il sole 24 ore

Se rigore e riforme non bastano per crescere

Se rigore e riforme non bastano per crescere

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

«Debole? No. L’aggettivo è superfluo, evitiamo i qualificativi». «Beh, tutto si può fare ma negare che oggi in Europa la crescita sia debole è ignorare la realtà». Il battibecco tra Angela Merkel e Matteo Renzi si svolge nel rassegnato silenzio generale intorno al tavolo dell’ultimo vertice di Bruxelles. François Hollande tace, risucchiato dalle disgrazie politiche in casa che ne fanno un fantasma in Europa. L’aggettivo naturalmente sparisce dal comunicato finale, dalle righe in cui si parla della situazione economica dell’Eurozona. In questo modo però la sua assenza diventa ancora più eloquente. Assordante. Perché dice che, siccome la Germania cresce meno ma cresce ancora e più degli altri, il problema non esiste a livello collettivo, è questione individuale, nazionale.

Ovviamente se il problema della crescita debole non è europeo, per risolverlo non servono iniziative europee e piani di investimento continentali: se e quando arriveranno, non potranno essere che una gentil concessione, un gesto più o meno simbolico, non certo la sferzata di rilancio necessaria a battere recessione, deflazione e disoccupazione che deprimono molti Paesi e cominciano a trascinare verso il basso anche la congiuntura tedesca, a rischio di recessione tecnica. Tutto questo significa anche, chiacchiere a parte, che le molle fondamentali dello sviluppo in Europa restano sempre le stesse, due e non tre, le solite. Cioè riforme strutturali e rigore, un po’ più temperato sì ma con estrema moderazione e la flessibilità delle regole Ue ridotta al minimo indispensabile. Evidentemente agli occhi del cancelliere tedesco la credibilità delle norme oggi è più importante della stabilità economica e finanziaria: di fronte ai mercati o all’elettorato tedesco?

La conferma che ben poco per ora è destinato a cambiare sotto il cielo europeo è arrivata del resto nelle ultime 48 ore. Alla fine Italia e Francia hanno evitato la clamorosa bocciatura delle rispettive leggi di bilancio per il 2015. Francia e Italia hanno ottenuto qualche margine di manovra in più vista l’avversa situazione economica in cui si trovano ma, per scongiurare una sanzione politica senza precedenti (che l’Europa poteva permettersi solo a proprio rischio e pericolo) hanno dovuto andare a Canossa, rassegnarsi a ridurre, a suon di miliardi in più messi in finanziaria, gli scostamenti dagli impegni che avevano previsto. Jirki Katainen, che sarà dal primo novembre uno dei due vice-presidenti Ecofin nella nuova Commissione Juncker, ha comunque immediatamente provveduto a rovinare la festa dissipando ogni possibile equivoco. Ha chiarito che lo sconto sarà una tantum: non varrà retroattivamente anche per l’anno in corso, quindi le verifiche di Bruxelles potrebbero anche concludersi con la comminazione di multe agli indisciplinati. Nessuna grazia nemmeno per altre deviazioni dalla retta via macro-economica. L’Italia è già nel mirino di una procedura Ue per superdebito ed eccessivi divari di competitività. Pacta servanda sunt : il concetto è impeccabile, difficile non condividerlo. Del resto il timore che una flessibilità di manica larga possa indurre i Governi ad allentare gli sforzi di risanamento e modernizzazione, nasce non dalla paranoia di pochi ma da un’esperienza consolidata.

La realtà però questa volta stride, deborda dalle gabbie giuridiche quando l’economia europea rischia la sindrome giapponese, elettroencefalogramma piatto per una decina di anni. Non si esce dal tunnel, ha avvertito il presidente della Bce, Mario Draghi, all’ultimo vertice Ue, con «la strategia della speranza». Se rigore e riforme sono urgenti e necessari, a patto di non farne indigestione, oggi da soli non bastano. Oltre a una politica monetaria accomodante e a un euro dal cambio più competitivo, ci vuole anche la crescita e al più presto, senza attendere i tempi fisiologici in cui la cura di risanamento darà i suoi frutti positivi. Altrimenti l’Europa finirà impiccata alle sue regole. Anche la Germania, che si illude di essere immune dai problemi altrui, ne pagherebbe lo scotto. Del resto già si avvertono i primi segnali.

Scossa utile ma attenti ai rischi

Scossa utile ma attenti ai rischi

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Matteo Renzi cerca di sparigliare le carte in tavola a Bruxelles provando a strapazzare protagonisti, palazzi e salotti buoni del potere europeo alla stessa maniera spudorata e guascona con cui a Roma ha attaccato, con determinazione e successo, quelli italiani. «Per un Paese come il nostro che ogni anno versa al bilancio europeo 20 miliardi e ha fatto una manovra da 36, uno o due miliardi in più non saranno un grande sforzo», spiega il presidente del Consiglio al suo arrivo al vertice Ue, minimizzando le contestazioni della Commissione Ue alla legge di bilancio per il 2015, ricordando che il Trattato prevede attenuanti per circostanze eccezionali, difendendo, in nome della trasparenza verso i cittadini, la decisione, criticata invece da José Barroso, di pubblicare la lettera confidenziale ricevuta da Bruxelles. Chiarendo, infine, che non tratterà con il presidente uscente della Commissione ma con il nuovo, Jean-Claude Juncker, in carica dal 1° novembre.

L’Europa non è abituata ad avere a che fare con un’Italia polemica e combattiva, che ribatte punto su punto e senza complessi alle reprimende Ue che fin troppo spesso le piovono addosso. Ma un’Italia più presente e partecipe nella squadra europea è un bene per il Paese e per l’Europa. Però non sempre brillanti show mediatici e negoziati ad alta voce sono gli strumenti migliori per centrare gli obiettivi. Sono cinque i Paesi che hanno ricevuto lettere con richieste di informazioni e chiarimenti sulle leggi di stabilità. A parte l’Italia, nessuno ha levato gli scudi né ha pubblicato i contenuti.

Invece tutti, Francia per prima, si limitano a trattare cercando di tirare acqua al proprio mulino, di smussare gli angoli dei patti europei a proprio vantaggio. «Le regole vanno interpretate con il massimo di flessibilità per incoraggiare il rilancio degli investimenti», ha ripetuto anche ieri il francese François Hollande. Che, dopo aver flirtato con Renzi inseguendo ambiziosi patti europei per la crescita, per ora solo immaginari, sembra aver ripiegato con discrezione sulla realpolitik di sempre: intesa con la Germania nel tentativo di massimizzarne lo scudo sui mercati con il minimo sforzo in termini di riduzione del deficit e di riforme da fare. Berlino non si fida di Parigi ma non può permettersi di tirare troppo la corda rischiando di scatenare una nuova tempesta sull’euro.

Proprio perché vuole riasserire la credibilità delle regole europee, pur sapendo che nell’attuale scenario di recessione e deflazione un eccesso di severità avrebbe effetti controproducenti per tutti, Angela Merkel si muove decisa ma senza clamori. Le stentoree prese di posizione di Renzi disturbano le sue manovre con Hollande ma, soprattutto, rischiano di fare dell’Italia il materasso delle concessioni ai francesi: non per cattiveria o arbitrario accanimento ma per dare ai mercati l’esempio di una coerenza nel rispetto dei patti europei che pure alla fine non ci sarà.

Quando Renzi evoca a gran voce le circostanze eccezionali per attenuare i morsi del rigore di bilancio fa il suo mestiere. Ma quando liquida in 1 o 2 miliardi l’entità dello sforzo aggiuntivo che gli verrà richiesto corre il pericolo di venire smentito. Perché è vero che l’economia italiana boccheggia e ha un disperato bisogno di crescita e investimenti ma è altrettanto vero che nel 2014 non ha rispettato l’impegno a una correzione strutturale dello 0,7%, la stessa prevista per il 2015, ma ha registrato un aumento del deficit dello 0,3. Visto che nella prossima Legge di stabilità lo sforzo si riduce allo 0,1%, lo scostamento di cui si discute ammonta all’1,6% del Pil, una cifra superiore ai 20 miliardi. Le circostanze eccezionali, che ci sono tutte, abbatteranno l’impegno richiesto: fino a 2 miliardi è forse è sperare troppo.

Che il cambio della guardia a Bruxelles porti più comprensione per le ragioni italiane appare un grosso azzardo: ricorda quello della sinistra europea quando contava sull’avvento della Spd al governo in Germania per scardinarne i dogmi rigoristi e dare una forte sterzata alla crescita. Juncker crede con convinzione nei benefici insiti nelle politiche di austerità e riforme ma ritiene altrettanto fondamentale rimettere in moto lo sviluppo con un piano da 300 miliardi in 3 anni. Però non è chiaro quali saranno i suoi reali margini di manovra. A sentire ieri la Merkel si direbbe sempre gli stessi: «I deficit più alti non aiutano la crescita, lo dimostra l’esperienza del passato. Dobbiamo coniugare sviluppo e consolidamento di bilancio». Decisamente la partita di Renzi in Europa rischia le sabbie immobili.

Perché serve la manovra espansiva

Perché serve la manovra espansiva

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Nel lessico della minuziosa governance europea, dove le virgole possono prevalere sulle buone idee, nulla è casuale. Dunque, c’è poco da interrogarsi sul significato delle due parole (“deviazione significativa”) che sintetizzano l’analisi con cui la Commissione chiede spiegazioni al Governo italiano sulla sua strategia di bilancio. Nelle “Raccomandazioni” del Consiglio europeo del luglio scorso, quelle che richiedevano “sforzi aggiuntivi” per il rispetto del Patto di stabilità, c’era scritto che “nel 2014 è prevista una deviazione dal percorso di aggiustamento verso l’obiettivo di medio termine che, se si ripetesse l’anno successivo, potrebbe essere valutata come significativa, anche in base al parametro di riferimento per la spesa”.

Ecco, il piano del Governo Renzi per il 2015 è arrivato e la “deviazione” è diventata “significativa”. Il che, tradotto in chiaro, vuol dire che la partita tra Bruxelles (dove siamo al passaggio di consegne tra Manuel Barroso e Jean Claude Juncker alla guida della Commissione) e Roma si è appena aperta e che Matteo Renzi ha deciso di giocarla in attacco. Puntando, in Italia e in Europa, su una politica economica di rottura in chiave pro-crescita, impostazione oggi sostenuta con forza anche dalla Banca d’Italia. La posta in gioco è questa e la mossa del premier italiano, fino al 31 dicembre alla guida anche del semestre di presidenza europea, è politicamente significativa al pari della deviazione di bilancio che prospetta. Naturalmente, a patto di trarne tutte le conseguenze e mettendo in conto che non sarà una schermaglia verbale a far “cambiare verso” all’Europa, atteso che anche il nuovo presidente della Commissione Juncker (che promette a sua volta il piano europeo da 300 miliardi di investimenti entro Natale ma non ha specificato con quali risorse) sostiene che le regole non si cambiano e che flessibilità è quella prevista dai trattati. In questo, allineato con la posizione della Cancelliera tedesca Angela Merkel, che l’ha voluto al vertice del governo europeo.

L’Italia, terza economia dell’eurozona ma col nervo scoperto di un debito pubblico fin qui dimostratosi incomprimibile anche per la cronica assenza della crescita (ieri Eurostat ha segnalato che è appannaggio dell’Italia il più alto incremento del secondo trimestre 2014, +3,1% al 133,8%) ha assoluta necessità di una scossa. La stessa Commissione europea, nelle sue raccomandazioni del luglio scorso, metteva l’accento sulla necessità di ridurre il carico fiscale sul lavoro, “creare un ambiente più favorevole per le imprese”, riformare il mercato del lavoro. Oggi, la Banca d’Italia scrive nero su bianco che la scelte del Governo di far salire l’indebitamento netto del 2015 dello 0,7% del prodotto, facendo arrivare il rapporto deficit/Pil al 2,9%, appena sotto la fatidica soglia del 3%, “appaiono motivate”. “Un più graduale processo di riequilibrio può aiutare ad evitare – osserva la Banca centrale – una spirale recessiva della domanda e si giustifica se i margini di manovra che ne derivano saranno utilizzati efficacemente per rilanciare la crescita dell’economia e innalzare il potenziale di sviluppo nel medio e lungo termine”. Come dire che la legge di stabilità, ieri controfirmata dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano schierato contro la “paralisi” e che non si stanca di chiedere “cambiamenti veri”, va nella direzione auspicata.

Ma se da un lato Renzi può mettere oggi all’attivo la spinta in positivo di Bankitalia e Quirinale, dall’altro non può che essere consapevole fino in fondo della partita che ha aperto e che non potrà essere affrontata, a meno che non si punti ad un compromesso di piccolo cabotaggio dopo aver alzato la voce, a colpi di “uno o due miliardi li troviamo subito, anche domattina”. Né è immaginabile che l’atteso cambio di rotta della politica economica possa camminare sulle sabbie mobili di testi legislativi improvvisati e che si compongono nel tempo, riempiendo di volta in volta i buchi che emergono qua e là e che ri-attualizzano la retroattività come metodo di governo fiscale. Piuttosto, a partire dal Jobs Act e dall’attuazione puntuale delle riforme, sono le scelte chiare e lineari quelle che devono imporsi come fatti. Quanto pesa sui mercati, proprio perché l’Italia si misura qui ogni giorno sulla sostenibilità del suo debito, il fattore credibilità? È questa la domanda cui il Governo deve dare una risposta adeguata.

Casa, se le tasse pesano più della rendita

Casa, se le tasse pesano più della rendita

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

Diciamo la verità. Fa un certo effetto confrontare la rendita catastale complessiva attribuita al patrimonio immobiliare italiano con il costo fiscale che tra imposte dirette, imposte indirette e tributi locali i proprietari sopportano ogni anno. Quasi 37 miliardi di euro di rendita contro oltre 50 miliardi versati annualmente al fisco fra tributi e balzelli.

Le tasse “pesano” molto più della rendita, per la precisione la superano di oltre il 35 per cento. Naturalmente, la rendita indica solo in teoria la redditività di un immobile. La realtà è diversa e sappiamo come la rendita non rappresenti il reddito figurativo che un proprietario ricava dal proprio immobile. Il nostro sistema di tassazione, infatti, utilizza come base imponibile il valore catastale di un fabbricato o di un terreno che si ottiene moltiplicando la rendita per determinati coefficienti che variano a seconda della tipologia dell’immobile.

In linea di principio, però, la sorpresa rimane. Perché, per azzardare un esempio, è come se un investimento finanziario fosse tassato non sul rendimento ottenuto (la rendita) ma sul valore del capitale, del patrimonio. Non scopriamo da oggi che la tassazione sul mattone ha raggiunto livelli esorbitanti (basti dire che prima del 2012, il gettito immobiliare complessivo del mattone non arrivava a 37-38 miliardi). È che ogni giorno diventa più evidente come sia urgente un ripensamento dell’intero sistema. Abbiamo, in primo luogo, un problema di tassazione locale degli immobili. C’è il caos della Iuc (Imu+Tasi) da risolvere, con l’impegno del governo ad andare verso un’imposta davvero unica, che consenta di superare la convivenza di Imu e Tasi, che sia più semplice da calcolare e, auspicabilmente, che, pur rispettando l’autonomia dei sindaci, possa evitare gli eccessi che abbiamo in questi mesi toccato con mano.

C’è, poi, un aspetto che la politica fatica a cogliere legato alla struttura dell’imposizione sul mattone. Nei sistemi in cui la tassazione è di stampo patrimoniale e il possesso dell’immobile subisce un prelievo significativo, la tassazione indiretta sui trasferimenti è generalmente contenuta. In Italia, non avviene così e alle pesanti pretese del fisco (locale) sul possesso di un immobile si aggiungono quelle altrettanto pesanti (dello Stato) sulle compravendite.

Sullo sfondo resta la riforma del Catasto. L’obiettivo è di eliminare le iniquità del sistema attuale (ci sono immobili simili con valori catastali molto diversi o valori catastali identici per immobili diversi tra loro). La revisione delle rendite restituirà basi imponibili molto più elevate rispetto a oggi, come molte simulazioni fanno chiaramente emergere. Se così stanno le cose, c’è allora da chiedersi che accadrà al gettito fiscale sul mattone. Crescerà con la stessa dinamica delle rendite? La delega fiscale, che fissa i criteri della riforma del Catasto, indica il principio dell’«invarianza di gettito». Quindi, nuove rendite più eque senza aumento di tasse. Ma ancora: sarà vero? E funzionerà il meccanismo che affida a governo e Parlamento il compito di vigilare per evitare i rincari? Qualche rischio, insomma, è dietro l’angolo. Ma attenzione: 50 miliardi di tasse sono già uno sproposito. Vediamo di non preparare il terreno a un nuovo pericoloso record.

Flessibilità e coperture

Flessibilità e coperture

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Se la scommessa della manovra “espansiva” da 36 miliardi varata dal governo è provare a invertire il ciclo negativo, non ha molto senso limitare la partita con Bruxelles a una «promozione» o a una «bocciatura». Certo va salvaguardato il rispetto formale delle regole, preoccupazione che sembra nutrire soprattutto la Commissione uscente, ma l’impressione è che ancora non si sia colto il vero problema: con gli attuali tassi di crescita, con la miscela esplosiva di stagnazione e deflazione, occorre imboccare in fretta una strada fatta di investimenti, regole di bilancio più flessibili, sostegno deciso alla domanda interna.

Per quel che riguarda l’Italia, la strategia che il governo sta imbastendo nei contatti di queste ore con Bruxelles non è evidentemente priva di rischi e incognite. Il ricorso alle «circostanze eccezionali» motiva la scelta di rallentare il percorso di consolidamento fiscale, con l’obiettivo di evitare manovre restrittive che avrebbero effetti ulteriormente depressivi del ciclo economico. Poi la scommessa delle riforme. Infine il confronto certamente tecnico ma con risvolti evidenti di policy, sulle stime utilizzate da Bruxelles in particolare per quel che riguarda il calcolo del pil potenziale. Tutti temi al centro della trattativa che si aprirà tra breve con la nuova Commissione Juncker. Nell’immediato – e dunque da qui al 29 ottobre, data in cui la Commissione uscente dirà la sua – si tratta di trovare la sintesi su una posizione di compromesso, anche per non trasformare (è il timore del presidente permanente anch’egli uscente Herman Van Rompuy) il vertice europeo di domani e venerdì in un pericoloso braccio di ferro tra la Commissione e i paesi cui sono dirette le missive, in primis l’Italia, e poi Francia, Slovenia, Malta.

Per salvare la forma, può bastare allora una lettera di richiesta di chiarimenti di Bruxelles, cui seguirà una probabile lettera di risposta in cui vengano riassunti gli intendimenti programmatici del governo e la ratio della legge di stabilità, se necessario mettendo in campo la “dote” di 3,4 miliardi di euro appostata ad hoc nella legge di stabilità? Questione che diverrebbe secondaria, qualora venisse accordata al nostro paese non una cambiale in bianco, ma un’apertura di credito sul versante delle riforme e su una manovra “espansiva” che prova a scommettere sulla crescita. L’alternativa non è nei fatti perseguibile, se ispirata a logiche esclusivamente rigoriste. Per avere una qualche chance di successo, la manovra che ieri sera è approdata al Quirinale finalmente corredata della “bollinatura” della Ragioneria, deve poter contare su coperture certe, soprattutto per quel che riguarda l’effettiva realizzabilità dei tagli alla spesa. In caso contrario, sarebbe arduo difenderla in sede europea. La vera partita con Bruxelles potrebbe così essere direttamente rinviata alla prossima primavera, quando la legge di stabilità comincerà a dispiegare i suoi effetti e si potrà fare il punto sulle riforme approvate.

Se Berlino approva investimenti «con rigore»

Se Berlino approva investimenti «con rigore»

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Esce la Commissione di José Manuel Barroso, entra quella di Jean-Claude Juncker. Due ex primi ministri, due popolari, uno portoghese, l’altro lussemburghese. Il cambio della guardia si celebrerà il 1° novembre. Sarà vera svolta? È il grande interrogativo che pesa sul nuovo quinquennio europeo che va a incominciare e alla vigilia di un nuovo vertice Ue che domani e venerdì a Bruxelles, nel mezzo di una congiuntura sempre più negativa, dovrebbe parlare di crescita e investimenti e invece quasi certamente ripiegherà sui soliti mantra del rigore e delle riforme strutturali, dei patti di stabilità quali veri e unici motori di uno sviluppo sano.

Da anni la chiave di tutte le scelte europee sta a Berlino dove regna Angela Merkel, la cui proverbiale cautela è sempre più condizionata da destra, da Alternativa per la Germania che erode ai fianchi la Cdu-Csu, invece che dai socialisti della Spd, i suoi partner nel governo di grande coalizione. A favorirne una benefica sterzata di sicuro non aiuta l’incomunicabilità crescente con la Francia di François Hollande, che sfida apertamente le regole Ue pur professando al contempo il proposito di rispettarle… con il tempo. Né aiuta l’altrettanto crescente divaricazione del credo e delle ambizioni di popolari e socialisti, i due maggiori partiti europei, alfieri gli uni di un’assertiva politica di risanamento e modernizzazione dei vari sistemi-Paese e gli altri di un grande piano europeo di investimenti capace di rimettere in moto crescita e occupazione, come complemento indispensabile della dottrina dei sacrifici e delle riforme.

La plateale cacofonia programmatica tra i due fronti, che del resto ricalca quella franco-tedesca, alla lunga rischia non solo di far saltare la grande coalizione che oggi governa anche l’Europarlamento ma di mettere alle corde la nuova Commissione Juncker e i suoi margini di mediazione in casa e fuori. Il tutto in un clima di ambiguità fatto apposta per aumentare la confusione sugli obiettivi condivisi e paralizzare una macchina decisionale già molto complessa. Del resto quando, per superare l’esame delle audizioni parlamentari, il socialista francese Pierre Moscovici, nuovo commissario agli Affari economici, invece di difendere, alla luce dei guasti indotti dall’austerità eccessiva, in modo forte e chiaro l’urgenza dello sviluppo nell’interesse collettivo e della tenuta dell’euro, ha preferito dissimulare le sue convinzioni facendo il “tedesco” tutto d’un pezzo, come sperare in un’Europa diversa e migliore?

Nel grande malessere che contrassegna il principio del nuovo quinquennio c’è però anche dell’altro. C’è l’ignavia di Francia e Italia, seconda e terza economia dell’euro: non brillano per coerenza e serietà nel rispetto di regole e impegni europei eppure non esitano a contestarli in nome della causa giusta della crescita, che però diventa inevitabilmente meno giusta alla luce delle rispettive e incontestabili inadempienze. C’è la sfiducia della Germania circa le reali intenzioni dei suoi maggiori partner, tanto profonda da indurla al pareggio di bilancio nel 2015 invece di rilanciare domanda e investimenti: prima di tutto nell’interesse della sua economia che frena in modo sempre più allarmante. E poi nel suo ricorrente auspicio di una politica monetaria della Bce meno sensibile ai problemi del Sud e più favorevole agli interessi tedeschi, per esempio a ritrovare tassi di interesse più remunerativi per il risparmio di una popolazione che invecchia. C’è infine la stanchezza tra i tradizionali alleati di ferro di Berlino, come Austria, Finlandia, Olanda e Belgio, che pur non misconoscendo, al contrario, il valore aggiunto di conti in ordine e riforme, invocano con insistenza una spinta a crescita e occupazione. «La sollecitazione di Bruxelles a raggiungere il pareggio di bilancio nel 2015 è un’opinione interessante che non condividiamo. La frugalità è una cosa buona ma l’austerità non serve per stimolare l’economia» ha dichiarato il cancelliere austriaco Werner Faymann. Insomma il rigore va bene ma non al punto di fermare gli investimenti necessari alla ripresa.

Nel suo testardo rifiuto di una politica espansiva che altro non sia che il meritato premio di sacrifici, cure dimagranti e riforme, la Germania appare autolesionista e sempre più isolata, con il solo conforto di Paesi come Portogallo, Spagna, Irlanda che sono passati e usciti dal calvario della troika e ora pretendono che a nessuno sia risparmiato. Il prossimo giudizio sulle varie leggi di bilancio nazionali appena consegnate a Bruxelles, il modo con cui sarà reso e articolato dirà molto presto se in Europa esiste ancora e fino a che punto lo spazio per venirsi incontro, per arrivare a ragionevoli compromessi. Al momento appare molto stretto. Strappare però la corda tra gli opposti estremismi in campo, rischiare la rottura con la Francia equivarrebbe a un salto nel buio. Il cancelliere Helmut Kohl amava ripetere al presidente francese François Mitterrand: «Per fare una buona politica europea devo prima vincere le elezioni». Angela Merkel ne ha già vinte tre ma ancora non ci riesce. Forse non ha la stoffa né il coraggio dei grandi leader.

L’alto risparmio italiano è ormai solo un’illusione

L’alto risparmio italiano è ormai solo un’illusione

Pietro Reichlin – Il Sole 24 Ore

Si dice spesso che l’Italia può contare su un’alta propensione al risparmio delle famiglie. Si tratterebbe di una garanzia di stabilità finanziaria a fronte di un debito pubblico elevato e di un persistente disavanzo dello Stato. Almeno dal 2000 tale affermazione non è più corrispondente alla realtà. Se nel 1997-98 il tasso di risparmio delle famiglie era ancora intorno al 20% (un primato tra i paesi Ocse), oggi il valore è sceso all’8-9%. Il fenomeno è certamente una conseguenza della recessione: quando il reddito personale cala, si risparmia meno per evitare un calo eccessivo dei consumi. Ma non possiamo escludere un cambiamento strutturale. Già dal 2000, infatti, il saggio di risparmio degli italiani si è allineato ai valori degli altri paesi europei, attestandosi tra il 15 e il 16 per cento del reddito disponibile.

La caduta del risparmio delle famiglie non è solo un problema per quanto riguarda la dinamica della ricchezza finanziaria (sia pure ancora elevata in rapporto al Pil), ma è principalmente un freno alla dinamica degli investimenti. È noto che il nostro paese ha una scarsa capacità di attrarre capitali dall’estero e, quindi, la crescita dello stock di capitale, da cui dipende la produttività e il reddito futuro, è fortemente correlata con il risparmio nazionale. La riduzione del saggio di risparmio delle famiglie ha infatti contribuito notevolmente alla discesa degli investimenti e del risparmio nazionale dal 1997 al 2012, diminuiti di 4,8 punti in rapporto al Pil. Si tratta di uno dei risultati peggiori tra i paesi dell’Ocse.

Eppure, questo calo è circa la metà di quello subito dal saggio di risparmio delle famiglie nello stesso periodo, che è stato di oltre 9 punti percentuali. Dai dati del 2013, si evince che il risparmio complessivo delle famiglie costituisce circa il 6% del Pil e, poiché il risparmio del settore pubblico è quasi nullo (-0,3% del Pil), ciò significa che il risparmio societario è arrivato al 12-13 per cento. La conseguenza è che oggi il risparmio delle famiglie italiane rappresenta non più di un terzo del risparmio nazionale. Questo quadro getta qualche ombra sulla possibilità di uscire dalla crisi con un aumento dei consumi (cioè un’ulteriore caduta del saggio di risparmio familiare) e sull’efficacia di altri stimoli al credito bancario in un’economia in cui la dinamica degli investimenti deriva in misura sempre maggiore dagli utili non distribuiti.

La crescita del risparmio societario, a decorrere dalla crisi del 2008, è un dato comune ai principali paesi industrializzati. Si tratta di una reazione di carattere precauzionale, determinata dalla caduta dei profitti avvenuta nel 2008-2009 e dalla maggiore incertezza, ma anche la conseguenza di un processo di risanamento dei bilanci, cioè dell’uso dei risparmi per ripagare debiti pregressi. Il credito netto delle imprese, cioè la differenza tra risparmio societario e investimenti, è diventato positivo dopo il 2008 in Canada, Germania, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti. In questo modo le imprese sono riuscite a risanare velocemente i propri bilanci recuperando la caduta degli investimenti che si è verificata immediatamente dopo la crisi. In Italia questo processo avviene con maggiore ritardo. Fino al 2012 il credito netto delle imprese è rimasto negativo, con un ulteriore aumento dell’indebitamento ed una caduta più accentuata degli investimenti fino al periodo corrente.

La conclusione è che le famiglie italiane risparmiano sempre meno, a causa della caduta dei redditi, e le imprese ricorrono con sempre maggiore frequenza alle risorse interne per ristrutturare i bilanci. Poiché i profitti sono deboli, ciò ha conseguenze negative sugli investimenti e ritarda la ripresa economica del paese. Adottare misure per aiutare le imprese a consolidare la propria posizione finanziaria e affrontare le ristrutturazioni produttive potrebbe essere più efficace che puntare ad una ripresa dei consumi.

Troppa confusione sui servizi alla natalità

Troppa confusione sui servizi alla natalità

Il Sole 24 Ore

In attesa del testo definitivo della legge di Stabilità valgono alcune prime considerazioni sul nuovo fondo per la maternità da 500 milioni di euro del Governo Renzi. La prima: lo soglia di 26mila euro Isee (e senza limiti dal quinto figlio) individuata è molto elevata per un paese nel quale ci sono 1,4 milioni di minori in povertà assoluta e per i quali ancora non esiste una misura universale di assistenza. Basti ricordare che l’attuale social card da 40 euro al mese va a beneficiari con un Isee non oltre i 6mila euro. Così si rischia, come avvenuto in passato, di dare soldi a mamme che non ne hanno alcun bisogno. Seconda considerazione: nel resto d’Europa le politiche per il sostegno della natalità si fanno con i servizi sul territorio, non con trasferimenti monetari. Terzo: attualmente esistono già cinque istituti che destinano risorse per 15 miliardi con criteri del tutto scoordinati e che potrebbero essere razionalizzati. Insomma la confusione è ancora tanta, speriamo che nelle prossime ore e durante l’iter parlamentare ci siano i margini per rimediare.

Non solo fondi pensione: colpite dal DDL stabilità anche le polizze vita

Non solo fondi pensione: colpite dal DDL stabilità anche le polizze vita

Federica Pezzatti – Il Sole 24 Ore

Crolla un altro caposaldo delle polizze Vita. Il governo Renzi dal prossimo 1° gennaio, se le misure annunciate saranno confermate, tasserà al 26% anche le plusvalenze delle polizze Vita incassate dagli eredi dell’assicurato che finora erano esentati. Al contrario di quanto è scritto sui contratti, dunque, i beneficiari pagheranno le tasse sui guadagni maturati dalla sottoscrizione del contratto fino al momento della morte dell’assicurato. È bene precisare, per evitare fraintendimenti, che le polizze resteranno comunque esenti da tasse di successione.

Si tratta di una novità, che riguarda ramo I e ramo III, che coglie di sorpresa l’industria assicurativa che giudica il provvedimento come un segnale poco favorevole, tenuto conto che ci sono forme tecniche a “vita intera” finalizza te proprio alla tutela degli eredi. Una nuova tegola che si abbatte sul settore dopo il provvedimento di rialzo della tassazione delle plusvalenze passata dal 20% al 26% dallo scorso luglio (salvo per i guadagni originati dagli investimenti in titoli di Stato e equiparati che saranno tassate al 12,5%) e che ammontano a circa il 60% delle riserve Vita.

La legge di stabilità colpisce dunque duramente un investimento sempre più utilizzato: nei primi otto mesi del 2014 la nuova produzione Vita è aumentata del 43% rispetto allo stesso periodo del 2013, con 72,2 miliardi di euro di raccolta. Non sono stati risparmiati ovviamente i Pip, piani di previdenza assicurativi. In quanto prodotti di previdenza complementare, le plusvalenze da essi originate di anno in anno saranno tassate, stando alle bozze, al 20% (contro l’11,5% valido da luglio) salvo, la componente investita in governativi ed equiparati (aliquota al 12,5%). Come consolazione ai possessori di prodotti Vita, ma solo di ramo I, resta l’esenzione da bollo: le rivalutabili sono le uniche (insieme ai fondi pensione e fondi sanitari) a non pagare il balzello sugli investimenti dello 0,2% annuo e questo vantaggio appare conservato.

L’Europa eviti la deriva “dogmatica”

L’Europa eviti la deriva “dogmatica”

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Il documento programmatico di bilancio 2015 (Dpb-2015, fondamento del disegno di legge di stabilità) dovrà superare due ostacoli. Quello del Parlamento italiano e quello delle Istituzioni Europee. L’Italia sta concludendo il sesto anno di crisi nel cui ambito gli ultimi tre anni sono stati di recessione piena. Intanto abbiamo cambiato quattro governi. È ora di rendersi conto che una delle condizioni necessarie per superare la nostra crisi è quella di mostrare la massima coesione all’Europa e ai mercati. Speriamo quindi che le rappresentanze istituzionali, economiche e sociali italiane sappiano guardare all’interesse nazionale tenendo conto delle scelte innovative del Governo in termini di spinta fiscale (unita a riforme) agli investimenti, alle imprese, all’occupazione. La Francia ha deciso di disattendere i parametri di bilancio europei e di premere, come pare, con qualche margine di successo, sulla Germania perché, ai tagli di spesa richiesti agli altri, affianchi in pari misura suoi investimenti infrastrutturali. L’Italia rispetta invece nella sostanza (salvo che per il debito) i parametri europei ma la sua strada non sarà tutta in discesa.

Rigore e sviluppo
Nel DPB-2015 inviato dall’Italia alla Commissione europea si pone un problema cruciale: come evitare che l’Eurozona affondi nella recessione-deflazione riprendendo invece a crescere creando occupazione nella stabilità. Il Presidente Napolitano, il presidente Renzi, il ministro dell’Economia Padoan si sono molto impegnati per mobilitare la fiducia e la responsabilità dell’Europa. Parlare, come fa la cancelliera Merkel, di compiti che vari Paesi (tra cui l’Italia) devono fare a casa, è per noi una banalizzazione di fronte a più di 18 milioni di disoccupati della Uem e a più di 3 milioni del nostro Paese. Questo spiega perché personalità tedesche autorevoli, tra le quali di recente Joschka Fischer, stiano criticando senza sconti la Merkel e il suo ministro delle Finanze. Le forze del rilancio, comprese quelle imprenditoriali europee, devono però essere più coalizzate non contro qualcuno ma per lo sviluppo. Anche il Parlamento europeo (ai cui vertici l’Italia conta parecchio) va valorizzato appieno perché lo stesso si è dimostrata in passato assai più lungimirante della Commissione e del Consiglio europeo. Bene fa perciò il DPB-2015 a sottolineare: che la crisi europea ha intaccato la fiducia di imprese e consumatori; che la politica monetaria non basta pur avendo evitato il peggio; che le necessarie riforme strutturali nei singoli Paesi producono effetti differiti mentre in recessione ci vogliono interventi ad effetto rapido; che senza crescita anche l’innovazione e la competitività si attenuano e la stessa sostenibilità dei debiti pubblici ne risente. La critica al rigore che genera crescita è chiara e su questa si innesta il programma italiano. Lo stesso coniuga una politica di bilancio euro-compatibile, che stimoli nel breve termine investimenti ed occupazione, con delle riforme strutturali che nel medio (1.000 giorni) e nel lungo termine generino più competitività e produttività del sistema Italia.

Riforme e crescita
Il DPB-2015, già approfondito su queste colonne, si fonda inoltre su un concetto centrale. Le riforme (con sostegni di bilancio rispettosi del vincolo europeo del 3% di deficit su Pil), generano crescita che favorisce il miglioramento nel tempo nei rapporti del deficit e del debito pubblico sul Pil. Questo concetto poggia su due basi. La prima base è sostanziale e riguarda le riforme strutturali sempre richieste dalla Ue all’Italia (pubblica amministrazione e semplificazione, giustizia, competitività e fiscalità, mercato del lavoro) per gli effetti sulla crescita, sull’occupazione e sulle finanze pubbliche. In termini di Pil, le misure che hanno costi di finanza pubblica (taglio Irap, bonus Irpef, jobs act e azzeramento triennale contributi, crediti di imposta per R§S), dovrebbero generare entro il 2018 un incremento cumulato di 0,7 punti percentuali che rimane poi incorporato nella dinamica del reddito nazionale specie per gli aumenti di investimenti e occupazione. L’effetto cresce considerando anche le riforme non meno importanti (semplificazioni e giustizia, fonti di potenziali risparmi e a costo zero) che avranno tuttavia forti resistenze e quindi effetti difficilmente misurabili. Quanto al debito pubblico sul Pil già dal 2016 sarebbe più basso di quello conseguibile “risparmiando” gli 11 miliardi che il DPB-2015 destina alla crescita . Quindi la minore correzione fiscale nei prossimi tre anni verrebbe presto compensata dalla crescita del Pil. La seconda base è istituzionale e riguarda il rispetto delle prescrizioni europee nel loro insieme. Il DPB-2015 argomenta da un lato che la grave recessione in atto (che peggiorerebbe con ulteriori rigidità fiscali) e dall’altro che le riforme in cantiere consentono il posponimento del pareggio strutturale di bilancio. Anche perché in tal modo migliora la sostenibilità di lungo periodo del debito pubblico sul Pil.

Una conclusione euro-italiana
L’Italia non “sfida” perciò l’Europa ma le chiede una lettura non dogmaticamente formale della situazione con l’uso di una razionalità politica ed economico-fiscale. Sono le argomentazioni condivisibili del DPB-2015 alle quali andrebbe sempre aggiunta quella, non meno importante, del rilancio degli investimenti infrastrutturali europei finanziati su scala europea con l’uso di europroject bond o eurounionbond. Strategia che si connette sia a quella del presidente della Commissione europea Juncker per il suo piano da 300 miliardi di investimenti in 3 anni sia ai gradi di libertà di cui potrà fruire Draghi per canalizzare liquidità agli investimenti. Quanto al nostro Governo, senza rinunciare alle critiche costruttive (su cui ritorneremo), crediamo si debbano attendere le prove dei fatti dando alle innovazioni aperture di credito come quelle di Moody’s e Financial Times. Due valutatori non abituati a fare sconti, specie all’Italia.