlo per cambiare la politica economica germano-centrica dell’austerità e del rigore cieco ed imboccare la strada della ripresa e dello sviluppo, tanto al proprio interno quanto a livello di intera eurozona (conseguenza della crescita in ogni singolo Stato). Se tutto ciò avverrà a livello europeo, e non di singolo Stato, le risorse necessarie per l’avvio di riforme volte a favorire la competitività di ciascun “sistema paese” potrebbero non rientrare nel calcolo del rapporto deficit/Pil ai fini del rispetto del vincolo del 3% e cadere nell’alveo dei cosiddetti “fattori rilevanti” per quanto riguarda i piani di rientro definiti dalla Commissione europea per gli Stati che superano la soglia del 60% nel rapporto debito/Pil. Concretamente, ciascun paese definisce, sulla base delle proprie caratteristiche e specificità, le riforme da implementare al proprio interno, per 1-2 punti di Pil, con relative scadenze temporali; ciascun paese adotta, poi, simultaneamente le riforme definite con la Commissione europea; e beneficia, quindi, degli effetti positivi tanto delle proprie riforme, quanto di quelle adottate dagli altri Stati, attraverso l’aumento delle esportazioni. Risultato: ogni singolo Stato tornerà a crescere, con regole nuove, moderne, competitive; l’intera eurozona tornerà a crescere, con regole nuove, moderne, competitive. Un gioco a somma positiva. Per tutti.

#matteoattentoalbund

Mentre la politica italiana discute, si dilania e si spacca sulle riforme istituzionali, gli avvertimenti dei mercati diventano sempre più frequenti e più pesanti. Borse giù e spread su. Almeno 5 i fattori: la crisi del Banco Espirito Santo scopre i punti deboli del sistema bancario portoghese; in Bulgaria è corsa agli sportelli della Banca Centrale Commerciale e della First Investment Bank; il bollettino della Bce prevede «Una ripresa molto graduale in Europa nel secondo trimestre 2014 e rischio di revisioni a ribasso delle stime in tutti i paesi dell’eurozona»; i dati macroeconomici relativi all’Italia sono disarmanti e, per dirla con il Centro Studi Confindustria: «Si riducono le possibilità che la chiusura del 2014 rispetti le previsioni del governo di un Pil in crescita dello 0,8%» (per la cronaca: per il governo nel 2014 sarà dello 0,8%; per la Commissione europea dello 0,6%; per l’Ocse dello 0,5%; per Confindustria dello 0,2%. Se chiudiamo a 0 siamo pure fortunati); la Federal Reserve ha annunciato per dopo l’estate la fine del Quantitative easing. Evento che i mercati hanno già cominciato a scontare.

Cos’altro deve succedere per far suonare l’allarme in Europa? Stiamo raccogliendo oggi i frutti amari delle politiche economiche sbagliate imposte ai paesi dell’Eurozona dalla Germania di Angela Merkel negli ultimi 5 anni. E le economie nazionali non sono pronte per affrontare un altro ciclo di speculazione finanziaria e di crisi. L’unico Stato che riesce a trarre vantaggio da questa situazione catastrofica è, ancora una volta, quello tedesco, che vede i tassi di interesse sui Bund tornare ai livelli minimi dell’estate del 2012, intorno allo zero. È di fatto ricominciata la corsa ai titoli del debito pubblico tedesco, considerati bene rifugio. Non è un buon segnale: sappiamo tutti come è andata a finire 2 anni fa. Che fare, allora, perché la storia non si ripeta? Innanzitutto agire tempestivamente. A livello europeo: 1) La Banca Centrale Europea deve cambiare il suo Statuto per poter attuare una politica monetaria più espansiva. 2) Le altre istituzioni europee (Consiglio, Commissione e Eurogruppo), anche in occasione del rinnovo dei propri rappresentanti: portino a termine le quattro unioni (bancaria, politica, economica e di bilancio); avviino un processo di mutualizzazione del debito pubblico europeo attraverso l’emissione di Eurobond/Union Bond; stimolino, come abbiamo detto, tutti gli Stati membri a un processo di riforme strutturali, dei cui effetti positivi beneficiano non solo i singoli Stati al loro interno, ma l’Eurozona nel suo complesso; in particolare, chiedano alla Germania di reflazionare, vale a dire aumentare la domanda interna, quindi i consumi, gli investimenti, i salari, le importazioni e, di conseguenza, la crescita, per il proprio paese e per gli altri paesi. 3) La Banca europea degli investimenti deve essere ricapitalizzata per l’emissione di Project bond finalizzati a finanziare investimenti specifici in ricerca e infrastrutture.

D’altro canto, in Italia serve: 1) una vera riforma fiscale che preveda, per esempio, una aliquota unica per tutti i contribuenti, semplificando il sistema, riducendo la pressione fiscale e, allo stesso tempo, aumentando il gettito per lo Stato attraverso il recupero dell’evasione; 2) la riduzione delle tasse sulla casa che, triplicate nel 2014 rispetto al 2011 hanno causato il crollo del mercato immobiliare e di un settore, quello edile, fondamentale per l’economia; 3) una vera riforma del mercato del lavoro, che aumenti la produttività del lavoro e di tutti i fattori produttivi, favorendo la competitività del “sistema Italia”. Senza crescita e con il rischio di una esplosione estiva della crisi, inutile insistere con l’Europa per avere flessibilità per l’Italia, che tra l’altro non è credibile in questa richiesta perché non riesce a usare neanche i margini che le sono già stati riconosciuti (es. per il pagamento dei debiti della Pa, per il contrasto alla disoccupazione giovanile e come fondi

strutturali). La strada da seguire è un’altra. L’ha indicata il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi: «Ci vuole una governance europea per le riforme strutturali». In questo articolo abbiamo illustrato le nostre proposte. #matteofatteneunaragione.

Burocrazia ammazza imprese: 12mila euro l’anno in scartoffie

Burocrazia ammazza imprese: 12mila euro l’anno in scartoffie

Fabrizio Ravoni – Il Giornale

Un mese di lavoro per correre dietro alle scartoffie. Per rispettare gli impegni burocratici e fiscali, una piccola e media impresa dedica 30 giorni lavorativi all’anno. Ed una spesa media che oscilla fra i 7mila e i 12mila euro. E chi paga di più sono proprio le aziende di più piccole dimensioni: quelle sotto i 50 dipendenti. Per questo tipo di aziende il costo è cresciuto del 19% negli ultimi 7 anni. Per quelle con meno di 250 occupati la spesa stimata è di 7mila euro. Nel complesso, la “mano morta” della burocrazia comporta un costo complessivo a carico delle piccole e medie imprese calcolato in 31 miliardi di euro. Rispetto al 2007 la crescita del tempo dedicato a sbrigare il carico burocratico è aumentato del 26,4%. Le stime vengono dalla Cgia di Mestre. «Si pensi – spiega Giuseppe Bortolussi – che, secondo l’indagine annuale Promo Pa Fondazione, l’81% delle imprese con meno di 50 addetti è costretto a rincorrere a consulenti esterni per fronteggiare questo nemico invisibile: ovvero la cattiva burocrazia». Il 70% delle imprese deve ricorrere a professionalità esterne ad integrazione degli uffici amministrativi, e l’11% affida a terzi tutte le incombenze. «È evidente – commenta il presidente della Cgia di Mestre – che se non si mette immediatamente mano a quel labirinto di leggi, decreti e circolari varie che rendono la vita impossibile a milioni di piccoli imprenditori, corriamo il pericolo di soffocare la parte più importante della nostra economia».

La burocrazia, comunque, non colpisce soltanto le aziende ma anche i cittadini che, quotidianamente devono affrontare la fila allo sportello. Sempre la Cgia di Mestre segnala che negli ultimi 10 anni il numero di persone che attendono più di 20 minuti agli sportelli dell’ufficio anagrafe è cresciuto del 43,7%. Infatti, nel 2003 12,6 persone su 100 lamentavano tempi di attesa superiori ai 20 minuti: 10 anni dopo la coda all’anagrafe è arrivata a durare più di 20 minuti per ben 18,1 persone su 100. La soglia dei venti minuti, poi, colpisce anche il pianeta della Sanità. Se nel 2003 ben 41 persone su 100 avevano riscontrato un’attesa allo sportello dell’Asl superiore ai venti minuti, dieci anni dopo la fila si è idealmente “allungata” di 8 persone. In altre persone, nel 2013 ben 49,7 persone su 100 hanno denunciato di aver atteso più di 20 minuti di fronte agli sportelli delle aziende sanitarie locali. Condizione drammatica nel Centro Sud. La Calabria guida la graduatoria dei cittadini che restano più tempo davanti a uno sportello della Asl. Il 70% dichiara di aver atteso oltre i 20 minuti. Così come il 66,6 per cento dei siciliani e il 62,5 per cento degli abitanti del Lazio. Per le code all’anagrafe, invece, la graduatoria si ribalta. E i laziali guidano la non certo invidiabile classifica. Il 38,5% dichiara di aver atteso più di 20 minuti per un certificato. Seguono i toscani con il 22,3%. Al terzo posto i sardi. Negli ultimi dieci anni la situazione, ancorché migliorare (grazie a una più diffusa informatizzazione della pubblica amministrazione) è peggiorata. Tant’é che la percentuale di chi segnala lunghe file allo sportello è più che raddoppiata (+112;4%). «I cittadini e le piccole imprese per ottenere un certificato sono ormai sottoposti ad una vera e propria Via Crucis» commenta Bortolussi. «Per colpa – sottolinea – di leggi, decreti e circolari scriteriate e spesso in contraddizioni tra loro è aumentata la burocrazia; complicando la vita dei cittadini e, in molti casi, anche quella dei dipendenti pubblici».

Follie della burocrazia: l’imposta sui volontari del soccorso alpino

Follie della burocrazia: l’imposta sui volontari del soccorso alpino

Maurizio Caverzan – Il Giornale

L’ultimo colpo di zelo della burocrazia italiota l’ha scoperto Roger De Menech, parlamentare bellunese del Pd. Riguarda l’attività dei volontari del Soccorso alpino e consiste in una nuova tassa camuffata da pagare per chiedere il rimborso della giornata lavorativa al proprio datore di lavoro quando si è chiamati a un intervento di soccorso. Trentadue euro, non pochi centesimi, in marche da bollo da apporre alla domanda. Nell’Italia del canone speciale preteso dalla Rai dai titolari di partita Iva possessori di pc che potrebbero guardare la tv in azienda e delle tasse per i diritti d’autore chiesti ai possessori di tablet e smartphone che potrebbero scaricare film o musica, può succedere anche questo. In fondo, lo scarso stupore di fronte a queste notizie è la spia della deriva e della rassegnazione. «Voglio sapere chi è il geniale burocrate che ha fatto questa pensata», ha dichiarato De Menech rifiutando di rassegnarsi e annunciando un’interrogazione urgente una volta appresa la nuova prassi introdotta dal ministero del Lavoro. A segnalare il caso è stato il responsabile del Soccorso Alpino bellunese Fabio Bistrot. Ma non è escluso che la nuova, fantasiosa gabella riguardi anche volontari in servizio in altre aree geografiche e per altri tipi di interventi. È esattamente ciò che De Menech, segretario regionale del Pd veneto considerato vicino a Matteo Renzi, vuole sapere. E non a caso il deputato bellunese cita il premier: «Dobbiamo lavorare per uno Stato che sia amico dei cittadini e non ostile, come dice Renzi» sottolinea.

La normativa in questione riguarda i cosiddetti “volontari comandati”. Ovvero quei soccorritori che dipendono dalla Protezione civile,richiesti da un ufficiale dello Stato, solitamente il sindaco o il prefetto, di prestare servizio in caso di calamità o di interventi di soccorso. Finora la domanda in duplice copia per il rimborso dell’assenza dalla giornata lavorativa richiedeva una marca da bollo da due euro. Improvvidamente, per decisione autonoma di alcuni uffici provinciali del Lavoro, il costo della marca è passato da due a 16 euro. «Non c’è una legge che stabilisca di quanto dev’essere il bollo per le domande», precisa De Menech. «Tutto avviene in modo arbitrario. È incredibile che qualcuno voglia spremere soldi dai volontari». In questo modo «lo Stato ne aggredisce la dignità e mina il principio di sussidiarietà». La faccenda risulta ancor più antipatica proprio mentre entra nel vivo la stagione turistica nelle zone alpine e appenniniche dove il servizio dei volontari per garantire la presenza dello Stato e fornire il supporto di prevenzione e sicurezza in questi ambienti è quanto mai indispensabile. «Il risultato inevitabile sarà che, dovendo sborsare 32 euro per ottenere il rimborso, i volontari verranno meno al loro impegno e il soccorso alpino rimarrà sguarnito» prevede De Menech. Che sull’argomento annuncia un incontro in settimana con i rappresentanti del governo. «Questo increscioso episodio – prosegue il deputato bellunese – conferma l’urgenza non solo di riformare la pubblica amministrazione ma anche di quanto sia necessario e indispensabile il ricambio di personale all’interno della burocrazia italiana. L’attuale burocrazia è ostile ai cittadini e ai contribuenti, e interpreta il proprio ruolo non al servizio degli italiani ma come potere d usare contro i cittadini».

Liberalizzazioni flop: bollette sempre più care

Liberalizzazioni flop: bollette sempre più care

Antonio Signorini – Il Giornale

Le liberalizzazioni italian style non hanno quasi mai favorito i consumatori. Negli ultimi dieci anni i costi dei servizi hanno registrato aumenti che è difficile non spiegare con oligopoli di fatto, in particolare nei settori delle ex aziende pubbliche, e abusi di posizioni dominanti. Ieri la Cgia di Mestre ha calcolato aumenti record dal 2003 a oggi. Quasi tutti superiori al tasso di inflazione registrato nello stesso periodo. Per fare un esempio, l’acqua è aumentata del 85,2%. Percentuale sorprendentemente simile a quella dei rincari delle tariffe per la gestione dei rifiuti (81,8%). Servizi semi pubblici dove evidentemente la concorrenza non ha fatto sentire i suoi effetti. O meglio, non c’è mai stata. Un po’ meglio i pedaggi autostradali, anche se un aumento medio del 50,1% è comunque più del doppio rispetto all’inflazione. I trasporti urbani negli ultimi dieci anni sono aumentati del 49,6%. Anche se bisogna tenere conto che in Italia costavano molto meno rispetto al resto dei Paesi sviluppati. Solo i servizi telefonici – settore che ha registrato da subito una grande presenza di operatori stranieri – hanno subìto un calo: -15,9%. L’unico registrato dagli artigiani di Mestre. Male anche settori totalmente privati, come le assicurazioni sui mezzi di trasporto che sono salite del 197,1% (4 volte in più dell’inflazione) da quando sono state liberalizzate nel 1994. In linea con l’inflazione gli aumenti dei servizi postali (più 37,8%). I trasporti ferroviari dal 2000, cioè da quando è stata separata la rete ferroviaria da Trenitalia, hanno registrato aumenti del 57,4%, 1,7 volte l’inflazione, al pari delle autostrade. Nel settore dell’energia, che è liberalizzato solo dal 2007, gli aumenti sono stati del 19,9% in sette anni, 1,5 volte l’aumento dei prezzi al consumo nello stesso periodo. «Noi – ha osservato il presidente dell’associazione degli artigiani di Mestre Bortolussi – non siamo a favore di un’economia controllata dal pubblico. Segnaliamo che le liberalizzazioni hanno portato pochi vantaggi ai consumatori. Anche perché in molti settori si è passati da un monopolio pubblico ad un regime oligarchico che ha tradito i principi legati ai processi di liberalizzazione». Il calcolo per Bortolussi deve servire a futura memoria. «Invitiamo il governo Renzi a monitorare con molta attenzione quei settori che prossimamente saranno interessati da processi di deregolamentazione. Non vorremmo che tra qualche anno molti prezzi e tariffe, che prima dei processi di liberalizzazione/privatizzazione erano controllati o comunque tenuti artificiosamente sotto controllo – conclude – registrassero aumenti esponenziali con forti ricadute negative per le famiglie e le imprese».

Al Quirinale guadagnano il doppio della Casa Bianca

Al Quirinale guadagnano il doppio della Casa Bianca

Fabrizio Di Feo – Il Giornale

Una finestra spalancata sulle retribuzioni dei dipendenti. Un libro contabile a stelle e strisce aperto e aggiornato ogni dodici mesi. Dal 1995 la Casa Bianca è obbligata a inviare ogni anno un rapporto al Congresso e comunicare nel dettaglio l’elenco dei suoi dipendenti, il titolo e il salario. L’amministrazione Obama poi provvede a rendere disponibile online tale documento, così da tenere fede al dovere di trasparenza verso i cittadini.

I nuovi dati sono stati resi pubblici martedì. Un’istantanea che rivela la distanza siderale con il nostro Paese sia in termini di trasparenza (che da noi si trasforma spesso e volentieri in comunicazione, con la pubblicazione di dati parziali e «selezionati»), sia in termini di controllo della spesa pubblica. Il quadro per quanto riguarda la Casa Bianca è molto chiaro. Nel quartier generale di Obama lavorano 456 persone per un costo complessivo del personale di circa 38 milioni di dollari. La retribuzione media è di 83mila dollari, pari a 61mila euro. Lo stipendio massimo è di 172mila dollari pari a 126mila euro, anzi più nel dettaglio nessuno prende più di 172.200 dollari lordi all’anno, e molti devono accontentarsi di 41-42mila dollari. I dirigenti che si attestano sulla soglia massima sono 22. Barack Obama guadagna 400mila dollari, una cifra che nessun altro dipendente pubblico può superare perché nessun lavoro può essere considerato di maggiore responsabilità (il presidente della Corte costituzionale Usa guadagna 223mila dollari – 171mila euro -, il direttore dell’Fbi, 110mila euro, quello della Federal Reserve, 154mila euro). Obama, peraltro, ha deciso di ridare al Tesoro americano il 5% del suo stipendio annuale: 20mila dollari. Ciononostante negli Stati Uniti c’è anche qualche piccola polemica per un aumento medio del 5% per i dipendenti, superiore rispetto agli altri comparti pubblici.

Il paragone con il Quirinale, seppur scontato, è naturale e inevitabile. Negli ultimi anni il Colle ha iniziato un cammino verso una maggiore trasparenza e ha adottato alcune misure di contenimento della spesa, ad esempio con l’abrogazione del meccanismo di allineamento automatico delle retribuzioni del personale di ruolo a quello del personale del Senato. Nel corso del primo settennato di Giorgio Napolitano sono stati compiuti anche alcuni passi per «asciugare» l’organico, diminuito dal 31 dicembre 2006 al 31 dicembre 2013, di 507 unità. La distanza resta, però abissale.

Nella «Nota illustrativa del bilancio di previsione per il 2014», si parla di una «spesa per il personale in servizio che ammonta a 123,4 milioni di euro, in calo di 7,6 milioni rispetto al bilancio di previsione iniziale per il 2013». Nello stesso documento, al di là del «personale complessivamente a disposizione» pari a 1674 unità, si parla di 783 dipendenti come «personale di ruolo». In questo caso la spesa per dipendente si aggirerebbe sui 157mila euro.

Nell’allegato «Documento analitico» si parla, invece, di una spesa per retribuzioni pari a 105 milioni e 231mila euro, con 82 milioni per il personale di ruolo; 8 milioni e 900mila per quello non di ruolo; 10 milioni e 800mila per il personale distaccato; 2 milioni e 371mila per consiglieri e consulenti del Presidente; 147mila per collegi e commissioni; 370mila per oneri e trasferte del personale. A questi 105 milioni vanno aggiunti 9 milioni e 268mila euro di oneri previdenziali per complessivi 114 milioni e 499mila euro. In questo caso la spesa media per dipendente supererebbe di poco i 146mila euro. Non è possibile calcolare – come avviene per la Camera dove è stato compiuto un importante sforzo di trasparenza – quanti dirigenti superino la retribuzione di Giorgio Napolitano, ovvero i famosi 238mila euro fissati come teorica soglia massima da Matteo Renzi per i dipendenti pubblici (un tetto che alla Banca d’Italia viene sforato da ben 665 dirigenti). Un esercizio di trasparenza da adottare al più presto. Così da trasformare il Colle se non in una Casa Bianca in termini di costi, almeno in una casa di vetro.

Fuga dal canone TV. E la Rai in bolletta perseguita i cittadini

Fuga dal canone TV. E la Rai in bolletta perseguita i cittadini

Paolo Bracalini  – Il Giornale

Più di trecentomila disdette del canone Rai ogni anno, e in aumento: 310mila nel 2010, 328mila nel 2011, 357mila nel 2012. Una velocità di crociera inquietante per i vertici Rai, che già devono fare i conti con un’evasione del canone (la tassa più odiata dagli italiani, sondaggio dell’Anci) che la Rai stima in un 27% e un mancato introito valutato in 500 milioni di euro l’anno. Famiglie ma soprattutto imprese che secondo la Rai dovrebbero pagare il canone e invece non lo fanno, causando un buco all’azienda. Su cui poi si abbatte anche il prelievo governativo di 150 milioni di euro e il calo delle entrate da pubblicità. Il fronte “canone”, dunque, rimane quello più scoperto per viale Mazzini, a caccia di un sistema più valido per recuperare soldi anche da negozi, aziende, studi professionali, uffici, partite Iva. La legge, antiquata e ambigua, permette alla Rai di pretendere il canone anche da chi non guarda la tv o usa schermi e computer solo per lavoro, perché per far scattare l’imposizione basta il semplice possesso. L’invio in questi giorni di mezzo milione di lettere che hanno fatto insorgere artigiani e imprese va proprio in questa direzione. Ma l’effetto finora non è stato quello sperato, con l’esplosione della polemica e poi le interrogazioni parlamentari di Forza Italia, Lega e anche Ncd, che chiede un intervento del governo per fermare lo “stalking” della Rai alle imprese, mente anche il Pd in Vigilanza Rai attacca l’azienda: «Sul canone speciale hanno fatto un vero pasticcio». Ci potrebbe essere di più, persino un rilievo penale, secondo il senatore Maurizio Rossi (ex Scelta Civica) che in Vigilanza solleva il dubbio: «La condotta tenuta dalla Rai potrebbe rientrare in quella descritta nell’art. 640 del codice penale, che prevede la fattispecie della truffa quando qualcuno “con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”. Mi riservo di approfondire tali aspetti inquietanti e di trasmettere gli atti all’autorità giudiziaria» dice il senatore.

La Rai, nel frattempo, va avanti per la sua strada con la Direzione Abbonamenti che conta sulla bellezza di 380 persone (nel 2012), una mini Agenzia delle Entrate dedicata al recupero del canone Rai. Ma le cose non filano come viale Mazzini vorrebbe. Non solo aumentano le disdette ma anche i morosi, cioè iscritti a ruolo che smettono di pagare il bollettino. Un esercito: 963mila italiani. Che fare, dunque? Spedire mezzo milione di lettere del canone speciale ai titolari di attività iscritti alle Camere di commercio, e vedere l’effetto che fa. Ma non solo. Scrive la Corte dei Conti nella sua ultima relazione sulla tv di Stato (febbraio 2014) che viale Mazzini sta facendo pressing sui Comuni e sull’Agenzia delle Entrate a caccia di informazioni preziose per far lievitare gli introiti da canone, come i nominativi dei potenziali possessori di apparecchi televisivi. «Ad avviso della Rai – scrive la Corte dei Conti – tali nominativi possono essere ricavati consultando gli archivi anagrafici in possesso dei Comuni, alcuni dei quali, come evidenzia la stessa società, oppongono un netto rifiuto adducendo argomentazioni fondate su rispetto dei vincoli posti dalla legislazione in materia anagrafica e sulla disciplina della privacy». Non è come per le banche dati della Camere di Commercio, dove non c’è privacy sui titolari di ditte o partite Iva, che infatti la Rai prende in blocco per inviare le richieste di canone speciale. Per le persone, purtroppo per la Rai, c’è la privacy e quindi molti Comuni dicono no. Ma anche l’Agenzia delle Entrate non soddisfa le richieste della Rai, che «con tre successive istanze» ha chiesto di acceder ai dati personali di chi compra un televisore. Fino al 2001 era la prassi, poi il Garante della privacy ha vietato alla Rai la raccolta dei nominativi e adesso un ricorso contro il provvedimento pende in Cassazione. Nell’attesa di una sentenza definitiva, la Rai non può attivare il suo Grande Fratello fiscale. Tocca provare altre strade, tipo la pesca a strascico sul canone speciale.

Mangiasoldi di Stato

Mangiasoldi di Stato

Alessandro Sallusti – Il Giornale

Nell’ultimo anno sono stati scritti fiumi di inchiostro per analizzare il fenomeno Grillo e quello dell’astensionismo. Si tratta di diversi milioni di voti in libera uscita da quella che è chiamata la «politica tradizionale». E giù spiegazioni sociologiche, a volte antropologiche. A mio avviso la questione è molto ma molto più semplice, e solo in piccola parte ha a che fare con il disgusto per gli scandali grossi e piccoli che la politica ha offerto alle cronache. L’esempio del doppio canone Rai per artigiani, commercianti e partite Iva è illuminante.

Milioni di italiani si sentono – giustamente – vittime di un’estorsione di Stato ma non un partito alza un dito, nessuno ascolta la loro rabbia, non uno che provi a porre rimedio al problema. Parliamo di almeno cinque milioni di cittadini che sull’argomento sono rimasti senza rappresentanza politica. Tace quel furbetto di Renzi, che a parole promette basta tasse e basta burocrazia ma che nei fatti si guarda bene dal tutelare i contribuenti dagli esattori abusivi della Rai. Tace, dispiace dirlo, Forza Italia, probabilmente timorosa di essere accusata di volere penalizzare la Rai a vantaggio di Mediaset. In generale tacciono tutti, perché la Rai ancora prima che tv di Stato è tv della politica, quindi cosa loro. Che se poi uno ci mette la faccia rischia pure la ritorsione di non essere più invitato a Ballarò o in una delle tante trasmissioni-passerella.

Mi metto nei panni di uno dei cinque milioni di italiani costretti a pagare una nuova e ingiusta tassa occulta. Che faccio alle prossime elezioni? Semplice: punisco chi mi ha gabbato, o almeno non ha provato a difendermi come avrei meritato. Oppure risolvo il problema a modo mio, andando a ingrossare, per legittima difesa, le file degli evasori fiscali. Perché l’evasione non è solo figlia della furbizia o della disonestà. Il più delle volte è un’inevitabile risposta a una tassa eccessiva o ingiusta, come lo è quella che la Rai vuole imporre a possessori di computer teoricamente in grado di connettersi con un canale tv.

Così come è successo sulla casa, la doppia tassa sul canone è la prova che il governo Renzi fa il gioco delle tre tavolette. Taglia gli sprechi ai comuni e alla Rai e poi permette che questi si rifacciano su di noi. Non c’è quindi da stupirsi che il cinquanta per cento degli italiani non vada a votare e un altro venti scelga Grillo. Sicuramente non è la strada per risolvere i problemi, ma a volte vendicarsi può lenire il senso di abbandono e quello di ingiustizia.