il sole 24 ore

Le tasse dimenticate dei Comuni

Le tasse dimenticate dei Comuni

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

A Vibo Valentia, ogni anno arriva davvero nelle casse del Comune solo il 43,5% delle tasse e delle tariffe che giunta e consiglio mettono a bilancio, e più o meno lo stesso accade a Trapani, Palermo e in quasi tutti i capoluoghi di Sicilia e Calabria, ma anche a Campobasso, Potenza o Latina. A Napoli gli incassi reali nel corso dell’anno arrancano fino a quota 56,6% rispetto ai numeri scritti nel bilancio, a Roma si sfiora il 60% e a Milano si sale verso il 68,3%, su su fino a Bergamo, Bolzano o Reggio Emilia dove tutti gli anni più dell’85% delle entrate si presenta puntuale alla cassa.

Fino a oggi, la distanza che separa teoria e realtà nelle entrate dei Comuni è stata sepolta nei tecnicismi contabili, e al massimo è spuntata in qualche relazione della Corte dei conti. Da domani, o meglio dal 1° gennaio prossimo, sarà proprio questo fattore a decidere le sorti dei Comuni, grazie all’uno-due assestato dalla riforma dei bilanci locali e dalla legge di stabilità appena presentata dal Governo. La prima, scritta negli ultimi tre anni e ora pronta a entrare in vigore, chiede ai sindaci di bloccare in bilancio un «fondo crediti» proporzionale ai buchi incontrati dalla loro riscossione negli ultimi cinque anni, la seconda fa rientrare questa voce nei calcoli del Patto di stabilità. In soldoni, lo scambio suona così: la legge di stabilità taglia del 70% gli obiettivi del Patto per i Comuni (il Patto 2015 vale 1,4 miliardi invece di 4,5), ma la riforma blocca i bilanci nelle amministrazioni che non riescono a incassare. Il risultato divide i Comuni in due grandi gruppi: quelli che riscuotono meglio le loro entrate potranno godere in pieno dei nuovi bonus sul Patto di stabilità, gli altri dovranno invece agire drasticamente di forbice.

Come mostrano le elaborazioni realizzate per il Sole 24 Ore da Bureau Van Dijk sul database AidaPa che passa in rassegna tutti i consuntivi dei Comuni, il meccanismo divide con nettezza l’Italia in due. I dati si riferiscono al 2008-2012 perché i certificati 2013 non sono ancora disponibili, ma l’orizzonte quinquennale indicato dalla riforma non lascia alcuno spazio a cambiamenti repentini. In media, i capoluoghi prevedono ogni anno di ricevere per ogni cittadino 882 euro fra tributi (565 euro) e tariffe (318 euro) e ne incassano con puntualità il 66,5%, ma al Sud le percentuali scendono pesantemente mentre al Nord crescono anche di molto. Le eccezioni sono poche (Aosta è 88ª in classifica, Siena 77ª, mentre fra le città meridionali “virtuose” si incontra Barletta al 13° posto), e non cambiano quella che sarà la netta geografia della manovra.

Il nuovo meccanismo chiesto dalla riforma ha il pregio di andare al cuore del problema dei bilanci comunali, sempre più spesso basati su entrate teoriche che non si trasformano in incassi (nei bilanci comunali ci sono oltre 33 miliardi previsti ma mai incassati, si veda Il Sole 24 Ore del 30 giugno) ma finanziano spese reali. L’anno prossimo, le nuove regole bloccheranno nei fondi di garanzia circa 2,4 miliardi, ma la cifra è destinata a impennarsi nei due anni successivi quando la riforma entrerà a regime cancellando alcuni “sconti” contabili previsti per l’anno del debutto.

La Tari alza il conto per le famiglie numerose

La Tari alza il conto per le famiglie numerose

Cristiano Dell’Oste e Michela Finizio – Il Sole 24 Ore

L’unica consolazione è che il bollettino arriva a casa precompilato: la Tari sui rifiuti – diversamente dalla quasi omonima Tasi – non impone ai cittadini di farsi da soli i calcoli. Se però si guardano le cifre, si scopre che il tributo per la raccolta e lo smaltimento della spazzatura spesso è più pesante della service tax sugli immobili. La Tari segue il calendario stabilito da ogni Comune, e in molte città l’acconto è in scadenza in questi giorni. Per una famiglia di tre persone che vive in un appartamento medio-grande, il conto su base annua può andare dai 118 euro di Oristano ai 482 euro di Napoli, con un livello medio di 342 euro.

I dati emergono dalle elaborazioni condotte da Ref Ricerche su un campione di 51 capoluoghi di provincia, ed evidenziano due trend ormai consolidati. Da un lato, un aumento medio del prelievo del 12-13% negli ultimi quattro anni, con punte del 25% per le famiglie numerose. Dall’altro, grandi differenze territoriali, con il servizio che in alcune città costa il triplo o il quadruplo che in altre. Come si spiega questa evoluzione del prelievo? «Gli aumenti – afferma Donato Berardi direttore del laboratorio servizi pubblici locali di Ref Ricerche – dipendono in primo luogo dal taglio dei trasferimenti agli enti locali e dall’introduzione del principio secondo cui il tributo deve coprire i tutti i costi del servizio: se nel 2010 la copertura era dell’85%, oggi si arriva di fatto al 100 per cento». Ma ci sono anche altre spiegazioni. Sull’andamento del tributo, infatti, incide anche l’adozione del principio comunitario «chi inquina paga»: in assenza di criteri di misurazione effettiva della quantità di rifiuti prodotti, molte città hanno intanto alzato il prelievo in base al numero degli occupanti dell’immobile. E poi, conclude Berardi, «non va dimenticato che le variazioni di tariffa possono riflettere anche presenza di costi del servizio molto diversi sul territorio. In particolare, dove la raccolta non è efficiente o non ci sono discariche o impianti adeguati, la spesa per le famiglie tende ad aumentare».

Non è un caso, allora, che il conto della Tari raggiunga il picco massimo proprio a Napoli, dove da anni si combatte contro l’emergenza rifiuti, sia per i single (198 euro per 50 mq) sia per le famiglie di cinque persone (628 euro per 120 mq). «I prelievi più marcati – aggiunge Berardi – spesso nascondono problemi di finanza pubblica oppure tecnologie di gestione dei rifiuti più o meno trascurate». Tra le città con i costi più alti, ad esempio, c’è anche Alessandria, da tempo in difficoltà finanziaria.

Oltre all’importo totale, c’è anche un altro aspetto importante da valutare: la progressione del prelievo in base al numero di occupanti. Che una famiglia di tre persone paghi più di un single è assodato, ma “quanto” di più dipende dalla modulazione della tariffa scelta a livello comunale. È Cremona, in particolare, a differenziare maggiormente il tributo in base al numero di occupanti, a parità di superficie: qui il conto in euro al metro quadrato per le famiglie di cinque persone è dell’80% superiore a quello per i single. La maggior parte dei Comuni, però, sceglie di non “stressare” troppo questo criterio: una ventina di città introduce differenze minori del 10% tra i single e le famiglie di tre persone, sempre ragionando a parità di metratura. D’altra parte, il numero degli occupanti è solo un surrogato di un vero criterio di misurazione dei rifiuti. Ma sono ancora pochi gli enti locali che applicano criteri puntuali più incisivi, legati ad esempio al conteggio degli svuotamenti dei cassonetti o al peso dei sacchetti. A influenzare, infine, gli aumenti sulla tariffa rifiuti è anche la morosità dei contribuenti che, sempre secondo Ref Ricerche, in alcune città arriva a toccare tassi a doppia cifra, imponendo di fatto un sussidio a carico delle altre utenze.

Per le imprese l’incognita dell’imposta versata dalla PA

Per le imprese l’incognita dell’imposta versata dalla PA

Matteo Mantovani e Benedetto Santacroce – Il Sole 24 Ore

La lotta alle frodi Iva si arricchisce di un nuovo strumento: lo split payment nelle operazioni effettuate con la Pa. Il Ddl di Stabilità 2015 prevede, in estrema sintesi, che l’imposta venga versata dal soggetto pubblico che acquista un bene o un servizio da un privato. Il fornitore, pertanto, riceve dal cliente l’importo fatturato al netto dell’Iva. Il meccanismo serve a inibire le frodi basate sul missing trader, in cui il debitore dell’imposta, dopo averla riscossa dal proprio cliente, omette di versarla per poi “scomparire”. Lo split payment riguarderà solo i rapporti di fornitura (di beni e servizi) con lo Stato, gli organi dello Stato e, in generale, con tutti gli enti pubblici, laddove l’operazione non sia assoggettata al reverse charge. La Pa, pertanto, assume il ruolo istituzionale di collettore del gettito Iva verso l’erario.

Non mancano, però, le incognite. Sia perché il sistema – solo tratteggiato nel Ddl – non sarà implementabile se non previa autorizzazione dell’Ue e le modalità tecniche di funzionamento saranno dettagliate in seguito con un decreto ministeriale. Sia perché rischia di creare complicazioni ai fornitori sotto il piano degli adempimenti e su quello finanziario. Il fatto che il cedente/prestatore emette nei confronti della Pa una fattura con Iva esposta (come sembra emergere dalla relazione al Ddl Stabilità) crea il problema di come gestire contabilmente tali documenti. Le imprese saranno chiamate a modificare i sistemi informatici tenuto conto che alla rivalsa dell’Iva non conseguirà un’entrata finanziaria e la relativa imposta (solo esposta) non andrà computata a debito nella liquidazione di periodo. Sarebbe più semplice consentire la fatturazione senza Iva, ma oggi manca un valido titolo per non applicare l’imposta.

Sul versante finanziario, lo split payment porta coloro che lavorano prevalentemente con la Pa a trovarsi in una costante situazione di credito Iva. Certo, a tali soggetti è esteso il diritto al rimborso, sia annuale che trimestrale, dell’eccedenza a credito. Tuttavia, il rimborso è vincolato al trascorrere di tempi tecnici: ciò può condurre a squilibri nei flussi di cassa, con la conseguente necessità per le imprese di rivedere la gestione della tesoreria. Inoltre il Dlgs semplificazioni (atteso all’approvazione definitiva del Governo dopo il secondo parere parlamentare) mira a facilitare la procedura di rimborso Iva eliminando la prestazione delle garanzie: questo in parte mitiga l’onerosità della procedura ma non risolve il problema legato ai tempi. Del resto, le difficoltà dello split payment sono state segnalate anche a livello comunitario. La comunicazione sul futuro dell’Iva – Com(2011)851 – riporta che la proposta di implementazione di tale sistema ha suscitato reazioni tendenzialmente negative da parte di imprese e consulenti, preoccupati dell’impatto che lo split payment può produrre sul flusso di cassa e sui costi di conformità.

Fisco e cittadini, serve più fiducia

Fisco e cittadini, serve più fiducia

Enrico De Mita – Il Sole 24 Ore

Il direttore dell’agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, in queste settimane ha più volte illustrato la sua visione di ruolo e compiti dell’amministrazione finanziaria. È un approccio nuovo, che merita di essere richiamato, per l’intelligenza politica e soprattutto per la sensibilità giuridica che esprime. Controlli sì, lotta all’evasione certamente, ma anche più fiducia reciproca. È la concezione del fisco che risale a Vanoni e che questo giornale ha continuamente richiamato. La Orlandi fa riferimento soprattutto alle imprese ma il discorso vale per tutti i contribuenti. La filosofia che anima le sue dichiarazioni va oltre il contingente.

Che cosa afferma la Orlandi? Le norme antielusione per principio vanno superate. Come vanno superate le norme caratterizzate da estrema volatilità, che sono come i cerotti per tamponare le emergenze per mettere «toppe improvvise». Difatti, l’attuale ordinamento tributario è senza respiro, si avvita su se stesso, e diventa la causa più formidabile dell’evasione e soprattutto dell’elusione. Si crea difatti incertezza che è il principale nemico delle imprese, non solo ma di tutti i contribuenti. Le norme fiscali non sempre sono chiarissime, il che è solo un eufemismo per dire che ci troviamo di fronte a un groviglio senza né capo né coda. La fibrillazione e l’incertezza sono due costanti del sistema. E tutto questo demotiva le imprese italiane che decidono, sostiene sempre il direttore delle Entrate, di andare all’estero a causa «di una legislazione non allineata alle regole internazionali».

Se davvero il nuovo direttore delle Entrate riuscirà a far cambiare la filosofia del rapporto tra amministrazione e contribuenti, saremo di fronte a una svolta radicale. Se alle parole seguiranno i fatti si vedrà. Rossella Orlandi è a capo dell’amministrazione. Il suo è un discorso politico, è un discorso da ministro. Ci vorranno tempi lunghi per l’attuazione di questa linea. Ma questa è la direzione. È la prima volta che si sente parlare di fiducia reciproca. Finora non se ne trova traccia nei discorsi politici. Per capire come stanno le cose dal punto di vista politico basta ricordare alcune delle ultime proposte del governo che per la loro modestia dimostrano che la strada di una nuova filosofia non è stata ancora imboccata.

Il primo passo lo deve fare il governo. È significativo il richiamo della Orlandi alla lentezza che caratterizza i lavori per l’approvazione delle delega fiscale. «Una delega pensata non per rifondare ma per una manutenzione del sistema» e che va resa «effettiva ed efficace, procedendo spediti, visto che finora i tempi si sono allungati», nonostante ci abbiano lavorato «già tre governi e due parlamenti». La vicenda della legge delega dimostra che nella predisposizione delle leggi fiscali bisogna distinguere l’aspetto politico dalla formulazione tecnica: la prima tocca alla classe politica la seconda all’amministrazione, senza confusione di ruoli.

Le due trappole che l’Europa non vede

Le due trappole che l’Europa non vede

Paul Krugman  – Il Sole 24 Ore

Chiunque studi l’economia monetaria internazionale conosce bene la Legge di Dornbusch: «La crisi ci mette molto più tempo ad arrivare di quanto pensavate, e poi si svolge molto più in fretta di quanto avreste pensato» (lo disse in un’intervista, nel 1997, il compianto economista tedesco Rudi Dornbusch). E con l’ultima crisi dell’euro è successo esattamente questo.

Fino a poco tempo fa gli austeriani che dettano la politica macroeconomica della zona euro andavano in giro tronfi a cantar vittoria per una modesta risalita della crescita. Poi l’inflazione è precipitata e l’economia dell’Eurozona ha cominciato a incepparsi, e tutti sono andati a riguardarsi i fondamentali e si sono resi conto che la situazione rimaneva molto seria. Anche nell’estate del 2012 la situazione sembrava grave, e Mario Draghi, il presidente della Bce, riuscì a evitare che il vecchio continente precipitasse nel baratro. E forse riuscirà a farlo di nuovo, ma adesso il compito appare molto più difficile.

Nel 2012 il problema erano gli interessi sui titoli di Stato dei Paesi della periferia dell’euro, che in realtà, come adesso sappiamo, crescevano più per questioni di liquidità che per problemi di solvibilità. Una volta sgombrato il campo dalla prospettiva di una carenza di liquidità, il panico rientrò. Ma quello che sta succedendo adesso è ben diverso. È una crisi al rallentatore e coinvolge tutta la zona euro, che sta scivolando verso una trappola deflativa. Draghi può cercare di imprimere una spinta attraverso politiche di allentamento quantitativo, ma non è affatto scontato che possano servire allo scopo. E la politica limita i suoi margini di azione.

Un’altra cosa che mi colpisce è la quantità di confusione intellettuale che ancora c’è in giro. La Germania continua a voler vedere tutta la crisi come l’effetto di una gestione irresponsabile dei conti pubblici, e questo non solo esclude la possibilità di stimoli di bilancio efficaci, ma azzoppa l’allentamento quantitativo. E un’altra cosa incredibile è il fatto che la logica della trappola della liquidità, dopo sei anni- sei anni! -di tassi di interesse quasi a zero, continui a non essere compresa Ho letto recentemente, e non è neanche l’esempio peggiore, un editoriale su FT di Reza Moghadam, vicepresidente della Morgan Stanley, che scrive che «i salari e il costo del lavoro in generale sono semplicemente troppo alti, anche per gli standard dei Paesi ricchi e tanto più rispetto al concorrenti dei mercati emergenti». Santo cielo! Se è la concorrenza esterna che vi preoccupa allora bisognerebbe svalutare l’euro, non tagliare i salari. E tagliare i salari in un’economia incastrata in una trappola della liquidità quasi sicuramente aggraverebbe la recessione. Com’è possibile che ci sia ancora qualcuno che non lo capisce?

L’Europa ha sorpreso molte persone, me compreso, con la sua capacità di resistenza. E penso che la Bce di Draghi sia diventata un importante elemento di forza. Ma faccio sempre più fatica (come altri) a capire come andrà a finire tutta la faccenda (o meglio a capire come farà a finire in modo non catastrofico). Se trovate implausibile una storia in cui Marine Le Pen porterà la Francia fuori dall’euro e dall’Unione Europea, ditemi qual è il vostro scenario alternativo.

Ecco perché il Tfr in busta paga conviene solo a redditi fino a 15mila euro

Ecco perché il Tfr in busta paga conviene solo a redditi fino a 15mila euro

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

Il passaggio dalle slides del dopo-consiglio dei ministri alla bozza del testo del Ddl di Stabilità ieri in circolazione (47 articoli per 123 pagine) reca diverse novità sull’operazione Tfr in busta paga. La prima, quella che ha suscitato le maggiori reazioni, riguarda il profilo fiscale. Sulla retribuzione integrativa di chi opta per avere la liquidazione nel mensile scatterà la tassazione Irpef. Una scelta che, se confermata nel testo ufficiale che verrà trasmesso al Parlamento, farebbe crollare l’appeal della misura per i lavoratori con un reddito superiore ai 15mila euro. L’aliquota media attualmente applicata al Tfr è infatti compresa tra il 23 e il 26%, mentre l’Irpef sull’imponibile che supera i 15mila euro parte dal 27% e cresce con gli scaglioni di reddito sulla nota curva delle aliquote fino al 43%. Ne segue che più elevato è il reddito da lavoro meno è incentivata (fiscalmente) l’opzione del Tfr in busta. A controbilanciare quest’aggravio ne arriva un altro di segno opposto: l’imposta sostitutiva sui redditi derivanti dalle rivalutazioni dei fondi per il trattamento di fine rapporto (ovvero sul maturato) passerà dall’11 al 17%. A chiudere il quadro fiscale una clausola di salvaguardia che esclude il reddito aggiuntivo dal computo del tetto complessivo che garantisce il bonus Irpef da 80 euro, in vigore dal maggio scorso. Insomma, chi opterà per il Tfr in busta non perderà quel bonus.

Passando agli altri profili, l’operazione si conferma di carattere sperimentale, visto che sarà valida per le paghe comprese tra il marzo del 2015 e il giugno del 2018, e volontaria. Sarà inoltre esclusivamente rivolta ai dipendenti privati (ma non i lavoratori domestici e agricoli) e nel caso di scelta della liquidazione in busta mese dopo mese non si potrà più cambiare idea fino a fine giugno 2018. Esclusi dall’iniziativa anche i dipendenti di aziende in crisi o con una procedura concorsuale aperta, mentre potranno optare per il Tfr in busta nei prossimi tre anni anche coloro che hanno già aderito a un fondo di previdenza integrativa.

Sulle modalità di pagamento del Tfr in busta paga si prevede per le imprese una doppia strada: versare direttamente l’ammontare del Tfr maturando ottenendo in cambio gli stessi benefici oggi previsti per i datori che versano il Tfr alle forme di previdenza complementare oppure optare per lo schema di accesso al credito bancario che verrà definito con un Dpcm (da adottare entro 30 giorni dal varo della legge di Stabilità) e con la convenzione Abi-Mef-Ministero del Lavoro. Per seguire questa seconda via il datore deve chiedere all’Inps la certificazione del Tfr maturato dei singoli lavoratori dopodiché potrà chiedere il previsto finanziamento bancario. Al momento del rimborso alla banca degli anticipi dovrà essere riconosciuto solo il tasso di rivalutazione della quota Tfr (ovvero l’1,5% più lo 0,75% annuo dell’indice di inflazione).

Per le piccole imprese (meno di 50 addetti) l’operazione sarà sostenuta da un Fondo di garanzia Inps che parte con una dote di 100 milioni e che verrà finanziato con un contributo datoriale dello 0,2%. In caso di insolvenza le banche si rivolgeranno a questo fondo a sua volta assistito dalla «garanzia di ultima istanza» dello Stato. Tutta l’attuazione del meccanismo è rinviata, come detto, a un decreto del presidente del Consiglio dei ministri. Mentre l’Inps dovrà svolgere il ruolo di «certificazione dei Tfr» a budget invariato e senza contare su nuove risorse umane o strumentali.

Un passo avanti positivo ma attenzione ai tagli

Un passo avanti positivo ma attenzione ai tagli

Guido Tabellini – Il Sole 24 Ore

Questa volta il governo ha smentito gli scettici: non c’è dubbio che la legge di stabilità sia un passo avanti importante con varie novità positive. Il governo ha scelto bene le priorità e sta attuando una strategia di politica economica che, nei limiti del possibile, spinge l’economia italiana verso la crescita.

Innanzitutto, l’impostazione generale è espansiva: seppur nel rispetto del vincolo del 3%, il pareggio del bilancio strutturale è rinviato al 2017 per evitare provvedimenti prociclici. Sommato agli effetti della revisione del Pil annunciata a fine settembre, si ha un effettivo ampliamento del disavanzo di quasi l’1% del Pil rispetto al tendenziale. Non è poco, ma è giusto che sia così. Se la Commissione Europea trovasse qualcosa da ridire su questo punto, dimostrerebbe miopia e stupidità.

Secondo, si affronta il nodo della competitività. Tra la nascita dell’euro e il 2008, il costo del lavoro per unità di prodotto è salito in Italia di circa il 30% più che in Germania. Da allora il divario è aumentato ancora, per via dell’andamento prociclico della produttività. Ciò è insostenibile ed è uno dei fattori alla base dell’attuale crisi economica. Prima con la riforma dell’articolo 18, ora con l’abolizione dell’Irap sul lavoro e gli sgravi contributivi sui neo-assunti, si pongono finalmente le basi per riacquistare competitività e aumentare la domanda di lavoro regolare.

Terzo, scende la pressione fiscale, perché gli sgravi fiscali su imprese e famiglie sono coperti da tagli di spesa. Anche questa è una svolta essenziale per promuovere la crescita e ridare fiducia. Sarà importante, ma non scontato, evitare che questo aspetto della manovra venga stravolta durante l’esame parlamentare.

Quarto, ma più controverso, anche la possibilità per il lavoratore di chiedere il rimborso anticipato del Tfr merita un giudizio positivo. Già oggi, a certe condizioni, i lavoratori possono incassare anticipatamente il Tfr versato, e un numero rilevante di lavoratori si avvale di questa facoltà. Ciò non sorprende, perché la crisi e la stretta creditizia impongono vincoli di liquidità stringenti su molte famiglie. Allentare questi vincoli non solo è efficiente per i diretti interessati, ma sostiene anche la domanda interna. L’obiezione che in questo modo si creano problemi alle piccole e medie imprese (o che si costringe lo Stato a dare garanzie implicite sul Tfr) è sbagliata, sia perché la legge di stabilità ha escogitato un modo per far affluire comunque liquidità alle imprese che la chiedono, sia perché non vi è una valida ragione per sussidiare le imprese piccole con i soldi dei loro dipendenti, sia infine perché l’Inps già oggi assicura il Tfr contro il rischio di fallimento dell’impresa. Più rilevante è l’obiezione che in questo modo si ostacola lo sviluppo della previdenza integrativa; ma anche questo argomento non è persuasivo, sia perché la legge di stabilità non prevede un incentivo fiscale alla riscossione anticipata, ma soprattutto perché non è questo il momento di costringere le famiglie a risparmiare.

Non illudiamoci che il più sia stato fatto, tuttavia. I principali interrogativi riguardano la natura dei tagli di spesa. La legge di stabilità riduce i trasferimenti a regioni e enti locali per circa 6,2 miliardi, senza però intervenire sulle prestazioni e sui programmi di spesa che queste amministrazioni sono tenute ad elargire (l’80% delle uscite delle regioni sono in spesa sanitaria). Riusciranno davvero questi enti decentrati a ridurre le uscite, oppure vedremo solo uno spostamento del carico fiscale dal centro alla periferia, o peggio ancora uno spostamento delle spese fuori bilancio? Preoccupazioni analoghe riguardano i tagli alla spesa dei ministeri (4 miliardi). Per ridurre in modo permanente la spesa pubblica non basta la lotta agli sprechi, occorre anche intervenire sui grandi programmi di spesa, riducendo le prestazioni offerte sotto costo ai cittadini, o tagliando il pubblico impiego. Forse ora non ci sono le condizioni politiche ed economiche per farlo. Ma se non ora, dovremo farlo nei prossimi anni, altrimenti la spesa pubblica riprenderà a salire.

Anche per la competitività resta molto da fare. La riforma dell’articolo 18 andrà estesa anche ai lavoratori del pubblico impiego (non c’è alcuna ragione per discriminare a loro favore). Inoltre il regime di contrattazione dovrebbe essere rivisto, per dare più peso ai contratti aziendali e consentire deroghe alla contrattazione collettiva. Quanto al cuneo fiscale, la componente che grava sulle imprese rimane comunque molto più elevata rispetto agli altri paesi europei (per allinearci alla Germania, occorrerebbero sgravi contributivi per oltre 30 miliardi anche dopo l’abolizione dell’Irap).

Infine, un dubbio sull’azzeramento dei contributi sociali per tre anni sui neoassunti: sebbene l’intento di sostenere la domanda di lavoro sui nuovi contratti regolari sia condivisibile, cosa succederà allo scadere dei tre anni? Il provvedimento è una scommessa che per allora saremo usciti dalla stagnazione, altrimenti dal quarto anno in poi aspettiamoci licenziamenti per evitare l’impennata del costo del lavoro (in barba all’idea del contratto a tutele crescenti). Ma se davvero ci sarà la ripresa, la copertura richiesta per questo provvedimento potrebbe rivelarsi superiore alle stime del governo. Insomma, la strada per cambiare l’Italia è ancora lunga e difficile. Ma il governo l’ha imboccata, ed è la prima volta da tanto tempo che questo accade senza esservi costretto dall’emergenza finanziaria. Speriamo che ci sia tempo per percorrerla tutta, senza precipitare di nuovo nell’emergenza.

La grande minaccia è l’incertezza

La grande minaccia è l’incertezza

Alessandro Plateroti – Il Sole 24 Ore

«Le banche sono il polmone del sistema economico: se gli si stringe troppo il collo, il polmone si ferma e tutto il sistema collassa». Più che uno scenario, per i banchieri è oggi una certezza: lo stallo dell’economia, il crollo delle Borse e l’avvitamento dei titoli bancari su tutti i grandi listini – e in particolare a Piazza Affari – hanno purtroppo radici comuni.Quali? Risposta scontata: il clima di incertezza che circonda le banche. Tesi di parte o autodifesa che sia, sta di fatto che il mercato finanziario sembra ormai confermare con i fatti quanto le banche paventavano da tempo: il rischio di soffocamento da «stretta regolatoria».

È difficile definire del resto una casualità il fatto che il crollo di Wall Street, Londra, Milano, Parigi o Francoforte sia cominciato proprio con la diffusione dei bilanci trimestrali delle grandi banche internazionali: per gli investitori, la redditività stagnante, il basso rendimento del capitale e quindi gli utili asfittici emersi dai conti dei colossi americani come JP Morgan, Wells Fargo o Citigroup sembrano rappresentare non solo la conferma di uno stallo globale della ripresa economica, ma soprattutto il segnale di una svolta strutturale nel ruolo-guida avuto finora dalle banche nella crescita dei mercati e degli indici azionari.

Per i banchieri non è una sorpresa: tassi di interesse ai minimi storici, economie ancora deboli, domanda di credito che non riparte e soprattutto l’incertezza creata dai crescenti requisiti di capitale e dagli eccessi regolatori si stanno combinando in una miscela esplosiva, pericolosa tanto per il credito quanto per le Borse e il risparmio investito. Se Wall Street è crollata infatti sui bilanci delle grandi banche sistemiche, le Borse europee stanno palesemente tremando sull’incertezza (e la durezza) creata dagli stress test dell’Eba. Il timore di un’ondata di ricapitalizzazioni forzate dopo la diffusione dei risultati il 26 ottobre è infatti generalizzato in tutta Europa, esasperando le illazioni sui sistemi nazionali e sulle banche che saranno più colpiti dall’esito dei test sui bilanci del 2013. Un importante contributo al crollo borsisitico delle banche italiane e quindi di Piazza Affari, per esempio, lo ha dato ieri uno dei più autorevoli quotidiani tedeschi: sul sito online dello Spiegel è apparso infatti un articolo in cui si affermava che l’Italia è fra i paesi che avranno i risultati peggiori dagli stress test sulle banche disposti dalla Bce.

Lo Spiegel, citando fonti anonime «ma ben informate», ha preannunciato che per due-tre Paesi del Sud Europa i risultati saranno molto negativi: «Candidati bollenti – è scritto nell’articolo – sono Italia e Cipro». Risultato: il Banco Popolare ha ceduto l’8,09%, Mps il 7,63%, Bpm il 7,59%, Unicredit il 6,14%, Intesa il 5,85% e Mediobanca il 5,77%. Davanti alle illazioni e a un crollo di tale portata, persino il presidente dell’Abi Antonio Patuelli si è sentito in dovere di intervenire: «Spero che le nostre pagelle siano buone – ha detto Patuelli – ma il vero problema è quello delle regole, della rigidezza e della loro applicazione». Anche in questo caso si può obiettare che quella di Patuelli è solo un’auto-difesa d’ufficio, una posizione che cerca di nascondere le debolezze strutturali di un sistema bancario che non ha completato la pulizia dei bilanci e deve ancora affrontare un ineludibile processo di ristrutturazione. Ma l’analisi sarebbe riduttiva. I timori e le incertezze create dalla stretta regolatoria che rischia di soffocare le banche italiane sono gli stessi che gravano sui colossi globali del credito e soprattutto sulle cosiddette banche sistemiche, un gruppo in cui l’Italia è rappresentata solo da Unicredit.

Ebbene, le proposte di revisione dei requisiti di capitale in via di definizione da parte del Financial Stability Board e dal Comitato di Basilea sulla Supervisione bancaria sono talmente ampie e confuse da aver creato un destabilizzante clima di incertezza, tanto per le banche quanto per il mercato. Senza entrare troppo nel dettaglio, basti pensare che l’Fsb ha fatto circolare delle bozze in cui si ipotizza di elevare tra il 16% e il 20% il «core tier one» dei colossi del credito (è il cuscinetto di capitale necessario per assorbire perdite impreviste). Sembrano pochi punti, ma quando si parla di migliaia di miliardi il risultato finale cambia radicalmente: con la soglia del 20%, le banche globali avrebbero un deficit patrimoniale di 870 miliardi di dollari, con quella del 16% di 375 miliardi di dollari. Per i banchieri, come per gli investitori, la forbice dell’incertezza comincia qui. E da qui comincia la caduta dei mercati.

Obiettivo crescita: se non ora quando?

Obiettivo crescita: se non ora quando?

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

È certamente la conseguenza delle nuove incertezze sull’uscita della Grecia dalla crisi, forse c’entrano anche i dati negativi sulla congiuntura Usa, ma la spallata che ha coinvolto la Borsa e i titoli pubblici italiani è un monito per chiunque si fosse fatto illusioni sulla stabilità del titolo Italia sui mercati finanziari. L’Italia resta ancora un osservato molto speciale in Europa. Certo, la coincidenza temporale con l’approvazione della prima legge di stabilità del governo Renzi è del tutto casuale. Ma il segnale non poteva arrivare più chiaro: bene la manovra espansiva, ottima la riduzione delle tasse, ma attenzione alla solidità dei numeri e niente salti nel buio.

Detto questo, c’era una tassa odiosa e adesso non c’è più. Una tassa sull’occupazione, che prescindeva dall’andamento dell’impresa, e quella tassa è stata cancellata per un valore di 5-6,5 miliardi. Le imprese non pagheranno più un assurdo balzello sulla loro capacità di creare o difendere l’occupazione. Una misura che si accompagna all’azzeramento dei contributi nei primi tre anni per le assunzioni a tempo indeterminato. In questo modo, come dimostrato ieri da Giorgio Pogliotti sul Sole 24 Ore, il costo per l’azienda di un’assunzione stabile si ridurrà di quasi un terzo. Significa che assumere a tempo indeterminato potrebbe davvero diventare più conveniente rispetto ad altre formule contrattuali. Soprattutto se alle misure economiche si accompagnerà una vera riforma del mercato del lavoro, con un contratto a tutele crescenti che superi definitivamente le incongruenze e le vischiosità burocratico-giudiziarie dell’attuale articolo 18. Su questo qualunque passo indietro del governo è proibito.

Complessivamente la riduzione della pressione fiscale, tra imprese e famiglie, è significativa. E va anche riconosciuto lo sforzo di coprirla il più possibile con tagli di spesa per 15 miliardi (12 nuovi più 3 già previsti). È vero però che una quota della copertura arriva ancora una volta dalla stima del recupero dell’evasione (3,8 miliardi) e che i tagli di spesa – come ha giustamente osservato Luca Ricolfi sulla Stampa – vengono per una parte riassorbiti da nuove spese. Ma soprattutto c’è il rischio che i circa 6 miliardi di tagli che gravano su Regioni e Enti locali si possano tradurre in nuove tasse. Un rischio molto concreto se si considera che dal 2000 (ultimo anno prima del nuovo Titolo V) la pressione fiscale locale è aumentata dell’80%, cioè da 47 a oltre 81 miliardi.

Renzi comunque può dire a ragione di aver portato a casa una manovra (quasi) senza tasse (con l’eccezione dell’aumento di prelievo sui fondi pensione, sulle fondazioni bancarie e sulle polizze vita). Una manovra decisamente espansiva. Portare il rapporto deficit/Pil dal 2,2 tendenziale al 2,9% permette di investire 11 miliardi in sviluppo. Può essere una scelta ardita, ma se non ora quando? L’analisi con cui Moody’s ha confermato il rating all’Italia sottolinea che è il ritorno alla recessione il fattore che più pesa sui rischi di sostenibilità finanziaria. Lo stesso Fondo monetario, nel rapporto del 22 agosto, ha sottolineato che «il rilancio della crescita è essenziale per superare il pericolo di una crescita fuori controllo del debito».

L’Europa sarà sorda a queste buone ragioni? Sarebbe, va detto senza equivoci, un errore madornale. L’Italia rispetta il parametro del 3%, ha il più alto avanzo primario d’Europa e mantiene comunque un andamento in discesa del rapporto deficit/Pil. Fa tutto questo malgrado un Pil in discesa. E mette anche da parte – novità dell’ultima ora – una riserva da 3,4 miliardi per ogni eventualità. Che credibilità può avere una richiesta di Bruxelles di aumentare la correzione del deficit costringendoci a escludere diversi miliardi dal rilancio della crescita?

«Se non ora quando» vale anche per l’Europa. D’altra parte il giudizio che conta di più è quello che daranno da subito i mercati. Già stamattina la credibilità della manovra di Renzi sarà messa alla prova. Dopo la giornata di ieri c’è da tremare: la scelta della crescita attraverso il taglio delle tasse è la strada giusta, ma guai a perdere la consapevolezza di quanto la strada della stabilità finanziaria sia stretta e difficile. La giornata di ieri, se ne avevamo bisogno, ce lo ha ricordato.

Operazione attenta al consenso ma non manovra elettorale vecchio stile

Operazione attenta al consenso ma non manovra elettorale vecchio stile

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Intorno alle cifre imponenti della manovra di Renzi si discuterà a lungo: dal rapporto fra tagli di spesa e risorse in deficit alla verosimiglianza dell’intero pacchetto, fino alle effettive coperture. Che sia un progetto ambizioso, è chiaro a tutti. Che sia anche realistico, lo si vedrà presto.

Appare chiaro che il presidente del Consiglio gioca su due fronti. Quello europeo è evidente a tutti. Ma l’ambizione che traspare dai numeri va molto al di là del rigido rispetto dei parametri. Sulla carta il famoso tetto del 3 per cento di deficit è rispettato, ma si sono anche poste le premesse dello sfondamento, nel caso in cui i vari tasselli del mosaico non si collocassero tutti al loro posto: cioè se le maggiori spese non fossero compensate da tagli efficaci e soprattutto autentici. Quindi si coglie un rischio calcolato e persino temerario nelle cifre di Palazzo Chigi, anche se non proprio una sfida all’Unione. Ora spetterà alla Commissione di Bruxelles studiare la manovra nel merito, voce per voce, e giudicare la sua serietà. Non sarà, come tutti prevedono, un esame facile e il pericolo della bocciatura s’intravede sullo sfondo.

Tuttavia c’è anche il secondo fronte, a cui Renzi è particolarmente attento. Un secondo fronte che riguarda il rapporto fra il premier e l’opinione pubblica interna. Sotto questo aspetto la legge di stabilità del centrosinistra è una miscela ben congegnata per piacere al maggior numero possibile di italiani. I miliardi destinati ad abbassare le tasse delle imprese servono, almeno nelle intenzoni, a conquistare il mondo produttivo. Al tempo stesso, gli 80 euro confermati nelle buste paga vogliono rendere più solido il patto politico con i bassi redditi.

È chiaro che l’operazione è tutt’altro che banale. Non è una mera ricerca di consenso; al contrario è soprattutto il tentativo di imprimere una spinta significativa a un’economia che non esce dalla recessione: con un Pil tornato ai livelli di quattordici anni fa, cioè al 2000. Ma in ogni caso è anche una legge molto “politica”, nel senso che Renzi l’ha modellata sull’Italia che ha in mente: da un lato, il paese di chi produce e compete sui mercati eppure si sente soffocato; dall’altro, la platea di chi – singoli o famiglie – ha pagato fin qui il prezzo più salato alla crisi. Tale profilo politico della manovra è stato tratteggiato pensando al possibile «blocco sociale» che il premier ha in mente. Quindi è un errore limitarsi a dire che si tratta di una legge scritta pensando alle elezioni anticipate. Anche perché al momento il voto non è vicino, come non è vicina la riforma elettorale maggioritaria che Renzi considera l’indispensabile lasciapassare per le urne.

Detto questo, è certo che si tratti di un passaggio verso il consolidamento del consenso “renziano” nel paese. Consenso che ha bisogno di mettere radici nell’Italia profonda. Poi, una volta rafforzate le radici, il premier potrà giocare con maggiore sicurezza le sue carte. E magari immaginare quel ricorso alle urne che oggi è prematuro. Del resto, è chiaro che una manovra del genere “lacrime e sangue” oggi non sarebbe praticabile in una nazione stremata. Mentre una legge di stabilità come l’attuale permette di tenere in tasca, fin quando non sarà utile, la carta dello scioglimento del Parlamento. E c’è da credere che al momento opportuno, non sappiamo quando, Renzi vorrà giocarla.