lavoro

La retribuzione e la carica (doppia) del fisco

La retribuzione e la carica (doppia) del fisco

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

L’anticipo del Tfr in busta paga potrebbe valere un incasso annuo per lo Stato che va da 1,7 a 5,6 miliardi a seconda del tasso di adesione dei lavoratori alla proposta lanciata dal premier Matteo Renzi. I calcoli sono stati fatti dall’economista Stefano Patriarca per il sito la voce.info. Nell’ipotesi di un’adesione media, il gettito si posizionerebbe intorno ai 3 miliardi.

L’ipotesi è che il Tfr, anche se aggiunto in busta paga, venga tassato separatamente, non si sommi, quindi, agli stipendi ai fini delle trattenute mensili, e con l’applicazione di un’aliquota del 23%, la minima prevista ai fini Irpef. Si tratterebbe, ovviamente, di un anticipo di tassazione perché lo Stato incasserebbe oggi quello che, mantenendo l’istituto della liquidazione, incamererebbe tra 20 o 30 anni. Attualmente sul Tfr si paga anche un’imposta dell’11% sui rendimenti annui. Sulla sorte di questo prelievo non si hanno notizie. I progetti del governo non sono stati svelati completamente, ma guardando queste cifre viene il sospetto che l’obiettivo non sia solo quello di rilanciare i consumi. Certo, questo è l’obiettivo più importante. Ma con l’effetto non secondario di garantire all’Erario un tesoretto non indifferente. Se poi mettiamo in conto l’Iva sui maggiori consumi, il gettito si arrotonderebbe di un altro miliardo, forse di più.

Con il Tfr in busta paga i lavoratori vedrebbero aumentare il loro reddito e il loro potere d’acquisto, anticiperebbero ora le imposte sul Tfr, e lo Stato incasserebbe dai 3 ai 6/7 miliardi. Niente male. Senza contare che la rivalutazione potrebbe essere a rischio. Più consumi, incassando più tasse. Un piccolo miracolo all’italiana. Sarebbe importante chiarire da subito quale potrebbe essere il trattamento fiscale perché l’operazione non sembri finalizzata soprattutto ad aumentare le entrate. I sindacati chiedono che l’anticipo del Tfr sia a tassazione zero, difficile crederlo. Altrettanto importante è chiarire come andare incontro alle esigenze finanziarie delle piccole imprese. Le banche, questa volta, risponderanno presente?

Politiche attive, rilancio urgente

Politiche attive, rilancio urgente

Michele Tiraboschi – Il Sole 24 Ore

Superare la vecchia idea del posto fisso e l’articolo 18. È questo il progetto di Matteo Renzi e del Jobs Act per portare l’Italia nella modernità. Operazione certamente possibile. A condizione, tuttavia, di garantire a chi perde un lavoro un’efficiente rete di servizi al lavoro e adeguati programmi di riqualificazione professionale. Solo così si potrà realizzare il più volte annunciato passaggio da un sistema passivo di welfare, ormai alle corde, alle politiche attive e di ricollocazione del celebrato modello nordico.

Di politiche attive, invero, si parla da almeno vent’anni, a partire dalla legge Treu e, a seguire, dalla legge Biagi. Ma nulla è stato fatto. Anzi, la situazione si è non poco complicata con la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha contribuito a una profonda frammentazione delle politiche del lavoro oggi gestite, con differenziali di efficienza preoccupanti quanto evidenti, su scala regionale. Si spiega così una delle novità più importanti contenuta nel progetto di Jobs Act: l’istituzione di un’Agenzia nazionale per l’occupazione, alla quale si intendono attribuite competenze gestionali in materia di servizi al lavoro, politiche attive e indennità di disoccupazione. Alle Regioni verrebbe garantito il mantenimento della definizione delle politiche attive del lavoro e anche un loro coinvolgimento nella costituzione dell’Agenzia nazionale. Quanto all’indennità di disoccupazione, poiché è una competenza dell’Inps, si prevede il raccordo tra l’Agenzia nazionale e l’Istituto, sia a livello centrale che a livello territoriale.

Pur con le difficoltà di coordinamento con i vari enti competenti di servizi e funzioni che essa dovrebbe gestire, ci si attende che l’Agenzia possa realizzare diversi obiettivi. Innanzitutto, superare la sostanziale mancanza di indirizzo e coordinamento a livello nazionale delle politiche attive e dei servizi per il lavoro dell’attuale regime. Inoltre, si spera che possa finalmente realizzare un più efficace raccordo tra politiche attive e passive e una vera condizionalità dei sussidi con un’effettiva attivazione dei lavoratori disoccupati, in particolare percettori di indennità di disoccupazione, pena la perdita del sostegno al reddito.

La realizzazione di tale obiettivo di collegamento di misure di sostegno al reddito e misure volte al reinserimento del disoccupato nel mercato del lavoro è attuata anche attraverso la grande novità degli accordi di ricollocazione stipulati tra agenzie per il lavoro o altri operatori accreditati e i percettori di un sostegno al reddito. Gli operatori privati sarebbero incentivati alla presa in carico dei lavoratori disoccupati per la loro ricollocazione mediante una remunerazione a fronte dell’effettivo inserimento nel mercato del lavoro per un periodo minimo e proporzionata alla difficoltà di collocamento del soggetto reinserito al lavoro.

Il rapporto tra servizi pubblici e privati per l’impiego si inquadra in un doppio canale. Accanto alla competizione per il ricollocamento di disoccupati e in particolare percettori di sostegno al reddito, si rilancia la promozione della collaborazione e la valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e privati per il lavoro, con l’obiettivo di rafforzare le capacità d’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Con questo obiettivo paiono volersi ridefinire i criteri per l’accreditamento e l’autorizzazione dei soggetti che operano sul mercato del lavoro, nonché i livelli essenziali delle prestazioni nei servizi pubblici per l’impiego.

Dopo il fallimento della Borsa nazionale del lavoro, la delega del Jobs Act intende anche rilanciare i sistemi informatici esistenti per la gestione del mercato del lavoro e il monitoraggio delle prestazioni sociali erogate. Sarebbe questo uno strumento fondamentale, che dovrebbe essere a disposizione di tutti gli operatori del mercato del lavoro per garantire un efficace collegamento delle politiche attive e passive. Per rendere più efficace il sistema informativo del mercato del lavoro si prevede l’istituzione del fascicolo elettronico unico comprensivo di tutti gli elementi riferibili alla vita attiva della persona, dai percorsi educativi e formativi a quelli lavorativi, alle transizioni e ai relativi sussidi, fino al conto corrente previdenziale.

Tutto questo è condivisibile. La domanda, tuttavia, è se vi sono oggi le condizioni per realizzare progetti da tempo noti e presenti nelle riforme del lavoro che via via si sono succedute. La credibilità del Jobs Act si gioca, del resto, tutta qui: nella ragionevole aspettativa che il lavoratore che perde il posto non sarà lasciato solo e che una moderna rete di servizi al lavoro, pubblici o privati poco importa, lo accompagnerà verso la ricerca di un nuovo impiego.

Su questo fronte, la recente esperienza di Garanzia Giovani non lascia invero ben sperare. A fronte di uno stanziamento di 1,5 miliardi si è capito, dopo i primi mesi di sperimentazione, che per il nostro Paese il vero problema non tanto sono le risorse quanto la capacità di utilizzarle bene attraverso un’amministrazione pubblica in grado davvero di costruire le premesse dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Ebbene, nonostante la “garanzia” della presa in carico e del diritto a ottenere, entro quattro mesi, una proposta di lavoro o di stage o, in alternativa, un percorso di riqualificazione professionale, meno di un quarto dei 200mila giovani italiani registrati al programma Garanzia Giovani è stato convocato per un colloquio preliminare e poco altro. Tutti gli altri sono fermi davanti a una porta, quella delle politiche attive, che rimane incomprensibilmente chiusa anche quando le dotazioni finanziarie ci sono. Una prova ulteriore che le riforme del lavoro non passano necessariamente dalle leggi e dalla loro pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, quanto dalla capacità della nostra politica di attuarle giorno dopo giorno.

Sul lavoro le idee – come gli annunci e i convegni – non mancano. Ma se non vogliamo attendere il fallimento della quinta riforma del lavoro negli ultimi cinque anni è necessario un cambio di prospettiva che porti a prestare maggiore attenzione, più che alle regole, alla loro effettiva implementazione. Queste sono, del resto, le politiche attive. E non saremmo ancora oggi a parlare di introdurre una condizionalità dei sussidi, chiave di volta di un equo e moderno sistema di welfare, se avessimo dato attuazione a leggi vigenti da oltre un decennio.

L’Italia non attrae lo straniero con la laurea

L’Italia non attrae lo straniero con la laurea

Rossella Cadeo – Il Sole 24 Ore

Italia poco attraente per gli stranieri qualificati: meno di uno su dieci tra quelli residenti nel nostro Paese può sfoggiare un grado di studio alto (tipo laurea). La metà ha un’istruzione bassa e quattro su dieci non sono andati oltre le superiori. In altri Paesi europei (si veda la tabella sotto), invece, la quota di immigrati laureati è decisamente più cospicua, fino a picchi del 50% nel Regno Unito e del 37% in Svezia. È questa la fotografia che emerge dalla ricerca della Fondazione Moressa, che ha analizzato i livelli di istruzione nel nostro Paese e in Europa per verificare se l’Italia sia in grado di richiamare anche profili qualificati, non solo i lavoratori cui si pensa quando si parla di immigrati.

È vero che il momento è critico da anni per tutti – almeno dal 2008 –, che il 2014 ha raggiunto le cadute più allarmanti sul fronte occupazionale, che talvolta avere un buon titolo di studio non aiuta a trovare un impiego remunerativo, ma le conclusioni alle quali giunge la ricerca non sono confortanti. «Del resto, le dinamiche migratorie generalmente riflettono la situazione interna – osserva Stefano Solari, direttore scientifico della Fondazione –. I Paesi dove i residenti autoctoni hanno alti livelli di istruzione presentano anche una popolazione straniera maggiormente qualificata, come è appunto il caso di Regno Unito e Svezia. In Italia, invece, si rileva una quota molto esigua di laureati sia tra gli immigrati sia tra gli italiani stessi. Lo studio conferma dunque la scarsa capacità del Paese di attrarre stranieri altamente qualificati. Inoltre rispetto al 2007 la percentuale di immigrati laureati è calata a differenza di altri Paesi europei».

In effetti, anche limitando il confronto agli “autoctoni”, l’Italia non è messa bene: insieme alla Spagna ha la più alta percentuale di soggetti dotati solo di licenza media inferiore (oltre il 40%, contro una media Ue del 27%). La Spagna però ha uno scatto nella fascia dei laureati (il 32,4%), mentre l’Italia resta in coda alla classifica: in media (con scostamenti poco significativi sul territorio) meno del 15% degli italiani ha concluso un corso universitario, quando la media Ue supera il 25 per cento. Speculare il ritardo se si guarda la popolazione immigrata: nella Ue a 28 uno straniero residente su quattro ha in tasca un diploma di laurea (con i picchi, appunto, di Regno Unito e Svezia, dove la quota di chi ha conseguito un degree supera persino quella degli autoctoni), mentre in Italia non si arriva al 10% (siamo alle spalle della Grecia, che si ferma all’11%, e ben lontani anche da altri Paesi sotto la media, come Germania, Austria o Spagna).

Nel nostro Paese la situazione – rileva ancora la ricerca – è andata peggiorando. Dal 2007 al 2013 in Italia la quota di stranieri laureati è calata di oltre un punto, mentre nella Ue è aumentata: circa cinque punti in più sia tra gli stranieri sia tra gli autoctoni, per non parlare del Regno Unito dove tra gli immigrati è cresciuta di ben 20 punti. E un ulteriore doppio primato (negativo) spetta all’Italia: abbiamo le percentuali più alte di Neet (15-24enni che non studiano né lavorano), il 21,2% fra gli italiani (il doppio che nei dieci Paesi considerati) e il 31% fra gli stranieri.

Fuori tempo massimo per interventi sulle liquidazioni

Fuori tempo massimo per interventi sulle liquidazioni

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

L’idea dimettere in busta paga una parte o l’intera quota del Tfr è spuntata come un fungo settembrino nel bel mezzo del dibattito sull’articolo 18 e nell’attesa di capire come la legge di stabilità riuscirà a rendere strutturale il taglio Irpef da 80 euro per 11 milioni di lavoratori. Diciamolo subito, non è il migliore dei contesti. Come spesso accade, la nostra politica procede per tentativi, aggiunge temi, provocazioni, accavalla proposte quando sembra non arrivare mai la svolta promessa sulla “vera riforma” in cantiere.

Il governo ha presentato lo scorso aprile in Senato un ddl delega di riforma del mercato del lavoro e sei mesi dopo ancora non sappiamo immaginare se entro l’autunno avremo quel testo in Gazzetta. Lì non si parla di rinnovamento della struttura dei contratti e di Tfr, si parla di sperimentazione sul salario minimo, di razionalizzazione delle forme contrattuali ma non di quel che c’è in busta, oggetto tipicamente affidato alla negoziazione tra le parti sociali. Aggiungere ora il tema del Tfr quando l’attesa è, appunto, su ben altro, appare incongruo. Soprattutto se il ragionamento che si fa sulla cancellazione della vecchia liquidazione non è legato a un rilancio della previdenza integrativa.

Si immagina invece di dare il Tfr ai lavoratori per rafforzarne il potere d’acquisto. Ecco, se è questo il piano è un piano sbagliato c pericoloso. Per le aziende, che stanno vivendo una delle peggiori crisi di liquidità dal Dopoguerra. E per gli stessi lavoratori, cui si affiderebbe improvvisamente un plus monetario stipendiale senza averli, appunto, informati bene di che cosa si tratta. Il Governo porti a casa il Jobs act senza ulteriori perdite di tempo e si dedichi di buona lena ai decreti delegati. Solo dopo si può parlare di Tfr in busta, senza ansie e improvvisazioni. Anche perché il superamento di quel residuo archeologico di epoca fascista poteva esser fatto vent’anni fa, quando siamo passati al sistema contributivo per il calcolo delle pensioni. Oggi siamo fuori tempo massimo e in piena recessione con deflazione, dunque non c’è fretta.

Le mani dei sindacati sul Tfr

Le mani dei sindacati sul Tfr

Sandro Iacometti – Libero

Un flusso annuo di 4,2 miliardi che va ad alimentare una massa di risorse gestite che si aggira sugli 85 miliardi di euro. È questo, sostanzialmente, il Tfr che interessa ai sindacati. E pure alla Confindustria. Quello per cui entrambi sono saliti senza esitazioni sulle barricate, accanto ad artigiani e piccoli imprenditori, per difendere la liquidazione dei lavoratori dal progetto di Matteo Renzi di metterne una parte subito in busta paga.

L’interesse vitale delle Pmi è chiaro e solare. Dei 22-23 miliardi che compongono la torta complessiva annua del Tfr circa 11 miliardi restano in azienda. Liquidità preziosa, che la mossa del governo potrebbe dimezzare da un giorno all’altro. Ma i sindacati, sempre così attenti al rilancio del potere d’acquisto dei lavoratori, perché si scaldano tanto? E perché sbraita anche Confindustria, la cui maggioranza delle aziende rappresentate (sopra i 50 dipendenti) già versa il Tfr al fondo di tesoreria istituito presso l’Inps (per un totale annuo di 6 miliardi)? La chiave di volta per comprendere tanta attenzione si chiama previdenza complementare. Di quei 22-23 miliardi di Tfr che ogni anno maturano i lavoratori italiani, infatti, 5,2 miliardi finiscono in pancia ai fondi pensione. Di questi, secondo gli ultimi dati della Covip, circa 800 milioni vanno ai fondi aperti e ai Pip (piani individuali pensionistici) gestiti solitamente da professionisti del settore (sgr, banche, assicurazioni), 2,7 miliardi vanno invece ai fondi chiusi o negoziali e altri 1,5 ai fondi preesistenti (nati prima della riforma del 1993).

Le ultime due categorie di fondi, che ogni anno incamerano 4,2 miliardi dei nostri Tfr, hanno una caratteristica comune: sono gestiti per legge in forma paritetica da rappresentanti dei lavoratori e delle aziende. In altre parole, Confindustria e sindacati si spartiscono le poltrone nel cda. Gli incarichi sono solitamente retribuiti in maniera modesta, ma le somme amministrate sono spaventose. La riforma del 2007, che ha fatto schizzare le adesioni introducendo l’automatismo del conferimento del Tfr al fondo di categoria, non ha prodotto i risultati allora sperati dal governo, ma ha comunque fatto raddoppiare gli iscritti, con un colpo di acceleratore proprio dei fondi negoziali, che rappresentano il fortino della triplice sindacale. Metà di quelli preesistenti, infatti, appartiene al mondo della finanza, dove tengono banco le sigle autonome, mentre buona parte dell’altra metà è rappresentata da fondi dedicati ai quadri e ai dirigenti. Alla fine del 2013, secondo i dati Covip, gli iscritti complessivi ai fondi pensioni ammontano a 6,2 milioni. Di questi circa 2 milioni aderiscono ai fondi negoziali e 655mila a quelli preesistenti. I flussi annui di risorse (comprese quelle volontarie extra Tfr) hanno prodotto gruzzoli non indifferenti. I negoziali hanno in pancia 34,5 miliardi, i preesistenti (più vecchi) circa 50 miliardi. A gestire gli investimenti di queste risorse non ci sono manager esperti di finanza, ma vecchie volpi del sindacato che spesso collezionano più di un incarico.

Uno dei fondi negoziali più grande è quello dei metalmeccanici Cometa: masse amministrate 8,1 miliardi. Ebbene nel cda siedono Roberto Toigo, segretario nazionale Uilm e Francesco Sampietro, sempre della Uil. Giancarlo Zanoletti e Roberto Schiattarella, della FimCisl. Il sindacato autonomo Fismic ha invece nominato il broker assicurativo Luca Mangano, mentre la Cgil ha piazzato alla vicepresidenza il professor Felice Roberto Pizzuti, vicinissimo alla Fiom nonché candidato alle europee per Tsipras. Stessa solfa per Fonchim, altro colosso con 4,2 miliardi di risorse gestite. Anche qui la vicepresidenza è Cgil, con Roberto Arioli della Filctem. Poi ci sono Paolo Bicicchi e Mariano Ceccarelli della Femca Cisl, Salvatore Martinelli e Massimiliano Spadari ancora della Filctem, Eliseo Fiorin, segretario nazionale Ugl tessili e Fabio Ortolani, segretario confederale Uil.

L’incoscienza di fare cassa mettendo a rischio le pensioni future

L’incoscienza di fare cassa mettendo a rischio le pensioni future

Giuliano Cazzola – Il Garantista

A quanto pare non si farà l’operazione per trasferire il trattamento di fine rapporto (Tfr) in busta paga. allo scopo di incentivare i consumi rimasti “in sonno” anche dopo l’erogazione del bonus di 80 euro. Non è la prima volta che qualcuno si alza al mattino e si vanta di aver inventato l’acqua calda, salvo poi arretrare una volta verificate le controindicazioni che una misura si fatta comporterebbe.

Chi scrive ha sempre nutrito seri dubbi su proposte di tale natura, anche se i loro sostenitori presentavano, in via di principio, argomenti non privi di senso. È vero, il Tfr è un istituto vigente solo nel nostro Paese al punto che, nei consessi europei e internazionali, i rappresentanti italiani stentano a spiegarne la funzione ai propri interlocutori. Così, il relativo ammontare nei monitoraggi della spesa sociale finisce per essere conteggiato o in quella pensionistica oppure alla voce disoccupazione. Inoltre, c’è sempre il rischio di essere paternalisti e di voler insegnare ai lavoratori che cosa è più conveniente, anche nell’utilizzare le risorse loro spettanti. Il diritto del lavoro, infatti, è sovraccaricato di inderogabili e indisponibili per il dipendente che ne è titolare, come se fosse un minus habens, perennemente sottoposto ad un tutore, sia esso il legislatore, il giudice o il sindacato. Certo – si dirà – il prestatore d’opera è capace di intendere e di volere e di scegliere ciò che è meglio per lui e la sua famiglia. È il caso, però, di orientare le politiche retributive e del lavoro verso obiettivi prioritari e non abbandonarsi ad una visione moderna del lavoratore-buon selvaggio traviato dagli ordinamenti politici e sociali.

Se, per esempio, tutti gli Stati hanno ritenuto loro dovere, in una certa fase dell’evoluzione storica, di predisporre strumenti di welfare pubblici ed obbligatori (pesanti o leggeri che siano), rifiutando l’idea del «ecco le risorse, arrangiati!», una ragione dovrà pur esserci: il lavoratore non è libero di rinunciare a uno zoccolo di diritti che l’ordinamento gli riconosce per qualificarsi come “Stato sociale”, una definizione in cui l’aggettivo diventa un modo di essere del sostantivo. Io credo, allora, che il Tfr sia una risorsa troppo importante per l’autofinanziamento delle imprese e per le esigenze dei lavoratori per essere gettato nella mischia della vita quotidiana, nell’intento disperato di raschiare il fondo del barile. Il Tfr è la principale fonte di finanziamento della previdenza privata, che ha una funzione strategica nel garantire una maggiore adeguatezza per i trattamenti pensionistici. Inoltre sono consentite significative anticipazioni degli accantonamenti (anche di quelli detenuti nelle posizioni individuali dei fondi pensione) allo scopo di affrontare spese cruciali nella vita, come le cure sanitarie o l’acquisto di un’abitazione. Poi, davvero, le somme del trattamento di fine rapporto, finite a incrementare le buste paga, sarebbero indirizzate ai consumi? Il fatto che la liquidità e i depositi bancari degli italiani siano aumentati di 234 miliardi avrà pure un significato. Insomma, se vogliamo parlar chiaro, mettere il Tfr in busta paga sarebbe stato come usare banconote da 100 euro al posto della carta igienica.

Vi è un altro aspetto da considerare: gli accantonamenti annui del Tfr hanno già una loro destinazione. Rimanendo soltanto nell’ambito del settore privato (nel pubblico impiego la normativa è più complicata, poi a pagare dovrebbero essere le amministrazioni, quindi aumenterebbe la spesa pubblica. che ha già tanti problemi di suo) le quote sono così ripartite: 5,5 miliardi alle forme di previdenza complementare; 6 miliardi al Fondo Tesoro gestito dall’Inps (corrispondenti alla parte che i lavoratori, occupati nelle aziende con 50 e più dipendenti, non utilizzano come finanziamento della previdenza complementare e che i datori devono versare nel Fondo suddetto); tra gli 11 e i 14 miliardi (a seconda delle valutazioni) detenuti nelle aziende fino a 49 dipendenti in conseguenza dell’opzione dei lavoratori di restare nel regime del Tfr. Queste ingenti risorse sono scritte a bilancio e costituiscono un’importante forma di autofinanziamento. Sembrava evidente che il governo del “Sòla” intendesse mettere le mani, prioritariamente, su quest’ultimo malloppo. In primo luogo perché è l’unica quota che non abbia una specifica destinazione, come le altre citate. Del resto, quale altra funzione avrebbe avuto l’idea di un patto con l’Abi per destinare alle Pmi – come compensazione – gli stanziamenti derivanti dalla Bce, se non che fosse proprio quello il settore da colpire con il nuovo intervento? Ma come si fa a chiedere a un’impresa di inserire nella busta paga dei lavoratori che lo chiedono, la metà del flusso della liquidazione, per poi passare in banca a riscuotere, come se essa dovesse erogare credito a prescindere dalle garanzie fornite, diventando così, nei fatti, lo sportello erogatore del Tfr altrui?

Nel Jobs Act la mossa per abbattere l’ultimo tabù

Nel Jobs Act la mossa per abbattere l’ultimo tabù

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Finora l’attenzione di merito sul Jobs act governativo si è concentrata quasi esclusivamente sulla riscrittura dell’articolo 18, cannibalizzando così un’altra scelta di grande discontinuità contenuta nel provvedimento sostenuto da Matteo Renzi: il salario minimo. In molti Paesi, europei e non, è in vigore da tempo, basta pensare allo Smic dei cugini francesi. In Italia, invece, l’introduzione del salario minimo è stata vista sempre come fumo negli occhi dai sindacati, gelosamente attaccati alla tradizione del contratto nazionale.

In linea di principio non c’è contraddizione tra una legge che stabilisca il salario minimo e un Ccnl stipulato tra le parti, ma in una fase di forte polarizzazione del sistema industriale finisce per rappresentare un’alternativa. Le differenze di mercato e di capacità di creazione di valore non sono più solo tra settori: passano all’interno dello stesso comparto. Dopo sei anni di Grande Crisi la distanza tra un’azienda che esporta stabilmente e un’altra che vivacchia di domanda interna è diventata abissale, come altrettanto ampia è la differenza tra industrie technology o labour intensive. Nello stesso settore metalmeccanico ci sono elettrodomestici e auto, che in virtù del basso valore aggiunto delle lavorazioni sono molto sensibili al costo del lavoro, ma anche le macchine utensili, in cui il livello delle paghe non è certo il principale dei problemi.

Con l’introduzione del salario minimo il contratto nazionale verrebbe fortemente limitato mentre ne uscirebbe esaltata la contrattazione aziendale. Il minimo stabilito per legge avrebbe poi un’altra valenza: far emergere il lavoro sommerso e combattere il caporalato in settori nei quali la rappresentanza sindacale tradizionale è evaporata e vige la pratica degli appalti al massimo ribasso. Si pensi, ad esempio, ad un business di grande rilievo come la logistica dove si è andato creando un far west di rapporti illegali, Cobas, false cooperative, sfruttamento degli extracomunitari e ricatto dei lavoratori. Costretti a retrocedere al datore di lavoro una parte del salario nominale stampato sulla busta paga. È chiaro che in situazioni come questa il salario minimo non è la panacea (servono anche tanti ispettori del lavoro!) ma potrebbe segnalare – specie agli stranieri – che le istituzioni non sono né cieche né sorde.

Piccole misure senza ambizioni

Piccole misure senza ambizioni

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Il governo sta compiendo un errore che potrebbe costarci un altro anno (sarebbe il quarto consecutivo) di crescita negativa con conseguente, ulteriore aumento della disoccupazione. Nessun Paese industriale, almeno negli ultimi 70 anni, ha avuto una recessione tanto lunga. Se non cresciamo, il debito (già al 131,6% del Pil ) rischia di diventare insostenibile, almeno nella percezione degli investitori internazionali, che ne detengono oltre 600 miliardi. Se non ricominciamo rapidamente a crescere rischiamo una crisi finanziaria.

La Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza pubblicata dal governo la scorsa settimana assume che la crescita miracolosamente aumenti di quasi un punto: dal -0,3 previsto per il 2014 a +0,6 nel 2015. L’Ocse invece prevede un misero +0,1. Da dove verrà quel mezzo punto di crescita in più? Previsioni ottimistiche sono un vecchio trucco per fare apparire più roseo il bilancio. Se la crescita non dovesse raggiungere il livello previsto dal governo anche l’obiettivo di un deficit inferiore al 3% verrebbe mancato, salvo una correzione dei conti in corso d’anno che in parole semplici vuol dire un aumento di imposte. E comunque il ministro Padoan ha detto che già nella legge di Stabilità gli ammortizzatori sociali «saranno coperti dalla spending review e da alcune misure di efficientamento delle entrate». Ecco come si sta sotto il 3%: con un aumento della pressione fiscale!

Deve essere chiaro che c’è un solo modo per sperare di poter riprendere a crescere: ridurre la pressione fiscale. Abbassare le tasse sul lavoro pagate dalle imprese italiane al livello di quelle tedesche significa tagliarle di 40 miliardi. Tagliare immediatamente le spese di una cifra corrispondente non è possibile perché per ridurre la spesa serve tempo. Se solo si fosse cominciato prima! Nei prossimi due, tre anni quindi supereremmo la soglia del 3%. Se sforiamo, entreremmo nella procedura prevista per chi viola le regole europee, ma senza effetti significativi se già avessimo approvato un programma vincolante di tagli alla spesa e varato per decreto una riforma seria del mercato del lavoro. È ciò che fece la Germania nel 2003 quando Schröder varò la sua riforma del lavoro. La Francia ha annunciato per il 2015 un deficit del 4,3%, ma finora Hollande non ha fatto alcuna riforma significativa.

Certo, è più facile per il ministro dell’Economia fare poco o nulla cercando di resistere sotto il 3%, magari con un aumento mascherato della pressione fiscale, e farsi applaudire nei consigli europei. Un piano complesso e innovativo di tagli di tasse, riduzioni di spesa e riforme richiederebbe un massiccio investimento di credibilità politica. Ma è l’unica via per salvare il governo di Matteo Renzi e, ciò che è più importante, l’Italia.

Usa, boom dell’occupazione

Usa, boom dell’occupazione

Mario Platero – Il Sole 24 Ore

Se qualcuno dubita ancora della forza del modello americano per rilanciare l’economia dia un’occhiata ai risultati di ieri: un tasso di disoccupazione al 5,9%, un livello che non si vedeva dal 2008 e 248.000 nuovi occupati per il mese di settembre. È difficile dunque ignorare le parole del Presidente Barack Obama che ieri ha lanciato l’ennesima provocazione transatlantica, attaccando soprattutto il modello tedesco, ma, indirettamente tutte le rigidità che, a partire da quelle per il mercato del lavoro, imbrigliano l’economia: «Gli Stati Uniti – ha detto – hanno ridato lavoro a più persone che l’Europa, il Giappone e ogni altra economia avanzata messe insieme». E nonostante i dati di ieri, insieme a un inatteso miglioramento del disavanzo commerciale, diano sicurezza per la tenuta della ripresa, l’amministrazione non si ferma, preme per un ulteriore rilancio del settore manifatturiero e per un rafforzamento di alcuni dati per l’occupazione che potrebbero essere migliorati, come il salario minimo e il tasso della partecipazione al mercato del lavoro, sceso ancora dal 62,8 al 62,7%, il minimo in 35 anni e molto al di sotto del 66% di prima della grande recessione.

Per questo Obama preme su nuove iniziative pubbliche/private, per questo ha già lanciato vari centri per l’eccellenza nel manifatturiero avanzato e ieri ha annunciato lo stanziamento di 200 milioni di dollari in aiuti federali e fondi privati per creare un “Integrated Photonics Manufacturing Institute” che sarà coordinato dal Dipartimento della Difesa. Oggi inoltre si celebra il National Manufacturing Day. Il presidente andrà a Princeton in Indiana, per visitare gli impianti della Millennium Steel. In tutto 16.000 imprese del settore manifatturiero apriranno i cancelli al pubblico e alle autorità sia nazionali che locali a riprova di una forte coesione per avanzare lungo la stessa strada.

Questo per dire che ha ragione Mario Draghi quando avverte che la politica monetaria da sola non basta per rilanciare la crescita e che ci vogliono drastiche riforme strutturali. Che non si dimentichi però l’importanza di lanciare misure di stimolo e di agire anche sul fronte fiscale. È stata questa ricetta con tre ingredienti essenziali, incluso un disavanzo pubblico che era balzato al 10% del Pil prima di arretrare (contro ogni previsione di ostinati economisti nostrani) fra il 3% e il 4% per il 2014, che ha consentito all’America di fare quello che ha fatto. E ricordiamo oltre ai dati di ieri sull’occupazione un tasso di crescita corretto al 4,6% per il secondo trimestre di quest’anno. E la Fed? Difficile che la politica monetaria cambi prima della metà dell’anno prossimo. Janet Yellen ha chiarito che per lei oggi sono più importanti indicatori come il salario minimo e il tasso di partecipazione al lavoro che, come abbiamo visto, sono ancora fuori dalle medie storiche. La ripresa dunque continuerà. Non necessariamente ai ritmi del secondo trimestre, ma la crescita dell’economia e dell’occupazione andranno avanti per il futuro prevedibile.

Ci sembra giusto chiudere con una rivendicazione del Presidente alla New Foundation della Northwestern University di Evanston in Illinois, dove ha fatto partire giovedì la sua campagna per le elezioni di metà mandato. «Ecco i fatti – ha detto Obama – quando sono stato eletto le imprese americane licenziavano al ritmo di 800 mila persone al mese. Oggi le aziende stanno assumendo 200 mila americani al mese. Negli ultimi quattro anni e mezzo l’economia americana ha creato 10 milioni di nuovi occupati, la più lunga crescita di posti di lavoro nel settore prima della nostra storia. Non si sono state tante offerte di lavoro sul mercato quante ce ne sono oggi dal 2001». Dalla perdita di 800.000 posti di lavoro al mese alla creazione di 10 milioni di posti di lavoro in 5 anni. Non c’e’ bisogno di arrivare a questi estremi, ma, senza dover rievocare per l’ennesima volta Shumpeter ieri ne abbiamo avuto la conferma: flessibilità, mobilità e ristrutturazioni aiutano qualunque economia che voglia restare industriale avanzata, non solo l’americana.

Quanto stato c’è nella Silicon Valley

Quanto stato c’è nella Silicon Valley

Mariana Mazzucato – La Repubblica

Renzi il mese scorso ha visitato la Silicon Valley con lo scopo dichiarato di portare in Italia innovazione, concorrenza e dinamismo. Il presidente del Consiglio fa bene a fissare questi obiettivi come priorità, se si pensa allo scarsissimo dinamismo che ha caratterizzato l’economia italiana negli ultimi vent’anni, a causa della stagnazione della produttività e conseguentemente della crescita. Purtroppo, però, invece di imparare da quello che è successo veramente nella Silicon Valley, sembra aver sposato gli slogan e i miti che circondano quell’esperienza, in particolare il mito che attribuisce il fenomeno della Silicon Valley all’impulso di imprenditori geniali, finanzieri disposti a prendersi grossi rischi e uno Stato che si dedica a ridurre i vari tipi di «impedimenti» che ostacolano questi risktakers. E infatti la riforma del lavoro che Renzi sta patrocinando in questo momento punta proprio a rimuovere tali impedimenti.

Ma se è sbagliata la lettura della storia, sono sbagliate anche le politiche. La Silicon Valley è il risultato di imponenti investimenti pubblici diretti (non sussidi) lungo l’intera catena dell’innovazione, dalla ricerca di base e applicata fino alla fase finale della commercializzazione. Mentre i venture capitalists, mitizzati da Renzi, perseguono profitti nel breve termine e puntano a un’«uscita» rapida dall’investimento attraverso un collocamento in Borsa o l’acquisizione da parte di un’altra società, il Governo degli Stati Uniti ha dimostrato di essere un finanziatore paziente, fornendo (attraverso una rete decentralizzata di organismi pubblici) finanziamenti ad alto rischio ad aziende come la Compaq, l’Intel e la Apple. E oggi fornisce lo stesso genere di finanziamenti a compagnie della green economy di successo come la Tesla, che recentemente ha ricevuto un prestito garantito per 465 milioni di dollari, e meno di successo come la Solyndra, che ha ricevuto un prestito di 500 milioni: nel gioco dell’innovazione qualche volta si vince e qualche volta si perde.

Se Renzi fosse andato alla Apple Inc., avrebbe trovato designer straordinari come sir John Ives che lavorano accanitamente insieme a team di grande talento, ma di ricerca e sviluppo ne avrebbe trovata poca. La ragione è che la Apple storicamente ha messo insieme, con un brillante senso del design e della semplicità, tecnologie già esistenti. Tecnologie finanziate dallo Stato. Nel caso dell’iPhone, Internet, il Gps, il sistema di comando vocale Siri e lo schermo tattile, tutti finanziati dai contribuenti. Naturalmente la Apple non è l’unico esempio di questo tipo: l’algoritmo di Google è stato finanziato dalla National Science Foundation; il settore delle biotecnologie, quello delle nanotecnologie e dei gas di scisto sono tutti nati grazie ai fondi pubblici.

Pretendere che l’innovazione in Italia arriverà semplicemente abbassando le tasse e riducendo la regolamentazione (specie, come è ovvio, intorno al solito bersaglio facile, il mercato del lavoro), significa ignorare questa storia. Il paradosso è che Renzi ha scelto di copiare dagli Stati Uniti una cosa soltanto, il tanto criticato Jobs Act del 2012 (dove Jobs sta per Jumpstart Our Businesses , cioè «mettiamo in moto le nostre imprese»). E non sorprende l’accoglienza che ha ricevuto questa settimana nella City visto che sono proprio questo tipo di politiche a produrre uno degli aspetti più anomali del capitalismo dei giorni nostri: socializzazione dei rischi, privatizzazione dei benefici.

L’obbiettivo del Jobs Act era di ridurre ancora di più il rischio di investimento per venture capitalists già avversi al rischio allentando gli obblighi di rendicontazione finanziaria per le aziende «più piccole» (quelle con meno di 1 miliardo di dollari di ricavi annui). Oltre a questo, il Jobs Act legalizzava il crowdfunding, consentendo ai fondi di venture capital di reclutare una gamma più ampia di investitori (e singoli individui) al momento di quotare le aziende in Borsa. In che modo tutto questo possa generare crescita occupazionale non è dato sapere: sembra anzi fatto su misura per consentire ai venture capitalists di realizzare profitti smisurati con piccole aziende che rivendono tecnologie realizzate con fondi pubblici. In realtà si ingrossa sempre di più l’esercito delle piccole imprese che si lamentano per i danni provocati dall’atteggiamento speculativo e orientato esclusivamente al breve termine dei fondi di venture capital.

E allora sì, se Renzi vuole regalare all’Italia innovazione e dinamismo deve rendere il Paese più efficiente, ma deve anche evitare di focalizzarsi unicamente sulle «rigidità». Il dibattito dovrebbe vertere sul tipo di investimenti necessari, sia da parte del settore pubblico che da parte del settore privato, e soprattutto si dovrebbe chiedere alle imprese italiane di mostrarsi all’altezza della situazione: non piegarsi ossequiosamente alla City (e alla finanza italiana) ma chiedere invece al mondo della finanza di smetterla di fare pressioni per abbassare la tassazione dei capital gains, una politica da breve periodo e pretendere invece che co-investa nel lungo periodo in quelle aree che in una crescita trainata dall’innovazione richiederebbe. E smetterla di chiedere sussidi ed elargizioni, smetterla di lamentarsi della burocrazia (che non è tanto maggiore di altre parti d’Europa che stanno crescendo) e decidendosi a investire, in collaborazione con lo Stato, in quelle opportunità in grado di costruire un futuro innovativo per l’Italia. E quando gli economisti di destra gli dicono che tutto quello che deve fare è tagliare le tasse, dovrebbe farlo in modo oculato, riducendo le tasse sulle assunzioni e non sulle plusvalenze. E poi ricordarsi che ai tempi del presidente Eisenhower, repubblicano ed ex generale dell’esercito – non certo un comunista – l’aliquota più alta negli Stati Uniti sfiorava il 90 per cento: e fu sotto di lui che vennero realizzati alcuni dei più importanti investimenti in innovazione. E magari citare anche un altro che non è comunista, uno degli investitori più abili e di successo della storia, Warren Buffett, che al contrario di Renzi sembra aver capito che le pressioni della City hanno distrutto e non creato posti di lavoro: «Sono sessant’anni che lavoro con gli investitori e devo ancora vederne uno, nemmeno nel 1976-1977 quando l’aliquota sulle plusvalenze era al 39,9 per cento, rinunciare a un investimento sensato per via dell’imposizione fiscale sui potenziali guadagni. Le persone investono per fare soldi e le tasse potenziali non le hanno mai scoraggiate. E a quelli che sostengono che aliquote più alte penalizzano la creazione di posti di lavoro faccio notare che tra il 1980 e il 2000 sono stati creati quasi 40 milioni di posti di lavoro in più. Cos’è successo dopo lo sappiamo: aliquote più basse e molta meno creazione di posti di lavoro».