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Trattamento di fine futuro

Trattamento di fine futuro

Massimo Gramellini – La Stampa

Sono completamente d’accordo a metà con l’Annunciatore di Firenze, quando gigioneggia di inserire la cara vecchia liquidazione in busta paga. Nel migliore dei mondi possibili sarebbe persino apprezzabile il tentativo di trasformare il lavoratore in un adulto. Per decenni lo si è trattato come un irresponsabile che andava protetto da se stesso. Non gli si potevano dare tutte le spettanze nel timore che le divorasse, arrivando nudo alla meta, solitamente micragnosa, della pensione. Sminuzzando il Tfr in rate mensili, si affida al beneficiario lo scettro del proprio destino: toccherà a lui, non più al datore di lavoro o allo Stato Mamma, decidere la destinazione dei suoi soldi.

Purtroppo la realtà non è fatta della stessa sostanza degli annunci. Intanto il Tfr è un denaro che esiste solo come promessa: nel momento in cui lo si trasformasse in moneta sonante, per pagarlo i datori di lavoro sarebbero costretti a indebitarsi. Quanto allo Stato, passerebbe da Mamma a Matrigna: l’astuto Annunciatore si è dimenticato di dire che in busta paga la liquidazione soggiacerebbe a un’aliquota fiscale più alta. L’imprenditore ci perde, lo Stato ci guadagna. E il lavoratore? Incamera qualche euro da gettare nell’idrovora boccheggiante dei consumi, ma smarrisce l’idea di futuro con cui erano cresciute le generazioni precedenti. La liquidazione era un tesoretto intorno a cui coltivare speranze e progetti per il tempo a venire. Il suo sbriciolamento rischia di diventare l’ennesimo sintomo di un mondo che si sente a fine corsa e preferisce un uovo sodo oggi a una gallina di fine rapporto domani.

Un’ombra sul futuro del governo

Un’ombra sul futuro del governo

Federico Geremicca – La Stampa

Alla fine il dado è tratto, il Partito democratico decide di seppellire quasi per intero e quasi per tutti l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e la prima conseguenza è che da ieri quella sorta di pace armata che regnava da mesi all’interno del Pd si è definitivamente tramutata in guerra aperta. Il durissimo intervento svolto davanti alla Direzione da Massimo D’Alema, la gelida distanza dal segretario assunta da Gianni Cuperlo e Pier Luigi Bersani (tutti e tre hanno votato contro la relazione del segretario) ne sono la spia più evidente. «Non è un voto contro il governo», è stato assicurato dagli oppositori di Renzi (la vecchia guardia, come usa dire il premier) ma pochi son disposti a crederlo: a cominciare proprio dal presidente del Consiglio.

Per Renzi si tratta di una vittoria strategicamente rilevantissima, e il risultato così insistentemente cercato è stato alla fine ottenuto: ma i prezzi che rischia di pagare in sede di governo sono, al momento, difficilmente prevedibili. I gruppi dell’opposizione interna si sono divisi all’atto del voto (contrari i «civatiani», spaccati tra no e astensione i bersaniani e i dalemiani) ma è credibile che possano tornare ad unirsi quando la parola passerà ai gruppi parlamentari di Camera e Senato. A Palazzo Madama, come è noto, i numeri sono quelli che sono e assicurano a Renzi una maggioranza assai risicata: a conti fatti – e come temuto e ipotizzato già da giorni – la vita del governo rischia di esser appesa alle decisioni che assumerà Silvio Berlusconi. Sosterrà la riforma del lavoro su cui tanto investe Matteo Renzi? E se decidesse di sì, in cambio di cosa permetterà la sopravvivenza dell’esecutivo?

Non è un bell’affare per il governo del giovane ex sindaco di Firenze, ma tutto lascia pensare che si tratti di un rischio attentamente e a lungo calcolato. Chi può volere, infatti, una crisi di governo e magari elezioni anticipate in tempi brevi? Non Berlusconi, a quel che è dato intuire. E ancor meno le minoranze interne, che rischierebbero di pagare la «sfida» al segretario con una vera e propria decimazione dei propri parlamentari. È per questo che Matteo Renzi non temeva – anche se non la cercava – la prova di forza sull’articolo 18. Ma nei bizantini rituali della politica italiana, non esistono solo rotture clamorose e voti anticipati: esiste anche – praticatissimo – il lento logoramento, rischio per il premier ancor maggiore…

Dunque, la sordina messa ai toni eccessivamente polemici non ha permesso al segretario-presidente di aggirare le obiezioni e le vere e proprie contrarietà delle opposizioni interne. Arrivare in Direzione con aperture capaci di allentare le tensioni, era stato il consiglio fornito a Renzi dal Capo dello Stato durante un colloquio svoltosi in mattinata al Quirinale. Il Presidente della Repubblica, che appena una settimana fa era sceso in campo chiedendo alle forze politiche «coraggio» in materia di riforma del lavoro, aveva infatti chiesto al premier di compiere un ultimo tentativo per recuperare l’unità del partito: Renzi ha obbedito (più nei toni che nella sostanza, in verità) ma lo sforzo – come il voto ha poi dimostrato – non ha prodotto il risultato sperato.

Era del resto impossibile immaginare che la separazione del Pd da uno dei punti cardine della propria azione politica (la tradizionale e secondo alcuni superata «difesa dei diritti» in materia di lavoro) potesse avvenire senza traumi, a maggior ragione in un clima avvelenato da avvertimenti, minacce reciproche e bracci di ferro annunciati e praticati. Per il premier, però, l’abolizione quasi definitiva dell’articolo 18 era ormai diventata qualcosa di più di una semplice riforma, assumendo l’altissimo valore simbolico – in qualche modo come la fine del bicameralismo paritario – della sua capacità di cambiare dalle fondamenta non solo lo Stato ma il suo stesso partito. Il risultato è raggiunto. A quale prezzo lo si capirà nelle prossime settimane…

Strane idee sul futuro del Tfr

Strane idee sul futuro del Tfr

Walter Passerini – La Stampa

Nei giorni scorsi è ventilata la notizia che il governo stia pensando a un provvedimento per anticipare mensilmente il Tfr futuro, vale a dire l’accantonamento annuale che alla fine del rapporto di lavoro si trasforma in liquidazione. Si tratta di quasi 30 miliardi all’anno, di cui, questa è la proposta, la metà finirebbe ogni mese in busta paga, mentre la metà resterebbe in azienda. Ovviamente la mensilizzazione del Tfr potrebbe far gola a molti, con un interrogativo: meglio 1’uovo oggi o la gallina domani?

L’idea nasce dall’esigenza di stimolare i consumi, immettendo nel mercato una liquidità di 13-15 miliardi. Per le imprese, vi sarebbero delle compensazioni, finanziarie e fiscali, dal momento che il Tfr è una pura posta contabile e non viene fisicamente accantonato ogni anno. Per le persone vi sarebbe l’opportunità di avere ossigeno in busta paga (l’ammontare è una mensilità all’anno da suddividere mensilmente), trasferendo la somma o in consumi o in risparmio.

Da qualche tempo una parte di Tfr viene accantonata per la previdenza integrativa, ed è questa la sua destinazione naturale. Alla fine del rapporto di lavoro o del lavoro tout court, il lavoratore avrebbe a disposizione un certo capitale e un’integrazione pensionistica. Con l’aria che tira sulle future pensioni contributive, forse sarebbe meglio essere previdenti, avere pazienza e aspettare, piuttosto che consumare, ritrovandosi poi con un pugno di mosche in mano.

I cinque scogli che separano il premier dai sindacati

I cinque scogli che separano il premier dai sindacati

Paolo Baroni – La Stampa

Certo l’articolo 18 e il nodo del reintegro. Il rischio di «scardinare» lo Statuto dei lavoratori contrapposto alla necessità di «aggiornarlo». Ma i punti «indigeribili» del pacchetto-Poletti per una larga fetta del sindacato, in primis la Cgil (e quindi anche per la minoranza Pd), sono molti. E sono tutti concentrati nell’articolo 4 della legge delega.

Primo scoglio, la «revisione della disciplina delle mansioni». Il governo parla di contemperare «l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale, con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento». La Cgil invece denuncia esplicitamente il rischio di demansionamento, un’operazione «inaccettabile». Per questa via, sostiene l’ex sindacalista Giorgio Airaudo oggi deputato di Sel, si cerca solo di ridurre gli stipendi. Tutte accuse che l’ex ministro Maurizio Sacconi (Ncd), uno dei registi della riforma, respinge evocando «mansioni flessibili» in relazione «ai nuovi modi di lavorare che richiedono comportamenti più duttili, autonomi e più responsabili». Mediazione possibile? Sì alla flessibilità, ma solo con l’accordo tra le parti e a salario invariato.

Altra scelta che rischia di aumentare la precarietà anziché ridurla è il comma che prevede la possibilità di estendere a tutti i settori produttivi, anche alzando la soglia massima di reddito, l’utilizzo dei voucher impiegato oggi per i lavori saltuari (stagionali, colf, baby sitter…). Anche in questo caso si paventa il rischio che, allargando le maglie, le imprese alla fine ne possano abusare. Quindi, per far passare la norma, la condizione è una sola: deve resta l’attuale soglia dei 5 mila euro di reddito.

Ancora un tabù, ancora un problema: il controllo a distanza dei lavoratori. Lo «Statuto» è nato quando Internet manco esisteva ed è chiaro che molte norme oggi risultano superate. Per questo il governo punta alla «revisione» di tutta questa distanza, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore». Definizione forse un po’ generica, ma poi nemmeno troppo. Epperò la minoranza Pd fa muro anche su questo: «si controllino le macchine, non le persone». Per Sacconi invece, «la doverosa tutela della dignità del lavoratore», che ovviamente resta confermata in pieno, «non deve diventare motivo di inibizione per il migliore impiego delle nuove tecnologie, incluse le opportunità di telelavoro fin qui trascurate».

Quarto «scoglio», il riordino dei contratti. In seguito all’introduzione del contratto unico si punta a disboscare l’attuale selva fatta di 47 differenti modelli. La norma inserita nella delega è abbastanza chiara: parla esplicitamente di «abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato» e punta «eliminare duplicazioni» e «difficoltà interpretative e applicative». Ma anche questa formulazione, per la minoranza Pd , è troppo generica. Ma altrettanto generica però è la sua controproposta.

Infine, c’è il nodo dei soldi. Renzi punta a stanziare 2 miliardi nella prossima legge di Stabilità per estendere gli ammortizzatori sociali ai co.co.co: il sospetto di molti è che però si tratti degli stessi soldi oggi usati per la cassa in deroga e gli altri ammortizzatori. Vero? Falso? Certo è che così, alla vigilia della direzione Pd di domani e poi del confronto/scontro in Senato, la partita si complica ancor di più.

Ogni anno 17mila licenziamenti, solo un quarto torna in azienda

Ogni anno 17mila licenziamenti, solo un quarto torna in azienda

Roberto Giovannini – La Stampa

«L’articolo 18? Stiamo discutendo di un tema che riguarda 3mila persone l’anno in un Paese che ha 60 milioni di abitanti», ha detto nei giorni scorsi il premier Matteo Renzi. Si sbaglia: secondo i dati ufficiali del ministero del Lavoro, solo nel gennaio-giugno 2014 ha riguardato 8537 persone. Potrebbero essere 15-16 mila per l’intero anno in corso.

Pochi, tanti? Noi abbiamo cercato di rispondere alla seguente domanda: quante persone vengono effettivamente licenziate per «giustificato motivo oggettivo» (sono i cosiddetti «licenziamenti economici» di cui si sta discutendo) nelle aziende con oltre 15 dipendenti? La risposta esatta a questa domanda è impossibile darla, per una serie di paradossi legislativi, amministrativi e statistici. Consultando gli unici dati disponibili, quelli del ministero del Lavoro, possiamo dire soltanto che dall’agosto del 2012 (data di entrata in vigore della riforma Fornero del mercato del lavoro) fino al giugno 2014, 39.405 lavoratori sono passati per i meccanismi giudiziari previsti dalla legge. Tanti sono i lavoratori che hanno ricevuto la comunicazione del loro datore di lavoro di volerli licenziare. Non siamo in grado di dire esattamente quanti di costoro abbiano perso il posto: ragionevolmente, si può stimare che almeno tre su quattro (dunque 30 mila circa) alla fine abbiano lasciato la vecchia azienda in cambio di una somma di danaro.

Facciamo un passo indietro. La riforma Fornero del 2012 ha già intaccato in modo significativo l’articolo 18, rendendo possibile (ad alcune condizioni) il licenziamento individuale in una azienda con più di 15 dipendenti. Ricordiamo anche che il licenziamento senza reintegro è possibile anche per «giusta causa» (se il dipendente ruba) e per «giustificato motivo soggettivo (se non lavora). E ci sono i licenziamenti collettivi in caso di crisi aziendale. Quando un datore di lavoro vuole fare un «licenziamento economico», in base alla legge deve avviare una procedura obbligatoria di conciliazione presso la direzione provinciale del Lavoro. Se l’ufficio non risponde in sette giorni il licenziamento è valido (è successo a 490 persone nel primo semestre 2014). Questo tentativo di conciliazione può sfociare in una causa giudiziaria se le parti non si mettono d’accordo (2563 su 8047 sempre nel primo semestre). Oppure in un accordo (4310 situazioni): il lavoratore accetta dei soldi e se ne va (la stragrande maggioranza dei casi) o l’azienda rinuncia al licenziamento (solo 428 casi). In conclusione, certamente degli 8537 lavoratori «pre-licenziati» nei primi sei mesi dell’anno, 4372 hanno finito per perdere il posto. A parte 1174 casi indicati misteriosamente come «altro», del destino dei 2563 andati in tribunale non sapremo mai esattamente nulla. Perché, come spiegano gli esperti, per una strana dimenticanza non è stato assegnato un «codice amministrativo» a questo tipo di cause. Che dunque non sono rilevate statisticamente. Secondo le rilevazioni della Cgil, considerate attendibili, nel 2013 nell’80-90% il giudice avrebbe dato ragione al lavoratore, reintegrandolo nel posto di lavoro. Ma due terzi dei lavoratori reintegrati avrebbe scelto comunque di lasciare il vecchio posto in cambio di un’indennità, maggiore di quella che avrebbe spuntato inizialmente.

Gli scarni dati disponibili consentono di sviluppare alcune considerazioni. Si conferma che in testa alla classifica delle «comunicazioni obbligatorie» ci sono le Regioni dove maggiore è l’attività economica, come la Lombardia, il Lazio e il Veneto. Come fa notare l’ex sindacalista e parlamentare Giuliano Cazzola – sulla base di un recentissimo documento dell’Isfol – «appena approvata la riforma Fornero c’è stata da parte dei datori di lavoro più fortemente motivati a licenziare una immediata attivazione. Questo, insieme alla forte crisi congiunturale a cavallo tra 2012 e inizio 2013, ha fatto sì che inizialmente i numeri dei licenziamenti economici siano stati più importanti».

Alla fine quasi 40 mila casi di avviato licenziamento nelle imprese con più di 15 dipendenti in 24 mesi (se il trend sarà costante, potrebbero essere 17 mila nel 2014) non sono obiettivamente moltissimi. Ma neanche così pochi, dicono in casa Cgil. Primo, perché non sarà mai possibile misurare (finiranno nell’elenco delle «dimissioni volontarie») tutte le situazioni in cui il lavoratore, informato più o meno garbatamente della volontà del suo datore di lavoro di licenziarlo in cambio di soldi, accetta l’assegno e si licenzia. Dunque, dicono i sindacalisti, anche con l’articolo 18 riveduto e corretto da Elsa Fornero, i licenziamenti individuali con indennizzo (tra quelli «nascosti» e quelli ufficializzati con la comunicazione) esistono eccome. Togliere il potere deterrente dell’articolo 18 servirà solo a diminuire l’importo dell’assegno per il lavoratore che perde il suo impiego. E a favorire la cacciata dalle aziende dei lavoratori che verranno considerati, caso per caso, «problematici».

Non è un Paese per giovani

Non è un Paese per giovani

Elisabetta Gualmini – La Stampa

L’Italia non riesce a fare cose per i giovani. È un paese vecchio, fatto per i vecchi, e si compiace di esserlo. Il surreale dibattito sull’articolo 18 che si presenta puntuale ad ogni cambio di governo ne è l’ennesima dimostrazione. Sì certo, l’articolo 18 è già stato modificato due anni fa, e non saranno né la sua conservazione né il suo superamento (da soli) a spingere magicamente verso l’alto il tasso di occupazione italiano. Ma se la sua rimodulazione avviene dentro a una più ampia ipotesi di riforma che aumenti le probabilità di nuove assunzioni e ampli le tutele per la galassia da anni in espansione dei lavoratori precari, in gran parte giovani, non ci si può limitare a dire che i problemi sono «ben altri» o storcere il naso. Non si capisce perché dovremmo appassionarci vedendo erigere le solite barricate, da parte di chi protegge i già protetti.

Le riforme si fanno spesso grazie a compromessi tra le parti interessate. Il contratto a tutele crescenti che prevede maggiore flessibilità all’inizio della vita lavorativa (la sospensione dell’art. 18, esattamente come in Danimarca) in cambio di tutele che crescono nel tempo è una buona mediazione tra esigenze dei lavoratori e dell’impresa. Dovrebbe sostituire la lotteria delle controversie davanti ai giudici con vincoli stringenti ad assumere con contratti a tempo indeterminato, disincentivi economici a licenziare per gli imprenditori, risorse a vantaggio del lavoratore per l’eventuale ricerca di una nuova occupazione. Se questo compromesso serve a dimostrare all’Europa e agli investitori che le riforme si fanno, che il paese non è bloccato, che non è in mano ai conservatorismi, se serve a dare qualche garanzia in più a chi veleggia angosciato tra contratti intermittenti che ammazzano qualsiasi prospettiva di futuro, è bene andare avanti. Come ha peraltro suggerito – unico «giovane» tra vecchi e giovani-vecchi – il Capo dello Stato.

Non c’è dubbio che i giovani abbiano pagato più di tutti per la crisi degli ultimi 10 anni. Tra loro il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato (dal 17% nel 2004 al 45% del 2014). I giovani e le molte donne senza un’occupazione stabile non sanno nemmeno cosa sia l’articolo 18, né gli passa per la mente di iscriversi al sindacato. Presumo assistano comprensibilmente disillusi all’arzigogolata discussione tra legulei sulle conseguenze e le virtù di uno «Statuto» pensato alla fine degli Anni Sessanta con l’intenzione di trasferire nel settore privato il modello (di allora) del «posto fisso» nel settore pubblico. Per loro sono discorsi che arrivano da un’altra epoca, scritti in caratteri sconosciuti. Indecifrabili. Insomma, di cosa stiamo parlando? Della nostalgia per un mondo che non c’è più?

Una riforma per i nuovi assunti può essere una risposta se tuttavia si verificano due condizioni. Primo se si vuole andare fino in fondo il contratto a tutele crescenti dovrebbe assorbire un bel po’ di contratti atipici, in modo da vincolare gli imprenditori ad assumere con il nuovo contratto a tempo indeterminato abbandonando via via tutte le forme di maggiore precarizzazione (false collaborazioni e partite Iva, lavoro accessorio, etc.). La sfida più grossa infatti nel nostro paese è quella di stabilizzare le carriere lavorative, essendo ampiamente dimostrato che chi entra nel mercato del lavoro con il piede sbagliato, e cioè con contratti non standard, ha davanti a sé un percorso di lavoro decisamente accidentato, da cui è difficile divincolarsi. Secondo, occorre giocare a carte scoperte sul tema delle risorse. A quali categorie verranno estesi gli ammortizzatori, al posto di quali indennità e con quali costi? Questo va chiarito prima e non dopo la riforma. L’erogazione universale dei sussidi non sembra verosimile in un contesto di risorse scarse. Non si può sentir dire dentro allo stesso partito che la riforma costa 2 miliardi, poi 10 e poi 20. La vaghezza con cui si parla della sostenibilità tecnica della riforma è sconcertante. E soprattutto da dove verranno le risorse? Chi se ne occupa e ce lo spiega?

Aspettiamo risposte robuste. Gli slogan, le stilettate e gli attacchi alle tartine hanno francamente stufato. E se poi si riesce a rendere l’ambiente del mercato del lavoro meno ingessato e a offrire qualche brandello di protezione in più a chi non ne ha, è già molto. Per evitare che l’Italia continui a essere un bellissimo paese. Ma solo per i vecchi.

Il buco nero dei debiti dello Stato? E’ nella sanità

Il buco nero dei debiti dello Stato? E’ nella sanità

Paolo Baroni – La Stampa

I debiti arretrati della Pa? Al 23 settembre fa sapere finalmente il Tesoro, aggiornando i suoi dati, sono stati pagati 31,3 miliardi su 38,4 già erogati e le risorse stanziate (57 miliardi) «sono più che sufficienti a smaltire il debito patologico». In realtà, sul fronte dei pagamenti, restano molti buchi neri, a cominciare dalla sanità.

Tra gennaio e luglio infatti, secondo i dati elaborati da Assobiomedica, la federazione di Confindustria che raggruppa i fornitori di apparecchiature, una Asl su tre, ovvero 69 aziende su 226, i tempi li ha addirittura allungati. Il record spetta all’Azienda Sanitaria Mater Domini di Catanzaro, che a gennaio pagava in 1301 giorni e a luglio era arrivata a 1401 (+100) conquistandosi così il primato nazionale di peggior pagatore nel campo della sanità. Alle sue spalle si piazzano l’Azienda provinciale di Cosenza che paga in 1025 giorni, l’Azienda pugliese Ciaccio (907), l’Azienda regionale di Campobasso (833) e l’Asl Napoli 1 che paga in 855, ma che però da inizio anno è riuscita a tagliare ben 234 giorni. Meglio ha fatto solo l’Ospedale San Sebastiano di Caserta che di giorni ne ha recuperati addirittura 314 ed è sceso a quota 443. In tutto sono 20 le aziende che in questi ultimi mesi hanno ridotto i tempi di pagamento in maniera significativa (da 3 a 8 mesi), tra queste 4 aziende della capitale (Roma B, Roma E, Gemelli e Sant’Andrea), il Cardarelli di Napoli e l’ospedale di Careggi. Anche l’Asl di Rimini è riuscita a «buttar giù» 90 giorni, passando da 133 a 42 giorni e stabilendo così il miglior risultato assoluto. Le situazioni più pesanti riguardano le regioni commissariate, col Molise che ha una media di 862 giorni, la Calabria di 841, la Campania di 341. Al Nord la Lombardia paga invece in 92 giorni, l’Emilia in 152, il Piemonte in 243.

Nel campo della sanità il meccanismo della certificazione dei crediti avviato dal Tesoro serve, ma non risolve. Perché, ad esempio, ben 1,39 miliardi di crediti sui 3 che in totale spettano alle imprese che producono i dispositivi medici non possono essere certificati perché i debiti delle Regioni commissariate sono esclusi dal meccanismo. «È assurdo che questo che rappresenta il pregresso più antico, debba essere saldato chissà quando», protesta Stefano Rimondi presidente di Assobiomedica. Che segnala pure problemi col sistema bancario, con istituti «che impongono tassi anche superiori» all’l,6% fissato dal Tesoro.

Secondo Luigi Boggio, amministratore delegato della filiale italiana della B Braun, una multinazionale tedesca del settore da 5,1 miliardi di fatturato, la piattaforma informatica del Tesoro «non è uno strumento utile». «È complicato – spiega – non consente un caricamento massivo delle fatture, ma bisogna inserirle una per volta e ad ogni anomalia la fattura viene sospesa. Molto meglio fare da soli: noi sul recupero crediti investiamo molto di nostro, abbiamo 8 persone che girano l’Italia, visitano i clienti, e ci consentono di sbloccare molte situazioni». In questo modo la «B Braun» riesce a incassare in 158 giorni contro una media nazionale di 201. «Ma la Romania per pagarci impiega 70 giorni in meno, l’Ungheria 50, la Bulgaria 40, Spagna e Russia 30. Perché? Perché – risponde Boggio – da noi c’è tutto un sistema informatico-amministrativo che non funziona. Senza contare che in certe regioni del Sud se non chiedi le fatture se le tengono nel cassetto ed è come se non esistessero».

Domani ricomincia la guerra dell’art. 18, la priorità è il lavoro

Domani ricomincia la guerra dell’art. 18, la priorità è il lavoro

Walter Passerini – La Stampa

E così domani ricomincia in aula al Senato la battaglia dell’articolo 18. Sembrava impossibile, invece si ritorna a guerreggiare. Chissà se si arriverà a una sana mediazione, il buon senso e il Paese la reclamano. Uno scontro produrrebbe solo vincitori e vinti. Strano destino quello del simbolo di un’epoca che è radicalmente mutata. Tra l’altro ogni anno sulle 8 mila cause a favore dei lavoratori dedicate al tema due terzi si concludono con il risarcimento e solo tremila con il reintegro. Il pasticcio poi sarebbe quello di avere nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti, senza o con l’articolo 18 alla fine dei 36 mesi, e la massa dei lavoratori che sono tutelati dalle vecchie regole, quindi con l’articolo 18 (un’abolizione tout court sarebbe impossibile). I lavoratori protetti dalla formula oggi sono 6,5 milioni (aziende con oltre 15 dipendenti), meno di un terzo delle forze di lavoro.

Le priorità
Lo scontro al capezzale dell’articolo 18 ha incendiato la politica e le relazioni sindacali, in un momento in cui la priorità è il lavoro. E così il falò delle vanità lascerà solo cenere e macerie e non creerà neanche un posto di lavoro. Con la stessa passione ed energia dovremmo invece discutere di futuro e di come creare occupazione e sviluppo con un orizzonte da qui al 2020. Ai 3,2 milioni di disoccupati ufficiali, ai 3,3 milioni di inattivi rassegnati (non cercano più il lavoro perché pensano di non trovarlo), ai tanti giovani, alle donne, agli over 50 licenziati, ai cassintegrati, dovremmo dire che cosa si sta facendo per farli entrare o rientrare nel mondo del lavoro. C’è una frattura che va ricomposta. Dalla riforma Treu, passando dalla Biagi, alla Fornero, in questi vent’anni non abbiamo visto il baratro che si stava aprendo tra lavoratori adulti e giovani, tra piccole e grandi aziende, tra industria e servizi, tra occupazione strutturale e al margine. E così, abbiamo perso la battaglia della produttività. Avremmo dovuto completare il disegno con uno Statuto dei Lavori universale, uguale per tutti, per tutelare l’esercito dei precari. Ora la deflazione ci ha regalato il record di peggior paese dell’Ocse e ha messo a nudo le nostre debolezze e le nostre vergogne.

Troppe formule
Speriamo di non dover assistere nei prossimi giorni a una tragedia, a una pièce da tre soldi, a una commedia all’italiana, ma a una dimostrazione di orgoglio e di condivisione delle priorità. Per molti l’introduzione di un contratto, non unico, ma prevalente, a tutele crescenti è una mediazione intelligente, soprattutto se estesa a tutte le nuove assunzioni, e non solo ai contratti di primo inserimento. Non è un contratto in più, perché in contemporanea andrebbero rivisitate e ridotte le troppe formule di assunzione, che lasciano spazio a furbizie ed abusi. Avere trentasei mesi di conoscenza reciproca tra datore di lavoro e lavoratore permette di fare investimenti sulle risorse umane e di consolidare un fidanzamento in un matrimonio. E se a quel punto scattasse una crisi di rigetto, ci sarebbero le condizioni per un onorevole divorzio. La modifica dell’applicazione dell’articolo 18 ha già avuto una mediazione nel 2012, quando, fatti salvi i licenziamenti discriminatori e le ritorsioni, ha tolto l’automatismo e ha rimesso nelle mani del giudice la decisione tra reintegro e risarcimento per un licenziamento individuale avvenuto senza giusta causa. Del resto, anche con la complicità della crisi, sono state pochissime come abbiamo visto le cause di questo tipo negli ultimi due anni, segno che le imprese hanno ben altri problemi a cui pensare. Ora, intestarsi una vittoria o gridare alla sconfitta riporta al clima di sangue e di vendetta di cui non si sentiva la mancanza, tanto più che i decreti attuativi lasceranno spazio alla gestione e all’interpretazione. Non vorremmo però che le ambiguità della norma producessero lavoro solo per gli avvocati. Salvo la minaccia di un decreto annunciata da Renzi e dai suoi ministri Poletti e Boschi), l’iter normativo durerebbe comunque un anno.

Creare lavoro
Nel frattempo dovremmo riportare la barra verso le priorità. Come creare lavoro e dare ossigeno a una nuova crescita, che tutele offrire a chi rischia di giocare solo in serie B, quali politiche attive produrre (la Garanzia giovani insegna), quali servizi al lavoro pubblici e privati avviare e irrobustire, che sostegno dare alle imprese che vogliono assumere. Alcuni imprenditori temono un “matrimonio indissolubile”. Chi perde il lavoro teme di finire nel girone infernale dei disoccupati di lunga durata (più di 12 mesi), che oggi sono 2 milioni. Se un senza lavoro non trova chi lo aiuta e lo orienta, non c’è ammortizzare sociale che tenga, altro che modello danese. E’ questo il patto del lavoro che bisogna stilare: perdere il posto può capitare, non è il capriccio di un sadico né una vendetta sociale, ma può essere una tappa, insieme al rilancio della domanda, per ripartire e rientrare, grazie a servizi professionali e tutele universali esigibili indipendentemente dal contratto di cui si è titolari.

Nuove imprese straniere, neanche una nell’ultimo anno

Nuove imprese straniere, neanche una nell’ultimo anno

Paolo Baroni – La Stampa

Certo, c’è l’articolo 18 ed uno dei sistemi del lavoro più complicati del mondo. Ma poi ci sono gli eccessi della burocrazia, i tempi eterni della giustizia e le tasse troppo alte, ovvero tutti quei fattori, o meglio «mali storici», che da anni ci condannano alla parte bassa di tutte le classifiche mondiali sulla competitività. Epperò negli ultimi tempi, dopo i crolli del 2008 e del 2012, una certa attenzione nei confronti dell’Italia è tornata. Nei primi sei mesi dell’anno oltre metà delle operazioni di acquisizione e fusione porta la firma di investitori esteri, dai russi che entrano in Pirelli alla People bank of China che investe in Fiat, Generali e Telecom, sino a Electrolux che rileva Merloni. Si tratta di 5,7 miliardi di euro su un totale di 10, +81% sul 2013.

E gli investimenti industriali? Invitalia su 36 «Contratti di sviluppo» ne ha siglati 15 con società straniere, per un controvalore di circa 750 milioni. Si va da Bridgestone a Denso, da Stm a Whirlpool e Sanofi. Progetti anche importanti, ma si tratta sempre e solo di ampliamenti di impianti già esistenti, soprattutto al Sud. Investimenti che invece partono da zero, i cosiddetti «greenfield» (a prato verde) come li chiamano gli esperti? Se ci eccettua quello annunciato a gennaio da Philip Morris, che a Bologna investirà 500 milioni di euro creando 600 nuovi posti, non c’è nulla. Nessuna impresa o gruppo straniero nell’ultimo anno e anche di più, ha avuto il coraggio di investire in un nuovo impianto industriale di dimensioni significative sul suolo italiano. «Siamo a zero», conferma a malincuore Guido Rosa, presidente dell’Aibe, l’associazione delle banche estere che operano in Italia e interlocutore naturale di molti potenziali investitori esteri.

«Il problema fondamentale, come emerge anche dal nostro osservatorio sull’attrattività del Paese, è che il sistema Italia in una scala da zero a cento si colloca appena a quota 33,2. Un livello davvero troppo basso». E oggi, ovviamente, sorprende una forbice così ampia tra investimenti finanziari in forte ripresa e investimenti industriali al palo. «Questo è certamente il dato più rilevante», spiega Nicola Rossi, economista, ex senatore Pd. «Dopo un forte calo è tornato ad esserci un certo movimento sul fronte delle acquisizioni, ma di “greenfield” non si fa nulla. Da molto tempo. E questo la dice lunga sui problemi dell’economia italiana». Che anche in questo campo continua a perdere terreno: in 10 anni, tra il 1994 ed il 2013, l’Italia ha attratto investimenti diretti esteri (finanziari e industriali), i cosiddetti Ide, per un totale di 290 miliardi di dollari, contro i 567 della Spagna, gli 800 e più di Francia e Germania. Quanto basta per far calcolare al ministro dello Sviluppo Guidi un margine netto di crescita, a regime, di almeno 20 miliardi all’anno. Con quello che significa anche in termini di nuova occupazione.

Inutili fino ad oggi le tante iniziative messe in campo negli ultimi tempi, dal decreto «Destinazione Italia» varato da Letta al più recente «Sblocca Italia»? «È il caso di dire troppo tardi, troppo poco – sostiene Nicola Rossi -. Non sono iniziative sbagliate, ma è poca roba rispetto a quello che sarebbe necessario fare. E poi serve tempo per farle assimilare agli investitori esteri». Quantomeno gli ultimissimi interventi sono serviti a fare un po’ d’ordine, chiarire che la promozione e le trattative coi partner esteri spettano all’Ice, che a Invitalia va la gestione degli insediamenti sul territorio e che «Desk Italia», che fino a ieri fungeva da struttura di raccordo, non serve più e va soppresso. Ma l’ultimo decreto in materia sta ancora in Parlamento in attesa di conversione e la nuova struttura non è ancora partita. Per non parlare dei fondi per la promozione ancora insufficienti: appena 400mila euro contro i 15 milioni dei francesi.

Il cahier de doléances è infinito. Rosa: «C’è tutto un sistema che non funziona: dalla burocrazia alla giustizia, al fisco. Ma la cosa peggiore è l’incertezza totale che avvolge il tutto: è la cosa che gli stranieri non possono sopportare. Chiedono trasparenza, chiarezza e norme stabili nel tempo, non regole che continuano a cambiare e che alcune volte diventano pure retroattive. Un malvezzo pazzesco questo, che i nostri governanti non si rendono conto di quanti danni produca!». Di fatto, spiega a sua volta Nicola Rossi, in questo modo «addossiamo all’impresa molti rischi che vanno oltre il normale legittimo e doveroso rischio di mercato: il rischio fiscale, perché non si sa quante imposte dovranno pagare e come; quello amministrativo, perché non si ha certezze sulle autorizzazioni e sulle date entro cui arrivano; e ancora gli addossiamo rischi sul personale, perché con l’attuale configurazione dell’art. 18 c’è sempre un terzo, il giudice, che si può incuneare nel rapporto a due imprenditore-dipendente. È chiaro che in queste condizioni nessuno viene in Italia a investire davvero. Già il rischio di mercato basta e avanza…».

Come dice Licia Mattioli, presidente del Comitato tecnico per l’internazionalizzazione e gli investitori esteri di Confindustria, «fare impresa in Italia non è facile». «Ma ora ci sono tutte le condizioni perché gli investimenti “a prato verde” siano il prossimo step del ritrovato interesse verso l’Italia degli investitori esteri. Perché da noi ci sono sia competenze estremamente interessanti, sia tecnologie e servizi molto sviluppati. Per questo ora occorre avviare una fase di grandissima attenzione verso l’industria, a cominciare dalle regole sul lavoro». «Tutti guardano come molto interesse e molta attesa al programma di riforme di Renzi, dipende però da quanta strada riuscirà a percorrere. Ed è questo che ora preoccupa», aggiunge Rosa. Che di suo è abbastanza pessimista: «L’Italia ormai da anni è un Paese incapace di modificare alcunché, una paese incredibilmente conservatore».

Troppi disoccupati, e il Comune paga chi va all’estero

Troppi disoccupati, e il Comune paga chi va all’estero

Nicola Pinna – La Stampa

La nuova emigrazione ha uno sponsor istituzionale. Paga tutto il Comune: il viaggio di sola andata, le prime spese di soggiorno e anche un corso d’inglese. Si può andare in qualunque capitale europea, a patto che si viva a Elmas da almeno tre anni e che non sia stata superata la soglia dei cinquant’anni d’età. «Qui i nostri ragazzi non hanno più possibilità e allora perché non aiutarli a trovare un’alternativa altrove? – dice il sindaco Valter Piscedda -. Non è una vergogna cercare un lavoro fuori dalla Sardegna o fuori dall’Italia».

In questa cittadina alle porte di Cagliari, conosciuta soprattutto per l’aeroporto e per lo stadio del Cagliari rimasto aperto pochi mesi, la disoccupazione è il problema numero uno. Il Comune, racconta il sindaco, ha tentato con i piani per il lavoro e i tirocini formativi mai risultati non sono stati incoraggianti. E allora è nata l’idea del progetto “Adesso parto”. «Ogni giorno nel mio ufficio c’è il viavai di disoccupati che chiedono aiuto. In molti mi dicono che vorrebbero andare a trovare fortuna all’estero ma che non hanno neppure la possibilità di pagarsi il biglietto. E allora ci siamo fatti una domanda: perché non incentivare questi ragazzi? D’altronde siamo cittadini d’Europa e non possiamo pretendere che la Sardegna sia in grado di soddisfare tutte le nostre necessità. Certo, avere un lavoro sotto casa sarebbe l’ideale ma dobbiamo prendere coscienza del fatto che la situazione è molto difficile».

L’emorragia di lavoro in Sardegna sembra impossibile da curare e il tasso di disoccupazione, secondo i dati diffusi dall’Istat ad agosto, è già arrivato al 17,5 per cento. L’emergenza più grave è quella che riguarda i giovani: il 54 per cento dei ragazzi, esclusi quelli che studiano, non ha uno stipendio. E in molti hanno già perso le speranze. «Noi non vogliamo incentivare l’emigrazione ma siamo realisti: le politiche del lavoro nella nostra regione hanno fallito – dice il primo cittadino di Elmas -. Con questo progetto diamo un contributo ai ragazzi che non sono disposti ad arrendersi. Non possiamo accettare che passino le giornate a bighellonare al bar: facciamo in modo che vadano fuori, che imparino un’altra lingua, che acquisiscano nuove competenze e che magari tornino in paese con il gruzzolo necessario per costruire casa e metter su famiglia». “Adesso parto” gode già di un finanziamento di 12 mila euro, ma si prevede che le domande saranno molte più del previsto. «Con i nostri ragazzi faremo un patto di fiducia – sottolinea il sindaco Piscedda -. A nessuno chiediamo un contratto di affitto o un contratto di lavoro prima della partenza, perché speriamo che per loro sia davvero una bella avventura».