lavoro

Ai giovani si dà poca garanzia

Ai giovani si dà poca garanzia

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Il ministro Giuliano Poletti ha dichiarato di voler apportare correttivi a Garanzia giovani per aiutare di più l’occupazione. «Bene le aperture del Governo. Non è un mistero, infatti, che il primo bilancio del programma Ue, finanziato fino al 2015 con 1,5 miliardi di euro, sia stato finora piuttosto modesto. E soprattutto poco attrattivo per le imprese». Il problema, spiega al Sole 24 Ore il direttore generale di Assolombarda, Michele Angelo Verna, è che Youth Guarantee è stata lanciata con una parola chiave: «occupabilità», come espressamente indicato nelle raccomandazioni europee, con l’obiettivo cioè di «offrire una risposta ai ragazzi al di sotto dei 25 anni, che ogni anno si affacciano sul mercato del lavoro dopo la conclusione degli studi, rafforzandone le competenze a vantaggio delle opportunità di un impiego». E invece cosa è successo? Che il programma è stato esteso anche agli under 29 «Neet», snaturandone così l’obiettivo iniziale e, nei fatti, rivolgendo Garanzia giovani esclusivamente ai ragazzi con maggiori difficoltà a entrare a contatto con le aziende», spiega Verna.

E i numeri, purtroppo, stanno parlando chiaro: finora da maggio 2014, quando è partito il piano Ue anti-disoccupazione, le opportunità di lavoro rese disponibili sono state 27.094, pari ad appena 38.528 posti, sufficienti a coprire solo l’11% degli iscritti complessivi (poco più di 355mila under 29) e l’1,6% dei «Neet» stimati dall’Istat (oltre 2,4 milioni). È chiaro che c’è stato anche un problema di «execution», ancor più grave considerato che qui siamo in presenza di un piano europeo largamente finanziato (degli 1,5 miliardi a disposizione infatti, oltre 1,1 miliardi arrivano direttamente da Bruxelles, poi c’è il co-finanziamento nazionale). Ci sono troppi meccanismi “tecnico-burocratici”. Qualche esempio? «È molto difficile accedere ai bonus occupazionali per la presenza di filtri che impediscono di destinare a tutti i giovani questa misura – osserva Verna -. Inoltre, il sito internet ministeriale è poco funzionale e l’attività di informazione è affidata essenzialmente agli youth corner che di solito sono situati nei centri per l’impiego, non certo luoghi frequentati da ragazzi».

Quanto disposto sul bonus occupazionale è, a dir poco, paradossale: «Le regole ministeriali hanno imposto una serie di limitazioni all’incentivo – dice il dg di Assolombarda -. Esso è riconosciuto esclusivamente per i contratti a tempo indeterminato e per quelli a tempo determinato e di somministrazione. Per questi ultimi con due ulteriori vincoli: che abbiano una durata già inizialmente prevista pari o superiore a 180 giorni; che i giovani siano profilati in fascia di aiuto “alta”o “molto alta”». L’aspetto peggiore è che non è previsto alcun bonus per le assunzioni in apprendistato professionalizzante, che è tipicamente un contratto di formazione sul lavoro e che doveva essere lo strumento principale di Garanzia giovani.

L’impatto di questi lacci e lacciuoli è evidente: in Lombardia su oltre 3mila giovani assunti, solo 270 hanno diritto al bonus occupazionale. Questo perché, principalmente, il profiling del ministero del Lavoro colloca il 95% dei giovani in fascia di aiuto “bassa” o “media” e quindi non titolari di bonus per le assunzioni a tempo determinato. Il rischio, molto concreto, è che, se le norme non dovessero cambiare, il bonus occupazionale di Youth Guarantee potrebbe rimanere inutilizzato, anche a fronte del nuovo sgravio contributivo triennale previsto dal Job Act per le assunzioni a tempo indeterminato a tutele crescenti. Un peccato, specie in regioni come la Lombardia, che premia e incentiva direttamente le imprese (e non finanzia la formazione fine a stessa). La vera scommessa deve essere la formazione finalizzata al lavoro, che di fatto è la formazione on the job. Per questo «c’è bisogno di modificare le regole. Il bonus occupazionale dovrà essere assegnato per i contratti a tempo determinato di 180 giorni, considerando anche le proroghe. Inoltre, va riconosciuto alle imprese che assumono giovani (a prescindere da filtri e discriminazioni) e deve essere utilizzato pure per i contratti di apprendistato professionalizzante».

Anche il sito ministeriale è da rivedere. Dovrebbe essere una “vetrina”. Invece basta aprirlo per capirne l’inefficacia, come sottolinea Verna: «I giovani dovrebbero trovarci offerte di lavoro, ma gli annunci non sono filtrabili né per tipologia di contratto né per titolo di studio,che è l’unica cosa che i ragazzi conoscono con certezza. Mancano sezioni specifiche per chi ha maturato esperienze lavorative. Manca, inoltre, una sezione per individuare l’offerta formativa nei territori: il primo vero canale di “ritorno in attività” dei giovani soprattutto se la formazione è di tipo professionalizzante e maggiormente orientata al lavoro». Senza considerare, poi, che le aggregazioni giovanili non profit sono state totalmente escluse da Garanzia giovani. Come, pure, è mancata la valorizzazione del ruolo delle scuole e delle università.

«Occorre correggere il tiro – aggiunge Verna – e prevedere l’istituzione obbligatoria di servizi di placement all’interno delle scuole sul modello di quanto finora ha attivato la sola Regione Lombardia. C’è anche una scarsa attenzione alla collaborazione pubblico-privato, che in molti territori non valorizza le Agenzie per il lavoro che sono essenziali per garantire la riuscita di Youth Guarantee. Vanno liberalizzati i servizi per l’impiego in un’ottica premiale: chi più aiuta i giovani a inserirsi in azienda, più deve essere finanziato. In nove regioni l’accreditamento delle agenzie per il lavoro non è stato ancora avviato». Insomma, il ministro Poletti, che finora ha mostrato grande capacità di ascolto, «deve dare forti segnali di discontinuità conclude Verna. «È vero, i giovani registrati al programma Ue sono pochi. Nei prossimi mesi cresceranno. Per loro Garanzia giovani rappresenta un’occasione per l’ingresso nel mercato del lavoro. Il Paese non può permettersi di deluderli».

Altro che posto fisso, si lavora solo a ore

Altro che posto fisso, si lavora solo a ore

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Archiviata la prospettiva di un posto fisso, per molti l’unica alternativa alla disoccupazione è saltare da un impiego precario all’altro anche nella formula dei cosiddetti mini-jobs. Si tratta del gradino più basso del precariato, sottopagato e ad elevata incertezza. A guidare l’exploit i settori del commercio, della ristorazione, del turismo e dei servizi. A tirare un bilancio è uno studio della Cgia di Mestre. Casalinghe, pensionati, badanti, studenti, disoccupati e «dopolavorisiti» sono le categorie che usufruiscono più di tali voucher, ovvero della possibilità di essere «assunti» per qualche ora da un committente venendo retribuiti attraverso l’utilizzo di un «buono- lavoro» di 10 euro lordi all’ora (pari a 7,5 euro netti).

I mini-jobs proliferano soprattutto nel Nordest: l’anno scorso sono stati venduti oltre il 40% del totale nazionale dei «buoni»: il 28,5% nel Nordovest, il 16,6% nel Centro e il 14,8% nel Sud e nelle Isole. Dal 2012, dice ancora la Cgia, anno in cui questo strumento è stato esteso a tutti i settori economici, il ricorso è più che triplicato: da poco più di 23.800.000 ore utilizzate due anni fa si è passati a 71.600.000 ore previste per l’anno in corso. Numeri triplicati anche se si analizza il trend dei lavoratori interessati: nel 2012 sono state coinvolte poco più di 366.000 persone, quest’anno, invece, ne sono previste più di un milione.

Ma questa forma di precariato ha comunque un risvolto positivo. Il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi, spiega che «proprio in virtù di questo strumento è stato possibile far emergere una quota di sommerso che altrimenti sarebbe stata difficile da contrastare. Ora, anche i lavoretti saltuari sono tutelati. In più, chi viene assunto per poche ore con questi buoni può menzionare nel suo curriculum questa esperienza. Inoltre, per limitare l’utilizzo improprio di questi buoni, il legislatore ha stabilito che ognuno di questi deve essere orario, datato e numerato progressivamente». Tuttavia, la possibilità di aggirare la norma non manca: purtroppo, questa possibilità è presente in qualsiasi caso, figuriamoci quando si tratta di un accordo che, come in questi casi, è di natura verbale.

I voucher rappresentano un sistema di pagamento che i datori di lavoro possono utilizzare per remunerare quelle prestazioni svolte al di fuori di un normale contratto di lavoro, garantendo al prestatore d’opera la copertura previdenziale presso l’Inps e quella assicurativa presso l’Inail. Sia per l’imprenditore sia per il lavoratore la legge stabilisce degli importi annui limite oltre ai quali l’utilizzo dei voucher non è più consentito. Lo scarto tra il numero dei voucher utilizzati e quelli venduti si sta assottigliando sempre di più: se nel 2013 l’incidenza dei primi sui secondi era dell’88,5, per l’anno in corso ale al 93,8%. Nel 2013, ultimo anno in cui sono disponibili i dati ufficiali, i settori maggiormente interessati dall’utilizzo di questi «buoni-lavoro» sono stati il commercio (25,2% del totale dei lavoratori coinvolti), il turismo-ristorazione (17,6%), e i servizi (13,6). Resta comunque molto elevato l’uso dei voucher anche nel settore manifatturiero (19,5%).

La montagna e il topolino

La montagna e il topolino

Giuliano Cazzola – La Nazione

All’avvicinarsi della ‘prova del fuoco’ dei decreti delegati (gli schemi saranno predisposti nel Cdm della vigilia di Natale) emerge con chiarezza la caratteristica del Jobs Act Poletti 2.0, almeno per quanto riguarda la questione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti con annessa la disciplina del licenziamento individuale. Per diversi motivi, durante il travagliato percorso della legge delega, si è assistito a un duro scontro politico che non trovava riscontro nelle norme che venivano profilandosi nella ‘navetta’ tra le due Camere. Il governo e la maggioranza dichiaravano intenti innovatori non riscontrabili nei principi e criteri direttivi; le opposizioni (a partire da quelle interne al Pd e dalla Cgil) denunciavano gravi abusi di cui non venivano ravvisate tracce nei testi. Alla fine, si è arrivati alla seguente mediazione: «… escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento».

Se è pacifico che, nel caso di nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti, il licenziamento economico ingiustificato sarà sanzionato soltanto con un indennizzo (si sta discutendo sulla misura e se, oltre a un tetto massimo, debba essere prevista una soglia minima) è altrettanto chiaro che, per «specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato» il giudice potrà ordinare la reintegra. Corre voce che il governo si stia orientando a sanzionare così i casi in cui venga accertata l’insussistenza del fatto che ha determinato il recesso. Più o meno quanto già previsto nella legge Fornero. La montagna si appresta a partorire il topolino, come denunciano settori della maggioranza? Forse sarebbe stato meglio vigilare sulle mediazioni che il Pd conduceva al proprio interno, piuttosto che sperare di ignorarne la portata al momento dei decreti. Sarebbe almeno importante riconoscere al datore soccombente l’alternativa di optare per un’indennità risarcitoria, anziché attenersi all’ordine di reintegra.

Basta illusioni

Basta illusioni

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Ci risiamo. Ancora una volta chiudiamo un anno colmo di promesse – profuse a piene mani 12 mesi fa e reiterate fino all’inizio dell’autunno, quando è stato chiaro a chi non aveva voluto vedere la realtà che anche il 2014 avrebbe chiuso con il segno meno davanti – con la sola certezza di aver buttato l’ennesima occasione. Ancora una volta, la realtà dei fatti è peggiore di ogni previsione, bruciando cosi, oltre alla ricchezza, gli ultimi residui di fiducia nella ripresa, individuale e collettiva. Ma, come al solito prima di Natale e Capodanno, ci viene raccontato, proprio mentre rotoliamo senza freni nel declino, che l’anno successivo sara finalmente quello della svolta. Già, ma che credibilità può avere una simile asserzione se il gioco del posticipo all’anno successivo dell’uscita dalla recessione fa a pugni con un consuntivo di 17 trimestri, sui 28 trascorsi da inizio 2008, di pil in caduta libera?

E sì, perché sono anni che incede la litania di un imminente e prossimo ritorno agli antichi fasti: “I ristoranti sono pieni”, ha ripetuto alla noia Berlusconi; “l’Italia sta meglio degli altri”, sosteneva saccente Tremonti per tutto il periodo che, dal 2001, ha fatto il ministro dell’Economia; “l’anno prossimo arriverà la crescita”, vaticinava Monti a dicembre 2012. E se Letta vedeva “la luce in fondo al tunnel”, Renzi ha subito twittato su #lasvoltabuona. Ecco, non so se per imperizia o malafede – temo sia la prima delle due cause, il che rende più grave la cosa – ma avevano tutti torto marcio, con l’ulteriore e grave responsabilità di aver mentito agli italiani, millantando inesistenti riprese dietro l’angolo, Così, anche questo Natale sotto l’albero troviamo sia la recessione – i dati più freschi che lo certificano sono quelli di Confindustria, secondo cui chiuderemo il 2014 con un calo del pil dello 0,5 per cento e la disoccupazione (se si considera la cassa integrazione) al 14,2 per cento, con 8,6 milioni di persone a cui manca totalmente o parzialmente il lavoro – sia la garanzia che nel 2015 s’invertirà la tendenza. Le indicazioni sono prudenti – almeno questo – ma ci assicurano che già nel primo trimestre del nuovo anno registreremo un +0,2 per cento, che poi si consoliderà in un +0,5 a fine 2015, per arrivare a fine 2016 a +1,1. E comunque un po’ tutti fanno previsioni positive: Fmi +0,8 per cento, Ocse +0,2 per cento, Ue +0,6 per cento, Moody’s +0,5, Fitch +0,6,

Víene da chiedere: su che si basano? Ma soprattutto viene da dire che se anche fosse, ci sarebbe ben poco da “stare sereni”. Anzi, suonano sarcastiche le previsioni di 12 mesi prima della stessa Confindustria, quando si ipotizzava una crescita dello 0,7 per cento per il 2014 e dell’1,2 per il 2015. Come anche quelle di fine 2012, quando si annunciava la ripresa alla fine di un 2013 chiuso poi con un triste -1,9 per cento. Ma non è solo colpa dei calcoli di Confindustria se ai tanti annunci dei governi di centrodestra, alle slide di quelli di centrosinistra o all’ottimismo di maniera dei tecnici è poi seguito solo il timoroso immobilismo della politica e la perenne caduta della nostra economia. Le previsioni le hanno sovrastimate tutti. Per esempio, se un anno fa la Ue prevedeva per l’Italia +0,7 per cento nel 2014, ora stima -0,3. E se l’Ocse scommetteva su un +0,6 per cento nel 2014 e +1,4 nel 2015, oggi rispettivamente -0,4 e +0,2 per cento. E non è un caso che tra tanti numeri il più positivo (Bankitalia, +1,3 per cento) sia anche il più lontano nel tempo. Ma le cantonate peggiori, ça va sans dire, sono state quelle dei governi. Letta scrisse che quest’anno avremmo guadagnato un punto di pil (e 1,7 nel 2015, bum!), Monti azzardò l’1,3, la coppia (scoppia) Berlusconi-Tremonti addirittura l’1,6, mentre lo stesso Renzi, solo qualche mese fa, ipotizzò lo 0,8.

Purtroppo questa abitudine degli esecutivi di annunciare rose che non fìoriranno, oltre a mistificare la realtà, esclude una vera presa di coscienza della realtà e ogni possibilità di cogliere le occasioni che si presentano, che non mancano ora come non sono mancate in passato. Dopo il flusso positivo della prima metà del 2014 dovuto alla favorevole congiuntura internazionale e a un’apertura di credito al governo Renzi, i capitali stranieri sono ora tornati a scappare dall’Italia (saldo negativo di 30,3 miliardi ad agosto e di 37 a settembre) e non basteranno le rassicurazioni di Padoan rivolte in un seminario a porte chiuse a decine di grandi investitori internazionali.

Adesso, però, contrariamente agli anni scorsi, c’è da sfruttare una congerie di fattori favorevoli. Prima di tutto il dimezzamento del prezzo del petrolio, che secondo Confindustria potrebbe generare un risparmio di 14 miliardi annui e 3 decimi di punto sul pil 2015 e mezzo punto nel 2016, Poi il cambio dell’euro sul dollaro (dall’1,38 di gennaio all’1,22 odierno, -11 per cento) che ha già spinto l’export extra-europeo (+6,2 miliardi nel 2014, una performance che non si vedeva dal 1993). Quindi i tassi d’interesse, mai così bassi e destinati a rimanere tali (salvo impennate dello spread per ragioni politiche). Nel 2014 il combinato disposto di questi tre fattori ha portato vantaggi esigui rispetto alle potenzialità. Ora tocca a noi metterli a frutto. Come? Una cosa è sicura: evitare di avere già il risultato in tasca. Tanti auguri e arrivederci al 2015.

Nella giungla dei sussidi

Nella giungla dei sussidi

Maurizio Maggi e Gloria Riva – L’Espresso

Così fan tutti. Niente di illegale, per carità. Tutto in punta di norma, come nella storia di Gennaro, assunto con la qualifica di operaio nel 1989 in uno stabilimento di Airola, Benevento, che era della Pirelli e ora è della Tta Adler, dove si fanno componenti in fibra di carbonio per l’auto. Una fabbrica passata attraverso mille traversie. «Tra una cassa integrazione e un sussidio, dal 1992 a oggi ho lavorato 7-8 anni», racconta a “l’Espresso” l’operaio campano, che per riservatezza preferisce non divulgare il suo cognome. Adesso prende circa mille euro al mese di mobilità (anche grazie agli assegni familiari, avendo due figli). Quando la crisi morde – e quella di oggi ha i denti di un insaziabile coccodrillo – la dipendenza dagli ammortizzatori sociali, spesso usati in modo distorto, si rivela sempre più naturale. Diventando giorno dopo giorno un peso insopportabile per le casse dello Stato.

La loro riforma è uno degli snodi vitali del Jobs Act voluto dal premier Matteo Renzi e, in parte, sarà oggetto di uno dei decreti in agenda per il Consiglio dei ministri di martedì 22 dicembre. «La precedenza sarà data al contratto a tutele crescenti e all’estensione ai collaboratori dell’indennità di disoccupazione. Mentre delle modifiche alla cassa integrazione straordinaria se ne parlerà a gennaio», spiega Stefano Sacchi, il professore della Statale di Milano che, per conto del ministero del Lavoro, sta elaborando le riforme degli ammortizzatori sociali. La cassa integrazione ordinaria, che interviene nei momenti di difficoltà temporanea delle aziende e che più o meno ha funzionato, non si tocca. Il resto, dalla cassa integrazione straordinaria alla mobilità, alla fine dell’intervento governativo dovrebbe uscirne stravolto. E dovrebbe sparire la cassa in deroga, che in tanti considerano un mostro.

Tra il 2009 e il 2013, secondo la Cgia di Mestre, per gli ammortizzatori sociali si sono spesi quasi 59 miliardi. ll 72 per cento provenienti dai contributi versati da lavoratori e imprese, il resto dallo Stato attraverso la fiscalità. All’accelerata dei costi ha contribuito la cassa in deroga (che costa 1,5 miliardi l’anno), introdotta sei anni fa dal governo Berlusconi per aiutare i dipendenti delle piccole imprese escluse dai benefici della cassa “normale” e che, del resto, non pagano i contributi a carico delle grandi manifatture. «L’uso della cassa integrazione come anticamera della pensione è divenuto palese due anni fa, ai tempi della riforma Fornero: ci siamo resi conto dell’esercito di persone che, facendo due conti, attraverso cassa ordinaria, straordinaria e mobilità, si avvicina alla pensione senza lavorare, o facendolo per pochi giorni al mese, per periodi che vanno dai tre agli undici anni, nei casi più gravi», racconta Antonietta Mundo, capo del servizio statistico dell’Inps fino a un anno fa.

All’Inps, sull’argomento, le bocche di solito sono cucite. Ma Antonietta Mundo, oggi in pensione, può parlare senza peli sulla lingua. Ne ha viste passare tante, troppe, di pratiche “eccezionali” di tutela. Come quella dei quasi 20 mila “prosecutori volontari”, per lo più donne, usciti dal mondo del lavoro nel passato dopo appena 15 anni d’impiego, che versando altri cinque anni di contributi si sono ritrovati giovanissimi a incassare la pensione. Nel mirino dell’ex dirigente Inps c’è pure la “mobilità lunga”, quella che supera il massimo fissato dalle norme in 36 mesi, e che invece «può durare fino a 7 anni per le aziende delle zone depresse. Gli ultimi a beneficiarne andranno in pensione nel 2018, e tra di loro ci sono parecchi dipendenti della vecchia Alitalia». Che di fatto ha chiuso i battenti nel 2008 e che proprio in una zona depressa non è. Però ha goduto di particolare riguardi, diventando un simbolo dell’italianissima stortura. Per non dover fissare misure ad hoc per gli addetti dell’ex compagnia di bandiera, venne varato un fondo speciale. Con il risultato di rendere praticabile per 13mila lavoratori del settore (compresi quelli di Air France, British Airways, Aeroflot e tante altre) un’integrazione per 7 anni, pari all’80 per cento della paga ricevuta nell’ultimo anno. E senza il tetto stabilito dalla legge in circa 1.100 euro. Se, poniamo, l’ultimo stipendio di un dipendente di una compagnia aerea è stato di 5mila euro, nei 7 anni di mobilità lunga può arrivare a 4mila euro al mese. L’esperta statistica dell’Inps sottolinea un altro aspetto patologico nell’approccio alla cassa integrazione straordinaria, quella che dovrebbe scendere in campo quando i problemi sono strutturali: «Si va diffondendo il “metodo Fiat”. Intanto, la si richiede. Poi, se del caso, la si usa spesso proprio come tappa d’avvicinamento alla pensione». Il ricorso alla cassa, alla Fiat, è stato abbondante. Anche in casi in cui l’ipotesi di una reale ripartenza produttiva era una chimera. Come a Termini Imerese, dove l’ultima vettura è uscita dalla linea di montaggio nel 2011. I dipendenti sono in cassa integrazione sino a fine anno, in attesa di un salvatore che (forse) darà loro un lavoro o un’altra razione di cassa. Se il salvatore evapora – è successo anche con l’italo-brasiliana Gri-fa, mentre ora il governo tratta con la torinese Metec – si passerà alla mobilità.

In Italia ci sono quasi 4 milioni e meno di disoccupati e lavoratori beneficiari di un sostegno al reddito, suddivisibili in tre macrocategorie. Nella prima ci sono quelli che l’impiego l’hanno perso e ricevono sussidi ma non sono più legati alI`azienda in cui prestavano la propria opera: erano 351 mila nel 2008, a fine 2103 la crisi economica li ha quasi triplicati (923 mila). La seconda categoria è quella degli “ammortizzati”, coloro che mantengono un rapporto diretto con l’impresa e godono della cassa integrazione: nel 2008 erano 85 mila, ora viaggiano intorno a quota 300 mila. Infine, c’è la famiglia numericamente più grossa – 3,4 milioni, secondo l’ultimo rapporto Istat – che è anche quella che alza meno la voce, perché è meno rappresentata e soprattutto meno garantita, composta da chi ha esaurito tutte le munizioni dopo essere passato da cassa ordinaria, straordinaria e mobilità, e pure dai lavoratori autonomi e parasubordinati a spasso.

«L’Italia ha il record di durata dell’utilizzo degli ammortizzatori sociali ma intanto ha tagliato del 30 per cento la spesa per le politiche di attivazione al lavoro, mentre altri, tipo Francia o Germania, nello stesso periodo li hanno aumentati sensibilmente», sostiene Romano Benini, consulente del ministero del Lavoro e docente di politiche dell’occupazione. «In tutta Europa, il primo destinatario di politiche attive al lavoro è il disoccupato. Invece noi abbiamo sempre avuto scarsa considerazione per i servizi per l’impiego. Nel 2012 – ultimi dati disponibili – abbiamo speso circa 24 miliardi per tutti i tipi di sussidi (casse integrazioni, indennità di mobilità e disoccupazione, prepensionamenti), contro gli 11,3 miliardi del 2008. Per aiutare disoccupati e inoccupati a formarsi e ricollocarsi abbiamo invece investito 5,6 miliardi, meno dei 6,1 miliardi del 2008». La recessione non aiuta le politiche attive, però meglio si può fare. Benini cita l’esempio di W2W, un programma coordinato Stato-Regioni, gestito dall’agenzia governativa Italia Lavoro. Nel 2010 aveva “preso in carico” 78 mila disoccupati: due anni dopo, il 54 per cento risultava effettivamente impiegato. Numerini, che tuttavia fanno capire l’utilità di un’Agenzia nazionale del lavoro (un obiettivo del Jobs Act) perché se le Regioni seguitano ad andare ciascuna per conto proprio, nessuna politica attiva può funzionare.

I Centri pubblici per l’impiego sono spesso inefficienti. D’altronde, ogni addetto dovrebbe “curare” in media 116 disoccupati (ma 211 in Veneto e 220 in Lombardia), mentre in Inghilterra il rapporto è a 30. Un sistema che, sostengono le agenzie private di collocamento, non può funzionare, anche a causa dell’atteggiamento dei disoccupati stessi. «Da Venezia a Torino abbiamo contattato decine di operai in cassa integrazione e alle dipendenze di aziende prossime alla chiusura. Uno su tre ha scelto di non accettare l’offerta di lavoro, ritenendo più sicuro e confortevole stare in cassa anziché rimettersi all’opera. Ci dicono: “Mi richiami fra qualche mese”, spiega Giorgio Veronelli, direttore della Gch Consulting. Pure il colosso Adecco fatica assai a convincere i cassintegrati a lavorare: «Capita tutti i giorni. Cerchiamo di spiegare a chi non ha un impiego che restare a casa in cassa per anni è un boomerang, più passa il tempo e meno sono appetibili», dice il numero uno italiano Federico Vione, che propone un sistema simile a quello svizzero, dove il sostegno al reddito viene tolto a chi rifiuta più di due proposte di lavoro. Effettivamente, una soluzione del genere dovrebbe far parte del jobs Act anche se certezze non ce ne sono.

La cassa integrazione, insomma, è un insostituibile aiuto, specie in fasi drammatiche come quelle attuali, ma rischia di trasformarsi in una prigione. Ed è anche una sorta di droga – dice un dirigente di Confindustria che vuol restare anonimo – sia per l’azienda che per il lavoratore: «Forse è davvero arrivato il momento di essere coerenti. In tante assemblee delle associazioni imprenditoriali, per esempio, ho sentito tuonare contro la cassa in deroga. Cancelliamola, dicono gli imprenditori. Poi però, quando si conclude la trafila di cassa e mobilità, di fronte all’alternativa se licenziare i dipendenti o farvi ricorso, la cassa in deroga finiscono per chiederla».

Disoccupazione: la crisi accresce il divario tra regioni

Disoccupazione: la crisi accresce il divario tra regioni

NOTA

Durante gli anni della crisi la disoccupazione in Italia è raddoppiata (passando dal 6,1% del 2007 al 12,2% del 2013) e si è anche accresciuto il divario esistente tra le diverse zone del Paese. Se nel 2007 la differenza tra la regione con la migliore occupazione (Provincia Autonoma di Bolzano) e quella con la peggiore (Sicilia) era di 10,4 punti percentuali, oggi tra il mercato del lavoro migliore (sempre Bolzano) e quello peggiore (Calabria) ci sono 17,8 punti di disoccupazione di differenza. Lo rivela un’analisi dell centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati Eurostat.
A reggere meglio l’impatto della crisi sono state le regioni del Nord Est. Rispetto al 2007 la Provincia di Bolzano ha aumentato i suoi disoccupati solo dell’1,8% seguita da Trento (+3,7%) e da Veneto e Friuli Venezia Giulia (+4,3%). Va molto peggio al Sud: la Calabria passa dall’11,2% al 22,2% (+11%), la Campania dal 11,2% al 21,5% (+10,3%), la Puglia dall’11,2% al 19,8% (+10,3%).

tabella1

Sono senz’altro i giovani ad aver subìto fin qui i maggiori effetti della crisi: la percentuale di soggetti tra i 14 e i 25 anni privi di occupazione è infatti passata in Italia dal 20,3% del 2007 al 40% del 2013, raddoppiando praticamente in tutte le regioni italiane. Vanno meglio della media nazionale il Friuli Venezia Giulia che passa dal 14,5% al 24,2% (+9,7%), la Sicilia che passa dal 37,2% al 53,8% (+16,6%) e il Veneto che dall’8,4% del 2007 (miglior dato nazionale) finisce al 25,3% (+16,9%). Anche in questo caso si acuisce il divario tra Nord e Sud. Nel 2007 la differenza tra la regione migliore (Veneto) e quella peggiore (Calabria) era di 23,2 punti percentuali. Oggi tra il Friuli Venezia Giulia, regione italiana con il minor tasso di disoccupazione giovanile, e la Basilicata (ultima con il 55,1% di disoccupazione under 25) esiste un distacco del 30,9%.

tabella2

Va invece sottolineato come la disoccupazione femminile sia cresciuta con percentuali decisamente inferiori rispetto alla disoccupazione giovanile e in misura leggermente inferiore anche al tasso di disoccupazione generale. Particolarmente interessante è in questo caso il dato della Basilicata che, nonostante un dato comunque molto alto (14,8%) vede calare – è l’unico caso in Italia per qualsiasi tipo di indicatore – il numero di donne disoccupate rispetto al periodo prima della crisi (erano il 15,3%). La media italiana vede questo indicatore peggiorare di 5,2 punti percentuali passando dal 7,9% del 2007 al 13,1% del 2013. La percentuale di donne senza lavoro è molto più alta al Sud (Campania, Calabria, Puglia, Sicilia tutte sopra il 20%) che al Nord. E la situazione continua purtroppo a peggiorare: Puglia, Calabria e Campania sono infatti le tre regioni in cui l’occupazione femminile ha pagato il prezzo più alto, con il tasso di disoccupazione che è cresciuto tra il 7,8 e il 9,2%.
tabella3
Pochi vantaggi, tanta burocrazia: l’apprendistato rischia di sparire

Pochi vantaggi, tanta burocrazia: l’apprendistato rischia di sparire

Walter Passerini – La Stampa

Ha sessant’anni e li dimostra tutti. L’apprendistato, che trae le origini della sua attuale sistemazione normativa nella legge 25 del 1955, è l’unica forma di contratto di lavoro a fini formativi. Nato nelle botteghe artigiane rinascimentali, l’istituto ha subito diverse modifiche nel tempo, per arrivare al Testo unico del 2011, che così lo definisce: un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione ed all’occupazione dei giovani. L’apprendistato è un contratto a causa mista, nel quale accanto alla causa di scambio (lavoro contro retribuzione), tipica del contratto di lavoro dipendente, si aggiunge la finalità formativa (D.Lgs. 14 settembre 2011, n.167). L’ultima modifica è il Decreto Poletti (D.l. 20 marzo 2014, n. 34, convertito in Legge 16 maggio 2014, n. 78).

Negli ultimi anni il contratto di apprendistato è stato definito il canale privilegiato per l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, ma il suo successo nel frattempo ò colato a picco. Negli anni d’oro è arrivato a superare una media di oltre 600mila contratti l’anno. Tra il 2010 e il 2012 è passato da 528.183 contratti a 469.855, per crollare subito dopo l’entrata in vigore del Testo unico ai suoi minimi: nel 2013 ci sono stati 240mila contratti di apprendistato, nel 2014 meno di 200 mila nei primi nove mesi, che dovrebbero portare il numero finale di quest’anno sotto quota 300 mila.

Come mai questo dimezzamento di contratti mentre la normativa e la politiche del lavoro tendono a sostenerlo? Ci sono tante ragioni. La presenza di un pacchetto di ore di formazione ha sempre ottenuto tiepidi consensi da parte delle imprese, quando non vere opposizioni: il decreto Poletti di quest’anno ha alleggerito il problema, ma non basta. I vantaggi economici per le imprese sono tanti: decontribuzione totale per tre anni per le imprese sotto i nove dipendenti; al 10% per le altre. Anche il vincolo di stabilizzazione è stato abbassato dal decreto Poletti: la quota di stabilizzazioni prima di assumere altri apprendisti è passata dal 50% al 20%. Ma anche questo evidentemente non è sufficiente. Nelle ultime settimane sembra poi che le aziende intenzionate ad assumere giovani si siano fermate, in attesa dei nuovi provvedimenti previsti dal Jobs Act.

Una delle ragioni del rovinoso cammino del contratto di apprendistato consiste proprio nella concorrenza spietata che altre formule di assunzione gli fanno, essendo ritenute più convenienti da parte delle aziende (contratto a termine, in primis). Infine, l’attesa dell’arrivo del nuovo contratto a tutele crescenti ha eroso ulteriore fascino all’apprendistato, e assomiglia a un’eutanasia: strano un contratto a tempo indeterminato che può avere una scadenza, come è l’apprendistato. Non si può escludere che le complessità burocratiche abbiano giocato in ruolo. E forse anche la scarsa conoscenza, per non dire confusione, sulle tre tipologie: apprendistato per la qualifica, professionalizzante o di mestiere, in alta formazione e ricerca. A cui se ne aggiunge una quarta, destinata ai lavoratori in mobilità. È soprattutto la terza tipologia a soffrire: sembra proprio che usare uno stesso nome (apprendistato) per riunire garzoni di officina, impiegati di banca e laureati, masterizzati o dottori di ricerca non sia molto efficace; anche se per realizzare il miracolo di una nuova vita dell’apprendistato non basterà certo un semplice cambio di nome.

Ragioni e incubi tedeschi

Ragioni e incubi tedeschi

Davide Giacalone – Libero

C’è un problema tedesco, in Europa. Ma ci sono anche paesi con i conti e le politiche in disordine, che pensano di potersela cavare dando la colpa alla Germania. Ci sono cittadini europei che temono di essere fregati, ritrovandosi a pagare debiti contratti da altri. E ci sono loro concittadini che temono di finire sottomessi a una (altrui) logica di potenza nazionale. E’ normale che queste paure suscitino reazione elettorali colorite, per quanto inutili. Non è normale che molti politici e governanti sfuggano al misurarsi con questi problemi, preferendo strizzare l’occhio agli elettori presi dal panico. Per questo trovo molto interessanti le tesi esposte da Jeans Weidmann, presidente della banca centrale tedesca, la Bundesbank, in una intervista a Repubblica. Sono parole serie. Che vanno prese sul serio. Dico subito che le condivido nella quasi totalità, ma con un distinguo decisivo, su un punto fulcro del presente e del futuro europeo.

Riassumo, per punti, il pensiero di Weidmann, chiosando in parentesi. 1. Per recuperare competitività è del tutto inutile immaginare il ritorno a monete nazionali, puntando sulla loro svalutazione, perché i benefici da quella indotti sono passeggeri e instabili (giusto, senza contare i malefici e tenendo presente che la Banca centrale europea sta conducendo una politica di graduale deprezzamento dell’euro). 2. La strada saggia consiste nell’abbattere le barriere per l’accesso al lavoro (che significa meno garanzie) e nel favorire le privatizzazioni (quindi meno Stato nel mercato). 3. Il tasso d’inflazione deve salire, ma non c’è motivo di affrettarsi, secondo i calcoli Bundesbank crescerà, di poco, a fine 2016 (giusto che salga, ma la fretta c’è, perché in deflazione il peso dei debiti cresce, fino a soffocare). 4. E’ sbagliato paragonare l’Ue ad aree monetarie come gli Stati Uniti o il Giappone, perché quelle sono entità politiche unitarie, mentre noi siamo 18 stati con politiche indipendenti, debiti diversi e diversi rating (vero, ci torno subito). 5. Lo sviluppo demografico europeo, ovvero la contrazione delle nascite, suggerisce di non spostare nel futuro il peso del debito (giusto). 6. Quando i debiti sono alti non si deve reclamare spesa pubblica anticongiunturale basata sull’aumento del debito, perché questo aumenta il male anziché curarlo, semmai si deve modificare la struttura della spesa pubblica, indirizzandola allo sviluppo anziché al trasferimento (leggi spreco) di ricchezza (giusto).

E qui veniamo a due aspetti delicati. Due tasti politicamente decisivi. Il primo si ricollega al punto 4.: siccome l’Ue non è uno Stato unitario, o federale, delle due l’una: o ci muoviamo in quella direzione, cedendo ciascuno sovranità fiscale; oppure non c’è alternativa al rispetto dei vincoli previsti dai trattati. Ha ragione. Ed è questo il pericoloso errore commesso da alcuni governi europei, il nostro compreso: l’avere puntato sull’elasticità nell’interpretazione dei vincoli anziché nel porre subito il tema della cessione di sovranità. Con il risultato che non avendo ottenuto nulla sul primo aspetto si finisce con il perdere sovranità propria, perché troppo indebitati, senza accedere a una comune. I francesi hanno compiuto questa scelta (sbagliata) consapevolmente, perché soggiogati da quel che resta della perduta grandeur (ma fra quel che resta c’è l’arma atomica). Noi abbiamo perso l’occasione del semestre italiano, per nulla. C’è, però, una seconda faccia della medaglia: noi (con altri) eccediamo nel debito, ma posto che anche quello tedesco è oltre i parametri consentiti, e che è cresciuto più del nostro, il loro surplus commerciale è a sua volta una grave violazione. Se parametri devono essere che siano, ma per tutti. Quell’avanzo (enorme) è continua sottrazione e concentrazione di ricchezza. Intollerabile quanto la crescita del debito.

E se il debito crescente induce il timore che si voglia farlo pagare ad altri (senza dimenticare che abbiamo già pagato per aiutare le banche tedesche e francesi), il surplus permanente, unito al vantaggio di tassi d’interesse bassissimi, quando non negativi, induce la paura che qualcuno covi il ricorrente incubo della potenza nazionale, puntando anche all’indebolimento dei competitori, asfissiati dal credito e dal fisco. Una logica di dominio che ha già ripetutamente prodotto la sua sola possibile conseguenza: la rovina. Questo è il nodo decisivo. Entrambe i timori hanno fondamento. Entrambe devono essere fugati. Ma non uno prima dell’altro, perché ne deriverebbe uno squilibrio ingestibile. Per questo le parole di Weidmann sono importanti e largamente condivisibili. Per questo è insensato supporre di condurre un presunto scontro filo o anti-tedesco. Ma sempre per questo quel nodo va affrontato, nei suoi due aspetti. Chi provasse a fare il furbo sarebbe pazzo.

Colpo grosso in casa Renzi

Colpo grosso in casa Renzi

Antonio Rossitto – Panorama

Da malpagato co.co.co. a riverito manager. L’ascesa lavorativa di Matteo Renzi è stata fulminea come la sua scalata a Palazzo Chigi. E si è portata dietro uno di quei privilegi che, a parole, il presidente del Consiglio aborrisce: dieci anni di generosi contributi previdenziali ottenuti in virtù della sola appartenenza alla vituperata casta. Una storia poco commendevole già ricostruita nei mesi scorsi dal Fatto Quotidiano.

Si puo riassumere così: Renzi rimane un semplice collaboratore coordinato continuativo della Chil, l’azienda di famiglia, senza diritto a pensione né Tfr, fino al 24 ottobre 2003. Dopo tre giorni da disoccupato, viene riassunto dalla stessa società come dirigente. Ma l’azienda si caricherà solo per pochi mesi gli oneri di cotanto figlio. Perché lo scatto di carriera, guarda caso, avviene il 7 novembre 2003, alla vigilia dell’ufficializzazione, già ventilata dai giornali, della candidatura alla guida della Provincia di Firenze. La scontata elezione avviene sette mesi più tardi: il 13 giugno 2004. Da quel giorno, per cinque anni, l’amministrazione versa gli oneri pensionistici di quella promozione tanto tempestiva quanto inusuale. Eletto sindaco nel 2009, godrà dello stesso privilegio fino al febbraio 2014, quando diventa presidente del Consiglio. Solo due mesi dopo. il 22 maggio del 2014, pressato dai giornali, annuncia le sue dimissioni dalla Chil.

Per dieci anni, quindi, il premier è rimasto sul groppone di un sistema previdenziale che, rivela uno studio dell’Ocse appena pubblicato, pesa per quasi un terzo sul totale delle uscite dello Stato: la peggior percentuale tra i paesi industrializzati. Colpa anche dell’inesauribile arte di azzeccare i garbugli degli italiani. Tra cui si potrebbe annoverare anche quella del capo dell’esecutivo: a beneficiare del suo avanzamento professionale sotto stati infatti solo i versamenti pensionistici al premier. L’entità di questi oneri non è però stata mai definita. Le ripetute interrogazioni dei consiglieri dell’opposizione al Comune di Firenze hanno ricevuto solo risposte evasive. Stessa sorte per la richiesta promossa alla Camera dal Movimento 5 stelle.

Panorama è in grado di ricostruire i dettagli di un accorgimento che ha permesso a Renzi di mettere da parte, alle spalle del più scassato sistema previdenziale del pianeta, un tesoretto che un operaio si ritrova solo dopo vent’anni di lavoro in fabbrica. Quasi 200 mila euro accumulati grazie ad appena sette mesi da dirigente della Chil, l’azienda adesso al centro di un’inchiesta della Procura di Genova in cui è indagato per bancarotta fraudolenta Tiziano Renzi, padre del presidente del Consiglio. Le cifre di cui è entrato in possesso Panorama sono sorprendenti. Nella dichiarazione del redditi riferita al 2003, il premier dichiara appena 14.273 euro di imponibile Irpef. A cui si aggiungono 200 azioni privilegiate Fiat, un’Audi comprata l’anno prima e la proprietà di una panetteria di 78 metri quadrati a Rignano sull’Arno.

Nei primi dieci mesi di quell’anno, Renzi è un co.co.co. della Chil. Ma a fine ottobre viene assunto come manager: passa così a un contratto di circa 59 mila euro all’anno partendo da una retribuzione misera che Panorama è riuscito a calcolare sulla base degli oneri previdenziali corrisposti dalla provincia. Già, ma quanto misera? L’importo si può desumere sottraendo al reddito del 2003 (14.273 euro, appunto) la somma degli stipendi da manager di novembre e dicembre: 8.800 euro circa. Il risultato sarebbe di 5.500 euro. È questo, all’incirca, il compenso che Renzi riceve dalla Chil per i servigi resi da gennaio a ottobre: 550 euro al mese. A novembre però, da dirigente, lo stipendio del futuro presidente del Consiglio aumenta di nove volte: arriva a quasi 4.400 euro, contributi, tredicesima e quattordicesima inclusi. Tutte le cifre, calcolate da Panorama, potrebbero essere ancora più precise se il premier, in ossequio alla decantata trasparenza, fornisse i contratti di assunzione della Chil. Un atto reso ancora più necessario dai benefici ottenuti da Renzi: tutti a carico della collettività.

Di questa invidiabile ascesa, la società di famiglia si farà carico solo per sette mesi: fino a giugno del 2004. Poi a pagare è Pantalone. Una volta alla guida della provincia, sospeso lo stipendio, rimangono infatti da versare gli oneri contributivi: gravame che, per legge, pesa sull’ente in cui il politico è eletto. Nel caso di Renzi non si tratta di quisquilie. Il totale è di 20.184 euro all’anno: 7.416 per il fondo dei dirigenti, 5.259 per la pensione integrativa, 3.731 euro per il fondo sanitario e 3.778 euro versati direttamente alla Chil per il Tfr maturato. Cifra che va moltiplicata per il quinquennio in cui Renzi ha guidato l’amministrazione, fino a giugno del 2009. Per le casse provinciali, una spesa di 100.922 euro. A cui va aggiunta una cifra analoga, 98mila euro circa, per gli oneri accumulati da giugno 2009 a marzo 2014, durante il mandato da sindaco di Firenze. Il totale è ragguardevole: quasi 200 mila euro destinati alla serena vecchiaia del primo ministro. Soldi che, una volta raggiunta l’età pensionabile, potrebbero cumularsi a un sostanzioso vitalizio cui avrebbe diritto proseguendo l’attività politica. Unica consolazione per i contribuenti: a marzo del 2014, dopo la nomina a premier, Renzi annuncia le dimissioni dalla Chil.

Non è un magnanimo gesto di ravvedimento, ma l’epilogo di un anno di polemiche cominciate all’inizio del 2013. Quando il consigliere comunale di Fratelli d’Italia, Francesco Torselli, chiede chiarimenti all’allora primo cittadino di Firenze con un’interrogazione urgente. La stringata risposta dell’ex vicesindaco, Stefania Saccardi, arriva con una nota del 22 marzo 2003: «Il dottor Renzi ha avuto un contratto di collaborazione coordinata e continuativa fino al 24 ottobre del 2003 presso la Chil». Mentre «dal 27 2003 è stato come dirigente». Non soddisfatto, Torselli presenta un’altra richiesta: «Per sapere a quanto ammonta esattamente la cifra pagata dalla collettività, prima dalla provincia e ora dal comune per la pensione del sindaco». Sta qui infatti il busillis. Il vicesindaco Saccardi risponde due mesi dopo, il 31 maggio 2013. limitandosi però al parziale calcolo del solo Tfr: che corrisponde a una minima parte di quanto versato per la previdenza dal segretario del Pd. Nella replica all’interrogazione viene chiarito: «Il dottor Matteo Renzi è sempre stato assunto senza alcun tipo di interruzione ed è rientrato in azienda dal 22 al 24 giugno del 2009». Un altro escamotage per garantire continuità dei versamenti pubblici: sono infatti i giorni in cui scade il mandato alla provincia e comincia quello da sindaco. Ma nemmeno in quei tre giorni Renzi mette piede in azienda: «Ha usufruito di tre giorni di ferie» scrive Saccardi. Infine, all’ultimo punto della replica, l’ultima beffa: «Se al momento dell’assegnazione della carica, fosse stato occupato con un rapporto di co.co.co., il dottor Matteo Renzi non avrebbe avuto diritto ai contributi figurativi».

Ecco spiegato il motivo del balzo da co.co.co. a dirigente, prima di essere eletto alla provincia: escamotage che gli ha permesso di passare da una retribuzione di meno di 7mila euro all’anno a un contratto da circa 59mila euro, previdenza, tredicesima e quattordicesima inclusi. Maturando così quasi 200 mila euro di versamenti dal 2004 al 2014, pagati dai contribuenti invece che dall’azienda di famiglia, oltre che dieci anni di anzianità lavorativa. In cambio, dal momento della sua prima elezione, non ha messo piede nemmeno un giorno negli uffici della Chil. Alla società di famiglia è bastato pagare sette mesi di stipendio, circa 30 mila euro, perché lo Stato ne restituisse a Renzi più di sei volte tanto in oneri previdenziali. Come insegna la buona, vecchia, casta. Più facile da rottamare a parole che nei fatti.