il sole 24 ore

In cerca di coperture

In cerca di coperture

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Una manovra “espansiva” per sostenere la domanda interna attraverso la doppia operazione Irpef-Irap è tale solo se si basa su coperture certe. È il compito con il quale si stanno misurando in queste ore i tecnici dell’Economia. Con alcune incognite che andranno chiarite nelle prossime ore. Poiché la legge di stabilità oggi all’esame del Consiglio dei ministri per 11,5 miliardi è finanziata in deficit, vi è da supporre che il governo abbia su questo punto ottenuto una via libera (ancorchè informale e non ancora ufficiale) da Bruxelles. La conferma che staremo comunque sotto il 3% anche nel 2015 è da questo punto di vista una garanzia, fermo restando che è tuttora sub iudice il giudizio che la Commissione esprimerà a novembre, relativamente alla deviazione decisa dall’Italia, rispetto al target del deficit strutturale. Il negoziato – a tratti “muscolare” ma che corre per le vie ordinarie nella sostanza – è in corso, ed è probabile che il compromesso venga alla fine raggiunto (ma non subito) sullo 0,25% di impegno aggiuntivo chiesto già in via informale nei giorni scorsi. Stando alle ultime indiscrezioni, il governo avrebbe già individuato una sorta di «dote di riserva» in manovra per farvi fronte. Sul tutto aleggia la vera questione: appunto le coperture, fondamentali per la sostenibilità dell’intera manovra. Il focus è allora tutto sull’imponente riduzione della spesa corrente annunciata due giorni fa dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi: 16 miliardi.

Alla spending review è affidato il compito di stabilizzare il bonus Irpef da 80 euro per i redditi fino a 26mila euro, e finanziare la più importante novità emersa finora dal work in progress della manovra: l’eliminazione della componente del costo del lavoro dal calcolo della base imponibile Irap, per un totale di 6,5 miliardi. E poi l’annuncio, anch’esso importante, della totale decontribuzione per tre anni per i nuovi assunti. Misure fondamentali, a lungo rivendicate dalle imprese, passaggio importante per cominciare a ridurre una pressione fiscale complessiva che, se si guarda al cosiddetto total tax rate calcolato dalla Banca mondiale in percentuale sui profitti, supera l’impressionante percentuale del 65 per cento. Una scommessa da giocare con coraggio e decisione. L’assoluta certezza delle coperture è precondizione essenziale per rendere credibile ed efficace l’intera manovra. Meno spesa corrente per finanziare il taglio delle tasse: assioma fondamentale, più volte indicato dalla Banca d’Italia, ma anche dalle principali istituzioni internazionali, dal Fmi all’Ocse. Ad adiuvandum, a consuntivo, la dote complessiva delle risorse a disposizione potrà giovarsi dei proventi recuperati dalla lotta all’evasione. Sarà una vera «spending review», che azioni il bisturi del taglio selettivo, in un’ottica di razionalizzazione e redistribuzione delle risorse? La logica dei tagli lineari, la più adottata finora, comporta al contrario diversi rischi: poiché si colpiscono anche le spese “buone”, l’effetto può essere anch’esso recessivo.

L’attesa sulla composizione dei tagli è dunque pienamente giustificata. Una volta approvata la manovra, la partita a ben vedere sarà ancora al fischio d’inizio, poiché una così imponente sul fronte della spesa, per passare indenne dalla probabile raffica di emendamenti che la investiranno nel corso dell’esame parlamentare, necessita di una maggioranza assolutamente coesa. È lecito prevedere fin d’ora che soprattutto al Senato non sarà propriamente una passeggiata. Il lasso di tempo che il governo si accinge a ritagliare tra il varo della legge di stabilità e la trattativa vera e propria con Bruxelles dovrebbe servire appunto (anche per effetto della spending review) a superare le residue obiezioni sulla decisione del governo di rinviare il pareggio di bilancio al 2017, con annessa la scelta di confermare (al momento) allo 0,1% del Pil la correzione del deficit strutturale per il prossimo anno. Si invocano, e a ragione, le circostanze eccezionali previste dall’attuale disciplina di bilancio europea. Se il punto di caduta sarà sui 2-2,4 miliardi chiesti alla fine da Bruxelles, la soluzione di compromesso è a portata di mano. E così a novembre la nuova Commissione europea potrà difendere, almeno formalmente, il suo ruolo di guardiano dei conti, rinviando di fatto alla prossima primavera il giudizio più completo e articolato sia sulla legge di stabilità che sulla persistenza degli «squilibri macroeconomici eccessivi», denunciati lo scorso marzo. E il governo potrà comunque salvaguardare nella sostanza l’integrità della sua manovra “espansiva”.

Lo scambio utile con Pechino

Lo scambio utile con Pechino

Giuliano Noci – Il Sole 24 Ore

Li Keqiang compie molto più di una visita di cortesia nel l’Italia del vertice Asem. Il suo arrivo rafforza un’operazione di shopping portata avanti dalle imprese (di Stato) dell’ex Impero di mezzo. Ma non solo. Le recenti acquisizioni di quote minoritarie (2%), ma in valore assoluto importanti, di Telecom, Enel, Eni devono essere interpretate in una logica di diversificazione del portafoglio di investimento dei cinesi e in ambiti ritenuti a basso rischio.

Se consideriamo che fino a un paio di anni fa l’Italia era fuori dal radar degli investimenti della Cina, l’iniezione di capitali da un Paese in possesso di enorme liquidità è benvenuta. L’Italia deve trasformare l’interesse che proviene dalla seconda economia più importante del pianeta e dal suo immenso mercato in un’opportunità per le nostre imprese. Lo può e lo deve fare giocando al meglio e in modo sistematico la partita di questa relazione con le sue carte migliori: i tesori di famiglia, le complementarità che sussistono tra i due Paesi, un portato di valori e di qualità della vita che interessa oggi più che mai alla Cina, la capacità di innovazione. Carte che consentono un gioco ben più ambizioso di quello che ci colloca, ora ,al 21° posto tra i partner commerciali in ingresso e al 25° tra quelli in uscita del Dragone. Per quanto il nostro sistema agroalimentare e il sistema moda/alto di gamma rappresentino l’eccellenza italiana, quasi il 40% dei circa 19 miliardi di nostre esportazioni in Cina sono dovute a: meccanica di precisione, macchinari per l’industria, veicoli industriali e sistemi dell’automazione. Prodotti e tecnologie di grande interesse per il tessuto industriale cinese con il quale sviluppare innovazione.

La seconda carta è la complementarietà nel modo di fare business. La Cina è un Paese a forte vocazione dirigista, e con una capacità unica al mondo di sviluppare specializzazione verticale, sfruttare opportunità puntuali di mercato e sviluppare campioni nazionali e colossi internazionali. Ha tuttavia, per fattori dimensionali e culturali, meno efficacia nella diversificazione e nell’innovazione creativa. Mentre noi siamo la patria delle Pmi di eccellenza, di un’imprenditoria abituata a fare di necessità virtù e a conseguire risultati straordinari con risorse limitate; un’imprenditoria che ha però conosciuto fenomeni di scarsa managerializzazione che ne hanno limitato la crescita e condannato alcuni comparti a un nanismo limitante di fronte a mercati sconfinati come quelli asiatici. Cina e Italia hanno l’opportunità di compendiare i rispettivi punti di forza e superare i reciproci punti di debolezza.

C’è poi un asso: la nostra eccellenza in ambiti di primario interesse per lo sviluppo cinese. Proprio sul Sole 24 Ore, il premier Li ha delineato ambiti di collaborazione nell’agricoltura, nell’aerospaziale, nello urban planning, nelle tecnologie ambientali e nella sanità. Non solo settori dell’eccellenza italiana, ma segmenti costitutivi di uno stile di vita italiano affermatosi in Cina e nel mondo. Infine la percezione della qualità delle nostre marche: dai beni di largo consumo fino al tessile (oltre 4 miliardi di export in Cina nel 2013). Un’immagine positiva fondamentale per le imprese cinesi che vogliono affermarsi in un mercato interno che non associa ai produttori cinesi, in comparti delicati come i prodotti per l’infanzia e l’agroalimentare, standard di qualità di cui potersi pienamente fidare e che può abilitare la diffusione di tecnologie innovative made in China nel mondo. E in questo periodo storico, lo sviluppo di innovazione di successo è il vero mantra per l’economia cinese.

Abbiamo una chance straordinaria davanti a noi: rendere sistematico un dialogo strategico con l’ex Impero di mezzo di cui entrambe le parti potrebbero giovarsi. Mettendo in campo una discontinuità nel metodo e nei contenuti. Nel metodo, con la definizione di un progetto-Paese rispetto alla Cina, una strategia propositiva che, grazie al coinvolgimento di università e del mondo delle imprese, con la regia del Governo, dia continuità al processo di internazionalizzazione avviato. Nel merito, è importante tener conto dell’orizzonte plurale dei prodotti industriali italiani: non solo il made in Italy, che pure fa brillare la stella della nostra immagine nel mondo ma anche le eccellenze tecnologiche che contraddistinguono larga parte del nostro manifatturiero, eccellenze importanti per i cinesi e che dobbiamo saper proporre affermando la logica dello scambio del nostro know-how con l’accesso al loro mercato. Se questa sarà la direzione, i bilaterali di questi giorni e il Forum per l’Innovazione, che Milano e il suo Politecnico ospitano, possono far splendere il sole di questa relazione. La Cina porterebbe alla qualità italiana i numeri del mercato e del buon investimento che caratterizzano la sua grandezza. La forza di un fare mercato insieme potrebbe contribuire a dinamiche più profonde. Per quanto la storia non si ripeta e la Cina sia – come è giusto che sia – quel che decide di essere, il mercato potrebbe far nascere una nuova Cina della società civile.

Ridare fiducia a imprese e famiglie

Ridare fiducia a imprese e famiglie

Vincenzo Chierchia – Il Sole 24 Ore

Si allunga l’ombra dello spettro della deflazione, ossia del calo generalizzato dei prezzi al consumo, scenario che suscita non pochi grattacapi, per l’effetto deprimente su consumi interni già ai minimi e per i contraccolpi negativi sulle attese degli operatori economici. Si rafforzano dunque le richieste al Governo di interventi a sostegno della domanda interna mentre le imprese chiedono sostegni agli investimenti. L’obiettivo è quello di spezzare quel circolo vizioso all’interno del quale ci stiamo lentamente avvitando: prezzi in calo, domanda debole, attese sempre più negative sulle opportunità offerte alle imprese e sulle prospettive di reddito delle famiglie.

Certo, non va dimenticato che il dato sull’inflazione di settembre è stato condizionato dalla flessione dei beni energetici e delle comunicazioni. Restano invece in tensione, sia pure con incrementi da prefisso telefonico, i prezzi rilevati dall’Istat per capitoli importanti come istruzione e ristorazione (compresi i servizi ricettivi). Gli alimentari scontano qualche tensione dovuta al maltempo che ha interessato soprattutto i prodotti freschi. Il punto è che ci avviciniamo sempre più all’inflazione zero, se guardiamo al dato di fondo (core), ossia alla dinamica dei prezzi al consumo depurata da componenti più volatili come l’energia. Un obiettivo agognato in Italia negli anni dei prezzi galoppanti, della sindrome sudamericana peraltro molto cavalcata all’epoca dalla politica. Oggi ci fa più paura la deflazione perché è sintomo di paralisi del sistema economico, sempre più immobilizzato nelle spire di una stagnazione che si sta rivelando quasi endemica.

Cosa fare allora? Dobbiamo spezzare le catene e dare una scossa al sistema, ma non basta. Dobbiamo ridare fiato alle aspettative, ma ci vogliono interventi su più fronti. Gli operatori commerciali lamentano appunto che i prezzi scendono ma i carrelli sono vuoti. Beni e servizi costano meno in media, è vero, ma il punto è che le famiglie non se ne accorgono o quasi. I depositi in banca aumentano ma certo non per far salire la quota di consumo. Ci può forse consolare il fatto che la stagnazione investe anche il resto d’Europa? Che i nostri cari amici tedeschi soffrano anche loro? Che i nostri cugini francesi abbiano più o meno le nostre stesse difficoltà? La Banca centrale europea sta cercando di intervenire in maniera massiccia per immettere benzina nel sistema economico continentale facendo tra l’altro leva sul fatto che l’obiettivo di inflazione è più lontano. Ma finora non c’è stata una reazione forte. Serve tempo si dirà. Se Francoforte da un lato e i Governi nazionali ci si mettono d’impegno dall’altro la ripresa non può tardare. A quel punto però conteranno le riforme strutturali dei vari sistemi nazionali. È questa la scossa da dare. Occorre far capire che si sta intervenendo nel profondo e che si aprono nuovi spazi a una maggior fiducia sulle prospettive del Paese e così dell’intera Ue.

La scatola nera dell’economia tedesca

La scatola nera dell’economia tedesca

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Bisogna grattare la superficie dell’economia tedesca per capire come sia possibile che questa macchina potente, lanciata a piena velocità a inizio anno, si sia piantata nel corso del secondo e del terzo trimestre. Ufficialmente la responsabilità viene attribuita alla cattiva congiuntura nei Paesi partner: la crisi tra Russia e Ucraina ha avuto ripercussioni immediate sul commercio con la Germania; la Cina che conta per il 10% dell’export tedesco sta operando una trasformazione strutturale del proprio modello economico e punta più di prima sulla domanda interna; intanto l’area euro che ha sempre accolto almeno il 40% delle esportazioni tedesche è scesa al 35,5%. Per la prima volta da molti anni, il commercio estero sta dando un contributo netto negativo alla crescita tedesca.

Ma come è possibile che questo effetto si sia tradotto di colpo in una recessione tecnica negli ultimi due trimestri? L’incertezza che ha colpito le esportazioni del Mittelstand, il settore delle medie imprese con scarsa propensione all’apertura del capitale, si è ripercossa sul proprio primario canale di finanziamento, quello che passa dalle Sparkassen, le Casse di risparmio, fino alle Landesbanken. Si tratta degli stessi istituti di credito dai quali in passato era originato l’accumulo di attività tossiche nel sistema bancario tedesco, addirittura precedente alla crisi di Lehman. Per anni, per tutelare questi istituti poco trasparenti, Berlino ha frenato ogni accordo con i partner sui sistemi di supervisione e risoluzione comune delle banche europee. Da allora le Sparkassen sono rimaste una “scatola nera” legata non solo alle imprese, ma attraverso le Landesbanken anche al sistema dei partiti e dei governi regionali.

La scatola è rimasta nera anche con l’avvio dell’unione bancaria visto che il governo tedesco è riuscito a escludere quasi tutte le casse di risparmio dalla supervisione comune, assicurando a esse il proprio sostegno fiscale in caso di crisi. Ora che l’economia si è fermata, in ampi settori del credito tedesco si è posto il problema del l’incerta capitalizzazione di istituti che si affidano a un sistema oscuro di riserve silenziose. L’incertezza, partita dalle esportazioni, si è ripercossa così al cuore di tutto il sistema finanziario tedesco. La difficoltà è aggravata dall’impossibilità per le casse e per le compagnie di assicurazione di rimanere profittevoli investendo in titoli pubblici ora che i rendimenti dei bund sono vicini a zero. Non a caso le associazioni bancarie tedesche, spalleggiate dalla Bundesbank, attaccano la Bce per la politica dei tassi bassi definendola cosmesi finanziaria a favore dei paesi deboli. In realtà, secondo la Bundesbank, senza rendimenti più alti dei titoli pubblici un terzo delle compagnie di assicurazione tedesche potrebbe sparire nel giro di dieci anni. Le prestazioni pensionistiche che esse si sono già impegnate a versare nel futuro sono troppo alte per la loro capacità di fare profitti. Le famiglie tedesche vedono così le proprie pensioni in pericolo e questo frena la loro volontà di spesa, comprimendo anche la domanda interna oltre a quella estera.

Da qui lo stallo di tutta l’economia. Improvvisamente, le difficoltà delle banche regionali – da sempre la mucca da latte della politica locale tedesca – stanno trovando ascolto nei politici a capo dei Laender. Per la prima volta da anni nel Partito socialdemocratico si risente la voce di chi chiede alla Grande coalizione di rimettere come priorità il rilancio della crescita. Ma la stessa urgenza è stata condivisa vivacemente dal capo dei conservatori bavaresi e trova eco in un numero crescente di cristiano-democratici. Perfino la cancelliera Merkel pare irritata dallo sbarramento che la Bundesbank sta opponendo ai tentativi di soluzione proposti dalla Bce.

In mezzo a questo ingranaggio si è incastrato il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble. Il ministro ha fatto del surplus del bilancio pubblico il proprio obiettivo politico per il 2014. Si tratta di un traguardo storico che in Germania manca dal 1969. In tal modo però si è precluso la possibilità di contrastare con spesa pubblica il rallentamento della macchina tedesca. Il governo si nasconde dietro alle previsioni ufficiali sulla crescita che rimangono molto vicine al tasso di crescita potenziale. Chi guarda dietro le cifre tuttavia nutre dei dubbi: la crescita del 2014 è sostenuta dall’arrivo di 50mila lavoratori immigrati, ma ogni anno la forza lavoro tedesca diminuisce di 200mila unità. L’introduzione del salario minimo dal 2017 non avrà effetto a Ovest ma si farà sentire sul costo del lavoro dei nuovi Laender. La politica energetica infine sta creando costi gravosi a carico delle imprese manifatturiere che spesso infatti preferiscono non investire in Germania, bensì oltre Oceano. Per la prima volta, l’intransigenza fiscale di Schaeuble appare come un puro obiettivo politico a scapito della convenienza economica. Le critiche raccolte dal ministro a Washington nell’ultima visita sono state vigorose e Merkel nutre il timore di passare alla storia come il cancelliere che ha affossato l’Europa. Forse per questo insieme di ragioni a Berlino si fa largo l’idea di non insistere troppo nel criticare la Francia per lo stimolo fiscale che vuole dare alla propria economia e indirettamente a quella tedesca.

Sempre meno banche in Europa

Sempre meno banche in Europa

Alessandro Merli – Il Sole 24 Ore

Il settore bancario dell’eurozona si presenta all’appuntamento della fine dell’esame da parte della Banca centrale europea, fra meno di due settimane, con meno banche e un attivo ridotto, ma con una redditività tuttora modesta, secondo uno studio della stessa Bce pubblicato ieri. Un rapporto dell’agenzia di rating Fitch nota che la conclusione dell’esame delle banche condotto dalla Bce è solo il primo passo per uniformare l’accesso ai fondi privati e la capacità di aumentare il credito. Fitch osserva che i livelli di crediti problematici non coperti da accantonamenti resta alto nei Paesi maggiormente investiti dalla crisi, come Italia, Spagna, Grecia e Irlanda, rendendo alcune banche ancora vulnerabili. Solo un piccolo numero di banche, secondo l’agenzia, fallirà il test della Bce.

Il consolidamento del settore è continuato nel 2013, l’anno cui lo studio Bce si riferisce, portando il numero degli istituti sotto quota 6mila, a 5.948. Nel 2008, prima dello scoppio della crisi finanziaria, erano 6.690. L’attivo totale si è contratto a 26.800 miliardi di euro da 33.500 prima della crisi, soprattutto per effetto dell’azione delle grandi banche: metà della riduzione è dovuto alla chiusura di posizioni sui derivati. «Il deleveraging delle banche europee continua – ha detto il vicepresidente della Bce, Vitor Constancio, nel presentare il rapporto -. Questo è stato compensato da un significativo aumento dell’attività del settore bancario “ombra”, che dev’essere osservata da vicino». Le preoccupazioni sull’evoluzione dell’attività creditizia da parte di entità fuori dal perimetro della regolamentazione bancaria sono state al centro della discussione anche nei giorni scorsi a Washington alle riunioni dell’Fmi.

Il processo di razionalizzazione del settore, sostiene la Bce, suggerisce che l’efficienza complessiva del sistema continua a migliorare. Tuttavia i risultati di bilancio e la redditività restano bassi, anche se in nessun Paese dell’eurozona il sistema bancario nel suo complesso ha accusato una perdita operativa nel 2013. La redditività continua a subire l’impatto negativo dei tassi d’interesse molto bassi, il continuo peggioramento della qualità dell’attivo, i costi di ristrutturazione e di procedimenti giudiziari e cause legali. La scarsa redditività delle banche europee è stata sottolineata la settimana scorsa anche dal Fondo monetario, che ha sollevato dei dubbi sulla loro capacità di finanziare la ripresa.

Le banche europee hanno anche ridotto la loro dipendenza dai mercati dei capitali, affidandosi maggiormente alla raccolta da clientela, e dalla Bce, con il rimborso di buona parte dei prestiti Ltro concessi dall’Eurotower nel 2011-2012. Il valore mediano del capitale tier è aumentato da 12,1 nel 2012 a 13% a fine 2013. Fitch sostiene che la capitalizzazione delle 130 banche all’esame della Bce si è rafforzata notevolmente dall’ultimo stress test del 2011, continuando nel 2014. Secondo l’agenzia, le banche hanno raccolto capitale per 65 miliardi di euro nella prima metà del 2014. Fitch prevede che ulteriori aumenti di capitale e ristrutturazioni, soprattutto da parte delle banche più deboli, seguiranno la pubblicazione dei risultati della valutazione appronfondita della Bce. Questa avverrà il 26 ottobre prossimo. Le banche hanno poi due settimane di tempo per presentare i propri piani su come far fronte alle carenze di capitale. Secondo Fitch, questo riguarderà solo un piccolo numero di banche. Il quotidiano tedesco Handelsblatt riferiva ieri che in Germania solo la landesbankdi Amburgo, Hsh, fortemente esposta al settore in crisi del trasporto marittimo fallirebbe il test.

L’imposta più odiata

L’imposta più odiata

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

L’Irap, sin dalla sua nascita, si porta dietro la sgradevole immagine di “tassa ingiusta”. Tasse simpatiche non se ne conoscono, d’accordo. Ma una tassa che colpisce il lavoro e che si paga anche quando i bilanci chiudono in perdita è qualcosa davvero difficile da farsi piacere. Economisti, giuristi e politici si confrontano da sempre sulla coerenza di un prelievo così congegnato e anche segnato da innumerevoli promesse di soppressione, puntualmente disattese. Anche per questo, l’annuncio del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, di voler azzerare la componente del costo del lavoro dall’Irap rappresenta una svolta di grande rilievo. E non solo perché in questo modo il prelievo sulle attività produttive sarà alleggerito di circa 6,5 miliardi all’anno.

L’intervento sull’Irap annunciato dal premier va nella direzione giusta anche per altri motivi. E risponde alla priorità di avviare una reale riduzione del cuneo fiscale sul lavoro. Un intervento così congegnato, infatti, andrà a premiare le imprese che danno più lavoro, le attività labour intensive. Una misura di questo tipo appare più efficace del taglio lineare dell’aliquota (come è stato fatto sempre dal governo Renzi poco prima dell’estate), che produrrebbe una riduzione del prelievo “democratica” – ovvero uguale per tutti – ma forse poco lungimirante nella fase attuale, nella quale il lavoro ha bisogno di essere sostenuto. Spostare tutto, come intende fare il governo sul costo del lavoro, risponde così all’esigenza di rendere più competitive le imprese, visto che proprio la componente Irap gioca in questo senso un ruolo decisamente negativo. Un ruolo anche poco comprensibile all’estero, tanto che – per fare un esempio – le statistiche internazionali sul costo del lavoro redatte dall’Ocse non includono per l’Italia la componente Irap, facendo apparire il nostro cuneo fiscale non così diverso da quello degli altri paesi, cosa che ovviamente non è.

Certo, rispetto al 1997 – anno dei primi pagamenti dell’Irap – molte correzioni, semplificazioni e riduzioni del prelievo sono arrivate. Talvolta lo si è fatto per adeguarsi o per rimediare alle sentenze delle Corti, dalla Cassazione alla Corte costituzionale; altre volte per rispondere – ancorché parzialmente – all’allarme del mondo produttivo sugli effetti devastanti di questa imposta. Nel corso degli anni, solo per citare alcune misure volte a ridurre l’impatto dell’imposta, sono arrivate detrazioni fisse dalla base imponibile e detrazioni legate in modo specifico al costo del lavoro che hanno escluso dall’imposta moltissimi soggetti economici di piccole dimensioni. Un segnale è giunto anche con l’introduzione della possibilità di dedurre dall’Ires una quota dell’Irap pagata. Non c’è dubbio, però, che la misura ora annunciata dal governo rappresenti una scossa, che non può essere paragonata agli interventi del passato.

Proprio qualche giorno fa il direttore dell’agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, ha parlato delle necessità di un fisco che favorisca lo sviluppo. E ha lanciato l’idea di un nuovo “patto” di fiducia con le imprese e i professionisti. Ecco, questa può essere, anzi, questa deve essere la direzione da seguire. Perché, come si è detto sul Sole 24 Ore di sabato scorso, in un paese come l’Italia che ha una pressione fiscale a livelli insostenibili, il “patto” sul fisco richiede in primo luogo uno sforzo nella direzione della riduzione del prelievo. Dal governo sta per arrivare una prima, importante, risposta. Che pone le basi per costruire davvero un nuovo rapporto tra fisco e contribuenti.

La partita italiana nel gioco globale

La partita italiana nel gioco globale

Roberto Napoletano – Il Sole 24 Ore

L’allargamento al mercato cinese può essere per l’Italia di oggi dello stesso segno e importanza di quello che fu l’allargamento dell’Italia di ieri al mercato europeo e americano. Questa è la grande occasione che non possiamo permetterci di sprecare oggi. Dipende, in gran parte, da noi. Questa almeno è la sensazione che si ricava dalla lettura dell’articolo («L’albero sempreverde dell’amicizia tra Cina e Italia») che il premier cinese, Li Keqiang, ha voluto riservare al Sole 24 Ore di ieri come presentazione della sua missione nel nostro Paese.

Ci è sembrata un’apertura interessante perché parte dall’Italia storica ma arriva in fretta a quella attuale. Ci sono il Colosseo e il Pantheon, per intenderci l’inchino alla bellezza cosmopolita italiana che viene dal suo passato, ma ci sono, soprattutto, un riconoscimento diretto all’Italia imprenditoriale come “leader mondiale nell’innovazione e nel design” e l’indicazione operativa di un’alleanza strategica per potenziare gli investimenti cinesi in Italia, favorire gli investimenti nostri in Cina e sviluppare “nuovi prodotti di marca progettati e realizzati da Cina e Italia” destinati ai mercati globali.

Il pragmatismo che spinge a indicare una per una, dall’energia ai macchinari, le aree di intervento, gli accordi di peso in via di imminente sottoscrizione tra Cassa depositi e prestiti e China development bank per fare crescere insieme le imprese italiane e cinesi sui mercati globali e quelli in dirittura d’arrivo tra il Fondo strategico italiano e il Fondo sovrano cinese, si propongono di consegnare al nostro Paese carente di risorse una dote di capitali preziosa perché indirizzata all’innovazione e attratta dalla calamita della creatività, del saper fare e di tutto ciò che appartiene a quell’unicum italiano, manifatturiero e di servizi, che vale ancora oggi 400 miliardi di esportazioni e un surplus di 100.

Abbiamo ancora un deficit di interscambio bilaterale molto alto e questo ci dice che non bastano i nostri imprenditori dinamici (meno male che esistono) e bisogna fare in modo che la dimensione delle nostre aziende cresca e la rete di intelligenze tra territori, imprese, scuola e università diventi, anzi torni ad essere, una realtà. Se le imprese tedesche vendono in Cina macchine per fare pane e prodotti da forno tre o quattro volte più di noi, vuol dire che il modello organizzativo italiano non consente di arrivare dove meritiamo di essere. Vuol dire che le imprese italiane devono fare la loro parte fino in fondo e il sistema Paese deve essere in grado, alla voce fatti, di azzerare i vincoli burocratici, ridurre il carico fiscale e contributivo, promuovere l’internazionalizzazione.

L’allargamento al mercato cinese, in un quadro geopolitico complicato, può consentirci di fare un ulteriore, significativo passo in avanti sui mercati esteri. Non siamo, ovviamente, indifferenti al tema dei diritti umani e al futuro di democrazia che la Cina deve riuscire, nel suo interesse, a costruire. Siamo, però, altrettanto certi che proprio queste aperture economiche e la scelta strategica di partnership mirate, aiutino la Cina ad adeguarsi alle regole condivise dei brevetti e della proprietà intellettuale del mondo occidentale, aumentino la consapevolezza dello spirito della concorrenza globale e dei principi del mercato. Siamo certi che passi per la via economica la crescita del tasso di apertura verso un futuro democratico della Cina e sappiamo bene quanto ciò sia importante per loro e per il mondo. Se la Merkel almeno due volte all’anno è in visita a Pechino per consolidare le alleanze e stringere accordi commerciali, altrettanto (anzi, di più) dobbiamo fare noi. I rapporti politici, da sempre, hanno un peso nella costruzione della pace e della democrazia, ma anche nell’economia. Soprattutto se l’integrazione tra capitale umano e finanziario, può far crescere l’innovazione e valorizzare il talento italiano.

Una scossa da realizzare con serietà

Una scossa da realizzare con serietà

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Fosse solo una partita di poker, tra lanci e rilanci, sarebbe divertente. Ma non lo è. La posta in gioco è tremendamente più seria e cruciale: la ripresa di un Paese stremato e il suo rapporto con l’Europa e con i mercati. Dietro e davanti l’annuncio del premier Matteo Renzi di una legge di stabilità da 30 miliardi senza aumenti fiscali; la spending review per 16 miliardi; l’abbattimento dell’Irap per 6,5 miliardi; il taglio per 3 anni dei contributi per chi assume a tempo indeterminato; la possibilità di ricevere il Tfr in busta paga ci sono questi numeri e questa impostazione. Mix che se confermato in modo chiaro nel testo di legge può segnare la svolta attesa. Oppure, in caso contrario, aprire una finestra sul burrone.

Renzi ha messo sul piatto la credibilità sua e della terza economia dell’Eurozona. Lo ha fatto tirando dritto su una strada dove non mancano le curve pericolose (a partire dall’esame non scontato dell’Europa sulla deviazione dal pareggio di bilancio) e che può essere attraversata da molte incognite. Le preoccupazioni formulate da Bankitalia hanno un loro spessore di veridicità e sarebbe un errore non tenerne in debito conto. Sarebbe sbagliato sottovalutare anche le contestazioni. Infine, ieri come oggi, non è possibile trattare il tema delle coperture finanziarie con un’alzata di spalle. D’altra parte gli impegni assunti dal premier suonano con toni diversi da quelli di uno spot di giornata. Al contrario. La strategia d’attacco prospettata indica una scelta di politica economica e non un compromesso dove tutto “si tiene”. Di queste mezze soluzioni inservibili ne abbiamo collezionate a bizzeffe e l’Italia ha pagato un prezzo altissimo. Se ne ricordi, domani, il Governo.

Il Pil “oscuro” vale 52 miliardi

Il Pil “oscuro” vale 52 miliardi

Chiara Bussi – Il Sole 24 Ore

C’è un Pil buono, che misura gli investimenti virtuosi in Ricerca e Sviluppo. Nei dieci big europei vale 206 miliardi di euro e consente di raggranellare l’1,8% in più di ricchezza nazionale. Ma c’è anche un Pil cattivo, stimato in circa 52 miliardi, che per la prima volta considera le attività illegali: droga, prostituzione e contrabbando di alcol e sigarette. Con un contributo alla crescita dello 0,44 per cento. Da settembre le due facce della medaglia sono state incluse nel calcolo della ricchezza nazionale, con l’entrata in vigore delle nuove regole di contabilità europee del Sec 2010, sulla scia della revisione degli standard internazionali. Una boccata di ossigeno per i conti pubblici in tempi difficili, con l’obiettivo di una maggiore comparabilità dei dati. In attesa della prima comunicazione di Eurostat sul nuovo Pil prevista per venerdì 17 ottobre, Il Sole 24 Ore ha compiuto un viaggio virtuale tra gli Istituti nazionali di statistica delle 10 maggiori economie europee.

La palma per gli investimenti in R&S va alla Svezia: qui le spese per l’innovazione fanno crescere il Pil del 3,7%. Al polo opposto la Polonia, dove ci si deve accontentare di un magro 0,6 per cento. In termini assoluti primeggia però la Germania, con 54,7 miliardi di spinta dall’hi-tech, seguita dalla Francia. L’Italia è al quarto posto, con 20,5 miliardi, con un guadagno dell’1,3 per cento. «Sulla contabilizzazione delle spese di R&S – spiega Gian Paolo Oneto, direttore centrale della contabilità nazionale dell’Istat – la comparabilità tra i Paesi Ue è completa. È invece più difficile riuscire a intercettare la portata economica delle attività illegali, anche perché ognuno ha le proprie specificità di status legale di alcune di esse. Il ruolo di Eurostat sarà decisivo per arrivare a una maggiore convergenza dei sistemi di misurazione». Le stime fornite dai vari Paesi presentano infatti ordini di grandezza ancora difficili da comparare.

La forbice va dallo 0,9% del Pil di Italia e Spagna allo 0,1% di Francia e Germania. Roma e Madrid seguono alla lettera le regole di Sec 2010, mentre Parigi e Berlino si fermano al mercato degli stupefacenti. Così in Italia, dove le attività fuorilegge valgono 15,5 miliardi, la commercializzazione della droga vale da sola 10,5 miliardi, mentre la prostituzione pesa sui nuovi conti per 3,5 miliardi, e il contrabbando contribuisce per 300 milioni. In Spagna l’economia illegale frutta 9,4 miliardi all’anno e il commercio di droga, tra hashish, cocaina, eroina, ecstasy, amfetamine e Lsd, vale da solo mezzo punto di Pil. «Per quanto ci riguarda – spiega Oneto – il lavoro più complesso ha riguardato le stime sulla prostituzione: al contrario del mercato della droga dove ci sono forme di contrasto estremamente organizzate, qui abbiamo meno informazioni e abbiamo proceduto con le stime dal lato dell’offerta, ovvero del numero di prestazioni e dei prezzi medi. I dati forniti dalle associazioni private di assistenza che si occupano di questi fenomeni hanno avuto un ruolo importante». In termini assoluti al secondo posto dopo l’Italia c’è la Gran Bretagna con un impatto di 10,7 miliardi.

In Francia, come sottolinea Eric Dubois, direttore delle analisi economiche dell’Insee, il mercato degli stupefacenti vale circa 2 miliardi. Nel Paese, invece, la prostituzione è legale, ma non lo sfruttamento. «I ricavi derivanti dalla prostituzione esercitata in un contesto legale ma non dichiarati – precisa Dubois – sono già inclusi nel Pil da tempo e confluiscono nelle stime sul sommerso. Riteniamo invece che la prostituzione clandestina non debba essere considerata nel calcolo perché coinvolge in genere immigrati clandestini che operano in reti criminali». Anche in Germania, sottolineano dall’Ufficio di statistica, la prostituzione non è proibita e le stime sull’impatto di questo mercato sono già incluse nel Pil, mentre il contrabbando di alcol e sigarette «non ha un impatto economico dati i prezzi relativamente bassi». Resta il mercato della droga che vale 1,52 miliardi. In Olanda a trainare il Pil “cattivo” è il valore aggiunto del mercato della cannabis che “regala” 1 miliardo di ricchezza in più su un tolale di 2,6 miliardi derivanti dalle attività illegali. Qui l’eroina pesa il triplo dell’ecstasy: 317 contro 103 milioni.

Non era espressamente richiesto dal Sec 2010, ma alcuni Uffici di statistica, come quelli italiano e francese, hanno approfittato della revisione per aggiornare le stime sull’economia sommersa. Roma ha aggiornato al ribasso la previsione: da una forbice finora compresa tra il 16,3 e il 17,5% all’11,5%, che resta comunque il livello più alto tra i dieci Paesi considerati. In Francia, invece, la zona d’ombra rappresenta il 3,4% del Pil e frutta un bottino di 68,1 miliardi. In Belgio l’economia nascosta è stata inclusa per la prima volta nel calcolo della ricchezza nazionale e vale 696 milioni, lo 0,2%, la percentuale più bassa dei top 10. In Germania, Olanda e Spagna, il dato viene stimato ma resta top secret. Qui la strada per l’armonizzazione delle regole resta in salita.

L’innovazione può aprire nuove opportunità

L’innovazione può aprire nuove opportunità

Giuliano Noci – Il Sole 24 Ore

Chiunque lavori con il mondo industriale italiano rileva, in questi ultimi anni, un crescente interesse per la Cina, invocata come investitore risolutivo dei problemi di casa nostra e come mercato capace di risolvere i problemi della nostra domanda interna. Il mercato cinese è per molte categorie merceologiche il primo al mondo, per i numeri della sua popolazione e di una classe media che ormai veleggia verso i 200 milioni di persone (con proiezioni di raddoppio nei prossimi dieci anni). In verità, le nostre imprese hanno colto solo in parte questo potenziale; competitivi nel fashion e in alcuni specifici comparti dell’automazione, abbiamo ancora molto da migliorare (e imparare) nei settori a più alto contenuto di tecnologia. Esportiamo in Cina un terzo di quanto fa la Germania (13 miliardi di dollari) e il 20% in meno della Francia per quanto riguarda i macchinari elettrici. Anche in un’eccellenza “nascosta” come il biomedicale i dati potrebbero essere migliori: esportiamo più di 750 milioni di dollari contro i 2,4 miliardi della Germania e i 5 del Giappone; siamo meglio di Francia e Spagna, ma esportiamo meno della Russia (1,2 miliardi). Vanno meglio le cose nei macchinari per l’agroalimentare: nel 2013 le nostre imprese hanno esportato macchinari per il food processing per oltre 40 milioni di dollari, contro i 130 milioni della Germania, ma più di Francia, Spagna e Regno Unito. È però emblematico che la Germania esporti in Cina oltre 30 milioni di dollari in macchinari per la produzione di spaghetti e prodotti da forno, mentre noi solo 7 milioni.

A qualcuno potrebbe venire in mente che questo deficit di competitività commerciale non sia tutto sommato così penalizzante. Al contrario: la Cina si sta trasformando in modo molto significativo: in particolare, ha un enorme bisogno di aumentare la sua produttività (i costi del lavoro non sono più competitivi con quelli di Indonesia, Thailandia eccetera), di investire in tecnologie ambientali – per far fronte ai gravi danni arrecati in questi decenni all’eco-sistema locale -, deve realizzare un piano energetico in grado di far fronte all’enorme crescita dei consumi interni e molto altro. Si aprono, dunque, nuove prospettive e mercati per il nostro export proprio per l’attenzione che la Cina sta dedicando al tema dell’innovazione.

Se l’Italia vuole allora sperare di poter annoverare il mercato cinese tra quelli di riferimento – e lo deve fare – deve cambiare passo per colmare quel gap di competitività commerciale che caratterizza i nostri settori a più alto contenuto tecnologico. Politica e mondo industriale debbono viaggiare sempre di più a braccetto; fare business in certi settori in Cina (l’energia, per esempio) richiede in primo luogo che il Governo “apra la strada” dal punto di vista politico alle nostre imprese. È necessario, nella logica di focalizzazione degli sforzi, che si individuino le priorità: tecnologie agro-alimentari, aerospazio, ambiente ed energia, design, architettura, sanità e tecnologie per l’automazione industriale. È ugualmente importante che la politica investa sulle università italiane assegnando a quelle meritevoli il ruolo di ambasciatori delle nostre tecnologie: da oltre quarant’anni la Germania ha aperto centri di ricerca e università in partnership con i cinesi e ora molti laureati dell’ex Impero di Mezzo comprano tecnologia tedesca.

Occorre, infine, tener presente che in Cina non funziona la politica dei piccoli progetti; occorre pensare in grande ed essere ambiziosi, facendo leva sulle eccellenze industriali e tecnologiche che il nostro Paese riesce a esprimere. Il Governo cinese ha varato un piano da 400 miliardi di dollari sulle smart grid; l’Italia deve proporsi come partner tecnologico per la progettazione e realizzazione di queste reti intelligenti. Pensando al tema ambientale, deve portare le sue esperienze di trattamento dell’aria e di gestione dei rifiuti per contribuire ad affermare un nuovo modello di urbanizzazione sostenibile, molto importante per i cinesi.

Ce la possiamo fare? Ritengo di sì; negli ultimi mesi il ministero degli Affari esteri, d’intesa con il Miur e sotto la regia del Governo, ha avviato un tavolo con le università italiane per la redazione della strategia nazionale di cooperazione scientifica e tecnologica con la Cina, nella prospettiva di generare ricadute industriali al nostro sistema. Una ripartenza che verrà suggellata il 16 ottobre al Forum dell’Innovazione che si terrà al Politecnico di Milano e vedrà la presenza del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e del primo ministro cinese, Li Keqiang. Occorre, ora, non mollare la presa.