lavoro

La flessibilità che serve per creare occupazione

La flessibilità che serve per creare occupazione

Danilo Taino – Corriere della Sera

C’è un numero che colpisce nelle statistiche sul mercato del lavoro di Eurostat. Dice che, alla fine del terzo trimestre del 2014 , gli italiani «disponibili per il lavoro ma che non lo cercano» (e che quindi non entrano nelle statistiche della disoccupazione) erano il 14,2% del totale della forza lavoro; in crescita dell’ 1,1% rispetto a un anno prima. In assoluto è la quota più alta nella Ue, la cui media è il 4,1% . In Germania, per dire, la percentuale è 1,2 , in Gran Bretagna 2,2 , in Spagna 5,0.

La prima considerazione che il dato solleva è che la disoccupazione italiana è dunque di parecchio più alta del tasso ufficiale – 13,4% lo scorso novembre – che Eurostat calcola secondo i criteri stabiliti dall’Ilo, l’Ufficio internazionale del lavoro. C’è insomma un gruppo di persone, più consistente che negli altri Paesi, che non cerca un’occupazione anche se sarebbe nelle condizioni di farlo: su scala europea, si tratta per il 57,4% di donne e probabilmente questa maggioranza di genere è ancora più accentuata in Italia.

Una seconda considerazione, più interessante, parte dal fatto che queste persone hanno ragioni strutturali e stabili per non cercare lavoro: ritengono che esso non sia disponibile, preferiscono occupazioni in nero, svolgono funzioni domestiche a cominciare dalla cura dei figli, mostrano ritrosie culturali. Di base, però, a scoraggiare la ricerca di un’occupazione è la rigidità del mercato del lavoro stesso. Quando, nei primi Anni Duemila, la Germania riformò il sistema delle garanzie all’occupazione e introdusse una dose di flessibilità nella tipologia dei contratti, aprì le porte a centinaia di migliaia di studenti e soprattutto di casalinghe che non avevano mai ufficialmente cercato un lavoro ma che, di fronte all’opportunità, entrarono nel sistema produttivo. Il numero di persone impiegate, che fino al 2006 non aveva mai superato i 40 milioni , oggi supera di molto i 42 milioni. I posti così creati sono in gran parte mini-job e dunque hanno retribuzioni basse; ritenute però interessanti da questi soggetti. Uno sviluppo che in parallelo ha reso le imprese più disponibili a creare posizioni, prima inesistenti, adatte alla nuova offerta di lavoro. Non sempre, dunque, è una variazione nella domanda che arriva dalle imprese a creare occupazione. Molto spesso, sono i cambiamenti nell’offerta i fattori che la creano. E, con essa, reddito e ricchezza.

Mancano ancora le politiche attive e i soldi per finanziarle

Mancano ancora le politiche attive e i soldi per finanziarle

Gianni Bocchieri – Libero

Con l’individuazione di criteri di delega tanto ampi, per il giudizio sulla portata riformatrice del Jobs act si è attesa l’emanazione dei primi decreti delegati. La definizione del contratto a tutele crescenti è avvenuta con un provvedimento che non consente di superare tutte le possibili obiezioni. Innanzitutto, non è stata superata la segmentazione del mercato del lavoro, determinandone un’altra: da una parte ci saranno i lavoratori per cui vale il precedente articolo 18 e dall’altra i nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti. Inoltre, non è ancora chiaro come la flessibilità in uscita sarà opportunamente bilanciata da un sistema di politiche attive.

Le maggiori perplessità permangono sulla riforma delle forme di sostegno al reddito che dovrà portare al superamento dei vecchi ammortizzatori sociali. Infatti, non è ancora chiaro su quali funzioni e su quali strutture poggeranno le politiche passive nel loro incrocio con quelle attive. I provvedimenti delegati fanno indistintamente riferimento ai Centri per l’impiego e alle agenzie pubbliche o private accreditate, in un contesto organizzativo dopo l’abolizione delle Province.

Ma non era nemmeno necessario aspettare i decreti delegati per confermare il sospetto che manchino le risorse per la riforma del mercato del lavoro. Lo stanziamento previsto dalla legge di stabilità, pari a 2,2 miliardi per il 2015, non è sufficiente a coprire il fabbisogno, né per le politiche passive né per quelle attive. Ora, alla certezza della insufficienza delle risorse attuali, si aggiunge anche l’incertezza per quelle future: per tutte le misure si afferma che la copertura per gli anni successivi al 2015 deve avvenire tramite le risorse stanziate per gli altri provvedimenti attuativi del Jobs act, al momento sconosciute anche allo stesso governo.

Quando tutto l’assetto del Jobs act sarà definito, inclusa la riforma del Titolo V, con l’istituzione dell’Agenzia nazionale, il giudizio potrà essere più compiuto. La speranza è che non sia troppo tardi soprattutto se la nuova organizzazione del mercato del lavoro dovesse farci rimpiangere le vituperate Regioni e le soppresse Province. Ma non ci pare che qualcuno sia riuscito a dare una riposta positiva e convincente alla domanda che sorge spontanea: perché mai lo Stato dovrebbe riuscire a fare ora ciò che non è riuscito a fare fino al 1997, quando si è deciso di delegare i servizi all’impiego a Province e Regioni?

Garanzia Giovani, un flop

Garanzia Giovani, un flop

Simona D’Alessio – Italia Oggi

Il ministero del welfare certifica il «flop» della Garanzia giovani: a fronte di «366 mila registrati» al programma d’inserimento al lavoro e formazione (con una dotazione di oltre 1,5 miliardi di euro), infatti, «il 39% è stato preso in carico da centri per l’impiego e strutture private accreditate», ma «non possiamo dirci soddisfatti». Ecco, perciò, spiegata la partenza della cosiddetta «fase 2» del piano, per stimolare scuole e imprese, affinché le misure per strappare dall’inattività gli under 29 vengano efficacemente realizzate. È lo stesso titolare del dicastero di via Veneto, Giuliano Poletti, a dare il polso della situazione del programma di matrice europea, la cui gestione e affidata alle regioni, iniziato ufficialmente il 1° maggio scorso, rispondendo ieri, nell’Aula di Montecitorio, a una interrogazione di Emanuele Prataviera (Lega Nord) sui costi dell’intervento nato con l’obiettivo di assicurare un posto di lavoro, un contratto di apprendistato, un tirocinio, o un iter di apprendimento ai ragazzi non ancora trentenni «entro quattro mesi dall’entrata in disoccupazione, o dalla fine di un percorso di istruzione».

L’autocritica per il mancato successo della Garanzia giovani, a meno di una settimana dalla diffusione delle cifre impietose sui senza impiego da parte dell’Istat (a novembre 2014 il tasso nella fascia 15-24 anni balza al 43,9%, in rialzo di 0,6 punti percentuali su ottobre, ndr) è preceduta da una puntualizzazione: l’Italia è il secondo paese dopo la Francia che in Europa ha visto approvare il suo programma. Tuttavia, otto mesi dopo l’avvio della possibilità di registrarsi sul sito nazionale (www.garanzia-giovani.gov.it) o sui portali regionali, ad oggi hanno aderito in «366mila, e 128mila sono stati presi in carico dai centri per l’impiego e dai privati accreditati», pari al 39%.

E quanto alla spesa, prosegue Poletti, «prevedendo l’intervento superi i 500 mila giovani, il costo medio» per ciascuna delle persone raggiunte dovrebbe aggirarsi «intorno ai 3 mila euro», mentre nella campagna pubblicitaria nelle sale cinematografiche sono stati investiti «145 mila euro». A fronte di ciò, «non diciamo che la montagna ha partorito un costoso topolino, ma neanche che siamo soddisfatti», osserva, puntando i riflettori sulle modifiche in corso d’opera, giacché «il governo, il ministero e le regioni hanno avviato quella che è stata definita una “fase 2” del progetto», che si augura «attraverso l’attivazione di rapporti con scuole, sistemi d’impresa e meccanismi di comunicazione con i giovani» possa «migliorare le performance» della Garanzia giovani.

Restyling in vista anche per il nuovo regime dei minimi; il ministro, confermando quanto annunciato giorni fa dallo stesso premier Matteo Renzi, dichiara che l’esecutivo prende atto che gli interventi nella legge di Stabilità «possono incidere», come il- lustrato nell’interrogazione di Tiziana Ciprini (M5s), «negativamente su alcune categorie di lavoratori autonomi, giovani professionisti e free-lance». E si prepara ad adottare «rapidamente un testo correttivo».

Il taglio dell’Irap è inutile per lo sviluppo

Il taglio dell’Irap è inutile per lo sviluppo

Massimo Blasoni – Panorama

In Italia non mancano le imprese virtuose, che ottengono ottimi risultati e incrementano l’occupazione. Quello che manca sono semmai il sostegno della politica e la fiducia nella loro capacità di far ripartire il Paese. Per rendersene conto è sufficiente analizzare uno dei principali provvedimenti contenuti nella Legge di Stabilità: il taglio dell’Irap. Una misura sostanzialmente lineare che si applica a tutte le imprese con dipendenti a tempo indeterminato: certamente utile per le aziende «labor intensive» ma che sconta l’errore di non finalizzare l’intervento a beneficio di chi ha il coraggio di fare investimenti.
Per capire quanto questa misura rischi di essere debole basta analizzare il suo impatto concreto sulle nostre imprese. Il beneficio fiscale sarà nell’ordine di 400 euro annui a lavoratore. Larga parte delle imprese italiane occupano oggi fino a tre dipendenti (fonte Istat): ciò significa una minore pressione fiscale annua di 1200 euro ad azienda, circa 100 euro al mese. È evidente che si tratta di una cifra né in grado di stimolare investimenti né di salvare aziende in difficoltà.
Da imprenditore rimango convinto che una vera spinta alla crescita si otterrebbe soltanto rendendo beneficiari della misura unicamente coloro che effettivamente investono in innovazione, ristrutturazioni e ampliamento delle aziende. Certo si ridurrebbe la platea dei beneficiari ma si otterrebbero effetti reali sulla crescita. L’intervento pubblico (anche se in forma di riduzione delle imposte) va indirizzato con certezza allo sviluppo, altrimenti si rivela soltanto un inutile dispendio di risorse: gli effetti degli 80 euro, al di là di ogni teoria economica, sono lì a dimostrare proprio questo.
C’è un ultimo aspetto: lo sgravio Irap produrrà effetti sul bilancio delle aziende solo nel 2015, dunque sulle imposte pagate a giugno e novembre 2016. Gli interventi in economia hanno un senso soltanto se immediati e invece da qui al 2016 potrebbe ricambiare tutto: anche le regole del gioco. Non sarebbe purtroppo la prima volta. L’attuale abbattimento Irap assorbe e cancella la riduzione del 10% già prevista dal cosiddetto “DL Irpef” di Aprile 2014. Un provvedimento, quest’ultimo, che come molti altri è stato solo un annuncio: prima approvato e poi eliminato senza che nessuno avesse la possibilità di beneficiarne.
Tutele crescenti, chi le ha viste?

Tutele crescenti, chi le ha viste?

Mario Fezzi – Corriere della Sera

Il primo decreto attuativo della legge delega sul Lavoro viene definito «a tutele crescenti» dallo stesso governo, ma di tutele crescenti in verità non c’è traccia. L’aumentare dell’indennità risarcitoria con il crescere dell’anzianità aziendale non può essere considerato una crescita di tutele, ma solo un aumento proporzionale dell’indennità. Con questo decreto il sistema previsto dall’art.18 dello Statuto dei lavoratori viene rottamato e ne viene introdotto uno nuovo basato sul pagamento di un’indennità risarcitoria.

La reintegrazione resta solo per i licenziamenti discriminatori (inesistenti nella realtà processuale), per quelli orali e per quelli disciplinari basati su un fatto materiale che venga dimostrato come non accaduto o non determinatosi. Attenzione, però: si esclude che il giudice possa valutare la proporzionalità del fatto disciplinare addebitato. Ciò significa che l’addebito di un fatto vero, ma disciplinarmente irrilevante (portarsi a casa una matita, fare una telefonata personale con l’apparecchio aziendale, utilizzare per 5 minuti il pc aziendale per uso personale, prolungare di poco la pausa pranzo, etc.) se dimostrato vero come fatto storico materiale impedisce al giudice di valutare la congruità della sanzione rispetto alla mancanza addebitata. In altre parole, il giudice non può dire che non si può licenziare un dipendente solo perché ha fatto una telefonata o ha tardato 5 minuti al rientro dal pranzo. Il giudice, se il fatto risulta vero, deve dichiarare risolto il rapporto di lavoro.

Nel caso di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e soggettivo e per giusta causa, se il giudice ritiene che il licenziamento sia illegittimo deve condannare al pagamento di un’indennità pari a due mesi per ogni anno di servìzio (con un minimo di 4 e un massimo di 24). Se il licenziamento è illegittimo per vizi formali (mancanza di motivazione, di contestazione del fatto disciplinare, etc.) il giudice deve condannare a un’indennità tra 2 e 12 mensilità, sempre partendo dalla base di un mese per ogni anno di servizio. Per i licenziamenti collettivi è stato previsto lo stesso regime di quelli per giustificato motivo e per giusta causa. Anche se super illegittimi non danno luogo a reintegrazione ma solo a una indennità, secondo l’anzianità aziendale, tra 4 e 24 mensilità.

Una novità assoluta è poi l’offerta di conciliazione da parte del datore di lavoro. Dopo aver licenziato un dipendente può fargli un’offerta di un’indennità di un mese per ogni anno di anzianità (con un minimo di 2 e un massimo di 18); se il lavoratore accetta e rinunzia ad impugnare il licenziamento, questa indennità è totalmente esente da imposte e da contributi. Il che sembra dare un vantaggio ingiustificato, in danno di coloro che ritengono di voler comunque impugnare il licenziamento, in caso di conclamata illegittimità. Come detto all’inizio, di tutele crescenti non c’è traccia. Si parlava invece di tutele crescenti per il contratto a tempo indeterminato che per i primi 3 anni prevedeva una indennità in caso di licenziamento illegittimo e a partire dal terzo anno invece doveva prevedere la reintegrazione con l’applicazione integrale dell’art. 18. Questo tipo di tutele crescenti è completamente scomparso.

Per concludere credo si possa dire che questo nuovo sistema non può produrre nuova occupazione. Nuova occupazione potrebbe derivare dall’altra norma della legge di Stabilità 2015 che rende conveniente assumere con contratto a tempo indeterminato a causa dello sgravio contributivo nei primi tre anni. Ma allora era sufficiente introdurre questo sgravio, lasciando l’art.18 al suo posto. Se poi i nuovi contratti a tempo indeterminato saranno, come è probabile, in numero uguale ai contratti a termine che non verranno rinnovati o costituiti, per la maggior convenienza economica del primo tipo, il sistema si consoliderà a somma zero; e nessuna nuova occupazione risulterà nemmeno da questa operazione.

Crisi: ImpresaLavoro, con l’euro sono peggiorati tutti gli indicatori

Crisi: ImpresaLavoro, con l’euro sono peggiorati tutti gli indicatori

Repubblica.it

Dall’avvento dell’euro ad oggi tutti i principali indicatori della condizione economica del nostro Paese sono nettamente peggiorati: la disoccupazione è passata dal 9 al 13%, il rapporto debito/Pil è cresciuto di più di venti punti percentuali mentre l’Istat ha appena certificato come il rapporto deficit/Pil sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%. Ad evidenziarlo il Centro studi di ‘ImpresaLavoro’ che azzarda anche un irriguardoso paragone calcistico: se si giocasse oggi Italia-Germania non finirebbe certamente 4 a 3 come nell’epico scontro dell’Azteca. I tedeschi, infatti, ci batterebbero oggi 7 a 0.

A tanto ammontano gli indicatori che il Centro studi ImpresaLavoro ha analizzato prendendo come base di partenza il 2001 (ultimo anno prima dell’entrata in circolazione dell’euro) e confrontandolo con gli ultimi dati disponibili. Ne esce un quadro chiaro nella sua drammaticità: l’euro – evidenzia l’istituto – ha fortemente avvantaggiato la Germania aumentando il divario con l’Italia e le rigidità che ci sono state imposte dalla moneta unica ci hanno impedito la flessibilità necessaria a fare riforme importanti in un tempo di crisi.

La moneta unica risulta determinante è nelle esportazioni. L’export tedesco ha visto salire il suo valore nominale dell’84,3% mentre quello italiano è cresciuto del 32,3%: mentre prima della moneta unica quindi l’export tedesco valeva il doppio di quello italiano, oggi vale quasi tre volte tanto (2,8 volte).

Quanto alla disoccupazione, in Germania i senza lavoro sono scesi di 2,2 punti mentre la nostra disoccupazione ha fatto segnare un’impennata del 4,4%. Se prima dell’euro il tasso di disoccupazione italiano era del 20% più elevato di quello tedesco, oggi per ogni disoccupato in Germania ce ne sono addirittura tre nel Belpaese.

Sul lavoro Renzi arranca

Sul lavoro Renzi arranca

Metro

«Il governo Renzi non fa bene al lavoro, ottenendo nei suoi primi nove mesi di attività risultati decisamente peggiori di quelli conseguiti nel medesimo periodo di tempo dai governi Berlusconi IV e Letta». Lo sostiene una ricerca del centro studi “ImpresaLavoro” (www.impresalavoro.org) realizzata elaborando i dati delle serie storiche dell’Istat sulla disoccupazione. Dal giorno del suo insediamento i disoccupati sono aumentati di 203mila unità, passando da 3 milioni 254mila a 3 milioni 457mila. «Un risultato nettamente peggiore – sottolinea la ricerca – rispetto a quello dei primi nove mesi del quarto governo Berlusconi (aprile 2008 – gennaio 2009), che ha visto crescere la disoccupazione di “sole” 19mila unità, e dei primi nove mesi del Governo Letta (aprile 2013 – gennaio 2014) che si è fermato ad un saldo di più 165mila senza lavoro». Peggio dell’ex sindaco di Firenze – evidenzia il centro studi “ImpresaLavoro” – ha fatto solo il “Governo dei Professori”: nei primi nove mesi di Monti-Fornero (ottobre 2011 – luglio 2012) il numero dei disoccupati in Italia ha infatti avuto un’impennata senza precedenti, crescendo di 605mila unità (da 2 milioni 183mila a 2 milioni 788mila). Il risultato peggiore di Renzi è nel numero di donne senza occupazione, aumentate di 145mila unità.

Cinquecentomila pensionati-lavoratori in più

Cinquecentomila pensionati-lavoratori in più

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

Qualche giorno fa il Centro studi di Confindustria ha rilevato come negli anni della crisi il numero di occupati più anziani (tra i 55 e i 64 anni) sia aumentato mentre diminuiva quello dei più giovani (25-34enni): il primo è cresciuto dí 1,1 milioni e il secondo è sceso di 1,6 milioni. Un incremento del 8,9% ,tra il 2007 e il 2013, che è il quarto più sostenuto dopo quello registrato negli stessi anni in Germania (12,2%), Polonia 00,9%) e Paesi Bassi (+9,2%). Nonostante questo incremento di lavoratori senior, si faceva notare nell’analisi firmata da Giovanna Labartino e Francesca Mazzolari, il tasso di occupazione italiano resta basso per queste fasce di età: 42,7% contro il 59,8% inglese, il 60,8% dei Paesi Bassi, il 63,5% della Germania.

In uno studio presentato in un recente convegno sui temi della previdenza in Senato, un giovane ricercatore dell`Università la Sapienza diRoma, Fabrizio Patriarca, ha fatto un passo in più mettendo in fila i numeri che fotografano la crescita dei pensionati (percettori di una pensione previdenziale) che durante la crisi hanno deciso di continuare a lavorare. I risultati sono sorprendenti. Tra il 2007 e il 2012 i pensionati oltre i 60 anni che lavorano sono aumentati di 556mila unità. Secondo i dati Istat proposti da Patriarca nel 2012 i pensionati che lavorano sono arrivati a quota 1.976.810 e i 556mila in più sono cosi distribuiti: 241mila (+12,6%) di età compresa tra i 60 e i 64 anni e 315mila ultrasessantacinquenni (+3%).Guardando alle fasce di età si scopre che due anni fa lavorava il 27,7% dei pensionati di età compresa tra i 60 e i 64 anni, praticamente uno su tre. Mentre il rapporto si fermava al 12,6% tra i 65-75enni e al 3,1% per gli over 75.

Altra evidenza interessante: i tassi di occupazione dei pensionati crescono al crescere del loro reddito, il che significa che il cumulo tra pensione e reddito da lavoro non rientra nelle strategie adottate per rafforzare deboli poteri di acquisto durante la crisi. Infatti si passa da un 10,2% di pensionati over 60 che lavorano sul totale dei pensionati con classe di reddito tra i 500 e i 2mila euro al mese al 13,5% di quelli con redditi tra 2 e 3mila euro al mese fino al 23,9% per chi sta sopra i 3mila euro al mese. In questa fascia alta, dunque, un pensionato over 60 su quattro continua a lavorare. I dati raccolti da Patriarca su fonti Istat, Inps e ministero del Lavoro rappresentano naturalmente una stima per difetto, che non comprende i pensionati che lavorano in nero.

Il quadro che esce dai due studi ci ripropone l’immagine di un mercato del lavoro fitto di contraddizioni: un basso tasso di occupazione dei 55-64enni rispetto ai paesi con politiche attive assai più strutturate, un elevatissimo tasso di disoccupazione giovanile e un esercito di pensionati che continua a lavorare (il 12,3% sui 16,1 milioni contabilizzati dall’Inps nel 2012). I nuovi requisiti pensionistici in vigore dal 2012 faranno salire ancora di più, nei prossimi anni, il tasso di occupazione di questa fascia di età che è in realtà in crescita dal Duemila visto che le coorti che entrano nella classe degli over 55enni sono caratterizzate da una scolarizzazione più elevata che ne ha ritardato l’ingresso nel mercato del lavoro e in futuro ne ritarderà l’uscita.

FCA assume, il successo delle riforme

FCA assume, il successo delle riforme

Gaetano Pedullà – La Notizia

Chi dice ancora che le riforme servono a poco, che tanto questo Paese è infetto e prima di cambiare le nostre regole c’è sempre qualcos’altro di più urgente da fare, si fermi a contare fino a milleecinquecento. Tanti sono i posti di lavoro che la Fca (il nuovo nome della Fiat) attiverà nel giro di poche settimane in Italia. Ora è chiaro che Marchionne, per quanto possa essersi legato a Renzi, mai avrebbe annunciato un tale piano se dietro non ci stava il successo commerciale di alcuni modelli (ed era ora che la Fiat ricominciasse a farne di appetibili per il mercato!). Ma la possibilità di utilizzare strumenti nuovi, come quelli previsti dal Jobs Act, ha dato certamente una spinta in più. Gli investitori esteri d’altronde è questo che vogliono: regole chiare e comparabili sul piano internazionale, oltre ad alcune condizioni di base come le infrastrutture, l’accesso al credito e la sicurezza. Pensiamo allora a quanti altri investimenti guadagneremmo se le riforme procedessero più spedite e se dopo quelle non sempre drastiche del primo anno di governo Renzi riuscissimo a farne altre più decise ed efficaci. Insieme alla Fiat qui tornerebbe a fare impresa tutto il mondo.

Assenteismo PA, costo 3,7 miliardi

Assenteismo PA, costo 3,7 miliardi

Nicoletta Picchio – Il Sole 24 Ore

Un risparmio di 3,7 miliardi di euro, a cui si aggiungerebbe, come conseguenza, una maggiore efficienza e qualità dei servizi. È un traguardo che si potrebbe raggiungere nel settore pubblico portando l’assenteismo allo stesso livello del settore privato. Sono i calcoli di un’analisi del Centro studi di Confindustria: nel 2013, anno preso in esame, i dipendenti del settore pubblico hanno totalizzato in media 19 giorni di assenze retribuite, secondo i dati della Ragioneria generale dello Stato, 6 in più di quanto rilevato nel mondo Confindustria per un gruppo di dipendenti comparabile. L’assenteismo nel pubblico risulta quindi del 46,3% più alto rispetto ai 13 giorni di assenze retribuite rilevate dall’indagine per gli impiegati delle imprese associate a Confindustria con oltre 100 addetti (gruppo che per qualifica e dimensione è comparabile al pubblico impiego). Portarlo al livello di quello privato comporterebbe un risparmio di 3,7 miliardi, attraverso un minor fabbisogno di personale.

Nello studio del Csc, messo a punto da Giovanna Labartino e Francesca Mazzolari, emerge che l’incidenza delle assenze nel mondo Confindustria è in calo: il peso delle ore di assenza sulle ore lavorabili si è attestato nel 2013 al 6,5% ; 0,5% in meno rispetto al 7% dell’anno precedente. L’incidenza rimane più alta nelle imprese più grandi, 7,2 in quelle con più di 100 addetti; 4,5% in quelle fino a 15. La malattia non professionale, cioè l’influenza, è il motivo di assenza più frequente (3,1% delle ore lavorabili) seguito dai congedi parentali e matrimoniali (1,3%) e dagli altri permessi retribuiti, che includono i permessi sindacali e quelli per visite mediche o di accompagnamento parentale (un altro 1,1%). Nel settore pubblico nel 2013 ai 10 giorni di assenza procapite per malattia se ne sono aggiunti 9 di altre assenze retribuite. L’indagine di Confindustria sul lavoro nel 2013 allarga il raggio anche alla diffusione dei contratti aziendali e dei premi variabili. Nell’industria in senso stretto nel 2013 due lavoratori su tre erano coperti da un accordo aziendale; una quota che sale a 5 lavoratori su 6 nelle imprese associate con almeno 100 dipendenti. La contrattazione aziendale è meno diffusa nei servizi, dove i lavoratori coperti erano il 56,9% (68% nelle imprese più grandi).

Analizzando in particolare le imprese industriali la quota con contratto aziendale passa dal 34,4 e 34,3% del Nord-Ovest e del Nord-Est al 28,1% del Centro, Sud e Isole. In ogni caso la contrattazione di secondo livello è aumentata rispetto al 2012: in base ai dati di un campione, la quota che ha applicato un contratto aziendale è cresciuta dal 26,8% al 30,1% e la percentuale dei lavoratori coperti dal 60,5% al 62,6 per cento. Per quanto riguarda i premi variabili sono stati erogati dal 70,5% delle imprese con contrattazione di secondo livello e dal 31,7% di quelle senza. La copertura dei premi variabili cresce con la qualifica: 52,5% tra gli operai, 56,3% tra gli impiegati e 63,4% tra i quadri. L’incidenza sulla retribuzione è mediamente simile e si attesta sul 5 per cento. Tra i dirigenti, solo poco più di un quarto li riceve ma, se erogati, rappresentano mediamente il 15,6% della retribuzione media annua lorda.