lavoro

Vigilessa sorpresa a rubare cacciata ma con buonuscita

Vigilessa sorpresa a rubare cacciata ma con buonuscita

Matteo Basile – Il Giornale

Un diritto da preservare per alcuni. Un totem vecchio di 40 anni da abbattere per altri. Un business per molti. Si scrive «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori», si legge «Articolo 18». Altro che tutelare i poveri lavoratori indifesi. Spesso, troppo spesso, diventa una scusa per quei furbetti che vogliono approfittarsi delle pieghe della legge e, quando ci sono, di giudici compiacenti per trarne profitto. Ma quanto accaduto a Genova va oltre.

Scordiamoci discriminazioni e comportamenti fuori legge di capi cattivoni, contratti farsa, dimissioni in bianco e ricatti assortiti. Succede che una vigilessa, in servizio nel capoluogo ligure, venga sorpresa a rubare. Nessuna calunnia: era in locale ed è stata immortalata dalle telecamere di sorveglianza mentre frugava dentro una borsa non sua e portava via dei soldi. Immagini che la inchiodano ma in un primo momento i vertici del corpo di polizia municipale non fanno nulla. Fino a che la notizia diventa di dominio pubblico e allora ecco il cambio di rotta: sospensione immediata dal servizio e ritiro dell’arma cui fa seguito il licenziamento in tronco. Ma lei non ci sta, fa ricorso e, udite udite, trova un giudice che le dà ragione. Almeno in parte.

È colpevole ma, in base all’articolo 18, la causa non è infondata. Ma è colpevole, quindi reintegrarla proprio non si può. Allora il giudice decide così: ok al licenziamento ma con una mega buonuscita equivalente a 18 mensilità. Hai rubato? Si. Sei colpevole? Si. Ti cacciano a pedate perché non degna di rappresentare la divisa che indossi? Ni. Perché comunque puoi incassare un anno e mezzo di stipendio senza colpo ferire. E tante grazie all’articolo 18. Nella sua assurdità l’ordinanza emessa dal Tribunale parla chiaro. «I fatti contestati non sono idonei a integrare giusta causa o giustificato motivo, con conseguente illegittimità del licenziamento». Il che significherebbe il reintegro sul posto di lavoro che avrebbe del clamoroso. Ma il dispositivo va avanti e specifica: «Per poter applicare le sanzioni previste in caso di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo occorre tener conto delle modifiche apportate dalla legge 92 del 2012», vale a dire la legge Fornero che rimodula alcuni aspetti dell’articolo 18. E allora? Ci ha provato e le andata male, arrivederci e grazie? No, ecco la beffa. Niente reintegro sul posto di lavoro ma mega contentino. Diciotto mensilità da corrispondere alla vigilessa dalla mano lesta. Che, per inciso, saranno elargiti dalla collettività in quanto la polizia municipale è sotto diretta giurisdizione del Comune, in questo caso quello di Genova.

Storture da articolo 18 avallate, ovviamente, dai sindacati che in questa causa di lavoro che rasenta il paradosso sono stati in prima fila a sostegno della «povera» lavoratrice. E via con i cattivi pensieri dato che proprio loro, i paladini dei lavoratori bistrattati, per ogni causa di lavoro che va a buon fine (come nel caso in questione) si intascano una bella percentuale di quanto incassato dal lavoratore. Con buona pace di tutti quei lavoratori, privi di ogni tutela contrattuale e ovviamente di articolo 18, che anche se realmente cacciati a pedate senza alcun valido motivo dal proprio datore di lavoro, presentandosi presso un ufficio sindacale si sono sentiti rispondere: «Eh, ci dispiace, ma non possiamo fare nulla». Che strano.

Collocamento, il sistema deve reggersi senza intervento pubblico

Collocamento, il sistema deve reggersi senza intervento pubblico

Antonio Bonardo – Libero

Ora che il Pd ha fatto la scelta di campo netta in tema di protezione dei lavoratori nel mercato del lavoro, passando dal regime novecentesco della job property a quello europeo moderno della flexsecurity, si pone il problema di come realizzarlo in concreto. Perciò dobbiamo aver ben chiaro l’obiettivo. A nostro avviso occorre creare un sistema privato di ricollocazione, che stia in piedi senza intervento operativo né sostegno economico pubblico. Proviamo ad elencarne gli ingredienti principali.

a) Si rafforzi l’albo nazionale delle società autorizzate al servizio di ricollocazione, introducendo criteri di accesso consistenti, riferendosi a quanto fece l’allora ministro Tiziano Treu quando aprì il mercato italiano alle agenzie di lavoro interinale.
b) Il servizio di ricollocazione della persona licenziata sia pagato dall’impresa che licenzia, facendolo rientrare nel severance cost che l’impresa deve sostenere in caso di interruzione del rapporto di lavoro con il dipendente. Questo insieme all’indennità di licenziamento da corrispondere al lavoratore, che in Spagna è stata fissata in una mensilità lorda di stipendio per ogni anno di anzianità aziendale.
c) Con la fine del regime della mobilità e delle varie casse integrazioni prolungate nel tempo e il passaggio definitivo al sistema dell’Aspi, il sussidio universale, viene meno il problema della «condizionalità»›, la revoca dell’ammortizzatore in caso di rifiuto dell’offerta congrua: l’ammortizzatore attivo dura poco tempo ed è economicamente contenuto, rendendo i comportamenti opportunistici poco convenienti.
d) L’eventuale Aspi residua non corrisposta al lavoratore che si ricolloca anzitempo venga suddivisa al 50% tra il lavoratore stesso e l’azienda che lo ha licenziato. In tal modo il lavoratore ha tutto l’interesse a ritrovare un nuovo lavoro (subordinato o autonomo) il prima possibile. L’azienda sarà motivata a scegliere sul mercato le società di ricollocazione più performanti, in grado di aiutare le persone a ricollocarsi più rapidamente, potendosi finanziare il costo del servizio di ricollocazione con questo bonus.

Sarà importante che anche i fondi di formazione interprofessionali supportino la creazione di questo sistema di politiche attive, finanziando una quota parte del costo sostenuto dalle aziende per i servizi di outplacement, oltre a percorsi formativi di riqualificazione anche per persone espulse dal mercato del lavoro (purché legati a percorsi reali di reinserimento lavorativo, sotto l’egida della società di ricollocazione). In questa visione di strutturazione del servizio di supporto alla ricollocazione, imperniato sul settore privato, il ruolo del pubblico si dovrà concentrare nel realizzare il sistema di aiuto per l’enorme massa di disoccupati e inoccupati (giovani, donne, over 45, etc.) che si sono prodotti in questi anni di crisi. Fortunatamente non partiamo da zero, perché in Lombardia è stato sperimentato con successo un modello di eccellenza: la Dote unica lavoro, con la sua logica pay for result. Basterebbe un sano «copia e incolla» da parte delle altre Regioni e avremmo anche in Italia servizi per il lavoro di standard europeo!

L’eroica resistenza del Cnel

L’eroica resistenza del Cnel

Gaetano Pedullà – La Notizia

Cosa non si fa per salvare la poltrona. Se poi con la poltrona c’è un signor stipendio per non produrre assolutamente nulla se non un inutile montagna di carte, allora si può pure sfidare il ridicolo. Esattamente quello che ha fatto ieri il Cnel, sigla che sta per Consiglio nazionale dell’economia e lavoro. L’ente, pensato nella Costituzione come camera di compensazione delle istanze dei diversi soggetti economici, di fatto è stato per decenni il cimitero degli elefanti di sindacati e associazioni di ogni genere. Le sue proposte di legge si contano sul palmo di una mano, ma nel tempo ha bruciato centinaia di milioni, buona parte solo per mantenere il personale e una sede regale nel cuore di Villa Borghese, a Roma. Naturale che un Governo deciso a fare alcune riforme e a tagliare i tanti sprechi di denaro pubblico proponesse di cancellare questo carrozzone.

Dalle parti di Villa Lubin – la sede del Cnel – ovviamente non l’hanno presa bene e prima si sono messi a sparare tutta l’artiglieria per bloccare la soppressione in Parlamento. Poi, visto che di questo Ente in realtà non ne può più nessuno, da ieri hanno cominciato a fornire piombo ai nemici del premier. E qui non si è badato a spararle grosse. Proprio mentre il Governo rischia l’osso del collo per varare una riforma del lavoro che ha nell’abolizione dell’articolo 18 (divieto di licenziamento) uno dei punti qualificanti, il Cnel sforna un rapporto secondo cui licenziare un dipendente a tempo indeterminato in Italia è più facile niente di meno che in Germania. Ora al Consiglio dell’economia ecc. ecc. o non hanno mai parlato con un solo imprenditore oppure non hanno idea dell’immenso contenzioso che scoraggia le imprese a fare nuove assunzioni. Ma chissà quanto c’è costato questo ultimo imperdibile rapporto.

Liquidazione in busta, critiche bipartisan

Liquidazione in busta, critiche bipartisan

Stefano Re – Libero

Sindacati, imprenditori, minoranza del Pd, Forza Italia: il fronte che si oppone all’idea del governo di far trovare ai lavoratori una parte di Tfr in busta paga per rilanciare i consumi è ampio e agguerrito. I sindacati sono in rivolta, con Susanna Camusso, segretaria Cgil, preoccupata che la nuova voce in busta paga finisca per essere tassata come le altre. «Nessuno dica che si stanno aumentando i salari dei lavoratori. Quelli sono soldi dei lavoratori, frutto dei contratti e delle contrattazioni e non una elargizione di nessun governo», avverte la leader del sindacato di Corso Italia. Luigi Angeletti è d’accordo: «Capisco l’intenzione di dire che bisogna avere più soldi in tasca», sostiene il capo della Uil, ma la strada giusta consiste nel «continuare a ridurre le tasse sul lavoro». Pure Pier Luigi Bersani, che pure ieri ha assicurato che non sarà da lui che arriveranno colpi bassi al governo, si dice contrario alla proposta. «Sono soldi dei lavoratori», sottolinea l’ex segretario, «e con i lavoratori il governo dovrà parlare se vorrà toccarli».

Considerazioni simili a quelle che fanno molti forzisti. Per Maurizio Gasparri «Renzi finge di non capire che solo abbassando le tasse si rilancia l’economia. Gli 80 euro in busta paga dati ad alcuni non sono serviti a nulla. Lo stesso varrebbe per il Tfr, che anzi rischia di essere tassato come lo stipendio». Maria Stella Gelmini sottolinea invece che le Pmi «vedrebbero ulteriormente stressata la loro liquidità, a fronte di un accesso al credito bancario bloccato». Anche Beppe Grillo, leader del M55, punta il dito sui costi che il provvedimento avrebbe perle aziende: «Togliere il Tfr alle imprese vuol dire metterle in mutande e costringerle a rivolgersi al credito bancario per finanziarsi», scrive sul proprio blog. Ed è proprio sul rapporto con gli istituti di credito che si concentra l’attenzione delle imprese.

Secondo il centro studi Impresalavoro, la manovra sul Tfr prospettata da Renzi colpirebbe oltre 4 milioni di aziende, quelle da 1 a 49 dipendenti, costando loro la cifra complessiva di 876 milioni di euro sotto forma di interessi passivi per l’anticipazione in banca delle risorse necessarie. A meno che, s’intende, non intervenga un eventuale accordo tra governo e Abi, la cui percorribilità però «è ancora tutta da dimostrare». I conti sono presto fatti: i dati Banca d’Italia, spiega il centro studi, dicono che il tasso effettivo globale medio per il quarto tiirnestre 2014 per operazioni relative al finanziamento di capitale circolante è pari all’8,94% annuo. Questo significa che, se il sistema delle Pmi fosse costretto a recuperare risorse per 9,8 miliardi di euro, cioè la cifra complessiva dei Tfr attualmente accantonati in queste aziende, le imprese finirebbero per sostenere oneri finanziari pari a 876 milioni di euro su base annua. Vi è inoltre da considerare, aggiunge Impresalavoro, il caso delle aziende che, per motivi diversi, possono ritrovarsi ad avere uno scoperto di conto corrente senza afidamento, ovvero senza l’autorizzazione della banca. In questi casi, decisamente più gravi, il costo del finanziamento sarebbe nettamente superiore.

Preoccupato anche il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, per il quale «l’ipotesi di mettere il 50% del Tfr in busta paga, almeno per come sembra formulata sulla base delle indiscrezioni circolate, finirebbe per indebolire ulteriormente il nostro sistema produttivo, accentuando il processo di riduzione occupazionale».

Il governo pare spiazzato dinanzi a queste obiezioni. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, assicura che non saranno presi provvedimenti vincolanti nei confronti delle banche, e questo ovviamente non può tranquillizzare le aziende. «Siamo pienamente consapevoli del fatto che le imprese, in particolare le piccole, soffrono dal punto di vista della liquidità», ha detto il ministro intervistato da Porta ci Porta. «Non possiamo obbligare le banche», ha avvisato, «ma lavoriamo a fronte del fatto che anche nelle banche, come in tutti gli operatori e gli italiani, ci sia l’interesse a rendere dinamica l’economia italiana». L’esecutivo pare insomma intenzionato a esercitare una sorta di moral suasíon nei confronti delle banche, la cui efficacia è tutta da dimostrare.

E sul Tfr in busta paga scoppia la rivolta bipartisan

E sul Tfr in busta paga scoppia la rivolta bipartisan

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Il Tfr in busta paga? È la «politica dell’uovo oggi» mentre «la gallina sta morendo a causa della crisi». Il copyright è di Renata Polverini, deputata di Forza Italia ed ex segretario dell’Ugl. Toni forti ma che spiegano come il nuovo fronte aperto dal premier Matteo Renzi rischi di trasformarsi in un boomerang. La paura di finire politicamente stritolati dalla crisi è tanta. Lo dimostra la premessa alla Nota di aggiornamento del Def del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. «In termini cumulati, la caduta del Pil in Italia è superiore rispetto a quella verificatasi durante la Grande depressione del ’29», scrive.

Il fine giustifica i mezzi, quindi? Per ora, l’unica certezza è che, dopo lo scontro sull’articolo 18, gli avversari di Renzi, come Susanna Camusso e Pier Luigi Bersani, hanno trovato altre munizioni da sparargli contro. In più, il presidente del Consiglio potrebbe alienarsi le simpatie di coloro che lo hanno sponsorizzato o che, per lo meno, non gli sono pregiudizialmente ostili. È il caso dell’Alleanza delle Cooperative, formata da LegaCoop (la «patria» del ministro Poletti), Confcooperative e Agci. «Così indeboliamo ancora di più le imprese», ha detto Mauro Lusetti, numero uno delle cooperative rosse. I numeri li ha snocciolati il leader di Confcooperative, Maurizio Gardini. «Sono interessate – ha chiosato – oltre il 90% delle imprese cooperative e il 30% delle persone occupate, circa 400mila, perciò parliamo di risorse importanti: 160 milioni». Occorre ricordare che il progetto mirato allo sblocco delle «liquidazioni» è ancora in fase embrionale. Non ci sono certezze sulle modalità e, soprattutto, sulla tassazione che sarà applicata. Né, tantomeno, si sa se gli istituti di credito utilizzeranno i prestiti Tltro della Bce per finanziare le imprese che perderanno questi preziosi accantonamenti. Si sa, però, che per queste ultime sarebbe comunque una tragedia.

Fidarsi di un governo che non rispetta gli impegni, infatti, è molto difficile. «Le cooperative a fine 2013 vantavano un credito verso la Pa di 12 miliardi di euro e ne risulta pagato circa il 40%», ha concluso Gardini evidenziando come manchino ancora 7,5 miliardi circa. L’Alleanza delle Coop ha inoltre ricordato come il 10% delle associate nel secondo quadrimestre abbia ricevuto richieste di rientro sui fidi da parte delle banche. E i prestiti continuano a costare parecchio. Secondo il Centro studi ImpresaLavoro, l’erogazione del Tfr costerebbe alle pmi 9,8 miliardi di euro. Per recuperare queste risorse, ovviamente, ci si dovrebbe rivolgere al mondo del credito che applica tassi medi dell’8,94% annuo con un aggravio di costi di 876 milioni di maggiore spesa per interessi. Insomma, per dare ai lavoratoti al massimo 100 euro in più ogni mese senza confermare il bonusda 80 euro al superamento della soglia di reddito massimo (26 mila euro annui lordi), si può correre il rischio di affossare definitivamente il sistema imprenditoriale come denunciato dal presidente di Confcommercio Carlo Sangalli.

La mossa, infine, non migliora i rapporti del premier con la sinistra. «Sono soldi dei lavoratori», dicono all’unisono Susanna Camusso e Pier Luigi Bersani puntualizzando che il Tfr non è un regalo. La leader della Cgil ha messo l’accento sulla libertà di scelta per i lavoratori, anche quella di destinare le risorse alla previdenza integrativa. L’ex segretario Pd, in perenne polemica con Renzi, ha rilevato che «bisogna sempre esser cauti quando ci si mangia oggi le risorse di domani», alludendo alla possibilità di detassare ulteriormente i versamenti ai fondi pensione complementari. Il fatto che non si tratti di pretesti ideologici, ma di problemi concreti rende l’idea di quanto impervia sia la strada di Renzi.

Riforma articolo 18? Occhio al labiale

Riforma articolo 18? Occhio al labiale

Giuliano Cazzola – Italia Oggi

Che Marco Biagi riposi in pace. Questa non è una legge «sua». L’idea di mercato del lavoro che si può intravedere tra le fumisterie dell’articolo 4 del disegno di legge delega Poletti (AS 1428), ora in Aula a Palazzo Madama, non corrisponde, per tanti aspetti, al pensiero del professore bolognese, assassinato dalle Brigate Rosse dodici anni or sono. La verità è che su quel provvedimento è in atto un regolamento di conti, a sinistra, che non trova riscontro nel merito. Nella norma emendata, infatti, pur essendo meno generica e più articolata rispetto ai testi precedenti, continua a non esservi traccia né dei principi, né dei criteri direttivi, né della definizione dell’oggetto come disposto dall’art. 76 Cost. in materia di funzione legislativa delegata. Resta aperta, pertanto, non solo a dubbi di incostituzionalità ma anche ad ogni possibile soluzione al momento della decretazione attuativa. Il suo contenuto, vago e cerchiobottista, non ha nulla da spartire con la durezza del dibattito in corso.

Cominciamo dalle parole che mancano. Non sono neppure nominati lo Statuto dei lavoratori né tanto meno l’articolo 18 e la disciplina del licenziamento individuale. È possibile che significative modifiche ad istituti così importanti e delicati siano soltanto sussurrate o avvengano per «sentito dire» o mediante interviste a Repubblica, senza essere mai accennate, sommariamente, per iscritto, almeno su di una slide? Tralasciamo le questioni del «demansionamento» e dei controlli a distanza (anche in questi casi i criteri sono laschi) per andare diritti al clou: la «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio».

Il contratto di nuovo conio si applicherà ai nuovi assunti o anche a chi cambia lavoro e viene assunto ex novo da un altro datore? In ogni caso, consoliamoci, un cambiamento importante dovrà esserci: la tutela reale interverrebbe, quanto meno, a rapporto di lavoro inoltrato (in nome, appunto, della logica della protezione crescente «in relazione all’anzianità di servizio»). Nella peggiore delle eventualità, pertanto, vi sarebbe una tutela modulata con un mix tra indennità risarcitoria e reintegra. Si tratterebbe certamente di un passo avanti. Guai però a chi ha cantato anticipatamente vittoria. Se quelle norme andranno in porto e i decreti delegati saranno coerenti con quegli oscuri principi che si possono decrittare tra le righe, il progetto è rivolto a rimettere al centro del mercato del lavoro il contratto a tempo indeterminato (sia pure a tutele crescenti), potando il più possibile quei rapporti atipici che, ordinati e disciplinati appunto dalla legge Biagi del 2003 (insieme al Pacchetto Treu del 1997), consentirono, pur in un contesto di modesta crescita economica, di incrementare di 3,5 milioni di unità il numero degli occupati e di dimezzare la disoccupazione.

Correrà seri rischi anche la riforma del contratto a termine che pur rappresenta la chiave di volta della flessibilità, dopo l’abolizione del «causalone» per l’intera durata dei 36 mesi e la possibilità di ben 5 proroghe. Questa tipologia non potrà non essere «resa coerente» con il nuovo contratto a tempo indeterminato, proprio perché le due forme contrattuali marcerebbero in parallelo, svolgendo la medesima funzione. E nessun imprenditore con un po’ di sale in zucca rinuncerebbe ad avvalersi del contratto a termine made by Poletti anche se il contratto a tutele crescenti, di nuova istituzione, fosse «drogato» con i soliti sconti fiscali e contributivi (per i quali sarebbe persino problematico reperire le risorse).

Marco Biagi sosteneva che nessun incentivo economico può compensare un disincentivo normativo. Basta considerare l’esito delle agevolazioni previste dal «pacchetto Giovannini» del 2013 (650 euro mensili per 18 mensilità a favore delle assunzioni a tempo indeterminato): appena è entrato in vigore il decreto Poletti sui contratti a termine, le richieste di avvalersi di quelle opportunità sono crollate, perché le imprese hanno preferito assumere a tempo determinato nonostante i maggiori costi previsti. In tutti questi anni, si è diffusa la teoria che i rapporti atipici fossero una «uscita di sicurezza» dal giogo di un contratto a tempo indeterminato troppo rigido. Sarebbe bastato, secondo quella tesi, modificare la disciplina del recesso per riportare quel rapporto al centro del mercato del lavoro.

Non era questa l’opinione del mio amico Marco Biagi, il quale non pensava affatto di introdurre, nella legge che porta il suo nome, tipologie flessibili in entrata allo scopo di consentire ai datori di aggirare, in uscita, la trappola dell’articolo 18. Biagi riteneva, giustamente, che la frammentazione esistente nella realtà del mercato del lavoro potesse essere affrontata in modo adeguato e pertinente – ed utile alle imprese ed ai lavoratori – solo attraverso la previsione di una gamma di contratti specifici mirati a regolare le diversità dei rapporti di lavoro, anziché imporre loro, per via legislativa, una sorta di reductio ad unum nell’ambito di un contratto a tempo indeterminato (non più «unico») sia pure meno oppressivo e poliziesco per quanto riguarda la tutela del licenziamento. Ecco perché – lo ripetiamo – lo scontro sul Jobs act Poletti n.2 si svolge tra due sinistre: quella conservatrice e quella riformista. Ma il terreno di gioco è lo stesso: l’idea, sempre più fuori dalla realtà, che la figura centrale e prevalente del mercato del lavoro debba essere quella del dipendente assunto a tempo indeterminato. A sinistra, conservatori e riformisti, accettano tutti questo dogma. Si dividono su quale sia il modo migliore per realizzare tale obiettivo: forzando la vita quotidiana dentro i loro schemi ideologici come vogliono continuare a fare i conservatori o incoraggiando i datori ad assumere con incentivi economici e tutele più sostenibili in tema di recesso.

Con il Tfr pagato immediatamente si tolgono ulteriori risorse ad aziende già salassate

Con il Tfr pagato immediatamente si tolgono ulteriori risorse ad aziende già salassate

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Probabilmente Adam Smith approverebbe l’idea di smobilizzare una parte del tfr, restituendolo in busta paga ai lavoratori cui compete. Si tratterebbe, infatti, di un fatto coerente con l’Illuminismo settecentesco e con la dottrina liberale che considera l’uomo (libero) degno di fiducia, molto più che lo Stato. Le osservazioni che si leggono in giro (l’accantonamento in vista di spese importanti a fine lavoro o il definitivo crollo della previdenza integrativa) rientrano nel pensiero dominante, che incrocia la dottrina sociale (soccorrevole) della Chiesa al credo comunista dello Stato «governatore» degli uomini, e non convincono. Ogni operazione messa in piedi sulla via della liberazione dell’individuo è eticamente superiore ed economicamente opportuna.

Tuttavia, «hic et nunc» (qui e ora), l’uso del tfr suggerisce una constatazione e apre un problema. La prima è che, viste le difficoltà di trovare quattrini nel bilancio dello Stato, è facile governare con i soldi degli altri. Il problema è che l’accantonamento del tfr è una risorsa aziendale, l’unica rimasta a causa di un erario dedito al saccheggio dei profitti generati da ciò che resta dell’economia privata. E questo non è un frutto di un destino avverso che ci perseguita da almeno vent’anni. È il frutto avvelenato (il maggiore protagonista Vincenzo Visco, inventore dell’Irap) della convinzione che il cittadino è un incapace incosciente, pericoloso evasore che occorre porre sotto stretto controllo (fiscale) in modo che non abbia i mai i quattrini per vivere la vita che preferisce. L’ideale, il massimo della felicità per i sadici che propugnano la posizione è il cittadino dipendente dello Stato, seguito e diretto dalla nascita alla morte. L’esempio più evidente l’Unione sovietica.

In Italia, gran parte del personale politico (quasi tutto d’accatto, nel senso che è composto da gente che non ha saputo affrontare ed esercitare una qualsiasi attività lavorativa), anche di centro-destra, visti i risultati, non s’è reso conto che il capitalismo ha vinto e governa il mondo. E che alle sue regole occorre adeguarsi. E non pare proprio che il nostro giovane presidente del consiglio sappia bene cos’è successo: basti il fatto che cita, nel suo Pantheon personale, gente come La Pira e don Milani che rappresentano la negazione della contemporaneità.

Quindi, ordinando alle imprese di erogare, in busta paga, una parte del tfr, si costringe il sistema produttivo a privarsi di risorse reali o di accantonamenti virtuali che non possono essere utilizzati senza «svaccare» conti economici, investimenti per ricerche, riserve fisiologiche. Certo, quest’operazione non è farina del sacco di Renzi, ma dovrebbe discendere dal suo «staff» di consulenti. Sarà bene che ci si pensi su in modo approfondito, tralasciando il contributo di organizzazioni virtuali come la Confindustria, per puntare sulle opinioni del mondo finanziario, a partire proprio da Mario Draghi, che, il «premier» ha difficoltà ad accettare come riferimento, visto il gap culturale e, in sostanza, politico.

Il semestre italiano di presidenza dell’Unione entra nella fase conclusiva senza fatti o iniziative degne d’essere ricordate, a parte la riunione dei ministri della cultura a Torino, promossa dal nostro Franceschini. Né per i prossimi mesi si vedono proposte degne di catalizzare l’attenzione dei nostri «partner». Non è però il momento della rassegnazione. È il momento di agitare le acque rilanciando una posizione italiana sulle sanzioni alla Russia, sui problemi energetici, sul «dumping» fiscale, sul programma di infrastrutture europee, immaginato negli anni 80 da Delors e mai attuato. Se la fiducia è una componente essenziale della guerra alla recessione, è il momento di sollecitarla, con decise iniziative in Europa, a Bruxelles, a Berlino e a Francoforte. E se il bottiglione (non fiasco) Renzi contiene vino buono, è il momento di versarlo.

La sinistra e lo scoglio del “fare impresa”

La sinistra e lo scoglio del “fare impresa”

Mario Rodriguez – Europa

Non è per attizzare lo scontro sui massimi sistemi, le visioni del mondo, le ideologie (in accezione positiva). In un partito davvero plurale si dovrebbe preferire confrontarsi sulle conseguenze dei principi piuttosto che sui principi stessi. Ma forse il Pd non è ancora del tutto un partito plurale e allora il confronto apertosi sul Jobs Act per il suo un significato più generale, simbolico, “diciamo” di cultura politica, acquista una sua importanza. Si dice confronto sul Jobs Act ma in fondo si parla del fare impresa.

Mi pare particolarmente significativo che Matteo Renzi nella sua replica abbia fatto riferimento agli interventi di Soru, Scalfarotto e del ministro Poletti tutti centrati su una specifica visione del fare impresa e dell’imprenditore. E non a caso la polemica più significativa è stata attorno all’uso della parola “padrone” fatta da Massimo D’Alema. Lo scontro sul ruolo del fare impresa racchiude anche una questione forse ora in via di soluzione nella sinistra italiana e che ebbe già ai tempi del saggio su Proudhon, firmato da Craxi, un momento cruciale: un’altra sinistra non di ispirazione (più o meno) marxista è possibile. Quindi, non solo chi ha preso origine dal movimento comunista o socialista massimalista è titolato a usare il brand “sinistra”.

Per semplificare da un lato (chiamiamoli per comodità contrari al Jobs Act) c’è chi sostiene o teme che la nuova legge possa rappresentare il ritorno dell’arbitrio padronale nelle relazioni di lavoro, un’idea servile del lavoro, il ritorno all’800. E logicamente, per loro l’impresa è un meccanismo che spinge il “padrone” per sua stessa natura (dati i rapporti di forza) a schiacciare il lavoratore, a limitarne la dignità umana, lo aliena, lo rende merce. Anche se non lo si esplicita quella dei “contrari” è la visione residua di una concezione classista del rapporto capitale lavoro anche se impacchettata in una terminologia neo keynesiana. L’impresa è il luogo della “contraddizione insanabile”, è il motore unico o privilegiato della società, è il luogo dove si produce il valore ma anche l’emancipazione. E sotto, sotto c’è sempre l’idea che il ruolo del capitalista sia residuo, possa essere surrogato da un operatore collettivo, dallo stato. La società senza capitalisti può esistere e funzionare!

Dall’altro ci sono coloro (chiamiamoli per comodità favorevoli al Jobs Act) che vedono l’impresa come uno dei luoghi della generazione della ricchezza (non il solo), vedono il profitto come incentivo ad investire e misura di efficacia, non come meccanismo di sfruttamento abolibile; generatore di opportunità collettive (attraverso la fiscalità) e non solo come avidità egoistica individuale. Vedono l’imprenditore come soggetto socialmente meritorio oltre che utile, come contribuente e non come potenziale evasore. Come inventore, portatore di visioni e aspirazioni. Un innovatore capace di imporre un nuovo modo di soddisfare bisogni. Forza da imbrigliare in regole precise (per contrastare la naturale propensione a cercare posizioni di dominio o di rendita e spesso scorciatoie illecite) ma non tali da frustrarne le potenzialità. Più Schumpeter che Marx per intendersi.

Anch’egli, come i leader carismatici, forza da domare per utilizzarne il potenziale non da demoralizzare. Per questo i “favorevoli” pensano che sia opportuno che l’imprenditore abbia – soprattutto in momenti di crisi – maggiori certezze regolamentali e maggiori possibilità di fare le proprie scelte sui collaboratori e i lavoratori della sua impresa. Pensano che le valutazioni di un giudice – variabili di luogo in luogo, di soggetto in soggetto – non solo non siano all’altezza delle scelte da compiere ma non possano surrogare le decisioni manageriali.

Detta così una visione sembra tutta conflitto e lotta e l’altra tutta armonia e amore per il prossimo. Ovviamente non è così. Il sindacato, anche la Fiom di Landini, sa negoziare tenendo presenti le esigenze produttive e le scelte manageriali come nel caso Ducati. E Poletti, Soru e Scalfarotto sanno benissimo che il conflitto non solo non è eliminabile in qualsiasi società ma è utile, è fisiologico, aiuta a migliorare, difende i più deboli e contrasta arroganza e abuso di potere. Una visione democratica prevede la competizione, la cooperazione e il conflitto, riconosce le diseguaglianze e combatte le discriminazioni. E non si preoccupa solo della discriminazione sul luogo di lavoro come parte del conflitto di classe: mi licenzi perché sono sindacalizzato o lotto contro i padroni. Ma la combatte come un problema sociale di libertà individuale e autorealizzazione umana, di dignità. Le discriminazioni per ragioni di genere, razza, opinioni devono essere combattute ovunque e il ricorso alla tutela della legge deve essere diffuso in tutta la società affinché diventi costume generalizzato.

Per questo credo che il confronto sul Jobs Act serva per riprendere un cammino avviatosi con la nascita stessa del Pd e abortito con il rilancio della bocciofila: quello della costruzione di un partito di sinistra plurale e post ideologico a vocazione maggioritaria, non il partito di una classe (anche se quella operaia) ma della nazione. In questo forse sta l’importanza poetica e non solo prosaica del confronto della direzione pd.

Anticipazione Tfr: gli interessi passivi costerebbero alle PMI 876 milioni di euro l’anno

Anticipazione Tfr: gli interessi passivi costerebbero alle PMI 876 milioni di euro l’anno

NOTA

I 100 euro in più al mese in busta paga prospettati dal presidente del Consiglio Matteo Renzi rappresenterebbero per le piccole e medie imprese italiane l’erogazione ai loro dipendenti del 100% del Tfr, dal momento che nel 2013 lo stipendio mensile medio percepito nelle Pmi è stato di 1.327 euro (dati del Rapporto sui salari dell’Isrf Lab/Cgil).
Se deliberata, questa disposizione colpirebbe oltre 4 milioni di imprese italiane (quelle da 1 a 49 dipendenti), costando loro la cifra complessiva di 876 milioni di euro: in assenza di un’eventuale accordo tra Governo e Abi (la cui percorribilità è ancora tutta da dimostrare), a tanto ammonterebbe infatti il costo degli interessi passivi per l’anticipazione in banca delle risorse necessarie.
Come si arriva a questa cifra? L’assorbimento di capitale comporta un costo che corrisponde al prezzo del reperimento delle risorse finanziarie corrispondenti: tale è definito in finanza come “costo del capitale”, e viene espresso attraverso un tasso di rendimento annuo. I dati Banca d’Italia ci dicono che il tasso effettivo globale medio per il quarto trimestre 2014 per operazioni relative al finanziamento di capitale circolante è pari all’8.94% annuo. Questo significa che, se il sistema delle Pmi fosse costretto a recuperare risorse per 9,8 miliardi di euro (la cifra complessiva dei Tfr attualmente accantonati in queste aziende, dati Covip-Istat), le aziende finirebbero per sostenere oneri finanziari per appunto 876 milioni di euro su base annua.
Vi è inoltre da considerare il caso delle imprese che, per motivi diversi, possono ritrovarsi ad avere uno scoperto di conto corrente senza affidamento, ovvero senza l’autorizzazione della banca. In questi casi, decisamente più gravi, il costo del finanziamento sarebbe nettamente superiore. Non va infine dimenticato come l’anticipazione del Tfr in busta paga comporterebbe per le piccole e medie imprese un’ulteriore riduzione della loro capacità di accesso al credito per la gestione ordinaria e per nuovi investimenti.
«Un sistema già stremato dall’alta tassazione e molto spesso dal ritardo con cui la Pubblica Amministrazione paga i suoi debiti commerciali e fiscali – commenta il presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – si troverebbe a dover finanziare con proprie risorse la redistribuzione fiscale immaginata dal Governo. Per mettere più soldi nelle buste paga dei lavoratori c’è una sola soluzione: quella di ridurre sensibilmente il cuneo fiscale e contributivo, evitando di utilizzare le nostre piccole imprese come un bancomat».
Rassegna Stampa:
Il Giornale
Libero
L’unica via d’uscita è trasformare i risparmi in lavoro

L’unica via d’uscita è trasformare i risparmi in lavoro

Giuseppe Berta – Il Secolo XIX

La crisi, in cui siamo entrati nell’autunno di sei anni fa e di cui non riusciamo a vedere la fine, presenta una differenza fondamentale rispetto alle precedenti: non è un passaggio congiunturale, una fase che una volta superata lascia ritenere che le cose riprenderanno più o meno come prima. No, la crisi attuale rappresenta una distruzione tale di ricchezza e, soprattutto, di capacità produttiva che prepara un declino strutturale del sistema economico del nostro Paese. L’Italia già oggi non assomiglia più alla realtà che era ancora pochi anni fa. Ieri ce lo ha detto con inconsueta chiarezza e drammaticità il Cnel (a proposito, non era uno degli enti soppressi dal governo in carica? Fino a quando farà ancora sentire la sua voce?). Dal punto di vista occupazionale, non si tornerà alla situazione precedente alla crisi. Mancano all’appello due milioni di posti di lavoro e non si sa come potrebbero essere creati, dal momento che sono venute meno le basi economiche da cui dipendevano. L’Istat non è stato più rassicurante, anche se ha usato toni meno drammatici: prezzi e consumi continuano a flettere e segnali di ripresa non si vedono. Il mercato interno prosegue nel suo ripiegamento. L’occupazione complessiva ha fatto registrare un lievissimo miglioramento, ma quella giovanile è scivolata ai suoi minimi.

Questi gli indicatori che fanno da sfondo alla discussione politica sul Jobs Act. Ma a questo punto bisognerebbe mettere gli italiani di fronte alla vera questione che abbiamo davanti: se non cambieremo il corso della nostra economia, l’Italia tomerà a essere il Paese povero che era stato negli ultimi secoli, fino alla seconda guerra mondiale. Ciò vorrebbe dire che la popolazione attuale ha avuto la sorte di vivere una parentesi felice, quei cinquanta-sessant’anni inaugurati dal “miracolo economico” che per un po’ ci hanno fatto credere che potessimo diventare “ricchi”, assimilandoci progressivamente al nucleo forte dell’Europa. Ora stiamo scoprendo che è stata un’illusione. A meno che…

A meno che ci decidiamo finalmente a mobilitare i nostri risparmi e a impiegarli nello sviluppo di una serie di attività in grado di ricostituire la ricchezza della nazione, dando un posto di lavoro decente ai nostri concittadini, specie quelli più giovani, che hanno diritto a coltivare una speranza. Serve un’operazione in grande stile, cui non siamo abituati. Serve un grandioso esercizio di leadership condotto non sui particolari (come l’articolo 18), ma sulla sostanza. Nelle condizioni in cui l’Italia è oggi, bisognerebbe varare qualcosa di analogo alla Commissione economica della Costituente del 1946: consultare gli operatori economici e chiedere quale via di sviluppo potremmo seguire per uscire dalle sabbie mobili. E poi mobilitare risparmio e lavoro per una strategia di investimento che rilanci la nostra economia, ma su basi nuove rispetto a quelle del passato (che in buona parte non esistono più). In altre parole, invece di amministrare con cautela e parsimonia un patrimonio destinato a consumarsí, significherebbe investirlo, essendo disposti a rischiare. Sta a noi tutti – e non solo alla nostra carente classe dirigente – decidere se farlo oppure se rassegnarci al grigiore del declino.