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Chi si rivede, l’Imu sulla prima casa

Chi si rivede, l’Imu sulla prima casa

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Renzi prepara l’ennesimo gioco di prestigio per la tassazione sulla casa. La legge di Stabilità dovrebbe partorire, secondo alcune indiscrezioni, una nuova Imu sulla prima casa. Probabilmente non si chiamerà così perché il premier vorrà marcare la differenza con i precedenti governi e brillare per inventiva, ma la sostanza non cambia. I tecnici del ministero dell’Economia sono al lavoro per sfornare, a tempi record, in occasione della presentazione della manovra economica per il 2015 fissata per il 15 ottobre, una tassazione sulla casa nuova di zecca. Renzi ha già preparato il terreno di quella che sarà un’altra operazione di marketing. Ha annunciato che unificherà le diverse imposte in un’unica tassa. Il prossimo passo sarà dire che la Tasi ha creato tanta confusione e disagi ai proprietari di immobili, che è un’imposta iniqua perché le aliquote sono state lasciate in mano ai Comuni con un effetto a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale e che le diverse scadenze hanno creato il caos.

Si dirà quindi che occorre tornare all’antica. Ecco quindi l’arrivo di un’unica imposta che solo sulla carta rappresenterà un minor onere per i contribuenti. La Tasi, secondo le ipotesi allo studio dovrebbe confluire in un’altra imposta, una sorta di Imu bis che dovrebbe però assicurare almeno lo stesso gettito. Secondo le valutazioni in corso al ministero dell’Economia potrebbe essere molto simile all’Imu con una detrazione fissa a livello nazionale pari a 200 euro per la prima casa più uno sconto per ogni figlio sotto i 26 anni residente nello stesso immobile. Le aliquote sulle quali si sta ragionando sono per la prima casa comprese in un range tra il 4 e il 6 per mille e per le seconde abitazioni tra il 7,6 e il 10,6 per mille.

La Tasi fu introdotta sotto il governo Letta, come un escamotage voluto da Alfano che non voleva intestarsi il ritorno dell’Imu sulla prima casa dal momento che Berlusconi aveva ottenuto dall’ex premier l’esenzione dell’imposta sull’abitazione principale. Questo la dice lunga sulla volontà maturata da tempo, di colpire la prima casa. L’imposta unica e l’abolizione della Tasi verrà quindi spacciata come un «regalo» ai proprietari e dovrebbe servire a far digerire le maggiori imposte più o meno mascherate contenute nella legge di Stabilità.

Al momento non è stata fatta alcuna comunicazione ufficiale all’Anci. L’associazione dei Comuni ha comunque detto che, sulla base delle indiscrezioni emerse in questi giorni, «l’ipotesi di un vero riordino sulla Tasi è la benvenuta, ovviamente a condizione che si assicuri un sistema semplice, sostenibile e duraturo per la generalità dei Comuni, e che non si comprometta ancora una volta la possibilità di approvare i bilanci in tempo utile per gestire gli Enti». Poi l’Anci sottolinea che proprio «la variabilità delle aliquote e delle detrazione della Tasi sull’abitazione principale è tra i principali motivi della grande confusione». In base ai dati dell’Ifel il prelievo sull’abitazione principale media nel complesso dei capoluoghi è pari a 184 euro annui. Il prelievo annuo medio è molto diversificato: va dai 30 euro annui dei casi di minore impatto, ai circa 430 euro nei capoluoghi che hanno applicato un’aliquota relativamente elevata (intorno al 2,5 per mille)».

La Confedilizia in un dossier ha fatto il punto sul peso della tassazione immobiliare. L’Italia, nel confronto internazionale, è il paese con il maggior livello di imposizione fiscale sugli immobili. La manovra Monti per il 2012 ha portato il nostro Paese a una pressione del 2,2% sul Pil e del 2,75% sul reddito disponibile, contro la media Ocse di 1,27% e 1,59%, ossia circa 1 punto in meno sul Pil e 1,15 sul reddito disponibile. Il divario si accentua nei confronti della media Ue – che ha una pressione fiscale, rispettivamente, dell’1,15% e dell’1,40% – e, ulteriormente, con l’Eurozona, che ha una pressione dell’1,13% e dell’1,40%, ossia la metà circa di quella dell’Italia sia rispetto al Pil che al reddito disponibile.

Oltre al record di peso fiscale l’Italia detiene anche il primato per le stranezze sulle aliquote e le detrazioni. A Ferrara, per conoscere la detrazione applicabile per la Tasi sull’abitazione principale, bisogna applicare una formula matematica. A Modena, sono previste 11 detrazioni diverse, ad Asti 9. Il Comune di Parma, poi, prevede una detrazione maggiorata per le abitazioni principali con riferimento alla capacità contributiva della famiglia definita attraverso l’applicazione dell’indicatore Isee e declinata in ben 24 fattispecie diverse. In alcune città importanti (Bologna, Ancona, Treviso), le amministrazioni non si sono limitate a stabilire le aliquote relative al 2014, ma hanno fissato la misura dell’imposta anche per il 2015 e il 2016, sfruttando subito la possibilità di superare il limite massimo che la legge di stabilità dello scorso anno ha previsto solo per il 2014 (a Bologna, ad esempio, l’aliquota è stata fissata al 4,3 per mille sia per il 2015 che per il 2016). Sul «valore» dei figli, poi, ogni Comune ha la sua idea, che traduce in una diversa misura della (eventuale) specifica detrazione stabilita (10, 20, 25, 30 euro ecc.).

La nuova imposta – che, si ricorda, è solo una delle tre componenti della Iuc la sedicente imposta unica comunale che comprende anche l’Imu e la Tari – ha rappresentato infatti una nuova occasione, per i Comuni, per sbizzarrirsi nelle scelte più diverse, soprattutto con riferimento ad aliquote e detrazioni. A dimostrare lo stato d’incertezza e di confusione determinato da questo tributo vale del resto – ricorda Confedilizia – quanto accaduto a Lignano Sabbiadoro (Udine), dove, nonostante il Comune abbia deliberato l’azzeramento della Tasi, il sindaco ha riferito che dai cittadini sono arrivati decine e decine di versamenti del tributo. Il presidente della Confedilizia ha chiesto al governo di dare un segnale con la legge di Stabilità per consentire il rilancio del settore immobiliare «che non può essere la valvola di sicurezza ogni volta che lo stato ha bisogno di far cassa». Un intervento significativo potrebbe essere, secondo la Confedilizia, «una riduzione importante delle rendite catastali».

Troppe tasse, ecco la gara a demolire la propria casa

Troppe tasse, ecco la gara a demolire la propria casa

Filippo Caleri – Il Tempo

Dal valore del mattone al piccone per demolirlo. È il triste destino del patrimonio immobiliare italiano, vanto della classe media, tra le più ricche del mondo grazie all’amore, viscerale ma comunque contraccambiato per la proprietà edilizia. Un amore finito, distrutto e lacerato dalle tasse. Sì, ora per non pagare più il conto al fisco, che sulle case ha messo radici e deciso di finanziare senza pietà e a oltranza il deficit dello Stato, si ricorre alla distruzione delle abitazioni o, nell’ipotesi migliore, alla donazione allo Stato. Non è uno scherzo. Ma il risultato inatteso, o forse pianificato e inconfessabile, dei grandi economisti consiglieri dei governi che hanno puntato inopinatamente sull’equazione casa uguale ricchezza, colpendo al cuore e al portafoglio una nazione intera e il nervo portante della sua economia. Dunque la Tasi, ultima invenzione di una classe politica incapace di costruire il futuro e in cerca solo di risorse per tappare i buchi creati dai privilegi accordati nel passato, sta diventando un incubo per molte famiglie italiane. E il genio italico, che nel Dna ha la ricerca della scappatoia per fuggire alla gabella, si è messo già all’opera.

Per la Confedilizia, che rappresenta una buona parte dei proprietari di immobili, sono sempre più frequenti i casi di proprietari di case che, tartassati per case ricevute in eredità e posizionate in angoli remoti del Paese, pensano di lasciare allo Stato i loro «mattoni». Una facoltà prevista dall’articolo 827 del codice civile che recita testuale: «I beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato». In linea di principio dunque basterebbe l’abbandono di fatto di una casa e la comunicazione ufficiale al comune in cui è sito l’immobile per far scattare il passaggio del bene nella disponibilità dello Stato. E la liberazione dall’Imu. Un’ipotesi che è dibattuta però tra i giuristi interrogati dall’associazione. Sì perché lo Stato potrebbe opporre che il passaggio di proprietà, anche se a titolo gratuito, non è esente dal pagamento delle tasse. In particolare potrebbe essere richiesta, se avvalorata l’ipotesi di una donazione, una quota pari all’8% del valore catastale. Se invece passasse l’idea di un trasferimento contrattuale a costo zero allora le Entrate potrebbero esigere l’imposta di registro, il 9% del valore iscritto al catasto, e la tassa catastale che è determinata in cifra fissa. Insomma nemmeno lasciando l’immobile nelle mani dell’amministrazione lo Stato si accontenterebbe. Regalo sì, ma a pagamento, dunque. Questo potrebbe essere il destino di molti italiani stanchi di pagare balzelli su case ereditate dai nonni, luoghi della memoria e dei momenti felici dell’infanzia. Immobili che si trovano, però, nelle aree interne colpite dal calo demografico, sulle quali si pagano comunque Imu (seconda casa) e Tasi esagerate rispetto al valore di mercato vicino allo zero. Tra quelli interessati alla cosiddetta «rinuncia» ci sono anche molti lavoratori con reddito decurtato dalla crisi che non riescono a più mantenere, tra imposte e costi aggiuntivi, la casa delle vacanze. Per queste, infatti, le possibilità di rivendita sono nulle visto che la crisi le ha prese particolarmente di mira.

Fin qui le ipotesi di cessione. Ma ci sono anche ipotesi più estreme. Come sempre più spesso accade nei territori collinari e montani. Lo spopolamento di queste aree ha lasciato in eredità centinaia di case nate per l’agricoltura sulle quali, a partire dal governo Monti, si pagano imposte al pari di fabbricati civili. Così alle manutenzioni si aggiungono costi fiscali insostenibili per molti. Le soluzioni anche in questo caso sono amare e violente. Molti rendono inagibile l’edificio staccando le utenze ed eliminando alcune parti come finestre e porte. Così se la casa non è abitabile ma è facilmente riattabile e l’Imu è decurtata del 50% con semplice richiesta al Comune. Ma se l’inagibilità è totale, ovvero l’immobile è a un passo dall’essere un rudere, l’Imu non si paga più. Ed è così che molti stanno distruggendo i tetti per dimostrare la non utilizzabilità del bene. Un processo che è l’anticamera della demolizione. E cioè il completo annullamento della registrazione catastale. Le pratiche di cancellazione di questo genere, lo scorso anno, sono aumentate del 20% spiega Confedilizia. Ma così, in nome del fisco e della colpevolizzazione della proprietà, si distrugge la storia di un Paese.

L’incubo della proprietà

L’incubo della proprietà

Corrado Sforza Fogliani – Il Tempo

A causa della forte tassazione, gli italiani proprietari di casa hanno già subito un “furto legalizzato”, per la caduta dei valori degli immobili causata dalle imposte, di circa 2000 miliardi. La casa è così diventata per molti un incubo e il suo valore non è stimabile: non c’è mercato. Così, gli italiani hanno scoperto una norma del Codice civile che prevede che gli immobili abbandonati non diventano res nullius, ma proprietà dello Stato. Aumentano i casi di immobili situati in montagna o collina. Se il fenomeno non si è esteso, è solo per l’incertezza sulle tasse da pagare. C’è chi ritiene che nulla debba essere corrisposto. Altri che si debbano pagare l’imposta di registro, le ipotecarie e le catastali. Altri ancora le tasse su successioni e donazioni, più le catastali e le ipotecarie. Somme, comunque, convenienti rispetto al pagamento annuale di Imu e Tasi, pur di liberarsi di un bene che è solo un costo. Altri italiani preferiscono far sì che il loro immobile non sia più un “edificio” privandolo di un elemento strutturale: il tetto. Altri si orientano verso la totale distruzione cancellandola dal Catasto.

L’ignominia è sotto gli occhi di tutti. Un patrimonio che è stato, per anni, traguardo e simbolo di sicurezza, viene distrutto per non pagare tasse senza giustificazione reddituale. Una classe politica responsabile se ne renderebbe conto. C’è bisogno – nella legge di stabilità – di una grande “operazione fiducia”. Che si può fare dando un preciso segnale di inversione di tendenza, diminuendo le rendite di qualche punto. Convincerebbe gli italiani che l’immobiliare non è sempre, e solo, un settore da mungere.

Il mattone sbriciolato

Il mattone sbriciolato

Vittorio Feltri – Il Giornale

Di questi tempi il mestiere più facile è quello del profeta. Basta dire che va tutto in malora e ci azzecchi sempre, impossibile sbagliare. Lo dimostrano i dati emessi pressoché quotidianamente dalle fonti ufficiali. Gli ultimi – drammatici – giungono dalla Banca d’Italia e sono relativi al crollo dell’edilizia. Il giro d’affari nel settore è diminuito del 30 per cento dal 2008 – inizio della crisi – al 2014, e continua a calare a ritmo sostenuto. Significa che il mattone (anche quale bene rifugio) è stato sbriciolato, causa una politica fiscale dissennata, cui nessuno finora ha cercato di porre rimedio.

Le tasse sulla casa si pagano in ogni Paese (non soltanto) europeo, ce lo ricordano i tassatori in qualsiasi circostanza. Ma nel nostro si cominciano a pagare ancora prima di acquistarla e divenirne realmente in possesso. Mi riferisco all’imposta di registro, che varia dal 4 al 10 per cento del valore dell’immobile, inesistente in altre nazioni. Se si tratta di prima abitazione l’acquirente se la cava con l’aliquota minima; se si tratta di seconda, terza o quarta si salvi chi può: la tariffa è quella massima. Se l’alloggio costa 500mila euro, devi sborsarne 550mila sull’unghia, perché 50mila se li succhia lo Stato. Non dico nulla di nuovo, ma pochi sanno che la tassa di registro così aspra è una specialità tutta nostrana. Le menti ottuse degli occupanti (spesso abusivi) di Palazzo Chigi nel corso degli anni si sono inventate altri balzelli: l’Ici, l’Imu e una serie di ulteriori sigle (un ginepraio in cui è difficile raccapezzarsi) che comunque pesano sul conto finale delle somme da versare ai vampiri fiscali.

A forza di imposte, il proprietario di quattro mura si è dissanguato, e non c’è più un cane che, avendo risparmiato quattro soldi, abbia intenzione di comprare un quartierino da affittare: non conviene. Di conseguenza i costruttori non costruiscono (o costruiscono poco), muratori e carpentieri rimangono disoccupati, i geometri vanno a fare i poliziotti (se c’è un concorso, e non ce ne sono). E il settore rotola sempre più in basso, al punto da incidere sul Pil (Prodotto interno lordo) per un bel -1,5 per cento. Cifra che indica un fallimento senza precedenti. Del quale occorre ringraziare anche alcuni economisti che se la tirano da esperti quando, viceversa, sono talmente asini da non conoscere le regole elementari del mercato: più tasse e meno soldi circolanti, meno acquisti, meno manodopera, meno benessere. Inoltre i fan del fisco non si sono avveduti di un fenomeno grave che la loro «scienza» ha provocato: il deprezzamento del patrimonio immobiliare sia delle famiglie sia della nazione. Infatti se dieci anni fa un alloggio medio costava 300mila euro, oggi è valutato poco più di 200mila. L’impoverimento del proprietario che eventualmente volesse rivenderlo è palese, e sorvoliamo sulla disperazione di chi a suo tempo accese un mutuo per coprire quei 300mila euro e che ora possiede una casa da 200mila. Chi sgancia la differenza? Una perdita secca. Se la moltiplichiamo per il numero complessivo di case italiane, ecco che il disavanzo sale a dismisura, toccando vertici mostruosi. Chi ci governa, mentre con la mano destra cerca di creare lavoro, con la sinistra lo uccide già nella culla. Qualcuno se ne accorge?

Il paradosso della nuova Tasi: case piccole, più cara dell’Imu

Il paradosso della nuova Tasi: case piccole, più cara dell’Imu

Francesco Di Frischia – Corriere della Sera

Chi vive in case popolari pagherà quest’anno una Tasi più cara dell’Imu versata nel 2012. Quei cittadini, invece, che abitano in case di pregio dovranno pagare meno per la Tasi rispetto all’Imu di due anni fa. È questo l’amaro risultato di uno studio curato dal dipartimento politiche fiscali della Cisl sulle 20 città capoluogo di regione, analizzando le delibere delle aliquote pubblicate sul sito del ministero dell’Economia.

Il sindacato ha paragonato le due imposte considerando, come prima casa, tre tipi di immobili con rendita catastale di 300, 500 e 1.000 euro. Nei conteggi sono state applicate le detrazioni deliberate dai singoli Comuni (senza considerare gli sgravi per i figli a carico, facoltà assegnata per legge ai singoli municipi). A conti fatti diminuiscono gli importi della Tasi rispetto all’Imu al crescere della rendita catastale. «È necessario superare le iniquità di Tasi e Imu – chiede Maurizio Petruccioli, segretario confederale della Cisl – facendo pagare proporzionalmente di più chi possiede più case e chi ha più valore catastale, anche per restituire risorse alle famiglie che hanno meno».

La ricerca ha mostrato che in 11 città su 20 migliaia di cittadini, tra i ceti sociali più bassi, per una rendita catastale di 300 euro dovranno pagare la Tasi, quando prima l’Imu (in 9 casi su 20) costava «zero», grazie alla detrazione prevista per l’abitazione principale pari a 200 euro (indipendentemente dalla rendita catastale). Quest’anno per la tassa sui servizi indivisibili (illuminazione e manutenzione stradale e sicurezza) si oscilla dagli 11 euro di Milano ai 126 di Campobasso, passando per Venezia (46), Ancona (96), L’Aquila (100) e Bari (66), comprese Aosta (50) a Palermo (45). La Cisl rivela anche che a Trieste, Trento, Bologna e Firenze, tenendo come riferimento sempre i 300 euro di rendita catastale, le amministrazioni locali hanno confermato l’esenzione totale dal pagamento della Tasi, così come avveniva per l’Imu. In altre città, invece, è stata mantenuta una progressione legata agli estimi catastali. Infatti i cittadini che abitano in case non di pregio pagheranno di Tasi meno rispetto a quello che prevedeva l’Imu: 16 euro a Roma (contro i 52 di due anni fa), 56 a Torino (dove se ne pagavano 89) e Catanzaro (61 contro 102). Addirittura dimezzata la Tasi a Potenza (26 euro contro 52).

Per gli immobili con rendita di 500 euro, si pagherà una Tasi superiore all’Imu 2012 in 8 capoluoghi tra i quali Venezia (194 euro invece di 136), L’Aquila (168 contro 111), e Palermo (243 contro 203). A Firenze invece l’aumento è di 1 euro (137 rispetto a 136). Si pagherà, invece, una Tasi più leggera tra l’altro a Roma (150 euro contro 220), Torino (167 contro 283) e Napoli (177 contro 220). Scenario completamente diverso se consideriamo un immobile con rendita catastale di 1.000 euro: sono solo due i comuni capoluogo che pagano un importo superiore alla vecchia Imu (Trieste con 554 contro 455 euro e Firenze 484 contro 472). L’ampliamento della base imponibile e l’eliminazione della detrazione fissa universale, sottolineano dalla Cisl, di fatto hanno ampliato la platea dei paganti mantenendo intatto il gettito.

Tasi e imprese, aumenti in 4mila comuni

Tasi e imprese, aumenti in 4mila comuni

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Il dibattito sulla Tasi si è scaldato intorno alla sorte delle abitazioni principali, ma le rassegne delle scelte locali dopo che sono scaduti i termini per pubblicare le aliquote mostra che anche capannoni, uffici, alberghi e centri commerciali sentiranno nei prossimi mesi gli effetti del nuovo tributo. In breve, l’arrivo della Tasi aumenta il conto per gli immobili strumentali in 4.278 Comuni, cioè il 53% del totale. A livello nazionale, il nuovo quadro delle aliquote fa crescere la pressione sul mattone delle imprese di circa il 9%, ma quando si parla di imposte locali i valori medi non dicono tutto e l’esperienza reale dei singoli contribuenti andrà incontro anche ad aumenti assai più decisi. Anche nelle tante città – come Milano o Roma – dove l’Imu aveva già raggiunto i massimi nel 2013 e quindi non sembrava lasciar spazio ad altre tasse, il carico è cresciuto ancora “grazie” all’aliquota aggiuntiva dello 0,8 per mille, consentita per quest’anno allo scopo di finanziare gli sconti sull’abitazione principale. In qualche Comune l’ingresso della Tasi può essere stato compensato da una riduzione dell’Imu, ma si tratta di casi minoritari.

Viste alla luce della situazione di oggi, le promesse di abbattere il carico fiscale sugli immobili d’impresa che erano fìorite intorno alla scorsa legge di stabilità appaiono lontanissime: laTasi, introdotta proprio dalla legge di stabilità per quest’anno, gonfia ancora una volta il peso del fisco immobiliare sulle imprese e annulla gli effetti della “mini-deducibilità” Imu scritta nella stessa legge. Gli incrementi di quest’anno, nei Comuni in cui la Tasi si applica anche agli immobili strumentali, oscillano tra il 9 c l’11,5 per cento, ma rispetto ai tempi dell’Ici le imposte si sono impennate, dall’80% registrato in tante città fino al 170% di Milano, dove la vecchia imposta comunale sugli immobili era più bassa della media.

A spingere le tasse “locali” (ma bisogna ricordare che su questi immobili l’Imu ad aliquota standard del 7,6 per mille finisce allo Stato), secondo la rassegna delle aliquote realizzata dal Caf Acli sono 3.649 Comuni. L’elenco, però, cresce ancora, a causa dei 652 Comuni, soprattutto medio-piccoli, che non hanno pubblicato delibere entro il 18 settembre. In questi casi, scatta per tutti l’aliquota all’1 per mille, che si aggiunge alle normali richieste avanzate dall’Imu; le uniche eccezioni arrivano quando il Comune ha già stabilito il massimo per l`imposta municipale, togliendo quindi ogni spazio alla Tasi, ma dal momento che gli enti senza delibera sono medio-piccoli questa eventualità non dovrebbe essere frequente.

Nelle città, l’evoluzione del carico fiscale sulle imprese dipende ovviamente dall’evoluzione delle singole aliquote, ma le dinamiche complessive sono simili fra loro. Facciamo i conti per un capannone da 700mila euro di valore catastale: per esempio a Milano e Roma, dove l’Imu era già al massimo e la «super-Tasi» è stata introdotta per finanziare gli sconti sulle abitazioni principali, si arriva a 7.232 euro di imposta da pagare, contro i 6.638 dello scorso anno, mentre a Cagliari, dove l’aliquota dell’1 per mille si aggiunge ad un’aliquota Imu del 9,6 per mille, la richiesta è di 6.858 euro invece dei 6.157 dell’anno scorso. Sul peso complessivo delle imposte sul mattone incide anche la deducibilità, cioè la possibilità di sottrarre al reddito d’impresa le somme pagate come tributi locali. Nell’Imu la deducibilità è parziale (20% da quest’anno, 30% nel 2013), mentre nella Tasi è totale, nel senso che l’intero tributo pagato viene “tolto” dall’imponibile dell’Ires. A conti fatti, però, si tratta di dettagli, come mostra per esempio il caso di Verona: la città ha abbassato l’Imu all’8,9 per mille e fissato la Tasi al 2,5 per mille, con il risultato di arrivare a un’aliquota massima uguale a quella di Milano e Roma (dove al 10,6 per mille di Imu si aggiunge lo 0,8 per mille di Tasi), ma di produrre un carico fiscale leggermente inferiore grazie al fatto che tutto il tributo sui servizi indivisibili è deducibile. Naturalmente, però, la deducibilità non scatta per le imprese in perdita, che per questa via maturano solo un “credito” spendibile quando ritorneranno utili da tassare.

Un altro effetto collaterale della Tasi riguarda i “fabbricati-merce”, cioè gli immobili che le imprese costruttrici non riescono a vendere. Dal 1 luglio scorso sono stati esentati dall’Imu, ma paradossalmente proprio questa mossa ha aperto le porte alla Tasi: quest’anno, come accade per l’abitazione principale, può arrivare al 2,5 per mille (e non mancano i Comuni che l’hanno applicata), ma senza correttivi nel 2015 la richiesta può volare rino a quota 10,6 per mille. Proprio come l’Imu da cui questi immobili erano stati appena esentati.

La tassa-fantasia ha bisogno di una bussola

La tassa-fantasia ha bisogno di una bussola

Mauro Meazza e Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Se la fantasia si traducesse in decimali di Pil, basterebbe la dotazione schierata per Imu e Tasi a farci agganciare il treno della crescita. Le migliaia (sì, migliaia) di variabili che governano le detrazioni per la Tasi dimostrano quanto potenziale immaginativo possa farsi sentire in un terreno che si penserebbe povero di stimoli, come quello del Fisco.

In realtà, la fantasia impositiva dei Comuni viene da lontano ed è stata alimentata soprattutto da due fattori: le strette da parte dello Stato e il continuo traballare delle regole di prelievo. Se partiamo dalla prima Imu (dicembre 2011), non c’è stato un versamento che abbia seguito le stesse regole di quello precedente. Ma la danza era già cominciata con l’Ici, a onor del vero, chiamata ad aggirare la prima casa ma a garantire contemporaneamente gettito sufficiente per i municipi. Primi e pallidi segnali, se guardiamo al pasticcio in cui siamo finiti ora. Tanta fantasia (statale prima e locale poi) non solo non porta decimali alla crescita, ma anzi rischia di sottrarne. Perché, tanto per fare un esempio banale, chi non sa quanto deve spendere per le tasse può prudentemente scegliere di spendere meno per altre voci. L’incertezza costa, è nemica della fiducia e quindi anche delle speranze di ripresa dei consumi.

Nelle prossime settimane, mentre cittadini e professionisti affonderanno nei calcoli della Tasi, ministri e parlamentari saranno chini sui testi della nuova legge di stabilità, che tornerà a occuparsi del fisco del mattone. I pasticci da risolvere sono tanti, a partire dal fatto che senza correttivi la Tasi 2015 sulla prima casa può arrivare al 6 per mille senza detrazioni, polverizzando ogni confronto con la vecchia Imu. Il premier Renzi ha già annunciato un nuovo «tetto», che è indispensabile ma non basta. Quest’anno si è discusso per mesi di limiti pensati con il bilancino in una lotta estenuante fra sindaci e governo, e i risultati si vedono. Nello scrivere le nuove regole, la politica si faccia una domanda: fa più danni al Pil (e ai voti) il conto della Tasi o la montagna di regole cervellotiche che dobbiamo scalare per calcolarlo?

Centomila variabili per calcolare la Tasi

Centomila variabili per calcolare la Tasi

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Meno male che si tratta di un’imposta «unica». Nel suo anno del debutto, la componente immobiliare della «Iuc» – articolata in Tasi più Imu (a cui si aggiunge la Tari per pagare la nettezza urbana) – sfiora il muro delle 200mila aliquote: quelle approvate e pubblicate finora, come mostrano i calcoli di ItWorking (la società del sistema Assosoftware che ha monitorato tutte le delibere comunali), sono 197.350. Il contatore, però, può ancora salire perché per deliberare le aliquote Imu c’è tempo fino al 28 ottobre e mancano ancora 2.500 Comuni all’appello. Il tetto delle 200mila aliquote, addirittura, entro fine anno potrebbe essere sforato.

A far polverizzare ogni record di complicazione è naturalmente la Tasi, il tributo sui «servizi indivisibili» dei Comuni che si incrocia con l’Imu e moltiplica all’infinito le variabili di un’imposta, quella immobiliare, che in teoria sarebbe tra le più semplici da applicare. Fin dall’inizio, però, è stato chiaro che nella Tasi l’unica regola è stata rappresentata dall’assenza di regole, che ha impedito di trovare un qualsiasi parametro chiaro per orientarsi nel nuovo tributo. Anche nel calendario, per esempio, la legge dice una cosa, ma la realtà ne racconta un’altra. Dopo vari correttivi, l’acconto è stato fissato al 16 giugno per un primo gruppo di Comuni, quelli più “rapidi” a decidere le aliquote, e al 16 ottobre per tutti gli altri, con appuntamento al 16 dicembre per il saldo. Nei fatti, però, i Comuni hanno continuato a seguire la disciplina originaria, che non prevedeva date fisse, e spesso hanno scelto scadenze diverse che finiscono per avere la meglio su quelle “ordinarie”.

A giugno, l’incrocio tra date nazionali e calendari locali ha portato a una sostanziale disapplicazione delle sanzioni per chi avesse sforato la scadenza del 16, e anche per l’appuntamento di ottobre è facile pronosticare più di un problema. «Per semplificare davvero – spiega Bonfiglio Mariotti, presidente di Assosoftware – bastano piccoli correttivi che non hanno costi per lo Stato o per gli enti locali. Nel caso di Imu e Tasi sarebbero sufficienti formati standard per le delibere con campi predefiniti per le aliquote, e un limite alla fantasia nelle detrazioni».

Non è solo il numero delle variabili a complicare la vita dei contribuenti, e dei professionisti che li devono assistere. Rispetto all’Imu, che da sola dispiega circa 99.200 aliquote diverse (ma tutte fondate su criteri costanti), i parametri della Tasi si sono sviluppati in nome della “libertà totale” lasciata alle amministrazioni locali. Con risultati spesso cervellotici, e qualche volta paradossali (si veda anche l’articolo in basso). Nel costruire le architetture gotiche della Tasi, i sindaci sono stati animati anche da buone intenzioni. È il caso di chi ha voluto evitare alle abitazioni principali un carico fiscale superiore all’Imu, introducendo decine di detrazioni diverse (a Bologna sono 23) o addirittura formule matematiche per sconti “su misura”. Oppure di chi ha studiato decine di aliquote ridotte per negozi, laboratori artigianali o fabbricati invenduti.

Non è questo, però, a poter giustificare la confusione di un tributo che pare ormai fuori controllo. I conti di Assosoftware confermano, inoltre, che le detrazioni hanno una presenza piuttosto limitata nel campo della Tasi. L’Imu, che esclude la quasi totalità delle abitazioni principali (pagano solo quelle considerate «di lusso» dal Fisco), conta in Italia più di 28mila detrazioni diverse, mentre la Tasi non arriva a 10mila. La rassegna delle delibere mostra, del resto, che solo nel 29% dei Comuni il tributo sull’abitazione principale è alleggerito da detrazioni (i calcoli sono del Caf Acli). Limitati nel numero, gli sconti Tasi non conoscono però confini nella fantasia di applicazione: possono essere graduati o riservati in base al reddito del proprietario, al suo «riccometro» (cioè l’indicatore Isee), all’età, alla presenza di figli, di famigliari disabili, oppure alle caratteristiche della casa. Risultato: le 28mila detrazioni Imu ricadono tutte in 13 grandi tipologie, mentre le famiglie degli sconti Tasi sono incalcolabili perché la stessa ItWorking, dopo aver catalogato 186 variabili, si è dovuta arrendere.

Le complicazioni, infine, non abbandonano nemmeno i contribuenti dei quasi 700 Comuni in cui la delibera non è ancora stata approvata. In quel caso, infatti, la Tasi andrà pagata tutta a dicembre, con l’aliquota standard dell’1 per mille. Per le abitazioni principali questo significa che non ci sono detrazioni, e che quindi tutti (anche chi non ha mai pagato né Imu né Ici) dovranno versare qualcosa. Sugli altri immobili, invece, il dato andrà incrociato con le aliquote Imu, perché la somma delle due gambe della Iuc non può superare il 10,6 per mille. Dove l’Imu è già al massimo, la Tasi non sarà dovuta. Dove è al 10 per mille si pagherà lo 0,6 per mille, e così via. Anche questo aiuta a capire come mai l’invio dei bollettini pre-compilati, promesso dalla legge, è rimasto nell’ampia maggioranza dei casi una pia illusione.

Tasse, tocca ancora alla casa. Nuova stangata con i rifiuti

Tasse, tocca ancora alla casa. Nuova stangata con i rifiuti

Paolo Russo – La Stampa

Il caro-casa non conosce stagioni. Finito con l’estate il balletto sulla Tasi, ecco con l’autunno arrivare la stangatina sull’immondizia. Che secondo la Uil politiche territoriali, che ha elaborato per La Stampa i dati sulla tassa rifiuti, sommata proprio alla Tasi e alle addizionali comunali Irpef – ovunque in salita – si sarebbe già portata via, a chi li ha presi, gli 80 euro messi dal Governo in busta paga. Presentata sotto la nuova sigla Tari, la tassa sull’immondizia nel 2014 continua infatti a lievitare in larga parte d’Italia, nonostante già lo scorso anno siano stati registrati veri e propri maxi-aumenti.

Le rilevazioni della Uil dicono che la tassa rifiuti scenderà di poco quest’anno a Cagliari (-2,9%) e Napoli (-2,8), rimarrà sostanzialmente stabile a Milano e Venezia, ma è ancora una volta in salita a Roma (+3,8%), Torino (+8,8) Genova (8,2), Trieste (+16,3), Bologna (11,1) e Alessandria (+3,3). In valori assoluti l’aumento maggiore sarà pagato da chi abita a Trieste, dove per una famiglia con 4 componenti che abita in un appartamento di 80 metri quadri, quest’anno si pagheranno oltre 44 euro in più, che portano l’assegno da versare per lo smaltimento dei rifiuti alla bella cifra di 318 euro, mentre a Genova la stessa famiglia pagherà 24 euro di sovrapprezzo arrivare a un totale di 321, a Bologna 22 euro ma con un esborso complessivo di soli 221 euro, mentre a Torino per i rifiuti se ne andranno quasi 20 euro in più, per un totale di 245. Pur con un aumento contenuto a poco meno di 13 euro, tra le dieci città esaminate dall’indagine è Alessandria a detenere il record del caro-immondizia, con un versamento che si attesta addirittura oltre i quattrocento euro (sempre per la famiglia di riferimento considerata dai tecnici della Uil). Questo stando alle medie, ma la tassa varierà parecchio in base al principio «più inquini e più paghi», che in molte delibere comunali si traduce in prelievo maggiore per chi ha attività che producono molti rifiuti, tipo ristoranti e pizzerie, mentre in alcune città, come Torino, si è scelto di fare un po’ di sconto a chi fa la differenziata.

Quasi ovunque per la Tari si è versato un acconto tra giugno e luglio, che spesso non conteneva gli aumenti deliberati in queste settimane e che renderanno quindi più salato il saldo, da versare tra ottobre e dicembre a seconda del Comune. Se confrontato con il versamento dello scorso anno quello della Tari 2014 sembrerà tuttavia meno salato ai più. Non fatevi ingannare, è solo un’illusione. Lo scorso anno infatti la tassa sui rifiuti, allora battezzata Tares, comprendeva anche un sovrapprezzo di 30 centesimi a metro quadro, che non andava a finanziare lo smaltimento dei rifiuti ma quei servizi indivisibili per i quali ora paghiamo la Tasi. In pratica quei trenta centesimi li stiamo pagando da un’altra parte.

Per capire quanto i Comuni stiano aumentando il prelievo, per un servizio di smaltimento dei rifiuti che in tante città lascia a desiderare, il confronto più corretto andrebbe fatto con il 2012, quando lo scioglilingua fiscale aveva deciso di battezzare in due modi diversi (Tarsu o Tia la tassa sull’immondizia), ma senza comprendere nel pacchetto di quella imposta una quota per pagare gli altri servizi resi dai Comuni ai loro cittadini e, soprattutto, senza il vincolo, introdotto dalla legge soltanto in seguito, di coprire per intero il costo dello smaltimento rifiuti: il dettaglio che più di ogni altro rende salato l’appuntamento con la Tasi. Ecco allora la tassa lievitare in soli due anni del 98% a Cagliari (si paga insomma quasi il doppio), del 50% a Genova, del 27,2 a Milano e del 13,9 a Torino. A Roma l’aumento è stato contenuto al 3,8%. Ma quella della Capitale è tutta un’altra storia, visto che l’Ama, l’azienda partecipata che dovrebbe tenere pulita la città, fattura servizi per un valore complessivo di 752 milioni ma poi incassa più di un miliardo, per coprire i costi di un carrozzone che fino ad oggi ha prodotto più dirigenti ben pagati che pulizia nelle strade.

Una lotteria delle tasse che deprime il mercato

Una lotteria delle tasse che deprime il mercato

Saverio Fossati – Il Sole 24 Ore

La fiscalità immobiliare è diventata una lotteria, affidata alle mani di amministratori pubblici che probabilmente non considerano gli effetti delle loro decisioni. I continui mutamenti normativi, e la crescente autonomia dei Comuni, stanno creando una situazione di disparità e di incertezza, con effetti pesanti sul mercato immobiliare. Non si tratta, infatti, di considerare solo il generale gravame fiscale sul mattone, che ha già creato una forte diffidenza da parte dei proprietari sulla convenienza di una locazione (e di questa diffidenza sarà vittima anche il bonus, nuovo di zecca, per chi compra case nuove e le affitta per otto anni) ma di rendersi conto che lo stesso tipo di immobile, nello stesso tipo di Comune, paga imposte diverse, senza che ci sia un perché razionalmente comprensibile.

Se già le aliquote Imu si differenziano pesantemente da città a città, ora la Tasi aggiunge al panorama un elemento di disturbo (attraverso le complicazioni cui il contribuente è chiamato a far fronte) e di onerosità. Viene da chiedersi come sia possibile che per una casa affittata il proprietario possa pagare un’aliquota Imu che va dal 10,6 per mille a meno della metà, e che magari debba sopportare tutto il peso della Tasi mentre nel Comune confinante il 30% va a carico dell’inquilino. Costruire in un Comune medio-grande dove le imposte annuali sulla seconda casa locata siano, alla fine, il doppio che in un altro, vuol dire semplicemente creare le condizioni per non avere domanda. Non viene qui messo in discussione il principio dell’autonomia finanziaria, che poi si traduce, in pratica, nello scaricare sul mattone le difficoltà gestionali degli amministratori. Ciò che sorprende è l’incapacità di prevedere che, a parità di condizioni, chi deve costruire, a bocce ferme, lo farà nel Comune più conveniente, perché sarà lì che gli investitori potranno pensare di comprare una casa da mettere a reddito.