lavoro

Disoccupazione: nei primi 9 mesi Renzi riesce a far peggio di Berlusconi e Letta

Disoccupazione: nei primi 9 mesi Renzi riesce a far peggio di Berlusconi e Letta

NOTA

Il governo Renzi non fa bene al lavoro, ottenendo nei suoi primi nove mesi di attività risultati decisamente peggiori di quelli conseguiti nel medesimo periodo di tempo dai governi Berlusconi e Letta. Lo dimostra una ricerca del centro studi “ImpresaLavoro” realizzata elaborando i dati delle serie storiche dell’Istat sulla disoccupazione.
Dal giorno del suo insediamento i disoccupati sono aumentati di 203mila unità, passando da 3 milioni 254mila a 3 milioni 457mila. Un risultato nettamente peggiore rispetto a quello dei primi nove mesi del quarto governo Berlusconi (aprile 2008 – gennaio 2009), che ha visto crescere la disoccupazione di “sole” 19mila unità, e dei primi nove mesi del Governo Letta (aprile 2013 – gennaio 2014) che si è fermato ad un saldo di più 165mila senza lavoro. Peggio dell’ex sindaco di Firenze ha fatto solo il “Governo dei Professori”: nei primi nove mesi di Monti-Fornero (ottobre 2011 – luglio 2012) il numero dei disoccupati in Italia ha infatti avuto un’impennata senza precedenti, crescendo di 605mila unità e passando da 2 milioni 183mila a 2 milioni 788mila. In tema di disoccupazione generale, quindi, chi ha fatto meglio nei suoi primi nove mesi è abbastanza nettamente il Governo Berlusconi, seguito dall’esecutivo guidato da Enrico Letta.

tabella 1

Anche in tema di disoccupazione giovanile, Berlusconi riesce a far meglio di tutti gli altri governi: nei primi nove mesi del Berlusconi IV, il numero di giovani senza lavoro passa da 392mila a 422mila soggetti, con un incremento di 30mila unità. Peggio di lui fanno sia Letta (+42mila giovani disoccupati) che Monti (+109mila). Nei primi nove mesi di Renzi a Palazzo Chigi, i giovani senza occupazione salgono, invece, di 54mila unità facendo segnare una performance migliore soltanto di quella, disastrosa, del Governo Monti.

tabella 2

L’altro elemento storicamente debole nel nostro mercato del lavoro è quello relativo al numero di donne senza occupazione. Nei suoi primi nove mesi il Governo Berlusconi riesce addirittura a ridurre la disoccupazione “rosa” di 31mila unità. Risultato mai più ottenuto dai governi che si sono succeduti: con Monti le donne senza lavoro sono cresciute di 312mila unità, con Letta l’emorragia si è temporaneamente fermata (+29mila) per poi risalire con i primi nove mesi del Governo Renzi che proprio tra le donne fa segnare uno dei suoi dati peggiori (+145mila disoccupate).

tabella 3

Dati in migliaia di persone. Elaborazione ImpresaLavoro su serie storiche ISTAT su disoccupazione
PERIODI CONSIDERATI:
* per governo Berlusconi: Aprile 2008 e Gennaio 2009
**per governo Monti: Ottobre 2011 e Luglio 2012
***per governo Letta: Aprile 2013 e Gennaio 2014
****per governo Renzi: Febbraio 2014 e Novembre 2014
 
Rassegna Stampa
Metro
Il Tempo
Disoccupazione, Matteo peggio del Cav e Letta

Disoccupazione, Matteo peggio del Cav e Letta

Laura Della Pasqua – Il Tempo

I risultati sul fronte occupazione della politica del governo Renzi sono finora deludenti. È quanto emerge da una ricerca del centro studi «ImpresaLavoro» che ha messo a confronto i dati sul mercato del lavoro dei primi nove mesi di attività del premier con quelli nel medesimo periodo di tempo dei govemi Berlusconi e Letta.

Il rapporto realizzato elaborando i dati delle serie storiche dell’Istat sulla disoccupazione, rivela che dal giorno del suo insediamento i disoccupati sono aumentati di 203mila unità, passando da 3,254 milioni a 3,457 milioni. Una situazione che risulta nettamente peggiore rispetto a quella dei primi nove mesi del quarto governo Berlusconi (aprile 2008- gennaio 2009), che ha visto crescere la disoccupazione di «sole» 19mila unità, e dei primi nove mesi del Governo Letta (aprile 2013-gennaio 2014) che si è fermato ad un saldo di più 165 milasenza lavoro. Peggio del premier Renzi ha fatto solo il «governo dei Professori». Nei primi nove mesi di Monti- Fornero (ottobre 2011-luglio 2012) il numero dei disoccupati in Italia ha infatti avuto un’impennata senza precedenti, crescendo di 605mila unità e passando da 2,183 milioni a 2,788 milioni. La situzione occupazionale risultava nettamente migliore durante il govemo Berlusconi, seguito dall’esecutivo guidato da Enrico Letta. Nei primi nove mesi del quarto governo Berlusconi la disoccupazione è passata da 1,750 milioni a 1,769 milioni di unità. Durante il governo Letta si è passati da 3,075 milioni di disoccupati a 3,240.

Anche la situazione del mercato del lavoro dei giovani era più favorevole durante il governo Berlusconi: nei primi nove mesi del Cav IV, il numero di giovani senza lavoro passa da 392mila a 422mila soggetti, con un incremento di 30mila unità. Peggio di lui fanno sia Letta (+42mila giovani disoccupati) che Monti (+109mila). Nei primi nove mesi di Renzi a Palazzo Chigi, i giovani senza occupazione salgono, invece, di 54mila unità facendo segnare una performance migliore soltanto di quella, disastrosa, del govemo Monti.

Se poi si esamina la situazione occupazionale femminile, Berlusconi, sempre nell’arco di tempo considerato, è riuscito addirittura a ridurre il numero delle donne senza impiego di 3lmila unità. Risultato mai più ottenuto dai governi che si sono succeduti: con Monti le donne disoccupate sono cresciute di 312mila unità, con Letta l’emorragia si è temporaneamente fermata (+29mila) per poi risalire con i primi nove mesi del Governo Renzi che proprio tra le donne ha uno dei suoi dati peggiori (+145mila disoccupate).

Ieri il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, commentando i dati disastrosi dell’Istat del terzo trimestre del 2014, ha ribadito che non c’è da allarmarsi. «In quel periodo c’è stato un blocco della caduta del nostro Pil, quindi è lecito aspettarsi che la disoccupazione possa cominciare a migliorare dal secondo trimestre 2015». Il punto fondamentale, secondo Taddei, è che quando «quella ripresa avviene trovi un terreno fertile che fino a oggi ha faticato a trovare». E questo dovrebbe essere il Jobs Act.

Persi a novembre altri 48mila posti di lavoro

Persi a novembre altri 48mila posti di lavoro

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Secondo calo, consecutivo, del numero di occupati: a novembre (su ottobre) sono stati persi altri 48mila posti (già a ottobre, su settembre, il calo era stato di 65mila unità). Il tasso di disoccupazione è salito al 13,4%, un nuovo massimo storico, (mentre nell’area Euro, sempre a novembre, è rimasto stabile all’11,5% – peggio di noi, tra i principali Paesi nostri competitor, solo la Spagna che ha registrato un tasso di persone senza lavoro al 23,9%).

Doccia fredda anche sul fronte under25: la quota dei giovani disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca è schizzata al 43,9%, in aumento di 0,6 punti percentuali sul mese, e di 2,4 punti nel confronto tendenziale. In Eurolandia siamo quart’ultimi (dietro di noi solo Spagna, Grecia e Croazia). Le performance migliori si sono avute in Germania (7,4% di disoccupazione giovanile), Austria (9,4%) e Olanda (9,7%). Il numero complessivo di persone senza un impiego ha raggiunto i tre milioni e 457mila unità (+40mila in un mese, +264mila in un anno). Il numero persone inattive (anche perché scoraggiate) è invece in calo: 12mila unità in meno rispetto a ottobre e meno 312mila nel confronto tendenziale.

I dati sul lavoro diffusi ieri da Istat ed Eurostat hanno confermato tutte le difficoltà del nostro mercato del lavoro; che si è, di fatto, “allineato” con il quadro economico generale. Da febbraio, mese di insediamento del governo Renzi, a novembre, il numero di occupati è diminuito complessivamente di 14mila unità. Negli ultimi due mesi si è praticamente azzerato l’aumento di circa 100mila posti annunciato a settembre dal Governo (in parte frutto del decreto Poletti che ha semplificato i contratti a termine e, in quota minore, l’apprendistato).

Ora in campo ci sono le nuove norme contenute nel Jobs act sul contratto a tutele crescenti, l’Aspi rafforzata, e i forti incentivi sul tempo indeterminato; ma gli effetti di queste misure sull’occupazione «si vedranno solo nei prossimi mesi», hanno sottolineato i ministri Giuliano Poletti e Pier Carlo Padoan. Per questo è «ancora più urgente andare avanti con le riforme», hanno aggiunto il responsabile Economia e Lavoro del Pd, Filippo Taddei e il sottosegretario, Teresa Bellanova. Anche perché, ha spiegato il numero uno di ItaliaLavoro, Paolo Reboani, le aziende sono ora in attesa «della piena operatività» delle norme appena varate, prima di riprendere a fare nuove assunzioni (quelle stabili sono agevolate da una robusta riduzione del cuneo fiscale). Si sconta, quindi, una fase di “stand-by” che potrebbe proseguire anche nel mese di dicembre.

Dal ministero del Lavoro fanno sapere che, comunque, il «numero assoluto di occupati nella fascia d’età 15-24 anni è rimasto stabile rispetto ai mesi precedenti»; e che la crescita del tasso di disoccupazione è influenzata «dal costante aumento dei cittadini che si attivano per cercare un lavoro, tanto è vero che il numero di inattivi a novembre è il più basso degli ultimi due anni». Ma è il secondo calo consecutivo degli occupati a preoccupare gli esperti: «Ciò dimostra che la crescita dell’occupazione nei mesi precedenti ha interessato la parte marginale del mercato del lavoro, cioè soprattutto donne e giovani, che per aumentare il reddito familiare si sono rimessi in cerca di un impiego e hanno trovato soprattutto rapporti temporanei, part-time», ha evidenziato l’economista del lavoro, Carlo Dell’Aringa. Analizzando, infatti, la contrazione mensile di 48mila occupati a novembre spicca come ben 41mila di questi siano posti femminili andati persi. Il tasso di occupazione è risultato pari al 55,5%, in calo di 0,1 punti sul mese; gli under25 disoccupati sono 729mila (+18mila in un mese), e ciò dimostra tutte le difficoltà di «Garanzia giovani» a creare occupazione. La forbice con la Germania continua ad allargarsi: secondo l’ufficio di statistica tedesco a dicembre il tasso di disoccupazione è sceso al minimo storico del 6,5%.

Ecco perché, oltre agli incentivi sui contratti stabili, serve una «coraggiosa riforma della regolazione dei rapporti di lavoro», ha incalzato Maurizio Sacconi (Area Popolare). Ma la strada «non può essere quella dei licenziamenti facili», ha ribattuto Cesare Damiano (Pd), che ha ricordato come, anche, nel 2014 le ore di cassa integrazione autorizzate abbiano superato il miliardo di ore. Le tutele non vanno quindi abbassate».

Con Renzi 203mila posti di lavoro in meno

Con Renzi 203mila posti di lavoro in meno

Franco Bechis – Libero

Sotto la guida di Matteo Renzi l’italia è diventato il paese con la maglia nera nell’area dell’euro per aumento del tasso di disoccupazione. A novembre 2014 il tasso di disoccupazione in italia è salito al 13,4%, che è il dato più alto della storia delle rilevazioni fatte dall’Istat. Nell’area dell’euro è il sesto tasso di disoccupazione dopo quelli di Grecia, Spagna, Cipro, Croazia e Portogallo. Ma fra i 28 paesi dell’Unione l’Italia è quello in cui la crescita della disoccupazione è stata maggiore nell’ultimo anno: un anno fa il tasso era infatti al 12,5%. Gran parte di questa variazione negativa è avvenuta proprio con il governo Renzi: a fine febbraio il tasso di disoccupazione era al 12,7%. Un dato che evidenzia l’inefficacia delle politiche economiche adottate dal governo, che hanno provocato danni e non gli attesi benefici. La perdita di occupati è legata tutta a scelte di politiche nazionali e non al ciclo economico: in 22 paesi su 28 in Europa infatti è avvenuto l’esatto contrario, e senza l’Italia il dato della disoccupazione sia nell’area dell’euro che all’interno dell’Unione europea sarebbe migliorato nell’ultimo anno (e invece è stabile). Enorme il divario con la Germania, dove il tasso di disoccupazione è sceso al 5%, meno della metà di quello italiano.

Tutti indicatori principali rivelati ieri dall’Istat sono negativi per l’Italia: cresce il tasso di disoccupazione giovanile, che tocca la quota monstre del 43,9%, dimostrando come gli effetti dell’originario decreto legge sul job act della primavera scorsa siano stati nulli. A novembre 2014 poi gli occupati erano 22 milioni 310 mila, in diminuzione dello 0,2% sia rispetto al mese precedente (-48 mila) sia su base annua (-42 mila). il tasso di occupazione, pari al 55,5%, diminuisce di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e rimane invariato rispetto a dodici mesi prima. il numero assoluto dei disoccupati, pari a 3 milioni 457 mila, aumenta dell’1,2% rispetto al mese precedente (+40mila) e dell’8,3% su base annua (+264mila).

Giusto un mese fa Renzi aveva provato a leggere in altro modo dati che già allora erano negativi, sostenendo: «I dati della disoccupazione ci preoccupano. Ma il dato degli occupati in realtà sta crescendo. In Italia ci sono più persone che lavorano rispetto a quando abbiamo iniziato l’esperienza di governo. «Ci sono più di centomila posti di lavoro in più», aveva assicurato il premier, pur ammettendo «non basta: siccome negli anni precedenti si è perso un milione di posti di lavoro, per riuscire a recuperare c’è ancora tanto tanto lavoro da fare. Non bisogna negare l’evidenza dei problemi – sottolinea il premier – ma neanche guardare solo il bicchiere mezzo vuoto». Ottimista era stato anche il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che aveva rilevato un dato degli occupati a settembre che avrebbe evidenziato «82mila posti di lavoro in più ed è il miglior dato da inizio 2013. È un bel risultato perché è un segno di speranza». Allora entrambe sembrarono ad economisti e osservatori posizioni ottimistiche un po’ forzate. Oggi la fredda verità dei numeri svela la propaganda utilizzata e per settimane propagata ad ampie mani in ogni dibattito e tweet dai Renzi boys.

Da febbraio 2014, quando Renzi ha preso le redini del governo il tasso di disoccupazione generale è salito di 0,7 punti percentuali, quello della disoccupazione giovanile è cresciuto di 1,6 punti dal 42,3 al 43,9%, quello della disoccupazione femminile è lievitato di 1,1 punti percentuali passando dal 13,5 al 14,6%. In quello stesso arco di tempo, durante il governo Renzi il numero di occupati è sceso di 14 mila unità (e non aumentato di 100 mila, come disse il premier con una bugia), passando da 22 milioni e 324 mila occupati a 22 milioni e 310 mila occupati di fine novembre. Al contrario il numero totale dei disoccupati è salito da 3 milioni e 254 mila a 3 milioni e 457 mila unità: sotto il governo Renzi 203 mila disoccupati in più. La variazione è stata negativa sia per la disoccupazione giovanile (54 mila disoccupati in più in soli nove mesi) che per la disoccupazione femminile, cresciuta nello stesso periodo di 145 mila unità, passando da 1 milione e 452 mila a 1 milione e 597 mila disoccupate.

Sotto il governo Renzi dunque i disoccupati in totale sono cresciuti del 6,23%, e all’interno di questo drammatico dato i più penalizzati sono state proprio le categorie più deboli che secondo la propaganda dell’esecutivo sarebbero dovuti essere i beneficiari del cambio di verso nelle politiche economiche. Quei giovani cui era stato indirizzato il primo job act si sono trovati con l’8 per cento di disoccupazione in più. Ma il dato che sorprende rispetto alla vulgata governativa è stata la crescita straordinaria della disoccupazione femminile: +9,98%. Sarà anche vero che al governo le renziane hanno ottenuto un numero di poltrone di primo piano che non aveva precedenti, come vero che qualche donna vip ha ottenuto uno strapuntino di rilievo nelle poltrone di sottogoverno: è innegabile però che a tutte le altre italiane che non facevano parte della corte con il govemo Renzi è andata peggio come mai era accaduto nella storia.

Pugno di ferro con i medici complici dei fannulloni

Pugno di ferro con i medici complici dei fannulloni

Gaetano Ravanà – Il Giornale

Come si fa a farsi riconoscere la legittimità del ricorso alla legge 104 (quella che regolamenta i permessi retribuiti per l’assistenza a un familiare) con la complicità di un medico? Per la procura agrigentina basta una spirometria realizzata dallo stesso medico che soffia nello strumento clinico in assenza del paziente, in modo da fare apparire una patologia in realtà inesistente. Oppure, dare dei consigli prima di una radiografia per la postura da assumere al fine di fare emergere difetti che non ci sono.

Questo è quello che per gli inquirenti si è verificato in decine e decine di casi nella provincia agrigentina. Oltre 150 persone, dietro il pagamento di tangenti, avrebbero ottenuto il riconoscimento della 104. Un’inchiesta che ha portato all’emissione, nel settembre dello scorso anno, di diverse ordinanze di custodia cautelare. Le manette ai polsi sono scattate per medici e intermediari. Oltre cento persone sono finite nel mirino della magistratura, ma l’inchiesta è andata avanti e la magistratura agrigentina, con in testa il procuratore Renato Di Natale e l’aggiunto Ignazio Fonzo, ha puntato l’attenzione sul mondo della scuola, dove il fenomeno ha assunto connotati molto sospetti. È stato un comitato spontaneo di insegnanti che si è costituito per fronteggiare il fenomeno della 104 a presentare una denuncia al Tribunale agrigentino. Diversi docenti non riuscivano mai ad ottenere il trasferimento, pur avendo i numeri, perché proprio per l’autorizzazione all’utilizzo della 104 ad altri colleghi venivano di fatto, ogni anno, scavalcati nella graduatoria.

Analizzando le carte che il Provveditorato agli Studi di Agrigento ha consegnato agli agenti della Digos, sono saltate fuori un paio di situazioni ritenute coincidenze «strane» e necessarie di approfondimento. Nella città di Sciacca, in particolare, su 140 tra docenti, impiegati in segreteria e operatori scolastici, 90 hanno la 104, circa il 70 per cento. In un’altra scuola, sempre nell’Agrigentino, su un organico di undici bidelli, tutti quanti hanno beneficiato della legge 104, vale a dire il cento per cento. Ma da quanto trapela da ambienti investigativi e anche da quelli di Provveditorato e Inps, ci sarebbero tante altre situazioni «sospette». La procura ha già anticipato un nuovo filone che potrebbe portare a un numero di indagati da capogiro. Per iniziare sono 280 le persone, in gran parte insegnanti, ma ci sono anche dipendenti e funzionari di altre pubbliche amministrazioni, che risulterebbero indagate. Si scopre che altri certificati medici sarebbero stati costruiti ad hoc per ottenere il trasferimento a casa.

Questo nuovo scandalo va a sommarsi alla vicenda della malattia di massa dei vigili urbani di Roma e dei netturbini di Napoli nella notte di Capodanno. La complicità dei medici sta alla base del tutto e, proprio per questo motivo il Governo entro febbraio modificherà le norme del lavoro nel pubblico impiego. I controlli sui certificati di malattia verranno potenziati e non verranno più assicurati dalle Asl ma direttamente dall’Inps. La stessa procedura dovrebbe essere estesa anche all’iter per il riconoscimento della legge 104.

Le tasse dei politici e quelle di chi lavora

Le tasse dei politici e quelle di chi lavora

Nicola Porro – Il Giornale

Una pena è giusta se proporzionata al reato commesso. È un principio banale, che gli italiani hanno insegnato al mondo, ma che da anni dimenticano alla ricerca del gesto esemplare. Ciò avviene per due spinte contrapposte: quella dei cosiddetti conservatori, poco indulgenti verso i reati comuni, e quella dei progressisti, assatanati (forse per reazione) per i crimini dei colletti bianchi. Entrambi gli schieramenti si trovano però insieme nella legislazione di emergenza: succede un qualche disastro e i nostri eroi rispondono con pene esemplari alla ricerca del capro espiatorio e per allontanare da sé l’ombra della responsabilità e dell’inattivismo.

In Italia una bottega del barbiere rischia di essere sottoposta alla stessa disciplina di uno stabilimento dell’Eni nello smaltimento dei propri rifiuti. Una piccola impresa deve seguire le stesse procedure sulla sicurezza di un’industria siderurgica. Ovviamente per rispondere a disastri ambientali del passato e a fobie ambientaliste del presente. O per contrastare morti sul lavoro sull’onda di un fatto di cronaca. Oggi l’emergenza sono i nostri conti pubblici in rosso che si ritiene siano dovuti agli evasori fiscali (una favola), giù quindi a bastonare i presunti tali con norme micidiali. I politici, inoltre, si considerano dei fenomeni, stanno lì sui loro banchi e pensano che cittadini e imprenditori non possano sbagliare una virgola: applicano ai più piccoli il rigore che si ritiene dovuto ai più grandi che, proprio per le dimensioni, si possono (ancora per poco) permettere uffici e staff che controllano la correttezza burocratica e cartacea di tutto.

Vedete, questa settimana non si è parlato d’altro che del codicillo introdotto nella delega fiscale e che prevedeva la non procedibilità penale per chi commettesse evasioni fiscali inferiori al tre per cento dell’imponibile. Una norma ispirata al buon senso. Così come tutta la legge resta di buon senso, con numerose depenalizzazioni.

La legge delega approvata dal Parlamento prevedeva appunto un ritorno alla proporzionalità tra illecito e sanzione. Un certo eccesso di delega si può senz’altro riscontrare, poiché la previsione del tre per cento si applica anche alle frodi realizzate con la predisposizione di documenti falsi. E nell’articolo 8 della legge sembra proprio che questa previsione non sia contenuta. Resta il punto di sostanza. Si pensi al caso in cui un’azienda commetta un errore di competenza economica, o si deduca costi non inerenti (la questione come ben sanno le mini partite Iva è sempre opinabile) o ancora dichiari un reddito inferiore a quello contestato sulla base di una interpretazione diversa dell’amministrazione, ma anche al caso di omessa dichiarazione di redditi conseguiti in tutti questi casi, le polemiche apparse in questi giorni sono assurde, visto che dimenticano che l’evasore che viene pizzicato paga le imposte, gli interessi e le sanzioni amministrative. Questo famigerato articolo l9bis prevede addirittura, con una norma assai severa, che le sanzioni amministrative siano raddoppiate nei casi in cui opera la non punibilità penale. Il rischio, semmai, è che non si vada in galera, ma al tribunale fallimentare.

È fuori luogo parlare di un’area di impunità. C’è chi ad esempio fa il parallelismo con il rapinatore che sarebbe autorizzato a derubare senza sanzione penale se il bottino non fosse superiore al 3 per cento della cassa: ci si dimentica però che per la rapina, a differenza dell’evasione, non c’è una sanzione pari ad un multiplo del bottino (di regola da una a due volte le imposte evase), multiplo che l’articolo 19 bis prevede espressamente di raddoppiare (da due a quattro volte). Cosa è peggio per un presunto o potenziale evasore? Sapere che dopo qualche anno potrebbe finire per qualche mese in carcere o vedere sequestrati, in attesa di giudizio,i proventi dei suoi illeciti con gli interessi?Ma, soprattutto, cosa fa più comodo alle casse dello Stato, che tutti dicono di volere risanare?

Su questa norma è nato un putiferio legato alla questione Berlusconi, che se ne avvantaggerebbe. Sono fatti che «inzigano» i retroscenisti politici. Quello che qui vogliamo sottolineare è il riflesso condizionato dei nostri politici. Che non si rendono conto di come il mondo per gli invisibili sia diverso da come se lo raccontano loro. L apiù straordinaria è la deputata civatiana (sì, esistono anche loro) Lucrezia Ricchiuti, che ha subito proclamato: «In pratica questo codicillo ha detto che più sei ricco e più puoi evadere». Ma questa parlamentare sa che già oggi ci sono delle soglie di non procedibilità penale? E lei, come i tanti che le si sono associati, sa che anche per una piccola impresa avere accertamenti superiori al 3 per cento del proprio imponibile, purtroppo non è cosa rara?

Ps: si dice nei tam tam del Palazzo che tutta la delega fiscale, una corposa normativa, sia stata concordata con l’Agenzia delle entrate. E quest’ultima ha fatto subito sapere che alcune norme di depenalizzazione non le piacciono. Viene da chiedersi se sia così assurdo prevedere nel futuro che le leggi fiscali siano fatte dai politici con il consenso, la consultazione e le legittime pretese dei contribuenti e non dei loro esattori. Il governo deve seguire i desiderata delle sue agenzie prima di fare le norme o le richieste dei cittadini-contribuenti-elettori? Che ne pensa ad esempio di ciò l’onorevole, sottosegretario all’Economia, Zanetti, che nella sua passata vita da commercialista ha fatto tante rigorose battaglie contro i pregiudizi degli uffici governativi e fiscali?

Errori e balocchi

Errori e balocchi

Davide Giacalone – Libero

Ammettere gli errori è onesto e può essere segno di forza. Ma può anche essere una sgusciante furbata. Dice Matteo Renzi, ai microfoni di Rtl 102.5, che “un intervento correttivo sulle partite Iva è sacrosanto e me ne assumo la responsabilità”. Dell’errore commesso o della correzione? Di entrambe, suppongo. Bene, gliene renderemo volentieri merito. Non è per non fidarsi, però ci sono cose che non tornano.

L’errore, ora ammesso come tale, è stato qui segnalato quando la legge di stabilità era ancora in discussione. Per correggere quelli accumulati nell’iter parlamentare, diversi dei quali indotti da emendamenti presentati da ministri, il governo ha elaborato un mostruoso maxi emendamento, in totale continuità con i (peggiori) costumi di sempre. In quel testo, caotico, colmo di strafalcioni e scritto in un linguaggio che (teoricamente) la legge proibisce, l’errore non solo c’era ancora, ma aggravato. Anche questo lo abbiamo qui scritto, in tempo utile per la correzione. Niente. Su quel frullato legislativo hanno posto la fiducia. Teoricamente si sarebbe potuto intervenire alla Camera dei deputati, visto che è questo il lato positivo del bicameralismo (consustanziale alla “Costituzione più bella del mondo”, anche se ora va di moda oltraggiarlo). Obiettano: così si sarebbe arrivati all’esercizio provvisorio. Primo: non è una tragedia. Secondo: meglio quello delle norme abborracciate e sbagliate. Niente. La mattina dopo l’approvazione definitiva ecco Renzi: è un errore, va corretto. Poteva accorgersene prima. Sarebbe bastato leggere.

La stessa mattina, però, il Corriere della Sera pubblica una nota firmata da Yoram Gutgeld, consigliere economico del medesimo Renzi, il quale sostiene che non solo non è un errore, ma un’ottima e giusta cosa, una conquista fiscale e semplificatoria (!?). Ovviamente dissento, avendo sostenuto il contrario, ma mi educarono a rispettare opinioni e tesi altrui, salvo confutarle. Qui, però, il problema è che due opinioni opposte risiedono in due stanze attigue, a Palazzo Chigi. La domanda è: stanno parlando dello stesso testo? Oppure, nel caos, hanno ancora in mano bozze e riassuntini diversi? Difficile credere che Gutgeld potrà consigliare la correzione di quello che gli sembra ben fatto. Ma, allora, chi si sbaglia? È comunque disdicevole la dottrina per cui le leggi si fanno insalsicciando di tutto, anche a caso, salvo poi intervenire con altre leggi per correggerne i più macroscopici errori. Si deve a tale dottrina la non credibilità e affidabilità delle leggi. Il tutto senza dimenticare che si continua a dare per fatta la diminuzione della pressione fiscale, il che non trova fondamento nel testo e, con ogni probabilità, serve ad alimentare una suggestione. Occhio, perché poi si trasforma in disillusione. Difficile da indirizzare.

Renzi ha fatto riferimento anche all’Ilva, altro tema qui sollevato, avvertendo noi che si sta andando in direzione opposta al necessario, nazionalizzando laddove si dovrebbe privatizzare. Ha detto che l’Unione europea non può impedirci di salvare i bambini di Taranto. Siamo abituati alle parole e ai toni della propaganda, ma queste superano il tollerabile. Sembra il piccino cui la mamma non compra i balocchi, salvo che è cresciutello e vuole imporsi per ruzzare, ma senza che la mamma smetta di dilapidare in profumi e il babbo scommettendo all’ippodromo. Invocare il superamento di parametri agitando l’immagine dei bimbi equivale a dire che non si è capaci di porre limite alcuno ai loro dissennati genitori. Si è sodali degli sperperanti, tentando di far credere che i cattivoni stiano altrove. Forse Renzi non lo ha chiaro, ma è esattamente questa la ragione per cui la legge di stabilità non solo non cambia affatto verso, ma fa il verso al peggio del passato. Pur al netto degli strafalcioni. Suggerisco un criterio facile: finché non sarà tagliata la spesa pubblica è escluso che scenda la pressione fiscale, senza che cresca il debito. Statalizzare l’Ilva è l’opposto.

A pagare il conto più salato saranno le partite Iva

A pagare il conto più salato saranno le partite Iva

Davide Giacalone – Libero

Al celebrato «popolo delle partite Iva» arriva la polpetta avvelenata. Gli obiettivi annunciati erano: a) diminuzione della pressione fiscale; b) semplificazione; c) elasticità. La legge di stabilità impone gli opposti. Prima 30.000 euro era il limite massimo entro cui forfettizzare un prelievo del 5%, ora si scende alla metà (15.000), ma con aliquota al 15%. Il reddito, però, è tassabile al 78%, supponendo costi al 22. Supposizione frutto di esoterismo burocratico, basata sul nulla, il cui unico effetto sarà quello di mettere fuori mercato le iniziative coraggiose di chi si spende oggi per guadagni futuri. Dovendo mettere fra i costi un fisco che non tassa solo il profitto, ma anche quel che si spende per raggiungerlo, chiuderanno bottega. Impoverendoci tutti.

Con il vecchio sistema forfettario un reddito autonomo di 30.000 euro ne pagava 1.500 di Irpef, con il nuovo ne pagherà 7.000. Queste stesse partite lva, inoltre, scopriranno che non conviene più il regime forfettario, talché sarà saggio tornare a quello ordinario. ll tutto mettendo nel conto anche la crescita della pressione previdenziale, generata dalla gestione separata Inps: 2 punti in più nel 2015, poi uno in più all’anno, fino a toccare il 33,72%. Morale: la promessa diminuzione della pressione fiscale ha generato il suo incremento e l’annunciata semplificazione ha partorito le complicazioni.

Veniamo all’elasticità: per quanto sembri strano, è la guancia su cui è stato assestato il più bruciante ceffone. Il governo aveva annunciato di voler puntare sull’elasticizzazione del mercato del lavoro, premiando chi ha meno protezioni con meno oneri e meno vincoli. Ricordate la storia di Marta? La giovane precaria cui si voleva assicurare una maternità serena, evitando che sia un privilegio delle sole lavoratrici dipendenti a tempo indeterminato? Ebbene, la Marta che ha una partita Iva non solo non ha alcuna protezione, avrà una maternità interamente a proprio carico,e contabilizzerà come minor reddito il tempo in cui non lavorerà. Ora pagherà più tasse e non potrà più scalare dal reddito tutte le spese sostenute per l’attività, ma solo il 22%. Volevano festeggiare Marta, l’hanno conciata per le feste.

Con il Jobs act si vuol portare maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, ma intanto si bastona chi ne è l’incarnazione. Il lavoratore autonomo porta sulle proprie spalle l’intero carico del rischio e modula il proprio lavoro in rapporto alle esigenze del cliente. Per questo non ha un orario di lavoro, dato che potrebbe semplicemente non avere mai sosta. Questo esercito di lavoratori (circa 6 milioni e mezzo) rende ancora fluido il sangue che circola nel corpo produttivo. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è quella che si è fatta: punirlo.

Conosco a memoria (se non altro per esperienza diretta) il copione della polemica inutile: i lavoratori dipendenti pagano le tasse, mentre gli autonomi le evadono. Nessuna delle due cose è vera. I lavoratori dipendenti possono evadere le tasse, ad esempio i docenti facendo ripetizioni private in nero. Mentre i controlli sugli autonomi sono severi. Certo che c’è l’evasione fiscale, ma il conto reso intollerabilmente salato dalla legge di stabilità non lo pagheranno mica gli evasori, bensì le persone per bene. Fino a rompere l’elastico. La ciliegina sulla torta, la beffa dopo il danno, è il sentire i governanti continuare a pavoneggiarsi: abbiamo diminuito la pressione fiscale. È falso per tutti. Per i lavoratori autonomi è vero il contrario: è cresciuta e crescerà. Tutto per finanziare la spesa pubblica corrente, che continua intonsa la sua corsa verso l’abisso.

I professionisti nuovi poveri, redditi sotto i 30mila euro

I professionisti nuovi poveri, redditi sotto i 30mila euro

Giuseppe Bottero e Marco Sodano – La Stampa

Studiate: conquisterete una posizione, la solidità economica. Potrete entrare nel mondo dei professionisti tra notai, architetti, avvocati, ingegneri. Poi la crisi che ha cambiato il mondo ha cambiato anche questo mondo e nel 2015 il reddito medio dei professionisti italiani si fermerà sotto i 30 mila euro, dopo essere già sceso, negli ultimi sette anni, del 15% con punte che arrivano al 24. Significa aver visto sfumare un quarto dei propri guadagni.

È il dramma parallelo a quello della disoccupazione: quello dei poveri che lavorano, le persone che guadagnano meno di 6,9 euro l’ora. E tra questi i professionisti giovani, che continuano a crescere – nel corso del 2013 gli iscritti agli ordini in Italia sono aumentati del 15,7% – ma guadagnano sempre di meno, sfiorano il limite della sussistenza. Per Andrea Camporese, segretario dell’Adepp «il sistema sta costruendo una grande platea di poveri, pensionati che non riusciranno a vivere. Non porsi questo tema oggi è molto grave». E in questo panorama preoccupa soprattutto l’ultima leva: gli incassi chi ha meno di quarant’anni sono inferiori del 48,4% rispetto a quelli dei colleghi over 40. Se i più anziani ed esperti già patiscono la crisi, chiaro che per i nuovi arrivati è il disastro. Giusto che la retribuzione premi l’esperienza, ma quando la distanza arriva ad allargarsi tanto è evidente che il sistema s’è incagliato. Ci sono senz’altro molti ex precari, nella nuova leva dei professionisti: sono stati i pilastri instabili della «generazione mille euro» poi sono messi in proprio, nella maggior parte dei casi più per necessità che per scelta.

I poveri che lavorano sono tanti e soprattutto sono in crescita: rappresentano l’11,7% del totale degli occupati. E la percentuale sale al 15,9% se si allarga l’insieme a quello che contiene le partite Iva. Si arriva alla cifra di 756 mila persone che, semplicemente, non ce la fanno. «A differenza del passato il fenomeno riguarda anche autonomi con dipendenti e i lavoratori più istruiti» racconta Silvia Spattini del centro studi Adapt. Intanto è facile prevedere che la battaglia per la sopravvivenza si farà ancora più dura perché nell’arena stanno entrando anche i cinquantenni usciti dal lavoro e pronti a mettersi in proprio, con un tesoretto in tasca e la possibilità di giocare sui prezzi, abbattendoli.

Ultima doccia gelata, il mancato stop all’aumento dei contributi Inps per gli iscritti alla gestione separata. Dal primo gennaio, infatti, supererà il 30 per cento e poi, gradualmente, raggiungerà il 33%. «I freelance sono l’unica categoria penalizzata, alla faccia del governo sensibile ai giovani e al lavoro del futuro», dice Anna Soru, presidente di Acta, sorta di sindacato di quella che il New York Times, ha ribattezzato “creative class”. Sono soddisfazioni.

La riforma del lavoro e l’orizzonte da guardare

La riforma del lavoro e l’orizzonte da guardare

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Li “scarteremo” sotto l’albero. I decreti attuativi del Jobs act sono in fase di elaborazione avanzata e verranno divulgati nel Consiglio dei ministri di mercoledì. Alle parti sociali è stato detto poco. C’è il sospetto che, via via che si entra nel dettaglio delle complessità del mercato del lavoro, la riforma prenda atto dei rischi possibili se l’approccio è poco sistemico e troppo contingente. Il contratto a tutele crescenti fa il conto con la fatidica soglia dei 15 dipendenti e costringe il Governo a pensare a una forma “scontata” per gli indennizzi a carico delle piccole imprese, altrimenti penalizzate dalla nuova disciplina. E ciò naturalmente riproporrà una nuova forma di dualismo nel mercato che già sconta quello tra vecchi e nuovi assunti perché la riforma non si è spinta fino a generalizzare le nuove regole. E si affianca all’altro dualismo tra contratti a termine, versione riforma Poletti, e i contratti a tempo indeterminato senza contribuzione che il Governo vuole più convenienti e che entreranno in vigore dal 1° gennaio.

Il pendant del superamento dell’articolo 18 è la creazione di nuovi ammortizzatori sociali e il disboscamento delle forme di precariato. Ma anche in questo caso sono possibili rischi di incongruenza. L’aver annunciato di voler superare i contratti di collaborazione e, allo stesso tempo, di volerli includere tra i possibili beneficiari del nuovo ammortizzatore sociale universale (l’Aspi) non sembra improntato a coerenza e, soprattutto, rischia di avere un costo che nessuna Ragioneria generale potrà mai bollinare. La riforma è un importante passo avanti; va però inserita in un orizzonte più generale. È tempo di ripensare l’idea di ammortizzatori sociali che ha portato ai paradossi di lavoratori con anzianità aziendale di 20 anni dei quali solo 6 o 7 lavorati effettivamente. Non ha senso immaginare vite lavorative fatte di un rosario di cassa integrazione ordinaria, straordinaria, contratti di solidarietà, mobilità, mobilità lunga, prepensionamenti. La riforma deve diventare l’occasione per rendere efficiente il mercato del lavoro e viverlo come tale, un bacino dove si creano e si distruggono posizioni in continuazione, e dove conta facilitare al meglio l’incontro tra domanda e offerta tramite la collaborazione tra pubblico e privato. Più facile a dirsi che a farsi. Ma il riformismo vero sta tutto nel far coincidere il detto con il fatto.