lavoro

Un architetto under 40? In media guadagna la metà di un collega “anziano”

Un architetto under 40? In media guadagna la metà di un collega “anziano”

Isidoro Trovato – Corriere della Sera

Tecnicamente si chiama «Pay gap». È il baratro economico che separa i professionisti under 40 dai loro colleghi più anziani. Il divario dei redditi tra giovani e «maturi» ha ormai toccato quota 50,36%. È questo uno degli aspetti più eclatanti dei Rapporto sulla previdenza privata presentato oggi a Roma dal centro studi dell’Adepp (Associazione degli enti previdenziali privati). I giovani under 40, che nel 2007 dichiaravano un reddito medio di 23mila euro (lordi) fanno, oggi sono scesi a 21mila mentre gli over 40 si attestano ancora sopra i 43mila. Una gigantesca forbice che allontana mondi simili ma lontanissimi: distanze che si ampliano a dismisura se si analizzano i dati delle singole categorie.

Nel campo giuridico la differenza dei redditi tra giovani e anziani supera il 56% mentre nell’area delle professionì tecniche un architetto con meno di 40 anni dichiara in media 18mila euro (lordi) l’anno, il 34% in meno di un suo collega più anziano. In tal senso la crisi ha avuto un impatto diverso tra le varie professioni: nel mondo dell’avvocatura si è persino ridotto il gap tra giovani e anziani schiacciando tutti verso redditi più bassi. Prima della crisi infatti il reddito medio degli over 40 era di circa 75mila euro l’anno contro i 28mila dei colleghi più giovani, oggi il divario è sceso a 33mila euro. Diversa invece la dinamica nel gruppo delle professioni economiche, qui il divario generazionale si è ampliato: nel 2007 era al 55% mentre oggi è salito al 58%. Quindi dopo 7 anni i giovani commercialisti guadagnano 32mila euro l’anno in meno dei colleghi senior.

Effetti concreti su un mondo che in pochi anni si è trasformato (a volte disgregato) e fa fatica a trovare un equilibrio tra il suo fastoso passato (quando si parlava di caste e privilegi) e il suo magro presente in cui giovani che hanno studiato per anni, si sono specializzati, hanno superato ostacoli e trafile, oggi sembrano destinati (chi più chi meno) a una «vita spericolata» con pochi ammortizzatori sociali, un incerto futuro previdenziale e scarse certezze retributive.

Il part-time era un’opportunità, con la crisi diventa una condanna

Il part-time era un’opportunità, con la crisi diventa una condanna

Walter Passerini – La Stampa

In pochi anni è cresciuto del 40%, passando da tre milioni a oltre quattro milioni di persone, ma il suo cammino è lastricato di trappole. Il part time, vale a dire un orario di lavoro ridotto rispetto all’orario pieno, è passato quasi indenne dalle polemiche contro i finti contratti autonomi (lavoro a progetto, false partite Iva), ma viene spesso citato dalle statistiche nella sua versione di part time involontario, a definire un lavoro accettato in mancanza di alternative full time. Secondo l’Istat la riduzione di orario involontaria ha un’incidenza del 63,6% sul totale dei lavoratori a tempo parziale. La formula è tradizionalmente più femminile che maschile, anche se il mix sta cambiando. Che sia verticale, orizzontale, dipendente o indipendente, il part time oltre all’involontarietà nasconde un altro terribile segreto, figlio della crisi.

Lo hanno scoperto due ricercatori Istat, Carlo De Gregorio e Annelisa Giordano, che ne scrivono in un working paper passato del tutto inosservato: «Nero a metà, contratti part-time e posizioni full-time fra i dipendenti delle imprese italiane». Dietro il linguaggio delle cifre, i ricercatori rivelano e documentano una triste pratica, quella dei falsi part time. La formula è cresciuta molto in questi anni di crisi, in particolare nel Mezzogiorno, e ha coinvolto un numero crescente di uomini. Ma mentre in Germania, per esempio, la crescita del part time si accompagna alla crescita di tutta l’occupazione, in Italia si manifestano fenomeni inversi: il part time sembra una risposta autoctona, “all’italiana”, alla crisi. Come?

I ricercatori mettono sotto la lente un campione di 113mila lavoratori dipendenti, corrispondenti all’universo di 11,8 milioni. Ne emergono un paio di eclatanti incoerenze, che fotografano due situazioni speculari e opposte: i falsi part time e i falsi full time. Incrociando i dati delle ore lavorate con quelli economici e retributivi, i ricercatori hanno scoperto che “i falsi part-time mostrano una quota pro capite di ore lavorate di poco inferiore, ma una retribuzione netta oraria di oltre il 20% più bassa, un imponibile contributivo per ora lavorata pari a circa la metà e un rapporto fra imponibile e retribuzione netta inferiore di un terzo. Questi squilibri si accentuano nel caso della componente maschile e sembrano evidenziare sia la presenza di ore lavorate e non retribuite sia la presenza di ore retribuite fuori busta, cui corrisponde evidentemente un imponibile contributivo non dichiarato”. La quota maschile di falsi part time è arrivata al 40%.

Queste incongruenze rivelano che dietro il falso part time c’è un’evasione contributiva e retributiva. Il lavoro effettivo è a tempo pieno, ma le aziende versano contributi e retribuzioni ridotte. Viene retribuito regolarmente solo il 65-70% delle ore lavorate, il resto è al nero o non pagato, come se fosse una tassa per avere un lavoro. È la prova dell’incrocio di ricatti e connivenze, di risposte illegali ai costi delle imprese e al bisogno di lavoro dei lavoratori. Ai falsi part time si accompagnano i falsi full time. Perché dichiarare un orario pieno e in realtà lavorare di meno? Per le aziende ci sono vantaggi fiscali e la costituzione di una banca di ore al nero. Per un lavoratore facilitazioni nelle graduatorie, pur avendo lavorato meno o senza essere pagato. Tragica consolazione dover pagarsi in parte un lavoro o lavorare gratis, pur di avere un lavoro.

Tra luglio e settembre più assunzioni stabili

Tra luglio e settembre più assunzioni stabili

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

Nel suo altalenare ancora molto doloroso il mercato del lavoro del terzo trimestre 2014 manda qualche timido segnale di fiducia. I dati sulle assunzioni e le cessazioni diffusi ieri dal ministero del Lavoro con il sistema delle comunicazioni obbligatorie ci dicono infatti che tra luglio e settembre il saldo è stato positivo (2.474.112 avviamenti di nuovi rapporti di lavoro, +2,4%, contro 2.415.928 cessazioni, +0,9%).

I nuovi impieghi per lavoro dipendente o parasubordinato sono cresciuti di 60mila unità in 90 giorni e – come anticipato dallo stesso ministero venerdì passato in concomitanza con i dati Istat (ottobre tasso di disoccupazione al 13,2%; +0,3% mese su mese e +1% anno su anno) – sono cresciuti più degli altri i contratti a tempo indeterminato (+7,1%, pari a 26.504 unità in più), seguiti dagli apprendistati (+3,8% pari a 2.184 attivazioni) i contratti a termine (+1,8%; 30.721 unità) e le collaborazioni (+1%; 1.540 unità). Ma il bilancio tra attivazioni e cessazioni dei contratti a tempo indeterminato resta a favore di queste ultime: 483.027 i cessati contro i 401.647 attivati, mentre lo stesso saldo resta positivo (146mila unità circa) per i contratti a termine. Quando si leggono questi dati amministrativi bisogna sempre ricordare che i rapporti di lavoro attivati (o cessati) non corrispondono mai con il numero di lavoratori coinvolti, visto che in molti casi la stessa persona ha un rinnovo del contratto a termine scaduto (il 70% dei flussi in entrata e uscita è determinato dai contratti a termine). Così dietro i 2,4 milioni di attivazioni ci sono 1.917.932 lavoratori in carne ed ossa, in gran parte tra i 25 e i 44 anni di età.

Qualcosa di particolare è accaduto, nel periodo, nella scuola, caratterizzata per il 75% da attivazioni a tempo determinato. In questo comparto prima dell’inizio del nuovo anno scolastico sono calati i tempi determinati (-11,2% attivazioni rispetto al terzo trimestre 2013) e si è verificato un forte aumento del tempo indeterminato (+17.176 attivazioni). Nel contempo tra le cessazioni in questo settore emergono oltre 11.000 pensionamenti, con un aumento tendenziale di oltre il 36 per cento.

Guardando ai flussi delle uscite i 2,4 milioni di rapporti cessati hanno riguardato 1.910.394 lavoratori, con un valore medio di cessazioni per addetto pari a 1,26, dato che conferma il forte peso dei contratti a termine. In particolare 743.679 contratti terminati quest’estate hanno avuto una durata inferiore al mese (il 30,8% del totale) e 389.769 oltre l’anno (16,1%). Tra i rapporti di lavoro cessati di brevissima durata si evidenziano poco meno di 370mila rapporti di lavoro con durata compresa tra uno e tre giorni (di cui 276.375 rapporti di lavoro di un giorno, pari all’11,4% del volume complessivamente registrato). Rispetto all’estate del 2013 la contrazione maggiore è stata sui contratti con durata oltre un anno (-2,2%) mentre sono aumentati i contratti cessati di brevissima durata (4-30 giorni ; +8,4%). Sulle cause delle cessazioni i dati di trend fotografano un calo delle dimissioni da parte dei lavoratori (-4,3%, per un totale di 345.698 unità) e dei licenziamenti decisi dai datori (217.725 unità, in diminuzione del 3,3%).

Con il Jobs Act arriva l’apartheid

Con il Jobs Act arriva l’apartheid

Michele Tiraboschi – Panorama

La storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Richiamare la celebre massima di Karl Marx per commentare il discusso superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, vero e proprio totem della sinistra ortodossa italiana, non vuole avere nulla di provocatorio e tanto meno di ironico. Semmai è un tentativo di fare chiarezza sulla reale portata del tanto atteso Jobs act di Matteo Renzi: un provvedimento giunto al nastro di partenza non senza, tuttavia, qualche incidente di percorso che ne ha ampiamente compromesso l’efficacia.

Di riforma dell’art. 18 si parla da anni. E non è certo il caso di richiamare vere e proprie tragedie (come l’omicidio di Marco Biagi) per segnalare quanto sia tormentata la strada del processo di modernizzazione di un mercato del lavoro, quello italiano, tra i peggiori d’Europa per numero di occupati e per reali opportunità di accesso specie per i giovani e le donne. In un Paese dalla memoria corta come il nostro, dove autorevoli dirigenti politici e sindacali che attaccavano la legge Biagi hanno oggi votato in Parlamento il testo del Jobs act, è sufficiente fare pochi passi indietro nel passato. Perché la tragedia inizia nel 2012, con le altisonanti promesse della legge Fornero, enfaticamente titolata: «Riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita».

Crescita che nessuno ha visto e che anzi si è subito tramutata, per colpa dei gravi errori del ministro del Lavoro di Mario Monti, in un drastico peggioramento di tutti i principali indicatori del mercato del lavoro. Un impianto, quello della legge Fornero, che poco o nulla si discosta dal Jobs act di Renzi: con un’immancabile enfasi su quelle politiche attive che nel nostro Paese non ci sono, come bene dimostra il flop di Garanzia giovani, e con nuove rigidità per le imprese, specie quelle di piccole dimensioni, in termini di (maggiori) costi e (minori) flessibilità contrattuali dovute al tentativo, del tutto antistorico, di ribadire la centralità dei contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato. Nel non comprendere la vera natura del lavoro del futuro, la tragedia si trasforma ora in farsa col Jobs act. Perché la promessa di superare l’art, 18, come tributo alla modernità, è solo nelle intenzioni.

L’ambiguo compromesso parlamentare che ha consentito l’approvazione del testo di legge non supera affatto l’art. 18 e il conseguente spazio di intervento della magistratura che mantiene ampi margini per ordinare al datore di lavoro la reintegra nel posto di lavoro. Nessuna reale semplificazione delle regole del diritto del lavoro pare del resto possibile in un contesto normativo che vedrà convivere, almeno per i prossimi 15-20 anni, due diversi regimi di tutele tra loro profondamente differenziate a seconda della data di assunzione, prima o dopo il 2015. Oltre a inevitabili dubbi di legittimità costituzionale, la scelta di mantenere il vecchio art. 18 per chi già oggi è assunto a tempo indeterminato finirà anzi per ridurre la propensione a cambiare lavoro anche per il rischio oggettivo, nel passaggio a rapporti meno stabili, di pregiudicare la piena maturazione dei requisiti pensionistici.

Insomma, poco o nulla cambia rispetto al passato. Se non che si introduce ora una nuova e più odiosa forma di apartheid nel nostro mercato del lavoro: quella trai nuovi e i vecchi assunti. Con questi ultimi che, esclusi dal campo di applicazione del nuovo art. 18, manterranno a vita le tutele ereditate dal Novecento industriale contribuendo cosi alla creazione di nuove e insospettate barriere per i giovani nell’accesso al mercato del lavoro.

Matita blu per il professor Giavazzi

Matita blu per il professor Giavazzi

Il Foglio

Non è vero che il Jobs Act, con la norma sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti ingessa il mercato del lavoro, come sostiene Francesco Giavazzi in un editoriale del Corriere della Sera di domenica scorsa. Se fosse vera la tesi dell’economista del quotidiano di via Solferino, la norma del Jobs Act sarebbe una trappola e una scatola quasi vuota, anche se stabilisce che il lavoratore dipendente, con i nuovi contratti di lavoro, potrà esser licenziato per motivi economici con una indennità che cresce nel tempo (mentre, per i licenziamenti disciplinari, il reintegro varrà solo in casi speciali). Infatti, argomenta il professor Giavazzi, in Italia ogni anno ci sono 1,5 milioni di nuovi contratti a tempo indeterminato. Essendo i lavoratori a tempo indeterminato 14,5 milioni, se il totale di addetti con questo contratto non varia, ogni anno se ne rinnova un 10 per cento.

Giavazzi ne desume che annualmente un lavoratore a tempo indeterminato su 10 si sposta dalla propria azienda a un’altra con un nuovo contratto dello stesso tipo; poiché l’articolo 18 non varrà più per i nuovi contratti, gran parte di questi addetti non vorrà spostarsi e la rigidità del lavoro, col Jobs Act, aumenterà. Ma non è vero che, con occupazione invariata, ci sono solo spostamenti da un’azienda all’altra (Giavazzi non ricorda, per esempio, che una parte degli occupati va in pensione). Ipotizzando anzianità medie di 35 anni, ogni anno si liberano 438 mila posti a tempo indeterminato, circa il 3 per cento. In 4 anni se ne rinnova il 12 per cento. Inoltre non è vero che il cambiamento di contratto implichi il cambiamento di impresa. Molte volte si tratta di un’altra azienda della stessa impresa e di un diverso tipo di occupazione con un altro contratto di categoria (“chimico” anziché “tessile”, “commerciale” anziché “industriale”, “specializzato” anziché “operaio”).

Il senatore Pietro Ichino, tra i padri della nuova legge, risponde a Giavazzi che già ora queste mobilità vengono attuate evitando le perdite di diritti del precedente contratto, come l’anzianità acquisita, i bonus e gli incentivi precedenti. Sicché non ci saranno ostacoli alla mobilita. Il professor Giavazzi obietta che ciò vuol dire che per gran parte dei contratti rimane l’articolo 18. Ma si sbaglia anche in questo. In primo luogo perché con le clausole indicate dal professor Ichino, il lavoratore monetizza il reintegro al posto di lavoro rinunciandovi in cambio di benefici economici. E, soprattutto, il licenziamento disciplinare d’ora in poi sarà possibile, salvo “casi speciali”. Non è una rivoluzione del mercato del lavoro, ossia una macelleria sociale in tempo di crisi. Ma una incisiva riforma strutturale. Si chiama riformismo.

Disoccupazione record figlia delle riforme mancate

Disoccupazione record figlia delle riforme mancate

Walter Passerini – La Stampa

Non possiamo dare del tutto ragione a Jean Baudrillard, quando diceva che «le statistiche sono una forma di realizzazione del desiderio, proprio come i sogni», ma a volte sembra proprio così. Un’analisi distaccata dopo le recenti polemiche sui dati Istat della disoccupazione in Italia richiede cautela, per non confondere dati veri e interpretazioni forzate, tassi percentuali e valori assoluti, stock di numeri e flussi.

Le chiavi di lettura sono importanti ma dovremmo convenire almeno che non si possono attribuire a governi dimissionati o in carica da pochi mesi colpe che vengono da lontano. Un punto di osservazione condiviso può essere l’inizio della crisi, che in sette-otto anni ha cambiato radicalmente il gioco. Dal 2007 il tasso di disoccupazione in Italia è più che raddoppiato: allora era del 6,1%; oggi, come rivela l’Istat, è del 13,2%, un livello insostenibile. Nel primo trimestre 2014 raggiunse addirittura il picco del 13,6%, ma ciò non suscitò guerre. Il Mezzogiorno è passato dall’11% al 21,7% (primo trimestre 2014). Anche il tasso di occupazione segnala l’allarme, passando dal 58,8% del 2007 al 55,6%. In valori assoluti gli occupati passano da 23,3 milioni a 22,3 milioni. I disoccupati dal 1997 al 2007 si sono dimezzati (da 2,7 a 1,5 milioni), ma da 1,5 milioni del 2007 sono più che raddoppiati ai 3,4 milioni di oggi. Questi i numeri.

Oltre che di quantità, che comprendono pur sempre persone in carne e ossa, per capire le sfide del lavoro occorre però parlare anche di qualità: qualità del lavoro e produttività. È a partire dalla metà degli Anni 90 che le riforme del lavoro hanno innovato le regole del gioco, ma i loro effetti oggi appaiono fragili. La riforma Treu (1997) e la riforma Biagi (2003) hanno sicuramente innovato, ma in parallelo con la crisi hanno contribuito al dualismo del mercato del lavoro. Entrambe hanno aumentato l’occupazione, ma al margine, lasciando relativamente invariati gli stock di occupazione stabile, e incentivando a fisarmonica l’occupazione temporanea nelle sue diverse forme, confinandola all’area dei servizi a minore produttività.

Il dualismo del mercato del lavoro italiano, se da un lato ha permesso di far emergere nuovo lavoro, in parte nascosto dal nero, dall’altro ha alimentato un girone infernale di precarietà, disoccupazione di lunga durata e scarse tutele, penalizzando soprattutto i giovani, anche se laureati e masterizzati. Ora è necessario guardare avanti e non polemizzare sul passato. Anche perché l’universo a cui guardare è composto, oltre che da disoccupati ufficiali (3,4 milioni), da cassintegrati senza scampo, part-time involontari, precari e rassegnati, per un totale di circa 9 milioni di persone a forte disagio occupazionale. In un Paese che non cresce da vent’anni, l’occupazione non può certo aumentare.

E non bastano le regole del mercato del lavoro a creare nuovi posti: serve una politica di sostegno degli investimenti e della domanda delle imprese, da cui potrà scaturire nuova occupazione. Lo stesso Job Act, che contiene alcuni positivi cambiamenti, affronta solo in parte il dualismo del mercato con il contratto a tutele crescenti, riproponendo però il rischio di un doppio binario tra nuovi assunti e vecchi tutelati e riducendo, paradossalmente, mobilità e turn-over: difficile che un occupato lasci il suo posto protetto per un posto meno tutelato.

Tre sono le sfide che abbiamo di fronte, che riguardano imprese, lavoratori e politici. La prima è quella del sostegno della domanda senza la quale non si crea lavoro; è necessario abbassare i costi dell’energia e della burocrazia, incentivare le innovazioni per aumentare la produttività, favorire gli investimenti, dare maggiori certezze alle aziende, ridurre il cuneo fiscale. I sindacati e i lavoratori, ed è la seconda sfida, dovranno dimostrare che tra miglioramento della produttività e difesa delle tutele non c’è contraddizione alcuna; una quota del cuneo fiscale servirà a dare una boccata di ossigeno a salari e stipendi, per aiutare i consumi, ma sarà la contrattazione decentrata l’arma per una maggiore produttività. Ai politici e ai governanti, infine, ed è la terza sfida, occorre chiedere di abbandonare il clima e i toni di una permanente battaglia elettorale, che per avere consensi sul breve oscura le visioni sul futuro e la capacità di fare progetti. La guerra su cui orientare le forze è quella dell’innovazione e delle competenze, nella quale si giocano i destini della competitività oltre che del capitale umano. Siamo al bivio di una nuova transizione, dentro la quale il lavoro gioca una partita decisiva: passare alle politiche attive significa liberare risorse, economiche e umane, e liberarsi dal gorgo di una spesa pubblica fuori controllo, per costruire un nuovo welfare a misura di futuro.

Disoccupazione mai così alta nella storia d’Italia

Disoccupazione mai così alta nella storia d’Italia

Luca Ricolfi – La Stampa

È incredibile, la capacità dei governanti di manipolare i fatti pur di non dirci come vanno le cose. Negli ultimi giorni l’Istat ha fornito i dati sulle forze di lavoro nel terzo trimestre, e ha anticipato i dati provvisori di ottobre. Dati drammatici, ad avere il coraggio di guardarli in faccia. E invece no, immediatamente dopo la diffusione delle cifre Istat si è scatenata la corsa a travisarli. È così che abbiamo appreso che i dati trimestrali dell’Istat ci presentano «una sostanziale e progressiva crescita degli occupati nell’ultimo anno», quantificata in 122 mila occupati in più. E che anche l’incremento della disoccupazione, pari a 166 mila disoccupati in più, non ci deve preoccupare perché «va messo in relazione alla crescita del numero di persone che cercano lavoro». Come dire: se aumenta il tasso di disoccupazione è perché la gente è meno scoraggiata e «più persone tornano a cercare lavoro». Sui trucchi usati per manipolare i fatti non vale neppure la pena soffermarsi, tanto sono ingenui e vecchi (alcuni li insegniamo all’università, sotto il titolo «come si fa una cattiva ricerca»). Sui fatti, invece, è il caso di riflettere un po’.

Occupati in termini reali
Primo fatto: l’occupazione in termini reali sta diminuendo. Che cos’è l’occupazione in termini reali? È la quantità di occupati al netto della cassa integrazione. Se, per evitare le distorsioni della stagionalità, confrontiamo l’ultimo dato disponibile (ottobre 2014) con quello di 12 mesi prima (ottobre 2013), la situazione è questa: gli occupati nominali (comprensivi dei cassintegrati) sono rimasti praticamente invariati (l’Istat fornisce una diminuzione di 1000 unità), le ore di cassa integrazione sono aumentate in una misura che corrisponde a circa 140 mila posti di lavoro bruciati. Dunque negli ultimi 12 mesi l’occupazione reale è diminuita. Apparentemente la diminuzione è di circa 140 mila unità, ma si tratta di una valutazione ancora eccessivamente ottimistica: gli ultimi dati Istat, relativi al terzo trimestre 2014, mostrano che, sul totale degli occupati, si stanno riducendo sia la quota di lavoratori a tempo pieno sia la quota di lavoratori italiani. Il che, tradotto in termini concreti, significa che aumentano sia il peso dei posti di lavoro part-time «involontari» (donne che lavorano poche ore, ma non per scelta) sia il peso dei posti di lavoro di bassa qualità, tipicamente destinati agli immigrati.

I senza lavoro
Secondo fatto: la disoccupazione sta aumentando. I disoccupati erano 3 milioni e 124 mila nell’ottobre del 2013, sono saliti a 3 milioni e 410 mila nell’ottobre del 2014. L’aumento è di ben 286 mila unità, di cui 130 mila nei 4 mesi del governo Letta, e 156 mila negli 8 mesi del governo Renzi. La spiegazione secondo cui l’aumento sarebbe dovuto a una maggiore fiducia, che farebbe diminuire il numero di lavoratori scoraggiati, riprende una vecchia teoria degli Anni 60 ma è incompatibile con i meccanismi attuali del mercato del lavoro italiano, che mostrano con molta nitidezza precisamente quel che suggerisce il senso comune: gli aumenti di disoccupazione dipendono dal peggioramento, e non dal miglioramento, delle condizioni del mercato del lavoro. Sulla disoccupazione, tuttavia, ci sarebbe qualcosa da aggiungere. In questi giorni sentiamo ripetere, dai giornali e dalle tv, che il tasso di disoccupazione non solo è ulteriormente aumentato rispetto a 12 mesi fa (1 punto in più), non solo è molto alto in assoluto (13,2%), non solo è fra i più alti dell’Eurozona, ma sarebbe anche il più alto degli ultimi 37 anni, ossia dal 1977.

I dati del 1977
Ebbene, anche questa, già di per sé una notizia drammatica, detta così è ancora troppo ottimistica. Se dici che siamo al massimo storico dal 1977, o che «siamo tornati al 1977», qualcuno potrebbe supporre che nel 1977 il tasso di disoccupazione italiano fosse più alto di oggi, o perlomeno fosse altrettanto alto. Non è così. Nel 1977 il tasso di disoccupazione era molto minore rispetto ad oggi (7,2% contro 13,2%). La ragione per cui si continua a parlare del 1977 come una sorta di spartiacque è che la serie storica dell’Istat con cui attualmente lavoriamo parte dal 1977. Ma questo non significa che sugli anni prima del 1977 non si sappia niente. Prima del 1977 c’era la vecchia serie 1959-1976. E prima ancora c’erano i dati del collocamento, della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali, dei censimenti demografici, a partire da quello del 1861, anno dell’unità d’Italia. Tutte fonti meno sofisticate di quelle di oggi, ma sufficienti a darci un’idea degli ordini di grandezza. Mi sono preso la briga di controllare queste fonti, nonché i notevoli lavori che sono stati pubblicati sui livelli di disoccupazione dal 1861 a oggi e la conclusione è tragica.

Unità d’Italia e dopoguerra
Mai, nella storia d’Italia, il tasso di disoccupazione è stato ai livelli di oggi. Altroché 1977. La disoccupazione era più bassa di oggi anche nel periodo 1959-1976, per cui abbiamo una serie storica Istat. Era più bassa anche negli anni della ricostruzione, dal 1946 al 1958. Ed era più bassa durante il fascismo, persino negli anni dopo la crisi del 1929. Quanto al periodo che va dall’unità d’Italia all’epoca giolittiana, è difficile fare paragoni con l’oggi, se non altro perché è proprio allora che prende lentamente forma il concetto moderno di disoccupazione, ma basta un’occhiata ai censimenti e agli studi che li hanno analizzati (splendidi quelli di Manfredi Alberti, borsista Istat) per rendersi conto che, comunque si definisca il fenomeno, siamo sempre abbondantemente al di sotto dei livelli attuali.