lavoratori

Colpo grosso in casa Renzi

Colpo grosso in casa Renzi

Antonio Rossitto – Panorama

Da malpagato co.co.co. a riverito manager. L’ascesa lavorativa di Matteo Renzi è stata fulminea come la sua scalata a Palazzo Chigi. E si è portata dietro uno di quei privilegi che, a parole, il presidente del Consiglio aborrisce: dieci anni di generosi contributi previdenziali ottenuti in virtù della sola appartenenza alla vituperata casta. Una storia poco commendevole già ricostruita nei mesi scorsi dal Fatto Quotidiano.

Si puo riassumere così: Renzi rimane un semplice collaboratore coordinato continuativo della Chil, l’azienda di famiglia, senza diritto a pensione né Tfr, fino al 24 ottobre 2003. Dopo tre giorni da disoccupato, viene riassunto dalla stessa società come dirigente. Ma l’azienda si caricherà solo per pochi mesi gli oneri di cotanto figlio. Perché lo scatto di carriera, guarda caso, avviene il 7 novembre 2003, alla vigilia dell’ufficializzazione, già ventilata dai giornali, della candidatura alla guida della Provincia di Firenze. La scontata elezione avviene sette mesi più tardi: il 13 giugno 2004. Da quel giorno, per cinque anni, l’amministrazione versa gli oneri pensionistici di quella promozione tanto tempestiva quanto inusuale. Eletto sindaco nel 2009, godrà dello stesso privilegio fino al febbraio 2014, quando diventa presidente del Consiglio. Solo due mesi dopo. il 22 maggio del 2014, pressato dai giornali, annuncia le sue dimissioni dalla Chil.

Per dieci anni, quindi, il premier è rimasto sul groppone di un sistema previdenziale che, rivela uno studio dell’Ocse appena pubblicato, pesa per quasi un terzo sul totale delle uscite dello Stato: la peggior percentuale tra i paesi industrializzati. Colpa anche dell’inesauribile arte di azzeccare i garbugli degli italiani. Tra cui si potrebbe annoverare anche quella del capo dell’esecutivo: a beneficiare del suo avanzamento professionale sotto stati infatti solo i versamenti pensionistici al premier. L’entità di questi oneri non è però stata mai definita. Le ripetute interrogazioni dei consiglieri dell’opposizione al Comune di Firenze hanno ricevuto solo risposte evasive. Stessa sorte per la richiesta promossa alla Camera dal Movimento 5 stelle.

Panorama è in grado di ricostruire i dettagli di un accorgimento che ha permesso a Renzi di mettere da parte, alle spalle del più scassato sistema previdenziale del pianeta, un tesoretto che un operaio si ritrova solo dopo vent’anni di lavoro in fabbrica. Quasi 200 mila euro accumulati grazie ad appena sette mesi da dirigente della Chil, l’azienda adesso al centro di un’inchiesta della Procura di Genova in cui è indagato per bancarotta fraudolenta Tiziano Renzi, padre del presidente del Consiglio. Le cifre di cui è entrato in possesso Panorama sono sorprendenti. Nella dichiarazione del redditi riferita al 2003, il premier dichiara appena 14.273 euro di imponibile Irpef. A cui si aggiungono 200 azioni privilegiate Fiat, un’Audi comprata l’anno prima e la proprietà di una panetteria di 78 metri quadrati a Rignano sull’Arno.

Nei primi dieci mesi di quell’anno, Renzi è un co.co.co. della Chil. Ma a fine ottobre viene assunto come manager: passa così a un contratto di circa 59 mila euro all’anno partendo da una retribuzione misera che Panorama è riuscito a calcolare sulla base degli oneri previdenziali corrisposti dalla provincia. Già, ma quanto misera? L’importo si può desumere sottraendo al reddito del 2003 (14.273 euro, appunto) la somma degli stipendi da manager di novembre e dicembre: 8.800 euro circa. Il risultato sarebbe di 5.500 euro. È questo, all’incirca, il compenso che Renzi riceve dalla Chil per i servigi resi da gennaio a ottobre: 550 euro al mese. A novembre però, da dirigente, lo stipendio del futuro presidente del Consiglio aumenta di nove volte: arriva a quasi 4.400 euro, contributi, tredicesima e quattordicesima inclusi. Tutte le cifre, calcolate da Panorama, potrebbero essere ancora più precise se il premier, in ossequio alla decantata trasparenza, fornisse i contratti di assunzione della Chil. Un atto reso ancora più necessario dai benefici ottenuti da Renzi: tutti a carico della collettività.

Di questa invidiabile ascesa, la società di famiglia si farà carico solo per sette mesi: fino a giugno del 2004. Poi a pagare è Pantalone. Una volta alla guida della provincia, sospeso lo stipendio, rimangono infatti da versare gli oneri contributivi: gravame che, per legge, pesa sull’ente in cui il politico è eletto. Nel caso di Renzi non si tratta di quisquilie. Il totale è di 20.184 euro all’anno: 7.416 per il fondo dei dirigenti, 5.259 per la pensione integrativa, 3.731 euro per il fondo sanitario e 3.778 euro versati direttamente alla Chil per il Tfr maturato. Cifra che va moltiplicata per il quinquennio in cui Renzi ha guidato l’amministrazione, fino a giugno del 2009. Per le casse provinciali, una spesa di 100.922 euro. A cui va aggiunta una cifra analoga, 98mila euro circa, per gli oneri accumulati da giugno 2009 a marzo 2014, durante il mandato da sindaco di Firenze. Il totale è ragguardevole: quasi 200 mila euro destinati alla serena vecchiaia del primo ministro. Soldi che, una volta raggiunta l’età pensionabile, potrebbero cumularsi a un sostanzioso vitalizio cui avrebbe diritto proseguendo l’attività politica. Unica consolazione per i contribuenti: a marzo del 2014, dopo la nomina a premier, Renzi annuncia le dimissioni dalla Chil.

Non è un magnanimo gesto di ravvedimento, ma l’epilogo di un anno di polemiche cominciate all’inizio del 2013. Quando il consigliere comunale di Fratelli d’Italia, Francesco Torselli, chiede chiarimenti all’allora primo cittadino di Firenze con un’interrogazione urgente. La stringata risposta dell’ex vicesindaco, Stefania Saccardi, arriva con una nota del 22 marzo 2003: «Il dottor Renzi ha avuto un contratto di collaborazione coordinata e continuativa fino al 24 ottobre del 2003 presso la Chil». Mentre «dal 27 2003 è stato come dirigente». Non soddisfatto, Torselli presenta un’altra richiesta: «Per sapere a quanto ammonta esattamente la cifra pagata dalla collettività, prima dalla provincia e ora dal comune per la pensione del sindaco». Sta qui infatti il busillis. Il vicesindaco Saccardi risponde due mesi dopo, il 31 maggio 2013. limitandosi però al parziale calcolo del solo Tfr: che corrisponde a una minima parte di quanto versato per la previdenza dal segretario del Pd. Nella replica all’interrogazione viene chiarito: «Il dottor Matteo Renzi è sempre stato assunto senza alcun tipo di interruzione ed è rientrato in azienda dal 22 al 24 giugno del 2009». Un altro escamotage per garantire continuità dei versamenti pubblici: sono infatti i giorni in cui scade il mandato alla provincia e comincia quello da sindaco. Ma nemmeno in quei tre giorni Renzi mette piede in azienda: «Ha usufruito di tre giorni di ferie» scrive Saccardi. Infine, all’ultimo punto della replica, l’ultima beffa: «Se al momento dell’assegnazione della carica, fosse stato occupato con un rapporto di co.co.co., il dottor Matteo Renzi non avrebbe avuto diritto ai contributi figurativi».

Ecco spiegato il motivo del balzo da co.co.co. a dirigente, prima di essere eletto alla provincia: escamotage che gli ha permesso di passare da una retribuzione di meno di 7mila euro all’anno a un contratto da circa 59mila euro, previdenza, tredicesima e quattordicesima inclusi. Maturando così quasi 200 mila euro di versamenti dal 2004 al 2014, pagati dai contribuenti invece che dall’azienda di famiglia, oltre che dieci anni di anzianità lavorativa. In cambio, dal momento della sua prima elezione, non ha messo piede nemmeno un giorno negli uffici della Chil. Alla società di famiglia è bastato pagare sette mesi di stipendio, circa 30 mila euro, perché lo Stato ne restituisse a Renzi più di sei volte tanto in oneri previdenziali. Come insegna la buona, vecchia, casta. Più facile da rottamare a parole che nei fatti.

Il part-time era un’opportunità, con la crisi diventa una condanna

Il part-time era un’opportunità, con la crisi diventa una condanna

Walter Passerini – La Stampa

In pochi anni è cresciuto del 40%, passando da tre milioni a oltre quattro milioni di persone, ma il suo cammino è lastricato di trappole. Il part time, vale a dire un orario di lavoro ridotto rispetto all’orario pieno, è passato quasi indenne dalle polemiche contro i finti contratti autonomi (lavoro a progetto, false partite Iva), ma viene spesso citato dalle statistiche nella sua versione di part time involontario, a definire un lavoro accettato in mancanza di alternative full time. Secondo l’Istat la riduzione di orario involontaria ha un’incidenza del 63,6% sul totale dei lavoratori a tempo parziale. La formula è tradizionalmente più femminile che maschile, anche se il mix sta cambiando. Che sia verticale, orizzontale, dipendente o indipendente, il part time oltre all’involontarietà nasconde un altro terribile segreto, figlio della crisi.

Lo hanno scoperto due ricercatori Istat, Carlo De Gregorio e Annelisa Giordano, che ne scrivono in un working paper passato del tutto inosservato: «Nero a metà, contratti part-time e posizioni full-time fra i dipendenti delle imprese italiane». Dietro il linguaggio delle cifre, i ricercatori rivelano e documentano una triste pratica, quella dei falsi part time. La formula è cresciuta molto in questi anni di crisi, in particolare nel Mezzogiorno, e ha coinvolto un numero crescente di uomini. Ma mentre in Germania, per esempio, la crescita del part time si accompagna alla crescita di tutta l’occupazione, in Italia si manifestano fenomeni inversi: il part time sembra una risposta autoctona, “all’italiana”, alla crisi. Come?

I ricercatori mettono sotto la lente un campione di 113mila lavoratori dipendenti, corrispondenti all’universo di 11,8 milioni. Ne emergono un paio di eclatanti incoerenze, che fotografano due situazioni speculari e opposte: i falsi part time e i falsi full time. Incrociando i dati delle ore lavorate con quelli economici e retributivi, i ricercatori hanno scoperto che “i falsi part-time mostrano una quota pro capite di ore lavorate di poco inferiore, ma una retribuzione netta oraria di oltre il 20% più bassa, un imponibile contributivo per ora lavorata pari a circa la metà e un rapporto fra imponibile e retribuzione netta inferiore di un terzo. Questi squilibri si accentuano nel caso della componente maschile e sembrano evidenziare sia la presenza di ore lavorate e non retribuite sia la presenza di ore retribuite fuori busta, cui corrisponde evidentemente un imponibile contributivo non dichiarato”. La quota maschile di falsi part time è arrivata al 40%.

Queste incongruenze rivelano che dietro il falso part time c’è un’evasione contributiva e retributiva. Il lavoro effettivo è a tempo pieno, ma le aziende versano contributi e retribuzioni ridotte. Viene retribuito regolarmente solo il 65-70% delle ore lavorate, il resto è al nero o non pagato, come se fosse una tassa per avere un lavoro. È la prova dell’incrocio di ricatti e connivenze, di risposte illegali ai costi delle imprese e al bisogno di lavoro dei lavoratori. Ai falsi part time si accompagnano i falsi full time. Perché dichiarare un orario pieno e in realtà lavorare di meno? Per le aziende ci sono vantaggi fiscali e la costituzione di una banca di ore al nero. Per un lavoratore facilitazioni nelle graduatorie, pur avendo lavorato meno o senza essere pagato. Tragica consolazione dover pagarsi in parte un lavoro o lavorare gratis, pur di avere un lavoro.

In 3 anni 40 miliardi di tasse per pagare sussidi ai disoccupati

In 3 anni 40 miliardi di tasse per pagare sussidi ai disoccupati

Claudio Antonelli – Libero

Il sistema di sussidi a chi è rimasto senza lavoro dal punto di vista finanziario non sta più in piedi. Già nel 2010 a lanciare l’allarme è stato il ministero delle Finanze. Nel frattempo anche le novità avviate sotto la competenza di Elsa Fornero non hanno invertito il trend. Nel periodo 2007-2013 la spesa complessiva per il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia è cresciuta in modo rilevante, passando dai 7,9 miliardi complessivi per cassa integrazione guadagni, mobilità e disoccupazione del 2007 ai 23,6 miliardi del 2013, importo che comprende anche le nuove misure introdotte dalla riforma Fornero come le ASPI e mini-ASPI.

Ad analizzare nel dettaglio i numeri dell’intero comparto dei sostegni è stato il Centro Studi ImpresaLavoro, ideato dall’imprenditore del Nord-est Massimo Blasoni. Ne risulta che «la spesa per ammortizzatori sociali è arrivata nel 2013 alla cifra record di 23,6 miliardi di euro (nel 2007 erano 7,9 miliardi)», si legge nello studio. «Il sistema nel suo complesso è finanziato per una quota di circa 9 miliardi di euro annui a carico delle imprese, le quali sono soggette a contribuzione a diverso titolo». Ovviamente fino al 2007 nessuno si è posto il dubbio. Tanto meno si è messo al lavoro per riformare il sistema. D’altronde le uscite eccedenti vanno a carico della fiscalità generale e nel 2007 erano una cifra pari a zero: l’esborso a carico dello Stato è incrementato nel tempo fino ai 14,6 miliardi del 2013. E nel triennio precedente la cifra complessiva è arrivata a 38,1 miliardi. La cifra pesa sull’intera comunità, mentre i beneficiari delle prestazioni corrispondono a un insieme circoscritto di soggetti (alcune categorie di imprese e alcune categorie di lavoratori).

E per di più – si evince dallo studio – non vi è diretta corrispondenza tra flussi di entrata e in uscita nemmeno a livello di misure singole: le contribuzioni a carico delle imprese per la cassa integrazione guadagni ordinaria, ad esempio, coprono regolarmente anche le uscite (a favore dei lavoratori) per l’indennità di mobilità. Senza dimenticare che la rigidità dei contributi ha un effetto deleterio sul mondo del lavoro. Basta pensare che l’Aspi non vincola il disoccupato ad accettare altri posti su scala nazionale.

Costi, finanziamento e struttura degli ammortizzatori sociali in Italia

Costi, finanziamento e struttura degli ammortizzatori sociali in Italia

ABSTRACT

La spesa per ammortizzatori sociali in Italia è arrivata nel 2013 alla cifra record di 23,6 miliardi di euro (nel 2007 erano 7,9 miliardi). Il sistema nel suo complesso è finanziato per una quota di circa 9 miliardi di euro annui a carico delle imprese, le quali sono soggette a contribuzione a diverso titolo e in base a norme specifiche a seconda della diversa tipologia di intervento a cui è riservata la copertura. Di questi 9 miliardi annui, una quota appena inferiore ai 4 costituisce formalmente la contribuzione a copertura della cassa integrazione guadagni, sia essa ordinaria o straordinaria; 600 milioni circa sono le entrate (a carico delle imprese) a copertura dell’indennità di mobilità, mentre la restante parte è destinata all’indennità di disoccupazione e alle neonate ASPI e mini-ASPI. Le uscite eccedenti (nulle nel 2007) vanno a carico della fiscalità generale: l’esborso a carico dello Stato è incrementato nel tempo fino ai 14,6 miliardi del 2013 (38,1 miliardi la spesa del triennio 2011-2013).
Già nel 2010, il MEF rilevava che il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia risulta eccessivamente oneroso (per le imprese e per lo Stato), poco universale, iniquo nei sistemi di finanziamento e inadeguato a fronteggiare il mutato contesto economico e produttivo. Mentre i beneficiari delle prestazioni corrispondono ad un insieme circoscritto di soggetti (alcune categorie di imprese e alcune categorie di lavoratori), il sistema è finanziato in misura sempre più ampia dalla collettività nel suo complesso; inoltre non vi è diretta corrispondenza tra flussi di entrata e in uscita nemmeno a livello di misure singole: le contribuzioni a carico delle imprese per la cassa integrazione guadagni ordinaria, ad esempio, coprono regolarmente anche le uscite (a favore dei lavoratori) per l’indennità di mobilità. Il paper analizza nel dettaglio i costi complessivi del sistema, le modalità con cui essi vengono finanziati, separando il contributo a carico delle imprese da quello a carico della fiscalità generale, ed inoltre analizza la struttura degli strumenti attivati ed alcuni principi e ipotesi di una loro riforma.
Scarica il Paper di ImpresaLavoro: Costi, finanziamento e struttura degli ammortizzatori sociali in Italia
Rassegna stampa
Libero
Il Fatto Quotidiano
Contratti a tempo, balzo del 20%

Contratti a tempo, balzo del 20%

Enzo Riboni – Corriere della Sera

Chi si farà sedurre dalla promessa dei “pochi, maledetti e subito”? Il detto popolare metaforizza bene la proposta di inserire il Tfr (la “liquidazione”) in busta paga, rinunciando così a un gruzzolo consistente quando si cessa l’attività. Nessuno, per ora, sa se la proposta contenuta nel Jobs Act convincerà i lavoratori, un’informazione che, se conosciuta, darebbe un’idea di quanto il provvedimento potrebbe incidere sulla crescita dei consumi. La società di outplacement (ricollocamento dei lavoratori) Spinlight Counseling, ha provato a dare una risposta con un’indagine che ha coinvolto 200 responsabili del personale di aziende medio-grandi, in gran parte del CentroNord (circa 100mila dipendenti in totale).

I capi risorse umane, sondando gli umori dei lavoratori e interpellando i sindacati interni, hanno concluso che il 70% di chi ha una retribuzione annua lorda non superiore ai 20mila euro (più 0 meno 1.200 euro netti al mese) aderirà alla proposta di inserire il Tfr in busta paga. Chi se la passa un po’ meglio guadagnando tra i 20 e i 30 mila euro, già riterrà meno allettante quella possibilità: si farà convincere uno su due. L’appeal dei soldi subito, infine, crollerà decisamente per chi sta sopra i 30mila euro, che sceglierà il Tfr mensile solo nel 10% dei casi.

Il sondaggio chiede poi ai responsabili del personale altri giudizi sul gradimento del Jobs Act. “La riforma dell’articolo 18 – spiega il managing partner di Spinlight Giulio Bertazzoli – non è ritenuta determinante per la gestione degli esuberi. Altrettanto poco interessante è considerato il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, un tipo di rapporto che sarà impiegato meno dei contratti a tempo determinato”. Questi ultmi nel 2014 sono stati utilizzati da otto capi del personale su dieci e non hanno riguardato solo giovani e qualifiche medio-basse ma hanno coinvolto anche quadri e dirigenti. Proprio questi manager sono quelli che hanno subito il maggior incremento di contratti a termine: più 20% nei primi sei mesi di quest’anno rispetto al corrispondente periodo del 2013. E nel 2015 si prevede un altro aumento del 20%.

E i lavoratori a progetto? La possibile introduzione, per loro, di un salario minimo non spaventa il 90% del campione, che, facendo parte di grandi aziende, valuta di erogare già oggi ai cocopro, in genere di professionalità medio-alte, compensi più alti di ogni prevedibile minimo futuro. Per evitare infine ulteriori licenziamenti, il 40% dei capi del personale pensa di ricorrere al demansionamento previsto dal Jobs Act. “Per fare un esempio – conclude Bertazzoli – se un’azienda chiude un segmento commerciale, piuttosto che licenziare il capo area potrebbe metterlo a fare il venditore”.

Tutelati a ogni costo

Tutelati a ogni costo

Raffaele Marmo – La Nazione

La Pubblica amministrazione italiana è, per essere ancora ottimisti, semi-fallita, ma il sindacato, tutto o quasi, fa finta di non saperlo. E come negli anni Settanta, prima della svolta di Luciano Lama, considera ancora il salario e quelle che un tempo si chiamavano condizioni di lavoro una «variabile indipendente». In questi terribili anni di recessione migliaia di imprese hanno chiuso o sono state costrette a contrarsi, centinaia di migliaia di lavoratori privati hanno perso il lavoro. In giro per l’Europa non solo nella Grecia della troika, ma anche in Spagna, Inghilterra e Irlanda, i dipendenti pubblici in esubero sono stati licenziati o hanno visto decurtate drasticamente le retribuzioni. Questo è il contesto, non un altro.

Ebbene, in questo contesto i dipendenti pubblici italiani sono stati al riparo da tutto, protetti e garantiti magicamente dentro una bolla o, meglio, comodamente accovacciati all’interno dell’ultima ridotta di socialismo sovietico. Nessun licenziamento (ma neanche la vaga minaccia), niente cassa integrazione, nessuna mobilità, che è un concetto astratto mai attuato, buono solo per inutili polemiche. Di tagli di stipendio, manco a parlarne. A meno di non voler considerare taglio il blocco degli aumenti retributivi dovuto a congelamento della contrattazione: un’operazione minimale a impatto pressoché nullo in presenza di un’inflazione prossima allo zero e addirittura in deflazione.

Ma non basta. Perché alla protezione totale dei dipendenti ha fatto da pendant un incremento esponenziale dell’inefficienza complessiva della Pa. Tanto che si può ben rilevare come la Pubblica amministrazione sia stata e rimanga uno dei principali fattori di accelerazione del declino o, per converso, di freno alla crescita. Basti pensare che dappertutto il tempo e le procedure sono considerati costi, necessari a volte, ma comunque costi. E, dunque, da comprimere all’indispensabile. Solo negli uffici pubblici italiani tempo e procedure si sono dilatati a dismisura in questi anni. E allora appare quanto mai urgente per il sindacato tornare, a proposito del pubblico impiego, alla lezione di Lama del ’78 sul salario «variabile indipendente»: «Ebbene dobbiamo essere intellettualmente onesti: è stata una sciocchezza, perché in un’economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall’altra».

Ecco perché il Tfr in busta costa caro al lavoratore

Ecco perché il Tfr in busta costa caro al lavoratore

Paolo Baroni – La Stampa

Il Tfr un busta paga può certo far comodo, soprattutto ai redditi più bassi, ma è anche vero che rischia di creare un grosso buco nelle pensioni future, come ha denunciato lunedì Bankitalia. Quanto grosso? Proviamo a mettere assieme due conti.

Ipotizzando un salario netto di 1.650 euro (30 mila euro lordi/anno ) scegliendo di dirottare il Tfr in busta paga, secondo i calcoli dell’economista Stefano Patriarca pubblicati su lavoce.info, in 4 anni si incassano 9.232 euro, in pratica 164 euro in più al mese per 14 mensilità. Di contro, però, con 35 anni di anzianità il nostro lavoratore tipo, non iscritto alla previdenza complementare, a fine carriera oltre a maturare una pensione pari a 1.511 euro mensili dovrebbe rinunciare a circa 15 mila euro di liquidazione incassando 90.247 euro anziché i 105.227.

Nel caso di un lavoratore iscritto alla previdenza complementare l’impatto dell’operazione-Tfr, anziché sulla liquidazione, sarebbe sull’assegno integrativo. Ed anche in questo caso la perdita è evidente. Un lavoratore che non prende il Tfr in busta paga e dirotta sul fondo integrativo Tfr contributi dell’azienda e suoi contributi, dopo 35 anni ottiene un assegno mensile pari a 752 euro (346 con 20 anni di contributi). Chi prende il Tfr in busta paga per 4 anni rinuncia a circa 100 euro al mese di pensione integrativa: percepirà infatti un assegno di 651 euro al mese anziché di 752 (da sommare sempre alla pensione principale da 1.511 euro/mese).

Non sorprende dunque se il Mefop, la società che ci occupa dello sviluppo dei fondi pensione, ha buon gioco a sostenere che la previdenza complementare per un lavoratore è comunque sempre il miglior investimento. Quello che sorprende, forse, è che stiamo parlando di una società controllata dal ministero dell’Economia. E si badi bene: la convenienza, sostengono al Mefop, resta anche a fronte dell’aumento al 20% delle tasse sui fondi pensione. In questo caso i calcoli prendono in considerazione uno stipendio lordo iniziale di 18mila euro che cresce di un 1% medio annuo, una inflazione media annua del 2% ed un rendimento lordo del fondo pensione e del Tfr del 3% annuo: la scelta del Tfr in busta paga assicura 61,88 euro al mese per 14 mensilità, che in 5 anni diventano 4.331. Tenere in azienda questo Tfr per 5 anni prima di andare in pensione genera invece 5.532 euro netti di capitale, mentre investirlo in un fondo pensione ne frutta 6.096. Se la misura di anticipo del Tfr non fosse a termine, come chiede esplicitamente la stessa Banca d’Italia, in 10 anni si otterrebbero invece 8.663 euro in più di stipendio a fronte di 12.859 euro che verrebbero accumulati in azienda e 14.063 capitalizzati nel fondo pensione. Con un reddito di 25 mila euro, si otterrebbero invece 6.015 euro cash, a fronte rispettivamente di 7.602 e 8.467 euro dopo 5 anni di versamenti in azienda o nel fondo pensioni. Che diventano 12.033 di stipendio in più dopo 10 anni, a fronte di 17.692 euro accumulati in azienda e ben 19.532 euro prodotti grazie al fondo pensione.

Se oltre al Tfr si calcolasse anche la contribuzione del datore di lavoro e quella del lavoratore, più aumentano gli anni di contribuzione e ovviamente più la forbice si allarga. Il «top» si tocca con 40 anni di versamenti: il Tfr in busta paga (con 25 mila euro di reddito) varrebbe 57.881 euro (103 euro netti in più al mese) a fronte dei 167.948 che si otterrebbero lasciando il Tfr in azienda ed i 271.678 della previdenza integrativa. Che in base alle attuali regole corrispondono ad una rendita annua di 16.840 euro oppure in 135.800 euro di capitale più una rendita annua di 8.419 euro. Allora, conviene il Tfr in busta paga? Secondo la società del Tesoro assolutamente no.

La nuova sfida dei lavoratori

La nuova sfida dei lavoratori

Maurizio Sacconi – Il Tempo

Poco tempo fa un grande leader del sindacato nord americano ha assegnato alle organizzazioni che rappresentano gli interessi dei lavoratori la elementare ma efficace missione di «fare ceto medio». Ed ha aggiunto che il maggiore benessere può essere conquistato dai lavoratori non soltanto ottenendo una migliore distribuzione della ricchezza una volta prodotta ma concorrendo responsabilmente alla sua stessa produzione. «La soddisfazione del cliente – ha ancora affermato – è affare anche nostro e non solo di chi possiede o dirige l’impresa». È una bella lezione per il sindacato italiano che in alcune sue componenti continua ad avere l’obiettivo «di cambiare il mondo» nella convinzione che il mondo stesso cammini sulla base di un fertile conflitto tra classi sociali contrapposte.

È evidente invece che nella competizione globalizzata i lavoratori sono chiamati certamente a condividere il rischio d’impresa per i suoi profili negativi e devono avere per questo l’ambizione di voler partecipare di quello stesso rischio anche per la buona sorte. Il salario, definita per legge una sua dimensione minima, può e deve essere sempre più negoziato quindi nella dimensione dell’azienda ancorandolo alla produttività, ai risultati, agli utili. E la stessa azienda può configurarsi sempre più come una comunità di persone che si riconoscono e si accettano in relazione ad un destino comune, sostenuto anche da istituti integrativi di protezione sociale dei lavoratori e delle loro famiglie.

In questa dimensione il sindacato non ha più titolo a poteri di veto su norme di legge o su politiche pubbliche. Esso si esprime liberamente e liberamente viene ascoltato insieme a tutti gli altri corpi intermedi che rappresentano interessi. La riforma del lavoro sarà l’occasione per dimostrare che governo e Parlamento ascoltano tutti ma responsabilmente decidono nella loro autonomia istituzionale per un mercato del lavoro inclusivo, nel quale l’occupabilità di ciascuno è la conseguenza del diritto di accedere alle conoscenze e alle competenze e non di un freddo articolo di legge.

Il rimedio antiscioperi: privatizzare i servizi

Il rimedio antiscioperi: privatizzare i servizi

Francesco Forte – Il Giornale

Susanna Camusso, nell’adunata a Roma della Cgli cui partecipa l’anima dura del Pd ha minacciato lo sciopero generale sula legge di Stabilità, come se con questo sistema di potessero creare posti di lavoro e crescita del Pil. Al contrario, Davide Serra, finanziere renziano della prima ora, nella convention della Leopolda cui partecipa l’anima populista- versione british – del Pd, ha chiesto la limitazione del diritto di sciopero dei servizi pubblici. Citando Alitalia e trasporti pubblici, ha detto che una impresa estera che li ha visti perde la voglia di investire in Italia.

La proposta di Serra, alla Leopolda, è stata accolta con imbarazzo, ovattato dal garbo che è nello stile della convention, nel garage che evoca i creativi di internet della Silicon Valley. Nella tesi del Serra c’è del vero. L’attuale regolamentazione dello sciopero di pubblici servizi è cucita su misura della Cgil e dei lavoratori del pubblico impiego, garantiti dai soldi del contribuente. Infatti, si può annunciare lo sciopero nel pubblico servizio, creando la disdetta di viaggi, appuntamenti, udienze, con gravi danni al servizio e al suo pubblico e poi revocarlo all’ultimo minuto, beffando datori di lavoro e pubblico. Si possono concentrare questi scioperi prima dei giorni festivi settimanali e di Natale, Pasqua e altre festività, in modo da creare «ponti lunghi» a beneficio degli scioperanti e danni speciali per il pubblico. Ma ciò è secondario.

Il punto centrale è che quando i servizi pubblici sono privatizzati, con aziende quotate in borsa e senza pubbliche sovvenzioni, i contratti di lavoro aziendali prevalgono su quelli nazionali e sono orientati alla produttività e le imprese possono ricorrere a part-time, lavoro flessibile cosiddetto precario e a partite Iva e lo sciopero nei servizi pubblici lo si fa solo in casi estremi e delimitati. Ciò perché il lavoratore, allora, è al servizio del pubblico, anziché viceversa. Solo così il suo posto di lavoro regge e la sua retribuzione è basata sul risultato di mercato. Non si tratta tanto di limitare lo sciopero dei pubblici servizi quanto di privatizzare i servizi pubblici, dalle ferrovie, alle poste, alle migliaia di imprese di comuni e regioni e di recidere i legami fra politica e imprese e banche. Ma questa spending review e le privatizzazioni nella legge di Stabilità dei leopoldiani non ci sono.

Lo sciopero è davvero utile e legittimo?

Lo sciopero è davvero utile e legittimo?

Carlo Lottieri

In Italia, a seguito dell’iniziativa politica del premier Matteo Renzi sull’articolo 18 i temi del mercato del lavoro e della libertà contrattuale sono tornati al centro del confronto pubblico. C’è però una questione un po’ spinosa che resta sempre fuori discussione: come fosse un tabù o un tema che non va neppure sfiorato. Si tratta dello sciopero.
Eppure altrove non è così. Qualche anno fa la società italo-svizzera incaricata di gestire i collegamenti ferroviari tra la Lombardia e il Canton Ticino fu alle prese con un contratto travagliato, dato che i sindacati italiani erano infuriati per il fatto che i colleghi svizzeri avevano sottoscritto un’intesa che prevedeva la rinuncia a interrompere il lavoro per l’intera durata del contratto. Liberamente, insomma, ci si vincolava a non scioperare.
Da noi questa libertà contrattale non è pensabile, dato che lo sciopero – già nella carta costituzionale – è considerato un diritto fondamentale. E come non si può cedere la propria vita o la propria libertà, allo stesso modo è inconcepibile che vi sia chi rinuncia alla facoltà di scioperare.
In realtà, i responsabili sindacali elvetici in quella circostanza accettarono proposte che a loro parvero vantaggiose e la controparte fu lieta di ottenere la garanzia che non vi sarebbero stati scioperi: tutelando in tal modo le attese e gli interessi degli utenti, che hanno bisogno di andare al lavoro ogni giorno. Ma nell’immaginario del sindacalismo italiano toccare lo sciopero è peggio che bestemmiare in chiesa.
Diversamente la pensava un grande liberale del Novecento, Bruno Leoni, per il quale quello dello sciopero non era un diritto. Ai suoi occhi, sciopero e serrata erano sullo stesso piano, rappresentando evidenti violazioni contrattuali. Come emerge in alcuni suoi scritti ripubblicati qualche anno fa in un volume intitolato La libertà del lavoro(edito da Rubbettino), egli non riteneva certo che si potesse obbligare la gente a lavorare contro la propria volontà, ma gli pareva giusto che – come avviene di fronte alle violazioni contrattuali – s’intervenisse con penali a carico di chi non rispetta gli impegni assunti.
In realtà, ormai lo sciopero è soprattutto un’arma nelle mani delle burocrazie sindacali. Potendo ricattare imprenditori e utenti, gli apparati sindacali dispongono di grande visibilità. Non è caso che molti politici italiani (da Marini a Bertinotti, da Cofferati a Del Turco e via dicendo) siano usciti proprio dalle file del sindacalismo: il potere crea potere, e il sindacato è una delle vie maestre per accedere alle più alte cariche.
I moderni sindacati (ben diversi da quelli che sorsero nella seconda metà dell’Ottocento) vivono per giunta grazie all’esproprio del diritto del lavoratore a negoziare il contratto. Se gli accordi siglati dalle organizzazioni sindacali fossero vantaggiosi, non vi sarebbe bisogno d’imporli ai non iscritti: ben pochi vi rinuncerebbero e, in generale, i lavoratori si rivolgerebbero ai sindacati per consegnare loro la delega a rappresentarli. Se non è così, è perché solo la libertà contrattuale tutela i lavoratori, mentre il “monopolio” della negoziazione imposto dai sindacati maggiori difende unicamente gli interessi del ceto sindacale.
Così, decidendo anche a nome di chi non nutre fiducia nei loro riguardi, i sindacalisti sono ormai un grave ostacolo all’emancipazione dei lavoratori.
Da Milano al confine elvetico c’è meno di un’ora di viaggio. Ma quanto a civiltà giuridica la distanza è abissale e non c’è da stupirsi se stipendi, condizioni contrattuali e qualità della vita sono assai diversi. A tutto vantaggio di quanti hanno la fortuna di starsene a Nord di Ponte Chiasso.