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Imu terreni, ora lo stato deve restituire 128 milioni ai Comuni

Imu terreni, ora lo stato deve restituire 128 milioni ai Comuni

Matteo Barbero – Italia Oggi

La parziale vittoria nella vicenda dell’Imu sui terreni montani porterà nelle casse dei Comuni un assegno da 128 milioni di euro. È questa la cifra dei rimborsi che lo stato deve erogare ai sindaci, in base a quanto previsto dal dl 4/2015 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 19 del 24 gennaio 2015). Quest’ultimo, come noto, ha stabilito che, per distinguere i terreni soggetti all’imposta da quelli esenti, fa fede solo la classificazione Istat. Quindi, sono stati definitivamente abbandonati il criterio altimetrico e la divisione in tre fasce operata dal dm 28 novembre 2014. La decisione del governo accoglie solo in parte le richieste dei Comuni: questi, se da un lato avevano chiesto la revisione dei parametri, dall’altro speravano nella cancellazione dell’obbligo di pagamento relativo al 2014, con conseguente azzeramento dei tagli subiti sul fondo di solidarietà comunale.

In base alle nuove regole, sono esenti dall’Imu: a) i terreni ubicati nei Comuni classificati totalmente montani; b) i terreni ubicati nei Comuni classificati parzialmente montani, se posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali; C) i terreni ubicati nei Comuni parzialmente montani, posseduti da coltivatori diretti e iap e da essi concessi in comodato o in affitto ad altri coltivatori diretti e iap. Per il solo anno 2014, non è comunque dovuta l’Imu per i terreni esenti in virtù del citato dm e che, invece, risultano imponibili per effetto dell’applicazione dei nuovi criteri. Per esempio, in un Comune collocato a 300 metri di altitudine, ma non riconosciuto come montano o parzialmente montano dall’Istat, coltivatori diretti e iap non dovranno pagare sui propri terreni l’Imu 2014, perché essi sarebbero stati esenti in base a quanto stabilito dal dm 28 novembre 2014: essi dovranno versare, pero, l’Imu 2015.

Il dl 4 disciplina anche le regolazioni finanziarie conseguenti alla nuova mappa delle esenzioni. Nell’allegato A sono riportate le variazioni compensative di risorse relative al 2015 (quindi alla situazione a regime), che saranno operate sul fondo di solidarietà, per i Comuni delle regioni ordinarie, Sicilia e Sardegna, sulle compartecipazioni ai tributi erariali per le altre regioni speciali. Il totale di questo allegato, ossia la stima di maggior gettito a favore dei Comuni, vale 268.652.847,44. L’allegato al dm 28 novembre 2014, invece, 359.540.308,25, per cui la nuova classificazione costa a regime circa 90 milioni al bilancio dello Stato. Nell’allegato B, sono riportate le variazioni compensative di risorse relative al 2014, che riflettono una situazione parzialmente diversa da quella a regime, visto che per il 2014 rimangono in vita alcune esenzioni previste dal dm 28 novembre 2014, poi cancellate dal dl 4. Infatti, il totale complessivo è più basso di quello indicato nell’allegato A.

Nell’allegato C, infine, troviamo i rimborsi ai Comuni, che ovviamente riguardano l’anno 2014. In pratica, si tratta delle somme decurtate dal fondo o dalle compartecipazioni in vista di un maggiore gettito che non si verificherà in quanto riguardante fattispecie che restano esenti. Il totale, come detto, è di circa 128 milioni.In base agli importi indicati nell’allegato C, i Comuni sono autorizzati a rettificare gli accertamenti del bilancio 2014 relativi al fondo di solidarietà e all’Imu. Essi, pertanto, dovranno ridurre l’accertamento convenzionale Imu effettuato in base al dm 28 novembre 2014, incrementando della stessa cifra quello relativo al fondo.

Rimane il problema del restante gettito (circa 270 milioni) che i Comuni dovrebbero incassare entro il nuovo termine del 10 febbraio: come ricorda una nota della Fondazione commercialisti i terreni assoggettati al prelievo sono collocati in prevalenza in collina ed in montagna e spesso risultano incolti con reddito dominicale assolutamente scarso, per cui l’importo dovuto risulta il più delle volte irrisorio ed in taluni casi anche al di sotto della soglia minima prevista per il versamento.

Imu agricola, 3.456 Comuni saranno esenti anche per il 2014

Imu agricola, 3.456 Comuni saranno esenti anche per il 2014

Mario Sensini – Corriere della Sera

Con un decreto varato da un Consiglio dei lampo, durato pochi minuti, il governo ha sistemato il pasticcio dell’Imu sul terreni agricoli. Il decreto prevede l’esenzione dell’imposta sui terreni agricoli e incolti in 3.456 Comuni riclassificati come interamente «montani» e su quelli di proprietà o in affitto ai coltivatori diretti e alle imprese agricole nei municipi (sono 650) il cui territorio è considerato parzialmente montano. I nuovi criteri si applicano dal 2015 ma anche alle tasse dovute per il 2014, che andranno pagate entro febbraio, risolvendo così l’enorme incertezza che si era creata sul versamento dell’imposta. I sindaci, infatti, avevano presentato ricorso contro la decisione del governo di rivedere i criteri altimetrici per la definizione del Comune montano, ora ripristinati, ed il Tar del Lazio lo aveva accolto, sospendendo il pagamento dell’imposta che avrebbe dovuto essere pagata entro lunedì prossimo, 26 gennaio. La soluzione è arrivata ieri mattina nel corso di un incontro tra i ministri dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e dell’Agricoltura, Maurizio Martina. L’estensione dell’esenzione dovrebbe costare circa 100 milioni di minori incassi per l’erario dello Stato.

La renzinomics inciampa sul fisco, la semplificazione resta un’utopia

La renzinomics inciampa sul fisco, la semplificazione resta un’utopia

Alberto Statera – Affari & Finanza

Anche al netto dell’incredibile vicenda dell’articolo l9 bis introdotto di soppiatto nel decreto fiscale di Natale, che secondo il costituzionalista Alessandro Pace meriterebbe una mozione di sfiducia e le dimissioni del presidente del Consiglio, il governo Renzi, come e peggio di quelli che lo hanno preceduto, si sta rivelando una calamità in materia tributaria. Non c’è intervento piccolo o grande che negli ultimi mesi non abbia prodotto pasticci, guai e relative crisi depressive di contribuenti e commercialisti. Dall’incubo Imu, Tasi, Tari alla norma retroattiva sull’Irap in spregio della Statuto del contribuente, fino alla comica finale dell’Imu agricola sui terreni “ex montani “. La riduzione delle esenzioni doveva coprire 350 milioni già spesi per il bonus degli 80 euro in busta paga, ma il pagamento è stato rinviato dal 16 dicembre 2014 al 26 gennaio 2015 (data vicinissima nella quale è lecito prevedere l’ennesimo incubo) perché di fatto la nuova norma era ragionevolmente inapplicabile, oltre che esposta a ogni genere di ricorso. Dovevano pagarla i terreni ricadenti in Comuni sotto i 600metri di altitudine, ma chi conosca un minimo la geografia italiana dovrebbe sapere che l’altitudine della sede comunale non coincide quasi mai con quella dei poderi,che spesso sono molto più in alto.

Sarà per un modo di legiferare grossolano, al modo di Re Carlone dei poemi cavallereschi (da cui l’espressione “alla carlona”), sarà per inesperienza nel padroneggiare i sistemi legislativi, sara per la sindrome dell ‘uomo solo al comando attorniato da yes-men (e yes-woman). O, peggio, sarà per una strategia ambigua di stangatine per quanto possibile sotto traccia e contemporanee strizzatine d’occhio agli evasori in funzionedi futuro consenso elettorale, come fa sospettare il 19 bis che, a prescindere dall’utilità per Berlusconi, non è un condono, ma la certificazione per legge della quota che i grandi contribuenti sono autorizzati a frodare: una vera e propria licenza a delinquere. Fatto sta che la retorica del “fisco amico” e della “moral suasion” sembra annegare nell’attuazione lentissima e caotica di una delega fiscale, che rischia di scadere tra non molte settimane.

Prendiamo la promessa semplificazione, che dovrebbe essere il primo atto di un rapporto per quanto possibile meno devastante col fisco più squilibrato del mondo occidentale. Esclusa la legge di stabilità, il governo Renzi ha emanato 8 provvedimenti con 87 norme di carattere fiscale (per la serie dell’iperfetazione normativa) di cui 49 invece di semplificare complicano le ricadute burocratiche. Le sole norme che semplificano sono quelle contenute nel decreto legislativo sulle promesse dichiarazioni precompilate. Un po ‘ meglio, per la verità, della fabbrica delle complicazioni gestita dai govemi Monti e Letta (e dai precedenti), ma con un passo che promette decenni di attesa per vedere, se mai ci sarà, un’effettiva sburocratizazzione. Almeno a stare ai dati della Confartigianato, che ha calcolato in 269 ore all’anno il tempo necessario per affrontare gli adempimenti necessari al pagamento delle tasse, contro le 110 della Gran Bretagna, le 137 della Francia, le 167 delIa Spagna e le 218 della Germania.

In compenso, se fosse passata la depenalizzazione che Renzi ha attribuito alla sua stessa manina, avremmo ulteriormente migliorato, nel tempo di un Consiglio dei ministri natalizio, il nostro record europeo di mino numero di detenuti per frode fiscale: 156 (salvo che dai tempi della statistica non siano stati rilasciati con tante scuse).

Il diluvio fiscale

Il diluvio fiscale

Il Foglio

Ieri proprietari e inquilini hanno pagato la seconda rata dell’Imu sulle seconde case e sugli immobili in affitto (o sfitti ma abitabili) e la Tasi sull’abitazione principale. Se hanno la partita Iva hanno pagato la rata in scadenza, mentre entro il 29 dicembre verseranno l’acconto per il periodo seguente. Da poco hanno pagato il conguaglio dell’Irpef. Insomma sono tempi di diluvio fiscale. Il ministero dell’Economia si attende un gettito di 23,7 miliardi per quest’anno derivante soltanto dalle tasse sugli immobili (Imu più Tasi). Quest’ultima è la porzione più onerosa perché si aggiunge a una imposta personale sul reddito che ha una pressione che si colloca al vertice di quelle della zona euro.

In questo quadro, c’è quantomeno la necessità di rendere semplice, chiaro e certo l’onere tributario. Attualmente fra Imu e Tasi ci sono quattro pagamenti semestrali, due di acconto e due a conguaglio, con aliquote incerte e complicate. L’introduzione di una local tax, con l’accorpamento di Imu e Tasi entro il 2015, è stata rimandata: la legge di stabilità ha congelato le forchette delle aliquote dei due tributi, ma ciò non scongiura nuovi aumenti. Infatti potranno deciderli i Comuni che non hanno ancora adottato le aliquote massime. La crisi dell’industria delle costruzioni deriva in buona parte dall’aumento della pressione fiscale immobiliare in un periodo già critico. Il gettito che inizialmente doveva essere destinato alla riduzione del disavanzo fiscale del bilancio pubblico complessivo ora è tutto destinato alla finanza municipale. E ciò concorre spesso a sostenere una spesa comunale troppo elevata in relazione ai servizi resi quotidianamente ai cittadini.

Patrimoniali nascoste sulla casa

Patrimoniali nascoste sulla casa

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

A pensarci bene, è un bersaglio molto facile da centrare. Non può muoversi, non può cambiare Paese, non può rifugiarsi in un paradiso fiscale. Stiamo parlando della casa. Forse è per questo che il Fisco negli ultimi anni l’ha presa di mira. Quasi tutti gli esecutivi che si sono succeduti hanno puntato sugli immobili per aumentare il gettito statale e locale. Così è avvenuto con il passaggio dall’Ici all’Imu. Poi, una mini tregua, con l’esonero per le abitazioni principali. Ma il risparmio è stato in parte (se non completamente) compensato dall’arrivo della Tasi, la tassa sui servizi. Il tutto in un continuo cambiamento di norme, regole e scadenze che hanno disorientato i contributi. E l’incertezza sulle tasse da pagare è il nemico peggiore per un Paese che deve ritrovare soprattutto fiducia.

Speriamo che questo copione non si ripeta con l’operazione avviata in questi giorni. Vale a dire la nomina delle commissioni censuarie, primo passo perla Grande riforma (incompiuta) del sistema tributario: quella del Catasto. Il valore delle case non verrà più determinato in base alle rendite, ma con un mix tra superficie e valori di mercato. E, nell’epoca dei Big Data, anche il Fisco si convertirà agli algoritmi perché userà proprio un algoritmo per elaborare valutazioni corrette. Speriamo sia una formula efficiente come quella che ha fatto la fortuna di Google e Facebook. Rivedere il valore degli immobili è una decisione giusta, perché le attuali valutazioni non corrispondono alla realtà e, soprattutto, sono sperequate. I centri cittadini sono pieni di immobili di pregio che, per i ritardi del Catasto, continuano a pagare le tasse come beni di poco pregio. Mentre i bilocali nuovi nelle periferie hanno valutazioni vicine a quelle di mercato. E tasse altrettanto elevate.

La riforma del Catasto deve essere improntata all’equità e non diventare l’ennesima occasione per battere cassa. Secondo alcune stime i rincari, senza correttivi, arriverebbero anche al 200%. È vero che viene prevista una clausola di salvaguardia, ma solo a livello comunale. Spesso quando si decide di tassare le ricchezze, invece di colpire evasori e grandi patrimoni immobiliari si è finito per pesare soprattutto su chi possiede una sola abitazione, quella in cui vive, e sulla quale magari paga anche il mutuo. Sugli immobili gravano già oggi due/tre patrimoniali mascherate. Non aggiungiamoci anche quella del nuovo Catasto. Ricordiamo che le case a chi ci abita non danno reddito. Mentre il Fisco il reddito dalle case lo pretende. Eccome. Ogni anno. E in denaro contante.

Tutte le sberle del PD sul mattone

Tutte le sberle del PD sul mattone

Luciano Capone – Libero

Matteo Renzi ha sconvolto i tradizionali schemi politici e dice cose che sono da sempre nelle corde dell’elettorato di centrodestra sul ruolo dei sindacati, sull’articolo 18, sulla burocrazia, sulle riforme istituzionali. Ma qualche differenza forse esiste ancora, ad esempio sul tema fiscale, dove tendenzialmente la destra preferisce tasse più basse rispetto alla sinistra. La conferma arriva dai risultati di uno studio di due economisti italiani che lavorano a Harvard, uno di fama internazionale, Alberto Alesina, e uno giovane, Matteo Paradisi, che hanno analizzato l’effetto dei cicli elettorali sulla scelta dell’aliquota Imu da parte dei Comuni. Dai dati emerge che i Comuni di centrosinistra tassano di più di quelli di centrodestra, o meglio che è più alta la percentuale di Comuni di centrosinistra che hanno alzato l’aliquota Imu.

Il lavoro di Alesina e Paradisi non si occupa delle differenze tra destra e sinistra, ma di vedere se e quanto i Comuni sono influenzati nella scelta dell’imposizione fiscale dalle scadenze elettorali. Gli economisti sono partiti dall’introduzione dell’Imu nel 2011 per vedere come si sono comportate le amministrazioni locali nell’applicazione della parte variabile dell’aliquota Imu. La scelta di studiare l’Imu, nonostante le difficoltà a spiegare il meccanismo dell’imposta al pubblico internazionale, è giustificata per la parziale autonomia di cui dispongono i Comuni nella scelta dell’aliquota, perché è un’imposta con un gettito rilevante (circa 24 miliardi di euro), che interessa un’ampissima fetta di contribuenti (circa 26 milioni), in un Paese in cui oltre il 60% delle famiglie ha una casa di proprietà. La ricerca mostra l’esistenza di un «ciclo elettorale», ovvero la scelta da parte degli amministratori di abbassare le tasse prima delle elezioni per essere riconfermati e questo effetto è più evidente nei piccoli Comuni e nel Sud Italia. Nei piccoli Comuni perché si trovano a gestire problemi meno complessi e quindi l’Imu assume un’importanza più rilevante nel dibattito politico; per quanto riguarda l’Italia meridionale la spiegazione è di tipo culturale: nel Sud c’è minore «coscienza civica», partecipazione alle decisioni pubbliche e controllo sugli amministratori e quindi l’elettorato è più manipolabile dai politici, che basano le loro scelte sulla base del ciclo elettorale.

Ma i dati più interessanti, anche se occupano solo una parte della ricerca, sono quelli sulle differenze tra centrodestra e centrosinistra: al netto del ciclo elettorale, «la sinistra tende a imporre imposte più alte della destra». ll 35% dei Comuni amministrati dal centrosinistra ha scelto aliquote più alte di quella standard, contro il 27,6% del centrodestra. Mentre i pochi Comuni che hanno scelto di abbassare l’aliquota Imu sulla prima casa sono per l’8,4% di centrodestra e per il 6,5% di centrosinistra. E questo, spiegano gli economisti, «è coerente con le due diverse impostazioni ideologiche sulla tassazione della ricchezza». Un solo dato è in controtendenza: il 3% dei Comuni di sinistra ha deciso di abbassare l’aliquota sulle seconde case contro appena lo 0,2% dei Comuni di destra.

Imu alla Chiesa, la Ue riapre il caso

Imu alla Chiesa, la Ue riapre il caso

Alberto D’Argenio – La Repubblica

L’Unione europea riapre il caso sugli sconti fiscali alla Chiesa. Lo fa con una decisione, a suo modo clamorosa, della Corte di giustizia del Lussemburgo: i giudici europei hanno deciso di ammettere nel merito un ricorso che potrebbe costare agli enti ecclesiastici che operano in Italia fino a quattro miliardi di euro, l’ammontare di Ici e Imu non pagato dal 2008. E in discussione potrebbero entrare anche le nuove regole approvate dal governo Monti nel 2012 che, secondo i ricorrenti, hanno confermato gli sconti fiscali cambiando solo apparentemente le regole già condannate dalla Commissione europea come aiuti di Stato illegali.

Il caso è stato aperto nel 2006 da una denuncia dell’ex deputato Maurizio Turco e del fiscalista Carlo Pontesilli, esponenti del Partito Radicale, contro una legge varata dal governo Berlusconi in piena campagna elettorale. Dopo una serie di archiviazioni (secondo alcuni osservatori in odore di insabbiamento) da parte di Bruxelles e numerose contro denunce, nel 2012 hanno ottenuto la condanna del regime fiscale di favore concesso ad alberghi, scuole e cliniche gestite dagli enti ecclesiastici. Si trattava dello sconto del 100% sull’Ici, poi diventata Imu, e del 50% sulle tasse sul reddito, ovvero l’Ires sulle attività nei settori dell’istruzione e della sanità privata. Un sistema di favore che per l’Antitrust europeo distorceva il mercato, favorendo i beneficiari rispetto ai concorrenti che invece le tasse le pagavano tutte. Aiuto di Stato discriminatorio. Ma allora Bruxelles non è andata fino in fondo e rinnegando una giurisprudenza ultra trentennale non ha ingiunto al governo di recuperare i balzelli non pagati negli ultimi cinque anni. Una montagna di soldi che l’Associazione nazionale dei comuni appunto stima intorno ai quattro miliardi.

Ora – con una decisione del 29 ottobre dell’Ottava sezione del Tribunale che ha applicato una nuova norma del Trattato di Lisbona – la Corte del Lussemburgo ha dato torto alla Commissione europea che chiedeva l’irricevibilità della causa e rinvia la questione a un giudizio sul merito. Bruxelles avrà tempo fino al 10 dicembre per presentare una memoria difensiva in grado di giustificare la decisione di non chiedere i rimborsi per «generale e assoluta» impossibilità di procedere al recupero. Poi saranno i ricorrenti a presentare una memoria e infine si arriverà a sentenza. Nel caso immediatamente esecutiva, appellabile ma i cui effetti non potranno essere sospesi se non da un ribaltamento definitivo del giudizio.

Ma la partita non si chiude qui. I ricorrenti sono convinti che la decisione della Corte possa aprire a ulteriori sviluppi. Nel 2012 il governo Monti dopo un lungo negoziato con la Commissione Barroso (allora si sussurrava di insistenti telefonate da entrambe le sponde del Tevere in direzione Bruxelles) non solo era riuscito a limitare i danni e ad evitare il recupero dei soldi trattenuti dagli enti ecclesiastici, ma aveva anche ottenuto la chiusura del dossier sul futuro varando nuove regole che avrebbero dovuto rendere più rigoroso l’accesso agli sgravi fiscali. Insomma, norme scritte per impedire che attività no-profit beneficiarie di sconti fossero in concorrenza sul mercato svolgendo attività commerciali. Ma i ricorrenti non la pensano così, e sono pronti ad allegare alla causa pendente di fronte ai giudici del Lussemburgo la documentazione per dimostrare che di fatto rispetto alla condanna del 2012 nulla è cambiato, impugnando anche la circolare del Ministero dell’Economia della scorsa primavera che ha definito nel dettaglio le nuove norme, secondo i denuncianti interpretando in modo troppo estensivo la legge di Monti e tornando a favorire la Chiesa, anche permettendo a qualsiasi ente formalmente no-profit di operare di fatto sul mercato senza pagare le tasse. La stessa denuncia sarà poi inoltrata ancora una volta alla Commissione europea ora guidata dal lussemburghese Juncker, che come commissario alla Concorrenza ha scelto la liberale danese Margrethe Vestager.

In Italia 2 milioni e 300mila famiglie non possono permettersi una casa

In Italia 2 milioni e 300mila famiglie non possono permettersi una casa

Danilo Taino – Corriere della Sera

Sono anni che non si parla più di diritto alla casa, almeno in Occidente. Quasi che il problema fosse risolto. Non lo è: nelle città italiane, per dire, ci sono due milioni e trecentomila famiglie che non sono in grado, per ragioni economiche, di garantirsi un’abitazione minima. Il problema non è risolvibile con i vecchi modelli delle rivendicazioni sociali degli Anni Settanta e Ottanta, o con i piani di edilizia popolare del passato. Ciò nonostante, resta: è un guaio sociale e rimbalza in negativo sui livelli di istruzione e di salute del Paese e pesa sulla crescita complessiva. La società di consulenza McKinsey, attraverso il suo istituto di ricerca MK Global Institute, pubblicherà domani uno studio – globale e articolato per Paese – su questo che è uno dei temi essenziali del momento. E ha elaborato alcune proposte “di mercato” per affrontarlo.

Il gap
Al cuore della ricerca c’è il calcolo di un gap di accessibilità alla casa: in sostanza, quanto salario in più servirebbe a una famiglia media per comprare l’abitazione (nel caso italiano di 60 meri quadrati) senza dovere impegnare più del classico 30% del reddito stesso. Il risultato è che, in Italia, i 2,3 milioni di famiglie in difficoltà avrebbero bisogno di nove miliardi di dollari in più (7,1 miliardi in euro) ogni anno. Il gap maggiore si registra nell’area metropolitana di Milano: quattro miliardi di dollari. Seguono Roma, tre miliardi; Firenze, un miliardo; Torino, 500 milioni; Napoli, 300 milioni e Venezia, 200 milioni. «Due milioni e trecentomila famiglie in condizioni di difficoltà abitativa non sono cosa da poco per un Paese come il nostro. E un gap pari allo 0,5% del Pil è considerevole», dice Stefano Napoletano, il partner di McKinsey che ha seguito lo studio per l’Italia.

Le soluzioni possibili
Per ridurre questo gap di accessibilità alla casa, Napoletano vede quattro possibili interventi applicabili al caso italiano (che ovviamente è diverso da quello di altri Paesi). Vanno di molto ridotti i tempi e i costi della burocrazia per ottenere i permessi, soprattutto di ristrutturazione; il settore delle costruzioni, uno dei più lenti nei guadagni di produttività, va modernizzato; occorre una gestione delle case costruite meno costosa, il che significa introdurre innovazioni sin dalla progettazione, ad esempio nella sostenibilità energetica; vanno abbassati i costi di finanziamento per l’acquisto della casa e resi disponibili, attraverso strumenti di debito ad hoc, anche a chi ha redditi bassi e scarse garanzie da offrire. A livello globale, lo studio calcola che ci siano 330 milioni di famiglie in difficoltà finanziarie quando devono affrontare la questione abitazione. Che, in ragione degli intensi flussi migratori verso le metropoli nei Paesi emergenti, diventeranno 440 milioni nel 2025: almeno un miliardo e trecento milioni di persone coinvolte.

Nel mondo
Nel mondo, il gap di accessibilità alla casa – misurato a seconda delle caratteristiche di ogni Paese – è oggi di 650 miliardi di dollari all’anno: quasi l’uno per cento del Prodotto lordo mondiale. Ai costi attuali, per risolvere il problema occorrerebbe investire tra i novemila e gli 11 mila miliardi di dollari da qui al 2025, che salgono a 16 mila se si aggiungono i costi di acquisizione dei terreni da edificare. Evidente è che la chiave sta nel tagliare i costi: di costruzione, di gestione e di rendita data dalle molte restrizioni regolamentari (questi ultimi all’origine dei prezzi elevati nei centri delle città). McKinsey calcola che si possano ridurre tra il 20 e il 25 per cento.

Casa, se le tasse pesano più della rendita

Casa, se le tasse pesano più della rendita

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

Diciamo la verità. Fa un certo effetto confrontare la rendita catastale complessiva attribuita al patrimonio immobiliare italiano con il costo fiscale che tra imposte dirette, imposte indirette e tributi locali i proprietari sopportano ogni anno. Quasi 37 miliardi di euro di rendita contro oltre 50 miliardi versati annualmente al fisco fra tributi e balzelli.

Le tasse “pesano” molto più della rendita, per la precisione la superano di oltre il 35 per cento. Naturalmente, la rendita indica solo in teoria la redditività di un immobile. La realtà è diversa e sappiamo come la rendita non rappresenti il reddito figurativo che un proprietario ricava dal proprio immobile. Il nostro sistema di tassazione, infatti, utilizza come base imponibile il valore catastale di un fabbricato o di un terreno che si ottiene moltiplicando la rendita per determinati coefficienti che variano a seconda della tipologia dell’immobile.

In linea di principio, però, la sorpresa rimane. Perché, per azzardare un esempio, è come se un investimento finanziario fosse tassato non sul rendimento ottenuto (la rendita) ma sul valore del capitale, del patrimonio. Non scopriamo da oggi che la tassazione sul mattone ha raggiunto livelli esorbitanti (basti dire che prima del 2012, il gettito immobiliare complessivo del mattone non arrivava a 37-38 miliardi). È che ogni giorno diventa più evidente come sia urgente un ripensamento dell’intero sistema. Abbiamo, in primo luogo, un problema di tassazione locale degli immobili. C’è il caos della Iuc (Imu+Tasi) da risolvere, con l’impegno del governo ad andare verso un’imposta davvero unica, che consenta di superare la convivenza di Imu e Tasi, che sia più semplice da calcolare e, auspicabilmente, che, pur rispettando l’autonomia dei sindaci, possa evitare gli eccessi che abbiamo in questi mesi toccato con mano.

C’è, poi, un aspetto che la politica fatica a cogliere legato alla struttura dell’imposizione sul mattone. Nei sistemi in cui la tassazione è di stampo patrimoniale e il possesso dell’immobile subisce un prelievo significativo, la tassazione indiretta sui trasferimenti è generalmente contenuta. In Italia, non avviene così e alle pesanti pretese del fisco (locale) sul possesso di un immobile si aggiungono quelle altrettanto pesanti (dello Stato) sulle compravendite.

Sullo sfondo resta la riforma del Catasto. L’obiettivo è di eliminare le iniquità del sistema attuale (ci sono immobili simili con valori catastali molto diversi o valori catastali identici per immobili diversi tra loro). La revisione delle rendite restituirà basi imponibili molto più elevate rispetto a oggi, come molte simulazioni fanno chiaramente emergere. Se così stanno le cose, c’è allora da chiedersi che accadrà al gettito fiscale sul mattone. Crescerà con la stessa dinamica delle rendite? La delega fiscale, che fissa i criteri della riforma del Catasto, indica il principio dell’«invarianza di gettito». Quindi, nuove rendite più eque senza aumento di tasse. Ma ancora: sarà vero? E funzionerà il meccanismo che affida a governo e Parlamento il compito di vigilare per evitare i rincari? Qualche rischio, insomma, è dietro l’angolo. Ma attenzione: 50 miliardi di tasse sono già uno sproposito. Vediamo di non preparare il terreno a un nuovo pericoloso record.