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Banche: in 10 anni triplicata l’esposizione in titoli di Stato. QE inefficace: prestiti a famiglie e imprese in calo del 3%

Banche: in 10 anni triplicata l’esposizione in titoli di Stato. QE inefficace: prestiti a famiglie e imprese in calo del 3%

Nel corso della crisi dell’ultimo decennio le banche italiane hanno visto crescere i propri depositi del 67% per un controvalore di 1.023,4 miliardi di euro, ma di questi solo poco più di un quarto (266,7 miliardi, +19% nel periodo) è servita a finanziare famiglie e imprese mentre una quota ben maggiore è stata utilizzata per triplicare l’esposizione in titoli di Stato (cresciuta di 532,8 miliardi, +202%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro realizzata su elaborazione dei dati del Sistema europeo delle Banche centrali.

L’Italia si colloca ai primi posti della classifica dei Paesi che nel periodo 2007-2017 hanno visto incrementare maggiormente lo stock dei depositi dei propri istituti bancari: da 1.531,4 a 2.554,9 miliardi di euro, in parte accumulati nei primi anni della crisi e in parte anche dopo l’inizio del Quantitative Easing. Nello stesso periodo i depositi degli istituti francesi sono invece cresciuti del 54% mentre quelli degli istituti tedeschi e spagnoli soltanto del 13%.

Il discorso cambia per quanto riguarda invece l’impiego di tali risorse per prestiti bancari a famiglie e imprese: in questo caso l’Italia si colloca nella seconda metà della classifica, con una crescita del 19%, pari a +266,7 miliardi. Nello stesso periodo i prestiti bancari sono invece saliti del 28% in Belgio (+78 miliardi), del 44% in Francia (+727,1 miliardi) e addirittura del 65% in Finlandia (+82,7 miliardi).

Lo strumento del Quantitative Easing adottato dalla BCE ha invece paradossalmente ristretto l’accesso al credito in Italia: nei suoi primi due anni di applicazione (marzo 2015 – marzo 2017) i prestiti bancari a famiglie e imprese sono infatti diminuiti del 3% (-49,3 miliardi) a fronte di una crescita in gran parte del resto d’Europa: +6% in Germania (pari a 154,8 miliardi), +8% in Francia (pari a 183 miliardi) e +13% in Belgio (pari a 41,2 miliardi).

Ad aumentare negli attivi dei bilanci bancari italiani è stato semmai l’impiego in titoli di Stato e obbligazionari, triplicati nell’ultimo decennio con un aumento di 532,8 miliardi (+202%). Si tratta di una crescita record, senza uguali nell’Eurosistema, a cui si avvicina solamente quelle dei sistemi portoghese (51,4 miliardi, +176%) e spagnolo (266,9 miliardi, +130%).

«Questi dati confermano la radicale trasformazione del modello di business delle nostre banche rispetto ai livelli pre-crisi, al quale è corrisposto un ricorso ben maggiore all’acquisto di titoli di Stato e obbligazionari rispetto agli impieghi a favore di quanti s’impegnano ogni giorno a tenere in piedi i bilanci delle proprie aziende e famiglie» commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del centro studi ImpresaLavoro. «Nemmeno nei mesi del Quantitative Easing – strumento che volge ormai al suo termine e che nelle intenzioni del Presidente BCE Mario Draghi doveva assicurare favorevoli condizioni di finanziamento per famiglie e imprese – si è potuta apprezzare una ripresa dei volumi di credito all’economia reale: da allora questi prestiti sono infatti paradossalmente diminuiti del 3% e al tempo stesso è aumentata invece l’esposizione delle banche italiane al debito pubblico. Un’altra preziosa occasione è andata sprecata».

Quanto ci costano i ritardi della Giustizia

Quanto ci costano i ritardi della Giustizia

Quanto costano i ritardi della giustizia in Italia? Quanto incide l’inefficienza giudiziaria sull’economia reale del Bel Paese? Una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro ha tentato di quantificare l’impatto negativo della lunghezza dei processi e dell’arretrato di cause pendenti su variabili chiave come l’attrattività degli investimenti esteri, la nascita e lo sviluppo delle imprese italiane, la disoccupazione e i volumi del credito bancario.
Il punto di partenza dell’analisi è la posizione piuttosto arretrata dell’Italia nelle varie classifiche internazionali che considerano le variabili chiave utili a misurare sotto vari punti di vista l’efficacia della macchina giudiziaria. Un rapido confronto tra Paesi è possibile, ad esempio, grazie alla base dati armonizzata Cepej-Stat, messa a disposizione dalla Commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa; risultati analoghi, tuttavia, trovano conferma nei dati Doing Business incrociati con le statistiche di Eurostat.
In particolare gli ultimi dati, benché riferiti al 2014, permettono di inquadrare il problema nella sua gravità. Prendendo in considerazione le sole cause civili e di diritto commerciale, all’ultima rilevazione rimanevano in attesa di giudizio, in Italia, oltre 2 milioni e 758 mila processi: un record assoluto per tutti i Paesi dell’Europa allargata, in grado di mettere in secondo piano il milione e mezzo di cause pendenti in Francia e le 750 mila scarse della Germania. Il dato assoluto è riferito ai soli processi di primo grado, ed è fortunatamente in calo rispetto agli anni precedenti. Sta di fatto che a fine anno rimangono pendenti, in termini relativi, 45 processi ogni mille abitanti in Italia contro i 24 della Francia, i 18 della Spagna e i soli 9 della Germania.

Il peso dell’arretrato si riflette anche nella minore capacità del nostro Paese, nonostante gli sforzi, di far diminuire l’indicatore della durata media dei processi: per noi fluttua attorno all’anno e mezzo a prescindere dal periodo di rilevazione. In termini comparati, i 532 giorni medi necessari per le sentenze di primo grado sono sostanzialmente il doppio rispetto alla media europea e hanno pochi eguali se si pensa che con la sola eccezione di alcuni Paesi dell’Est e di Malta tutti gli ordinamenti se la cavano con durate (ampiamente) inferiori all’anno. Analisi più estese, che tengono in considerazione anche il secondo e terzo grado di giudizio (dati non sempre confrontabili tra Paesi, stanti le diversità esistenti tra i vari ordinamenti giuridici), mostrerebbero numeri ancor più impietosi: da noi servono quasi tre anni, in media, per gli appelli e altri tre e mezzo per i giudizi in cassazione.

Prendendo in considerazione le ricadute squisitamente economiche dell’inefficienza giudiziaria, diversi studi scientifici hanno tentato di catturare in termini numerici la relazione esistente con alcune variabili fondamentali. I risultati sono di assoluto interesse e colgono nel segno rispetto a diversi annosi problemi che presenta la nostra economia.

A migliorare con la rapidità dei giudizi e la riduzione degli arretrati sono ad esempio i tempi di pagamento tra imprese, con tutti i relativi effetti in termini di maggiore liquidità in circolazione, minor numero di insolvenze e minore disoccupazione. Anche i tempi e i costi di recupero dei crediti sono direttamente collegati all’efficacia della giustizia e ciò dovrebbe far riflettere sul problema della valorizzazione e dello smaltimento della montagna di crediti deteriorati accumulati dalle nostre banche. Uno studio basato su un campione di Paesi mostra inoltre che l’efficienza del sistema giudiziario migliora i tassi di imprenditorialità e di innovazione nelle imprese: tutte virtù sulle quali, nuovamente, il nostro Paese arranca.

ImpresaLavoro ha provato a quantificare ulteriori aspetti, partendo inizialmente dal punto di vista di un investitore internazionale. Com’è evidente e assodato in finanza, nell’economia globale l’attenzione dei capitali si rivolge ai Paesi in cui è migliore il rapporto tra redditività attesa e livello di rischio. Se non supportata da solide prospettive di crescita, la possibilità di creare valore per le imprese passa certamente da una riduzione degli elementi di incertezza: quelli di tipo giudiziario pesano, eccome, e sono in grado di frenare in modo netto il flusso di investimenti nei Paesi meno efficienti come il nostro.

Se ci riferiamo al caso italiano, la media degli ultimi tre anni evidenzia investimenti netti annui provenienti dall’estero per un magro 0,72 per cento del PIL. Com’è noto, il dato non si riferisce solo alle acquisizioni di nostre imprese da parte di soggetti stranieri, ma all’effettiva apertura di nuovi centri, filiali e strutture in genere da parte dei non residenti: si tratta dunque di nuovi investimenti privati provenienti da investitori internazionali, il cui livello, molto inferiore alla media UE, mostra la scarsa attrattività del nostro Paese. Ebbene, secondo i numeri di un recente studio pubblicato dalla Commissione Europea, la riduzione delle cause pendenti per numero di abitanti è collegata all’incremento di questo tipo di investimenti: per il nostro Paese, portarle al livello della media europea potrebbe di per sé generare afflussi extra dall’estero per un valore tra lo 0,66 e lo 0,86 del Pil (in sostanza tra i 10,8 e i 14,1 miliardi annui: il doppio dell’attuale).

Ma non è l’unica via che contribuirebbe sicuramente a una più sana e robusta crescita del nostro Paese. Ridurre di un quarto i tempi dei tribunali in Italia potrebbe infatti di per sé aumentare il tasso di natalità delle imprese e cioè incrementare il ritmo di nascita di nuove iniziative imprenditoriali di circa 143mila unità all’anno: una volta e mezza il tasso attuale. Lo shock positivo sarebbe ancora più evidente nel caso i tempi si dimezzassero, portandosi dunque alla media europea: la stima in questo caso varia tra le 192 mila e le 240 mila nuove imprese all’anno in più rispetto ai ritmi correnti.
Se si potesse raddoppiare la velocità dei tribunali potremmo attenderci anche una crescita della dimensione delle nostre imprese, per circa l’8,5% in media, come stimato in un raffinato tema di discussione pubblicato da Banca d’Italia. È condiviso inoltre che un sistema giudiziario meno tempestivo fornisce minori incentivi agli investimenti e all’assunzione di nuovo personale, decisioni sulle quali l’incertezza può solo fungere da deterrente. Il dato, peraltro, non è poco rilevante per un Paese come il nostro in cui il 70 per cento del valore aggiunto è prodotto da piccole e medie imprese.

Ma non è finita qui, perché anche dal punto di vista della disponibilità di credito le conclusioni sono altrettanto importanti. Diversi studi hanno esaminato il legame tra tempi della giustizia, costo dei finanziamenti e loro disponibilità presso il canale bancario: secondo le relazioni più significative, raggiungere il livello medio UE nei tribunali potrebbe aprire l’opportunità di nuovi prestiti alle imprese per ben 29,3 miliardi di euro, pari a un aumento del 3,7 per cento rispetto allo stock attuale, in un settore che da anni continua a registrare segni negativi.

E infine, come se non bastasse, anche il mercato del lavoro ne potrebbe beneficiare direttamente. Si pensi che un’analisi di ImpresaLavoro basata sugli ultimi dati del Ministero della Giustizia suddivisi per distretti giudiziari ha individuato in ben 5,7 punti il potenziale di disoccupazione riducibile nel nostro Paese, con riferimento alle aree più disagiate. La stima è del resto coerente, oltre che con tutte le altre variabili economiche sin qui evidenziate, anche con quanto rilevato in un report del Fondo Monetario Internazionale, il quale confermerebbe un incremento di diversi punti della probabilità di impiego in seguito a un tale efficientamento della macchina giudiziaria. Altri studi hanno evidenziato i benefici che si avrebbero, oltretutto, in termini di riallocazione più efficiente e rapida delle risorse umane, di produttività e di maggiore intensità di capitale nelle nostre aziende.

A fronte di tutti questi dati, almeno due elementi emergono al di là di ogni altra considerazione. Il primo è indiscutibile: l’inefficienza giudiziaria agisce come un freno allo sviluppo della nostra economia. Il secondo è più difficilmente quantificabile, ma altrettanto rilevante: ridurre il peso di questa inefficienza potrebbe finalmente liberare un volume importante di potenzialità ancora inespresse.

Fallimenti ancora record: tra 2009 e 2016 fallite 100mila imprese

Fallimenti ancora record: tra 2009 e 2016 fallite 100mila imprese

Alla fine di quest’anno la crisi iniziata nel 2008 avrà fatto fallire nel nostro Paese più di 100mila imprese. A rilevarlo è una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro che, rielaborando i numeri forniti da OCSE e CRIBIS, evidenzia come rispetto a sei anni fa i fallimenti in Italia siano cresciuti del 55,42%, passando dai 9.384 del 2009 ai 14.585 del 2015. Un dato questo che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’OCSE: oltre all’Italia, infatti, solo la Francia (+13,81%) presenta oggi un numero di fallimenti superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto al nostro paese. Tutti gli altri paesi segnalano, invece, un numero di aziende fallite inferiore a quello di sei anni fa. Le aziende costrette a chiudere per insolvenza economica sono infatti in calo in Spagna (-4,45%), Germania (-22,90%) e Olanda (-30,25%).

Per quanto riguarda l’Italia, i dati relativi ai primi due trimestri di quest’anno lasciano intravedere un piccolo rallentamento nel numero dei fallimenti rispetto all’anno precedente. Secondo le stime elaborate dal Centro Studi ImpresaLavoro alla fine del 2016 saranno fallite in Italia 14.348 imprese su base annua, 237 in meno del 2015 e quasi 1000 in meno rispetto al picco registrato nel 2014. Dati che non possono essere comunque accolti con ottimismo, visto che siamo ancora lontanissimi dai livelli pre-crisi e dalle 9.384 aziende che fallivano nel 2009. Dall’inizio della crisi del 2008 ad oggi sono fallite nel nostro paese più di 95mila imprese e il 2016 verrà ricordato come l’anno in cui si taglierà il traguardo delle 100mila imprese chiuse dal 2009 ad oggi. Il ritmo dei fallimenti è impressionante: nel nostro paese chiudono per insolvenza 57 imprese ogni giorno lavorativo.

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Taci, il capo ti ascolta. Sorvegliati speciali in ufficio

Taci, il capo ti ascolta. Sorvegliati speciali in ufficio

di Matteo Basile – Il Giornale

Taci, il capo ti ascolta. O almeno potrebbe. E potrebbe fare pure di peggio. Spiare, controllare, intromettersi. Tenerti sotto controllo. Avere un accesso diretto alla tua casella di posta elettronica, al tuo smartphone ma anche monitorare la tua produttività e addirittura avere un quadro preciso del tuo stile di vita e delle tue abitudini. Potrebbe, almeno in teoria e, chissà, forse in un futuro prossimo potrà farlo davvero. Perché la tecnologia unita alla volontà delle aziende di aumentare la produttività in periodo di crisi economica potrebbe portare a questo e altro.

Negli ultimi anni in tema di spioni aziendali è successo un po’ di tutto, per nostra fortuna soprattutto all’estero. Emblematico il caso di una segretaria negli Stati Uniti, licenziata perché in una mail indirizzata ad un’amica aveva scritto «Il mio capo è un idiota». E lui, il capo, che controllava la corrispondenza, non l’ha presa bene. Ma se in America le leggi possono consentire episodi di questo tipo, anche in Europa, dove la legislazione è più stringente in tema di spionaggio aziendale, episodi analoghi non sono del tutto assenti. A Londra, pochi mesi fa, i giornalisti del Daily Telegraph hanno trovato sotto le loro scrivanie una scatoletta con scritto «OccupEye». È bastata una ricerca sul web per scoprire che quelle scatolette misteriose contenevano sensori di movimento e temperatura capaci di rivelare ai datori di lavoro se una scrivania era occupata o meno. Niente altro che una spia in grado di monitorare quanto e come i dipendenti stavano alla loro postazione. Sollevazione generale inevitabile, proteste durissime, scuse dell’azienda e provvedimento ritirato. Ma la convinzione che sì, un giorno, l’eccezione potrebbe anche diventare norma. E potrebbe pure essere peggiore. Succede già oggi infatti che molti minatori e camionisti australiani indossino il cappellino «SmartCap» che, attraverso sensori simili a quelli necessari per effettuare un elettroencefalogramma, verifica che i lavoratori siano svegli e reattivi. Tornando al Regno Unito, i magazzinieri dei supermercati della catena «Tesco» indossano un braccialetto che traccia i loro spostamenti e la percentuale di lavoro svolto: benefit se si finisce in anticipo il proprio compito, penalità se si va in pausa senza preavviso. Ma il top si è raggiunto in Messico dove la «InterMex» ha obbligato i dipendenti a scaricare un’applicazione che tramite gps comunica in tempo reale ai vertici dell’azienda tutti gli spostamenti e i movimenti dei dipendenti. Una sorta di braccialetto elettronico come quelli installati ai carcerati in regime di semilibertà, tanto che un’impiegata ha denunciato l’azienda. E ha pure vinto. Troppo, senz’altro. Ma sarà questo il futuro che ci aspetta sul posto di lavoro?

Forse, ma non ora. Perché in Italia la legislazione parla chiaro e non consente nulla di simile. Anche se il Jobs Act ha leggermente allargato le maglie dei controlli sui lavoratori da parte dei propri capi. «Si è modificata le norma del 1970, quando esistevano solo telecamere e registratori ma non c’erano computer, posta elettronica e smartphone», spiega l’avvocato Aldo Bottini, presidente dell’Associazione nazionale avvocati giuslavoristi e tra i massimi esperti del settore. Alcune cose si possono fare ma con limiti e confini ben precisi. «Con le nuove norme si mantiene il principio per cui non si possono installare strumenti tecnologici di monitoraggio con l’unica finalità del controllo dell’attività lavorativa – spiega il legale -. Per installare strumenti tipo telecamere serve ancora un accordo sindacale o l’autorizzazione amministrativa. La novità è che il principio non si applica agli strumenti di lavoro come pc e smartphone che non sono assoggettati all’autorizzazione. Di fatto attraverso questi strumenti si può legittimamente controllare l’attività del lavoratore a patto che lo stesso venga informato della possibilità in maniera chiara e completa. È lo stesso principio che vige in tutta Europa. L’unica novità è che le aziende dovranno dotarsi di un’adeguata policy per l’utilizzo il controllo, il funzionamento e le eventuali conseguenze nell’abuso di tutti questi strumenti».

Il problema dunque, alla fine rischia di ricadere sulle aziende, costrette a districarsi tra norme e cavilli burocratici che complicano non poco la vita. «La legislazione italiana è un incubo, il numero di norme è elevatissimo e spesso in aperta contraddizione», attacca Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del centro studi «ImpresaLavoro». «Accanto alle sacrosante norme per la tutela della privacy ne servirebbero anche altre a tutela della produttività e di chi fa impresa». Un altro problema per le aziende sono i furbetti del certificato medico, quelli che cioè tendono a darsi malati con eccessiva leggerezza se non con cadenza regolare. «Ci sono pessime abitudine da parte di alcuni medici un po’ troppo benevoli nel fornire certificati – spiega Blasoni -. Le verifiche sono assolutamente labili e chiedere un intervento è pressoché inutile. Questo finisce per essere un ulteriore gravame per chi deve districarsi quotidianamente tra tasse, cavilli e burocrazia. Spesso si è arrivati a contese con dipendenti indifendibili che grazie all’intervento dei sindacati e a sentenze sconcertanti sono riusciti ad essere reintegrati».

Già, i sindacati. Organo a tutela del lavoratore sfruttato o maltrattato oppure ultima spiaggia per chi fa il furbo ma sa che in un modo o nell’altro, alla fine, avrà le spalle coperte? «Non scherziamo, chi commette una truffa non solo è indifendibile ma da attaccare – racconta Guglielmo Loi, della segreteria nazionale della Uil -. L’importante è agire sempre nell’ambito delle regole, dall’ultimo impiegato fino al massimo dirigente. Deve essere chiaro quali sono i limiti e quali i doveri. Un lavoratore deve essere informato con precisione quando entra in possesso di un’apparecchiatura aziendale». Anche perché il controllo sul dipendente, alla fine, può rivelarsi un’arma a doppio taglio. «Capita spesso che il telefono aziendale resti acceso ed operativo per motivi di servizio ben oltre l’orario di lavoro. In caso di controllo eccessivo un dipendente potrebbe decidere di rendersi irreperibile finito il suo orario e, a quel punto, nessuno potrebbe lamentarsi».

Alla fine, come spesso accade, a far la differenza è il buonsenso. Ma nel dubbio è sempre meglio comportarsi secondo le regole. Perché il Grande Fratello è tra noi e, forse, guarda proprio noi. Anche sul posto di lavoro.

Il Quantitative Easing? In Italia funziona poco: colpa delle sofferenze bancarie

Il Quantitative Easing? In Italia funziona poco: colpa delle sofferenze bancarie

di Paolo Ermano*

Torniamo in apnea?

È presto per dire se le nuove misure messe in campo da Mario Draghi, che allargano gli spazi delle operazioni che vanno sotto il cappello di Quantitative Easing (QE), porteranno nuovo ossigeno nell’economia europea e in particolare nell’economia italiana. È certo che la situazione degli operatori finanziari nel Bel Paese è di difficile comprensione: da un lato abbiamo alcuni scandali che interessano banche più o meno grandi e più o meno legate al territorio (ad esempio, dalla Popolare di Vicenza alle quattro banche fallite del centro Italia), dall’altro processi di aggregazioni di alcuni istituti stanno modificando non solo la sensibilità degli italiani rispetto all’organizzazione dei servizi bancari, ma influiranno in maniera decisiva sugli assetti societari e sulla capacità del sistema di affrontare le cogenti sfide.

Le sfide che il sistema bancario deve e dovrà affrontare sono molte, a partire dalla riattivazione della circolazione del denaro, che sembra vivere un periodo non certo florido. Se partiamo con l’osservare l’andamento dei prestiti verso le famiglie e le società non finanziarie, quello che potremmo definire con un espressione un po’ forzata “economia reale”, la situazione è problematica: da giugno 2014 registriamo aumenti nei prestiti alle famiglie e contrazioni nei prestiti alle imprese (grafico 1, 2 e tabella 1 e 2).

QE_G1

QE_G2

QE_T1

QE_T2

Mentre i prestiti alle famiglie, stabili fino ai primi mesi del 2015, hanno visto una crescita più sostenuta soprattutto durante l’autunno, in corrispondenza dell’aumento dell’indice di fiducia dei consumatori, i prestiti verso il mondo delle imprese continuano a vivere una contrazione che si sviluppa ad ondate, che riflette la complessità dell’indice di fiducia delle imprese, positivo per servizi, commercio e le costruzioni, stabile per la manifattura (Istat, Nota Mensile 3/2016).

In aggregato, l’ammontare dei prestiti elargiti a famiglie e imprese si è contratto dell’1% da giugno 2014, mentre le cartolarizzazione dei crediti sono cresciute nello stesso periodo di più del 5%.

Le sofferenze

Per spiegare come mai il canale del credito, che oggi ancor prima che nel processo di circolazione del denaro trova nella BCE una sponda forte, continui a rimanere sterile, si sono spesso chiamate in causa le sofferenze bancarie, quei crediti deteriorati al punto da diventare difficilmente esigibili dalla banche.

Un primo problema, che è da un po’ di tempo al centro dell’attenzione mediatica, riguarda l’andamento delle sofferenze. Il totale complessivo dei prestiti in sofferenza presso il sistema bancario italiano ha raggiunto quota 202 miliardi: di questi, €181,5 sono ascrivibili a famiglie e imprese. In particolare, le sofferenze appartengono principalmente al mondo delle imprese visto che da sole queste coprono circa il 71% del loro ammontare complessivo.

Come si può vedere nel grafico 3, sommando le sofferenze delle società non finanziarie (le imprese comunemente chiamate) con quelle delle famiglie, se ne ricava una crescita netta del 18% dal giugno 2014 al gennaio 2016.

QE_G3

Questa è una vera spina nel fianco per la stabilità del sistema bancario italiano che prima o poi dovrà smaltire questi titoli. Non sembra che le operazioni della BCE per ora abbiamo aiutato il sistema bancario a gestire questa massa di prestiti in sofferenza.

La circolazione del denaro

Che le sofferenze giochino un ruolo cruciale quando cerchiamo di comprendere le ragioni per cui il sistema dei prestiti si sia relativamente arrestato è un dato di fatto. Tuttavia le sofferenze sono il sintomo di un sistema del credito nazionale troppo banco-centrico, soprattutto per quanto riguarda le imprese. La ricchezza privata per finanziare le aziende in Italia non manca, è solo che questa fluisce verso le imprese grazie alla dinamica del deposito-prestito che passa quasi esclusivamente per il canale bancario.

Da questo punto di vista è interessante osservare l’andamento dei depositi di famiglie e società non finanziarie. In entrambi i casi, partendo dal giungo 2014, si osserva un aumento dello stock di deposito (+4,3% per le famiglie, +12,8% per le imprese), un aumento però non sufficiente a sostenere la richiesta di prestiti avanzata: il saldo fra depositi e prestiti è negativo (i depositi di questi due gruppi non coprono l’esposizione creditizia, ovvero gli impieghi superano le fonti). Da giugno 2014 il gap fra depositi e prestiti si è ridotto del 30% (-78% da settembre 2008!), un risultato davvero notevole: le banche raccolgono un ammontare sempre maggiore di depositi, centellinando la richiesta di nuovi prestiti. Limitano, quindi, la circolazione del denaro.

Un aumento dei depositi può essere giustificato dalla ripresa economica: modesto l’aumento dei depositi, modesta la ripresa; un aumento meno che proporzionale dei prestiti segnala sia una maggior richiesta di credito da parte delle imprese, sia un’incapacità del sistema bancario di fornire credito, per ragioni che possono variare dalla possibilità dei richiedenti di fornire adeguate garanzie, fino alla difficoltà dell’istituto di rispettare i parametri di solidità bancaria atti a veicolare con facilità la massa depositata verso la platea dei richiedenti. Se i dati sulle sofferenze portano a supporre che il problema sia oramai più nel sistema bancario che nei soggetti privati richiedenti credito, il gap fra deposito e credito porta a immaginare la necessità da parte del sistema di un riordino per evitare eccessive asimmetrie fra soggetti che prestano e soggetti che depositano.

Conclusioni

Dall’analisi dei dati di Banca d’Italia, emerge come le politiche di espansione del credito messe in atto dalla BCE attraverso il TLTRO e l’APP non abbiano ancora dato i risultati sperati. Dal 1 aprile sono diventate attive le nuove e più incisive misure di QE: valuteremo a breve i risultati, per quanto le borse hanno reagito tiepidamente finora.

Se da un lato è evidente come il costo del debito pubblico sia calato grazie all’operato della BCE, dall’altro non appare altrettanto evidente come l’aver ridotto la convenienza a investire nei titoli di Stato abbia spostato l’operatività delle banche verso il settore privato, famiglie e imprese innanzitutto.

Questo perché, come spiega un recente studio della BCE, la politica messa in piedi da Mario Draghi ha portato più risultati nel settore privato del nord Europa, dove il sistema finanziario era meno vulnerabile, rispetto al Sud dell’Europa (ECB: Economic bulletin, 7/2015, pp. 36). Ricordare ora l’opposizione dei paesi nordici alle operazioni di Mario Draghi dovrebbe far riflettere molto sulla distanza che passa fra gli annunci pubblici e la realtà delle cose. A noi interessano però le ragioni che lo studio della BCE avanza per giustificare questa diversità di risultati: proprio l’eccessiva presenza di crediti deteriorati nelle economie del Sud dell’Europa, Italia compresa, spiega la minor efficacia del QE in questi Paesi.

Occorre trovare un rimedio alla gestione delle sofferenze del sistema bancario nazionale, prima possibile, per almeno due ragioni. La prima, per poter maggiormente beneficiare della politica monetaria espansiva messa in piedi dalla BCE che durerà almeno fino a marzo 2017. La seconda ragione, collegata alla prima, ha a che fare con la timida ripresa in corso nel nostro Paese: rischiare di soffocarla per inefficienza del sistema bancario sarebbe davvero imperdonabile, soprattutto ora che le possibilità finanziarie offerte dall’euro-sistema sono così ampie e generose.

Blasoni: “Un fondo di garanzia per stimolare le imprese”

Blasoni: “Un fondo di garanzia per stimolare le imprese”

Massimo Blasoni – Libero

Alla luce dei nuovi interventi della Banca Centrale Europea ad incrementare la già rilevantissima liquidità immessa da oltre un anno nell’economia, forse le cose potranno cambiare. Ad oggi però in Italia gli effetti, con riferimento all’erogazione del credito alle famiglie e soprattutto alle imprese, sono stati modesti. Un dato confermato da Bankitalia anche a gennaio: si è registrata a inizio 2016 una variazione percentuale negativa, seppur minima, su base annua, dello 0,1%.

Nel report dell’istituto di Palazzo Koch è interessante la scomposizione con riferimento alle rilevazioni sui prestiti alle famiglie e a quelli alle società non finanziarie, in altre parole le nostre imprese. L’erogazione del credito alle famiglie a gennaio è cresciuta dello 0,8% su base annua. È ben diversa la situazione per le società non finanziarie. Come succede ormai da più di un quinquennio, l’anno è iniziato con un -0,9% che fa riflettere su quanto sia difficile per le nostre imprese ottenere credito. Va molto meglio alle attività produttive dei principali competitor europei.

I motivi del perdurare del credit crunch in Italia sono in parte imputabili alla debolezza delle nostre banche. Queste, il dato è di gennaio, hanno bruciato capitalizzazione in borsa per oltre 185 miliardi rispetto ai livelli pre-crisi e sono condizionate da più di 200 miliardi di sofferenze lorde. Certo non possiamo chiedere alle nostre banche di finanziare imprese prive dei necessari requisiti. Tuttavia non è differibile l’obiettivo di garantire nuova liquidità al sistema produttivo. Vi è grande sfiducia nelle obbligazioni e la nostra borsa non pare un’alternativa per garantire sufficiente sviluppo al sistema imprenditoriale. Soprattutto alle aziende di non grandi dimensioni. Sono solo 356 le imprese quotate alla Borsa Italiana ed è difficile pronosticare a breve un esponenziale allargamento di questa platea.

Perché allora non ipotizzare un fondo di garanzia nazionale per gli investimenti delle imprese? Il bail in impedisce i salvataggi di Stato, non altre forme di partecipazione. Certo si tratta di un’operazione complessa e i vincoli europei e di debito non sono pochi. È necessario però tentare. Le imprese italiane sono già gravate da costi dell’energia, imposizione fiscale e deficit di infrastrutture che ne condizionano la competitività. Senza credito per nuovi investimenti non ci saranno né ripresa né nuova occupazione.

Quanto sono vulnerabili le imprese italiane?

Quanto sono vulnerabili le imprese italiane?

di Giuseppe Pennisi*

Un lavoro (appena messo on line)  dell’ufficio studi della Banca d’Italia modellizza le fragilità delle imprese italiane. Ne sono autori Antonio De Socio e Valentina Michelangeli, ambedue del servizio studi di Via Nazionale (Modelling Italian Firms – Financial Vulnerability. Bank of Italy Occasional Paper No. 293).

Nel lavoro viene elaborato un modello per valutare l’evoluzione della vulnerabilià finanziaria delle imprese utilizzando dati micro-economici (e micro-finanziari) al fine di tenere conto della differenza dei settori e dei comparti, nonché di quella che può essere chiamata la loro “demografia” (da quanto tempo sono sul mercato). La analisi micro – è questo uno degli aspetti significativi del lavoro – viene integrata con considerazioni e stime macro economiche al fine di stimare l’andamento dell’EBITDA (Earnings Before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization, acronimo  inglese che in italiano viene comunemente tradotto Margine Operativo Lordo, o MOL) le spese per interessi, ed il debito finanziario per ciascuna impresa individuale in un orizzonte di due anni.

In questo modo, si ottiene una previsione delle percentuale della aziende italiane che possono essere considerate “vulnerabili” dal punto di vista finanziario; ad esempio quelle il cui EBITDA, o MOL, è negativo o quelle le cui spese per interessi sono pari al 50% dell’ EBITDA, o MOL od ancore quelle il cui indebitamento tende ad aumentare.

Applicando il modello ai dati del 2013 per 660.000 imprese (dati disponibili nel 2015), lo studio stima un aumento delle imprese “vulnerabili” nel 2014 ma una loro contrazione nel 2015 (quando si sono avvertiti i flebili segnali di una ripresa dell’economia reale e c’è stata una riduzione significativa dei tassi d’interesse). Il modello viene anche impiegato per tratteggiare scenari di stress finanziario (sulle imprese del campione).

Lo strumento è senza dubbio di grande utilità. Tuttavia, una pubblicazione più tempestiva delle previsioni (sempre che i dati siano disponibili) potrebbe essere più significativa, specialmente in una fase (come l’attuale) in cui i segnali di ripresa si stanno affievolendo e ci sono avvisaglie di una deflazione. Potrebbe essere utile non solo ai fini delle decisioni della Banca centrale europea (quali quelle che il Consiglio dell’Istituto con sede a Francoforte dovrà prendere il 10  marzo) ma anche e soprattutto come input nelle politica tributarie nazionali. Imprese vulnerabili  vogliono dire Italia vulnerabile.

* Presidente del board scientifico del Centro Studi “ImpresaLavoro”

Tasse e burocrazia, l’Italia soffoca le imprese

Tasse e burocrazia, l’Italia soffoca le imprese

Massimo Blasoni – Il Giornale

Il dibattito politico viene da mesi monopolizzato da numeri, percentuali, tendenze del Pil e andamento dell’occupazione. Cresciamo dello 0,7%, l’inflazione cresce dello 0,2%: si ha spesso l’impressione di parlare di qualcosa di etereo e poco concreto. Le tasse, la burocrazia, le difficoltà di accesso al credito sono invece aspetti quotidiani e molto concreti con cui le imprese si confrontano ogni giorno.
La difficoltà di fare impresa in Italia è evidente dal confronto con gli altri partner europei: ipotizziamo una sfida Italia-Inghilterra. Prendiamo due aziende manifatturiere che producono esattamente la stessa cosa. Una ha sede nell’hinterland milanese e l’altra nella periferia di Londra. Partiamo da uno dei principali fattori produttivi: il lavoro. Anche lasciando da parte per un attimo i difficili rapporti sindacali, il tasso di assenteismo e di sciopero, lo scarso aiuto che i servizi pubblici di collocamento offrono alle imprese ci rendiamo subito conto che il costo che le due aziende sostengono per retribuire i propri dipendenti penalizza nettamente l’impresa italiana. Questa avrà, secondo i dati Eurostat, un costo medio orario di 28,3 euro, contro i 22,3 euro dell’azienda inglese. Purtroppo i nostri lavoratori non sono pagati meglio, piuttosto subiscono un cuneo fiscale (tasse e contributi) che pesa per il 44,9% in Italia e per il 26,8% in Inghilterra.
Non va meglio se guardiamo ai costi dell’energia. Una media impresa italiana paga le proprie forniture energetiche il 30% in più di un’azienda britannica evidenziando tutti gli errori di prospettiva che si sono commessi negli ultimi vent’anni in materia, dall’aprioristico rifiuto del nucleare ai cronici ritardi infrastrutturali.
La burocrazia rende il divario ancora maggiore. Per costruire un nuovo capannone l’imprenditore italiano attenderà 233 giorni per ricevere dalle autorità competenti il permesso di costruzione. L’imprenditore londinese avrà già iniziato a far lavorare l’impresa edile da ben 4 mesi, dovendo aspettare 105 giorni, meno della metà. E a Londra si attende meno della metà anche per l’esito di una causa in sede civile: 407 giorni contro i 1.185 giorni necessari per i nostri tre gradi di giudizio. I dati sono tutti tratti dal rapporto annuale della Banca Mondiale.
Se poi la nostra impresa si trova nella sfortunata condizione di essere fornitrice di una Pubblica Amministrazione dovrà sopportare un’attesa media di 144 giorni. Un tempo sei volte superiore a quello medio nel Regno Unito, dove con 24 giorni trascorsi tra l’emissione della fattura e il pagamento il settore pubblico si dimostra addirittura più celere di quanto richiesto dalla direttiva comunitaria in materia. Questi ritardi nei pagamenti hanno un costo assai rilevante per le nostre imprese: i crediti vanno anticipati presso il sistema bancario e il nostro sistema creditizio è tra i più costosi d’Europa.
Infine ci sono le tasse. Al cuneo fiscale cui si è accennato poco sopra vanno aggiunte le tasse sugli utili d’impresa, con un Total Tax Rate –lo dice sempre la Banca Mondiale – che raggiunge nel nostro paese il livello record del 65.4% dei profitti. Più di 30 punti percentuali sopra il Tax Rate dei sudditi di Sua Maestà che si ferma al 33,7%. Non basta: per noi è anche difficile essere in regola con il fisco. Una media impresa britannica impiega ogni anno 110 ore per gli otto appuntamenti fiscali previsti dal governo. In Italia la cifra raddoppia: 15 pagamenti ogni anno per un impiego di 269 ore e un costo per l’azienda di 7.600 euro. Una specie di tassa sulle tasse.
Un solo accenno alla spesa pubblica, che indirettamente molto incide sulla vita delle aziende. L’esecutivo di David Cameron, dal 2010 al 2013, ha tagliando 2,6 punti percentuali di Pil di spesa facendo scendere i costi statali dal 47% al 44,4%. Una sforbiciata che vale in termini reali 57 miliardi. Nello stesso periodo, nonostante i molti annunci di spending review e i tanti Commissari per la revisione della spesa, l’Italia ha visto crescere la spese pubblica. Ovviamente finanziandosi con le sempre crescenti tasse di cittadini e imprese.
Davanti a questi numeri è davvero difficile stupirsi nel vedere il Pil del Regno Unito crescere del 2,6% su base annua e non capire perché è davvero difficile fare impresa in Italia. Un ultima considerazione. Abbiamo evitato di confrontare la difficoltà del nostro imprenditore dell’hinterland milanese con quelle di un imprenditore bavarese: il confronto sarebbe diventato davvero impietoso.
Massimo Blasoni
Imprenditore, Presidente Centro Studi ImpresaLavoro

Ilgiornale

Troppe imprese ancora falliscono

Troppe imprese ancora falliscono

Massimo Blasoni – Metro
La scorsa settimana, a Cernobbio per il Forum Ambrosetti, il premier Matteo Renzi ha esibito un grande ottimismo sulla capacità di ripresa economica del nostro Paese. Vorremmo davvero potergli credere, per il bene di tutti. I numeri che raccontano la crisi di questi anni dipingono però una situazione che rimane di grande incertezza. Prendiamo ad esempio i dati più aggiornati sui fallimenti delle aziende: il nostro Paese resta uno dei pochi che continua ad registrare un fenomeno nettamente superiore ai livelli pre-crisi. Una nostra rielaborazione dei dati forniti dall’OCSE evidenzia infatti come rispetto al 2009 i fallimenti nella nostra penisola siano cresciuti del 66,3%, passando dai 9.383 del 2009 ai 15.605 del 2014.
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Imprese e PA

Imprese e PA

NOTA

L’Italia si colloca ultima nella classifica europea sul rapporto tra le imprese e la Pubblica amministrazione. Lo segnala il Centro studi ImpresaLavoro che ha rielaborato alcuni dati contenuti nel “Doing Business 2015”, relativi a un nuovo indice costituito da quattro diversi indicatori: il numero di giorni necessari per ottenere un permesso di costruzione, l’attesa per ottenere l’allacciamento dell’energia elettrica, le ore annue necessarie per il pagamento delle tasse e, infine, l’efficienza del sistema giudiziario per quanto riguarda il rispetto dei contratti. L’Italia è infatti risultata il fanalino di coda di questa speciale graduatoria europea (ossia 28esima), superata persino da Cipro. Ai primi posti si collocano i Paesi del Nord Europa (al primo posto la Finlandia, al secondo la Danimarca) mentre veniamo largamente sopravanzati da tutti i nostri principali competitor: Germania (quarta), Regno Unito (nono), Francia (undicesima) e Spagna (18esima).

In particolare, l’Italia si attesta al 25esimo posto per quanto riguarda il tempo necessario per ottenere il rilascio di un permesso di costruzione. A guidare questa classifica sono ancora Danimarca e Finlandia mentre peggio di noi fanno solo Romania, Slovacchia e Cipro.

Recuperiamo invece qualche posizione per quanto riguarda i tempi di attesa per l’allacciamento all’energia elettrica: l’Italia si colloca infatti al 18esimo posto di questa classifica (guidata nell’ordine da Austria e Germania), perdendo in ogni caso il confronto con Paesi come Grecia (ottava), Lettonia (15esima) ed Estonia (16esima).

Quanto alla classifica (guidata da Lussemburgo e Irlanda) sul minor numero di ore che ogni impresa deve dedicare ogni anno al pagamento delle tasse, slittiamo al 23esimo posto superati da Cipro (11esima), Spagna (15esima) e Grecia (17esima).

Infine, per quanto riguarda i tempi di attesa delle sentenze sul mancato rispetto dei contratti, l’Italia si colloca al terz’ultimo posto della classifica (trainata da Lituania e Lussemburgo), con una performance anche qui inferiore a Cipro e ai Paesi dell’Est Europa.

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