lavoro

L’amaca

L’amaca

Michele Serra – La Repubblica

Il dibattito sull’articolo 18 ha qualcosa di nobilmente nostalgico (nei suoi difensori) e di inutilmente maramaldesco (nei suoi avversatori). È un po’ come veder qualcuno che litiga sulla scelta delle tende in un palazzo ormai ridotto in macerie. Nel frattempo il lavoro è diventato una poltiglia che gli offerenti vendono sottocosto, e nonostante questo gli acquirenti non possono più permettersi di comperare; sistema pensionistico e sistema sanitario poggiano su basi di prelievo sempre più esigue. Specie ad ascoltare le storie di molti ragazzi, anche laureati, l’impressione è di vivere una specie di lungo “anno zero” del lavoro, che non c’è, se c’è è mal pagato, se è ben pagato è di corto respiro. Bisognerebbe, tra le macerie, ripensare daccapo a diritti, doveri, tutele.

Ma per farlo ognuno dovrebbe rinunciare a qualcosa: i sindacati alla memoria gloriosa ma oramai remota del proletariato di fabbrica e di una visione di classe resa impossibile dalla trasformazione delle classi (non solo quella operaia) in un immenso coacervo di individui smarriti e di interessi frantumati; i datori di lavoro al terrore, vecchissimo anche quello, che un lavoro più garantito sia solo un impiccio e una minaccia; la politica all’illusione di limitarsi ad arbitrare, come ai tempi di Agnelli e Lama, un conflitto padroni-operai oramai largamente in secondo piano rispetto al vero conflitto di classe, che è quello tra capitale finanziario da un lato, mondo del lavoro (imprenditori compresi) dall’altro.

Più La Malfa che Thatcher nel Piano Renzi

Più La Malfa che Thatcher nel Piano Renzi

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Circa quarant’anni fa, in un’Italia molto diversa da oggi, Ugo La Malfa aveva posto un problema centrale alla politica del suo tempo, descrivendo la cittadella fortificata in cui si erano rinchiusi i privilegiati, ossia coloro che avevano un lavoro, e dalla quale erano invece esclusi i disoccupati. La sfida era piuttosto esplicita e così la intesero coloro ai quali era rivolta: il mondo comunista e socialista e i sindacati. Questi ultimi in particolare, con Luciano Lama, seppero raccogliere il messaggio e il confronto che ne seguì diede un contributo non trascurabile all’evoluzione della sinistra.

Questo per dire che non c’è bisogno di scomodare Blair o Schroeder, e tanto meno di tirare in ballo la Thatcher, per spiegare le iniziative di Renzi sulla riforma del lavoro. Nell’Italia smemorata dei nostri tempi tutto appare nuovo e mai sentito prima, per cui ogni presa di posizione che increspa lo stagno deve essere per forza importata dall’estero. Ed è vero, senza dubbio, che è urgente un rinnovamento culturale in grado di restituire un senso alla politica e anche di modellare nuove relazioni con il sindacato: purché quest’ultimo decida di vivere nel nostro tempo.

In ogni caso, quello che risulta essere – e in effetti è – un grave ritardo nell’aggiornare gli schemi e i codici del dibattito politico, è anche figlio della pigrizia degli ultimi vent’anni. Ossia il periodo in cui la sinistra, dietro l’alibi della lotta mortale a Berlusconi, ha rinunciato a muoversi con passo rapido e si è chiusa nel fortilizio da cui troppi sono stati tenuti fuori: i disoccupati, certo, ma anche coloro che via via hanno perduto fiducia nel sistema. Eppure sarebbe bastato ritrovare gli autentici spunti riformatori del dopoguerra, sviluppandoli nella cornice del Duemila, per colmare il vuoto.

Sulla questione del lavoro, è stato notato da molti osservatori, Renzi ha ragione. Come ha ragione nel colpire le incrostazioni ideologiche dure a morire, specchio di un’Italia che in quei termini non esiste più. Si chiedeva al premier di essere concreto, di passare ai fatti dopo tante parole, e non si può adesso rimproverargli di essere fedele a se stesso. Anche perché l’attuale sinistra – che militi nel Pd, in altre formazioni o nel sindacato – dovrebbe avere tutto l’interesse a incoraggiare il riformismo di Palazzo Chigi. Magari per correggerlo e integrarlo nel corso del dibattito parlamentare, ma senza dare l’impressione di un «no» pregiudiziale e quindi ideologico: il che vale per la Cgil, naturalmente, ma anche per la minoranza del Pd (non tutta per la verità, basta leggere le parole di buon senso pronunciate dal presidente democratico, Orfini).

L’articolo 18 è un simbolo da abrogare: non crea occupazione

L’articolo 18 è un simbolo da abrogare: non crea occupazione

Fabrizio Rondolino – Europa

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori va abrogato non perché la sua eliminazione basterà da sola a riformare un mercato del lavoro nemico dei lavoratori, e neppure perché creerà magicamente nuova occupazione (l’occupazione la creano le imprese, non i governi o le leggi). L’articolo 18 va abrogato perché è un simbolo: delle diseguaglianze del mondo del lavoro e dello strapotere di una burocrazia sindacale interessata all’autoconservazione. È per questo che Matteo Renzi non intende recedere e, se necessario, farà un decreto, ed è per questo che Susanna Camusso estrae aglio e crocifisso e lo accusa nientemeno che di avere in mente la Thatcher (come se fosse un insulto).

Nella prospettiva dei mille giorni – e non c’è motivo di dubitare che il presidente del consiglio preferisca la certezza del governo all’incertezza di una nuova campagna elettorale – Renzi ha bisogno, preliminarmente, di sottrarre il potere di veto alle corporazioni più forti. Per fare le riforme radicali che le classi dirigenti passate hanno sempre promesso e mai realizzato, non c’è bisogno soltanto di una maggioranza parlamentare coesa e di una pubblica amministrazione efficiente: è altresì necessario che i gruppi di potere non legittimati dal voto rientrino nell’alveo loro proprio. Che è quello della rappresentanza legittima di interessi particolari, non della cogestione feudale della cosa pubblica. La magistratura è uno di questi poteri. Il sindacato un altro. I dipendenti a tempo indeterminato che godono della protezione dell’articolo 18 (perché le loro imprese hanno più di 15 impiegati) sono circa 6,5 milioni. I lavoratori in Italia sono 22,5 milioni, cui se ne aggiungono almeno altri tre in nero. Dunque l’articolo 18 protegge soltanto un quarto dei lavoratori, e nessun disoccupato: non è un diritto, ma un privilegio.

Se la Cgil sceglie la strada del muro contro muro, non è perché abbia a cuore gli interessi dei lavoratori – i quali da tempo, con l’eccezione dei metalmeccanici e del pubblico impiego, non sono più rappresentati da nessuno – né tantomeno perché voglia creare nuova occupazione. L’interesse dominante della Cgil – l’unico che ne definisca oggi la ragione sociale – è conservare un potere di veto, di condizionamento e di ricatto a spese dei lavoratori. La visione del mondo della Cgil prevede un padrone cattivo, un dipendente sempre e comunque intoccabile e uno Stato grande elemosiniere: non c’è merito, non c’è qualità, non c’è libertà d’impresa, non c’è valore del lavoro. Ci sono invece molte tasse, burocrazie immense, sprechi e clientelismi, consociazione e stagnazione.

Questa visione del mondo è oggi intollerabile: perché è sbagliata, perché è profondamente ingiusta, e perché sono finiti tanto i soldi quanto i posti di lavoro. La pretesa della Cgil (e della minoranza del Pd, che ancora una volta cede al richiamo della foresta) di difendere e conservare la stratificazione castale e l’ingiustizia stridente del sistema che ha soffocato il Paese, è un ostacolo oggettivo alla ripresa economica. E come tale va rimosso. La Cgil forse non se ne è accorta, ma l’Italia si sta giocando l’osso del collo: e non può essere una burocrazia sindacale a bloccare il paese.

Proprio perché si combatte intorno ad un simbolo, la battaglia contro l’articolo 18 è politicamente cruciale. Perché ridimensiona lo strapotere sindacale, chiude una volta per tutte la partita truccata della concertazione, e rovescia le priorità: non più gli apparati e il posto fisso, ma i lavoratori e il lavoro. È un peccato che in questo scontro la Cgil scelga la trincea della conservazione e del privilegio: perderà la battaglia e anche la guerra, e a rifare il sindacato dovrà pensarci qualcun altro.

Quell’articolo 18 è il simbolo di un’anomalia

Quell’articolo 18 è il simbolo di un’anomalia

Bruno Vespa – Il Mattino

Matteo Renzi ha un obiettivo chiave. Dire ai rappresentanti europei riuniti l’8 ottobre a Milano per il vertice sul lavoro che l’Italia sta facendo finalmente i compiti a casa. Per questo vuole che il Senato approvi la delega sulla riforma dello Statuto dei lavoratori. Approvare una legge delega non significa tuttavia aver tolto le garanzie dell’articolo 18 della vecchia legge per i nuovi assunti e per un periodo limitato. Dice infatti l’emendamento del governo a un vecchio testo ancora più generico: “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”. Che significa? Tutto e niente. È solo una cornice, com’è appunto una legge delega. I contenuti dovranno esservi inseriti dal governo con un provvedimento autonomo che non dovrà essere approvato dal Parlamento, ma solo inviato per un parere non vincolante.

Il cuore dell’articolo 18 è il reintegro nelle stesse funzioni del lavoratore licenziato senza giusta causa. La volontà del governo è di sostituire il reintegro con un indennizzo economico proporzionato agli anni di lavoro, garantendo al lavoratore un’assistenza e una possibilità di reimpiego assai più efficaci della vecchia cassa integrazione. Ma questa per ora è soltanto una intenzione. Le polemiche degli ultimi due giorni stanno montando per evitare che l’intenzione venga attuata. Maurizio Sacconi, presidente della commissione Lavoro del Senato per il NCD e già ministro del Welfare di Berlusconi, sostiene che l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti e per tre anni è cosa fatta. Cesare Damiano, già ministro del Welfare di Prodi, e leader dell’ala CGIL del Pd dice che non se ne parla. Giuliano Poletti, ministro del Welfare di Renzi, dice che c’è tempo per parlarne. E ieri Deborah Serracchiani, vice segretario del Pd, ha dichiarato: “Nel testo attuale, il contratto a tutele crescenti non contiene la previsione della reintegra, ma questo non vuol dire che non possa contenerla nelle prossime versioni”. Come dire: non preoccupatevi, abbiamo scherzato.

Dinanzi a questo scenario, Matteo Renzi non può pretendere che i suoi colleghi europei si fidino delle promesse italiane. Siamo convinti che lui voglia portare a compimento l’opera in modo davvero innovativo. È vero che il reintegro forzoso nel posto di lavoro riguarda ogni anno soltanto qualche migliaio di lavoratori. Ma è un simbolo: e la politica, nel bene o nel male, vive anche di simboli. Il reintegro è sostituito in tutti i principali paesi europei da una compensazione economica. E nessuno dei tecnici che hanno scritto le leggi è stato ammazzato come Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi, né vive scortato da anni come Pietro Ichino e Maurizio Sacconi, che di Biagi fu la sponda politica.

Un’anomalia italiana dovrà pur finire un giorno se vogliamo passare dall’inferno al purgatorio. Renzi ha detto che se entro la fine di ottobre la legge delega non sarà approvata, il governo procederà con un decreto legge. Ma il decreto è peggio della de lega, perché dovrà essere convertito dalle Camere, mentre per 1 attuazione della delega è sufficiente un atto del governo. È possibile perciò che si arrivi a un nuovo voto di fiducia, perché Renzi non può permettersi di far passare la legge con il voto decisivo di Forza Italia. Ma poi che cosa si scrive dentro la delega? La confusione è grande sotto il cielo. E noi abbiamo un disperato bisogno di chiarezza. Renzi pure. Anche a costo di affrontare uno sciopero generale.

L’unilateralità sindacale, fucina di infiniti privilegi

L’unilateralità sindacale, fucina di infiniti privilegi

Sergio Soave – Italia Oggi

Ancora una volta la questione del diritto del lavoro si presenta come quella più ostica da governare per la sinistra italiana. L’onda lunga del ’68 italiano ha prodotto una saldatura tra i settori radicali del sindacalismo (non necessariamente sempre della Cgil, se ci si ricorda dell’egualitarismo originario di Pierre Carniti) e i giovani magistrati del lavoro, che hanno applicato per decenni in modo unilaterale e creativo le norme dello Statuto in base al principio, proclamato apertamente, che il dipendente ha sempre ragione e se la legge non lo dice bisogna interpretarla in modo da farglielo dire.

Naturalmente alla base c’era l’idea di un risarcimento per decenni di discriminazione antisindacale e anticomunista nelle fabbriche, ma la risposta a una esigenza giusta si è trasformata in una nuova gabbia che ha portato a una stratificazione straordinaria del lavoro, minando alla base lo stesso principio di solidarietà sociale che è alla base del sindacalismo confederale.

La difesa dello status quo del mercato del lavoro è passata per diverse fasi, compresa quella degli attentati terroristici contro le agenzie di collocamento non più pubbliche (dopo che una vertenza europea contro il monopolio statale del collocamento era stata vinta da Pietro Ichino, che si era fatto le ossa nell’ufficio legale della Cgil milanese). I tentativi successivi, quello di Massimo D’Antona sostenuto da Antonio Bassolino ministro del lavoro di Massimo D’Alema e di Marco Biagi, sostenuto da Roberto Maroni nel governo di Silvio Berlusconi, come è noto, provocarono tragici crimini terroristici. Di tutt’altra natura, naturalmente, la risposta di massa della Cgil di Sergio Cofferati, pacifica e democratica ma connotata dall’idea di fondo del riformismo novecentesco, secondo cui c’è una freccia della storia che segna il progresso nelle condizioni di lavoro, il che implica che le differenziazioni rappresentano solo le conquiste già ottenute da alcuni destinate a essere estese a tutti. La realtà ha dimostrato che le cose non stanno così, che i vantaggi di alcuni vengono pagati da altri e così diventano privilegi, ma è proprio su questo giudizio di fondo che la sinistra italiana non riesce a concordare, come quella francese sull’inutilità della riduzione dell’orario a 35 ore, il che finisce col costruire steccati ideologici che rendono o inefficace l’azione dei governi o irrilevante la protesta dei sindacati o riescono nel capolavoro di mettere insieme l’insuccesso di ambedue le parti in causa.

La responsabilità flessibile

La responsabilità flessibile

Piero Ignazi – La Repubblica

Un primo ministro in maniche di camicia che, dalla sede del governo, polemizza aspramente con una importante organizzazione degli interessi; e anche, il segretario del partito di sinistra che attacca frontalmente il proprio sindacato di riferimento. La durezza dello scontro è inedita per le forme; quanto ai contenuti nel passato s’era visto anche di peggio, ma si trattava di partiti moderati e conservatori, non di partiti aderenti alla famiglia socialista. Entrambi i contendenti hanno perso la misura, la segretaria della Cgil paragonando il capo del governo alla Thatcher, e Renzi accusando il sindacato di non aver fatto nulla per i più disagiati in questi anni. Ed entrambi i contendenti hanno ragioni e torti.

Le ragioni del capo del governo, e il merito del suo intervento, stanno nella natura “provocatoria” del messaggio, cioè nel provocare il maggiore sindacato italiano a maggiore disponibilità e maggiore inventiva. Senza un cambio di passo anche la Cgil come tutti gli altri sindacati italiani ed europei rischia l’irrilevanza. La parabola dei sindacati americani, un tempo potentissimi, rappresenta un monito per quelli europei. Persino in Scandinavia stanno perdendo terreno tanto in adesioni quanto nella stima e nella considerazione dell’opinione pubblica. Per il semplice fatto che tutti sono stati presi in contropiede dalle trasformazioni economiche post-fordiste. Non hanno avuto la flessibilità di adattarsi ai diversi rapporti di lavoro che proliferano dovunque (e ai nuovi rapporti di forza tra capitale e lavoro). Non hanno saputo reagire per tempo e con efficacia alla miriade di nuove forme di occupazione. E di conseguenza si sono, quasi inevitabilmente, rinserrati nel territorio che meglio conoscevano e più facilmente difendevano.

È però del tutto fuori misura tacciare i sindacati di indifferenza per gli “ultimi”. Chiunque conosca dall’interno quelle organizzazioni sa quanta generosità e dedizione vi circoli. Ma non è questione di cuore o di buona volontà. Si tratta di attuare un cambio di marcia e guardare al mondo del lavoro in un’ottica più ampia, individuando quali innovazioni siano necessarie e quali residui debbano essere abbandonati (e cosa debba essere difeso con le unghie e con i denti). Perché, quando tutto cambia, e la crisi non ha fatto altro che accelerare drammaticamente processi già in atto, le vecchie conquiste rischiano di essere zavorre che impediscono di acciuffare quelle nuove. Se ha ragione il capo del governo ad insistere nell’innovazione — il suo marchio di fabbrica, peraltro — ha ragione anche il sindacato nel chiedere che si tenga conto delle tante protezioni sociali che mancano ai lavoratori a incominciare dal sussidio di disoccupazione o salario di cittadinanza che sia. Il sindacato si poneva come rappresentante di diritti universali perché il proletariato di un tempo si percepiva, ed era visto, come il terzo stato della rivoluzione francese: “tutto” come diceva l’abate Sieyès. Contrariamente a coloro che li hanno inviati ad occuparsi solo dei loro associati (quante ditini alzati a riprovarli per invadenze nel passato), i sindacati devono sentire di nuovo una responsabilità generale per il “mondo del lavoro” includendo, ovviamente, in questo campo anche chi il lavoro non ce l’ha, l’ha perso, non l’ha mai trovato e rischia di non averlo per molto.

Quando Renzi racconta delle vite spezzate dei non-occupati sentirà certo il dovere etico di rimboccarsi ancora di più le maniche per trovare soluzione a quelle disperazioni. Ma è sicuro che la via più efficace sia quella di alzare al calor bianco la polemica con il sindacato più importante? Vero è che il capo del governo non ha mostrato alcuna deferenza nei confronti dei salotti buoni e delle gerarchie confindustriali (del resto è quello che ci si aspetta da un leader di sinistra). Per decenni l’Italia ha adottato una sua modalità di concertazione che ha prodotto risultati importanti. Per perseguire un obiettivo di carattere generale, ma in certa misura contrario agli interessi della sua organizzazione, un leader di grande prestigio ed autorevolezza come Bruno Trentin, dopo aver firmato l’accordo del ‘93, si dimise. La concertazione si è ossificata ed ha perso valore. Non per questo deve essere sostituita da duelli rusticani, anzi. La crisi drammatica che viviamo non necessita di capri espiatori (e semmai, ben altri ce ne sarebbero pensando a quanto ancora prosperano i tanti topi nel formaggio, come diceva Paolo Sylos Labini). Necessita semmai di una nuova modalità di relazioni tra governo e rappresentanti di interessi nella quale ciascuno contribuisca alle necessarie innovazioni. Esibizioni gladiatorie dall’una e dall’altra parte rendono tutto più difficile.

L’articolo 18 non vale per l’80% dei nuovi contratti

L’articolo 18 non vale per l’80% dei nuovi contratti

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

«Attenzione, l’articolo 18 riguarda 9 milioni di rapporti di lavoro dipendente su 18 milioni, quindi è una protezione che riguarda meno della metà dei dipendenti italiani» ha affermato ieri mattina ai microfoni di Radio24 il giuslavorista e senatore di Scelta Civica, Pietro Ichino. Un dato incontrovertibile. Ma che fotografa un “mondo immobile”, per usare un’espressione cara a Robert Lucas, teorico assertore della capacità della politica economica di mutare quadri apparentemente immutabili.

Se dai dati di stock volgiamo lo sguardo ai flussi, quelli che fotografano mese dopo mese con quali contratti si entra nel mercato del lavoro, scopriamo che i rapporti sono molto diversi. E che anche se le cose non cambiassero a lungo andare quei 9 milioni sono destinati a ridursi molto velocemente. Vediamo i dati relativi alle comunicazioni obbligatorie del secondo trimestre dell’anno. Dati buoni nonostante la crisi perché, come ha segnalato l’Isfol a fine agosto, segnalano un aumento delle assunzioni (+3,1% su base annua con circa 2.651.000 avviamenti), centrando il il miglior dato dal secondo trimestre del 2012. Ebbene quelle nuove assunzioni sono avvenute per oltre l’80% con contratti flessibili, per i quali non si applica l’articolo 18. Le assunzioni con contratto a tempo indeterminato sfiorano appena il 15%, gli apprendistati il 3,1%, tutto il resto è flessibile. Per capire il decrescente peso relativo dell’articolo 18 bisogna poi considerare che solo una parte di quel 15% di assunzioni standard è avvenuta in un’azienda con più di 15 dipendenti, unico ambito in cui oggi vale la tutela reale contro i licenziamenti senza giusta causa. Insomma se oggi l’articolo 18 vale per meno la metà dei dipendenti la sua prospettiva sembra ancor peggiore, a dimostrazione di come il dibattito politico nazionale sia sempre inversamente proporzionale agli effetti pratici che una norma ha sulla vita delle persone.

Detto che il superamento dell’articolo 18 riguarda dunque una minoranza di lavoratori c’è ora da chiedersi se servirà a migliorare la qualità del lavoro, ovvero se il Governo vincerà la scommessa che si è dato con la “strategia Poletti”. Come hanno ben riassunto in un loro scritto su lavoce.info gli analisti Isfol Emiliano Mandrone, Manuel Marocco e Debora Radicchia, la strategia prevede «una prima liberalizzazione del rapporto di lavoro a termine (più quantità) e poi una complessiva semplificazione, con l’introduzione del contratto unico a tutele progressive (più qualità), sperando che la prima tamponi l’emergenza e la seconda sia sostenuta dalla ripresa economica». Prima è arrivato il decreto che ha cancellato le causali e ora dobbiamo aspettare il decreto legislativo che attuerà l’articolo 4 del Jobs Act.

Per sapere se funzionerà bisognerà aspettare e leggere i futuri andamenti del mercato del lavoro, le comunicazioni obbligatorie e, soprattutto, la lettura longitudinale del panel Isfol-Plus che seguirà. I tecnici dicono che già nel primo trimestre di applicazione delle nuove norme si potranno intravvedere segnali concreti, anche se non ancora molto significativi. Dopo 12 mesi si capirà invece meglio se la strategia ha funzionato. In questo caso non vedremo solo più assunzioni con contratto a tempo indeterminato, incoraggiate dal superamento dell’articolo 18. Vedremo anche un rafforzamento del “ruolo di ponte” svolto dai contratti non standard, quando essi assicurano poi una trasformazione a contratti standard. Quel “ponte”, come dimostrano gli analisti Isfol, è stato colpito dalla crisi: se tra il 2005 e il 2006 il 37,5% dei contratti flessibili si trasformava in contratti a tempo indeterminato, tra il 2010 e il 2011 quella percentuale è scesa di 5 punti, al 32,8%.

Il contesto sarà più difficile, perché il mercato del lavoro è diventato in generale più freddo sulle nuove assunzioni, avendo cumulato un calo degli occupati del 4,2% tra il 2008 e il 2013, l’equivalente di un milione di posti in meno. Ma se la “strategia Poletti” riuscirà a centrare l’obiettivo con la «certezza delle non reintegra in caso di licenziamento illegittimo», allora più contratti flessibili potranno essere trasformati in standard e il “ponte” tra quantità e qualità verrà ricostruito.

Una tutela (e un sindacato) che non convince più

Una tutela (e un sindacato) che non convince più

Paolo Natale – Europa

I più attempati tra noi ricorderanno certamente il vecchio slogan degli anni settanta: Lama non l’ama nessuno. Quando il segretario della Cgil si presentava ai comizi, quando faceva capolino nelle università occupate, quando andava nelle fabbriche per calmare gli operai più bellicosi, si sentiva apostrofare così dai gruppi di contestatori più creativi. Allora il sindacato pareva essere, peraltro, una delle poche realtà cui fare riferimento per cambiare il mondo, per cambiare la politica, per riannodare le lotte di fabbrica con il territorio.

Oggi, si sa, non è più così. Ed il sindacato, nelle sue diverse sigle oppure nella sua totalità, non sembra essere apprezzato che da pochi. Se i partiti godono di una fiducia, da parte degli italiani, poco superiore al 10 per cento, le confederazioni sindacali non stanno molto meglio, con giudizi positivi che si fermano intorno a 20-21 punti percentuali. Se gli iscritti, tra lavoratori e pensionati, sono circa 15-16 milioni, pari al 30 per cento dei maggiorenni, questo significa che, paradossalmente, molte delle valutazioni negative arrivano addirittura tra chi aderisce ad uno dei sindacati. E non sono soltanto gli elettori di centro, di destra o non schierati (come molti dei pentastellati) a valutarli male, ma anche quelli che si definiscono di centrosinistra o di sinistra: chi dichiara che voterà Rifondazione o Sel fornisce valutazioni sufficienti ai sindacati soltanto per il 30 per cento, chi voterà Pd per il 25 per cento. Mentre tra gli astensionisti la fiducia è simile a quella per i partiti, un ridotto 5-6 per cento. Una specie di disastro li accomuna nella percezione diffusa della popolazione.

Il giudizio di fondo è evidente: i sindacati si occupano solamente dei propri iscritti, di chi il lavoro ce l’ha ed è occupato nelle aziende medio-grandi. Per tutti gli altri, per chi non ha lavoro, per chi è precario, per chi è in nero e cerca qualcosa di meno provvisorio, le loro azioni paiono inesistenti. Se non contro-producenti. Inutile dire cosa ne pensa la popolazione italiana della strenua difesa dell’articolo 18. Non che piaccia venir licenziati senza giusta causa, è ovvio, ma la percezione generale è che le disposizioni contenute in quell’articolo siano qualcosa di talmente antiquato che oggi non se ne vedono più le ragioni, che allora apparivano al contrario fondamentali per la salvaguardia del proprio impiego.

La stragrande maggioranza dei cittadini è d’accordo che venga dunque riformulato, alla luce delle mutate condizioni di lavoro, dell’attuale stato dell’occupazione, della mobilità reale che sempre più spesso appartiene alla storia personale della vita lavorativa. Quando c’è. Certo non è vero che la colpa della crisi occupazionale è dell’articolo 18, ma è vero che il dibattito che ruota intorno a quell’articolo appare oggi svuotato di senso, tra gli italiani. E anche tra gli stessi elettori del Pd, che ne vedrebbero volentieri un superamento alla luce delle mutate condizioni di lavoro. Una quota vicina al 70 per cento dei votanti Pd vorrebbe una nuova legge sul lavoro, che dopo aver fatto il punto sullo stato attuale, cerchi di diventare un nuovo punto di riferimento per gli anni futuri. Tra la flessibilità e la sicurezza, al passo con i tempi così diversi dagli anni settanta.

Jobs Joke

Jobs Joke

Davide Giacalone – Libero

Sul tema del lavoro è in scena una commedia degli equivoci. Che spera d’essere presa sul serio. Matteo Renzi non ha scelto a cuor leggero di aprire un conflitto dentro il suo partito, non ha sfidato per sfizio l’armamentario luogocomunista della sinistra, lo ha fatto per necessità. Il tentativo è quello di far somigliare l’Italia del 2014 alla Germania del 2003. Allora i tedeschi sfondarono il tetto del deficit per pagare i costi di riforme profonde, mercato del lavoro compreso, che avrebbero dato i loro frutti nel futuro. E li diedero. Noi, oggi, manchiamo la promessa di tenere il deficit sotto il 2,6% del prodotto interno lordo, ed è già difficile tenerlo sotto al 3, senza avere fatto un accidente. Da qui la trovata: diciamo di cambiare le regole del lavoro e proviamo a dare un significato ai conti che non tornano.

Può darsi che la Commissione europea abbocchi. Non perché siano allocchi, ma perché commissariare l’Italia è difficile. È troppo grossa. In ogni caso è escluso che creda alla serietà dell’operazione. Faremmo bene a diffidarne anche noi, perché qui non siamo a uno dei dibattiti della Leopolda, nel qual caso avrei applaudito, come applaudii allora, qui si tratta del governo. E le chiacchiere stanno a zero. Anzi, a meno di zero, visto che già su quelle il partito di governo si spappola. La gande novità consisterebbe nel contratto a tutele crescenti. Altra formula che più la ripeti e meno significa, perché si tratta di sapere quali, quando scattano e cosa escludono. Lo sapremo non appiccicando i manifesti della legge delega, ma leggendo il testo dei decreti legislativi. Che sono assai di là da venire. Sarà bene ricordare, difatti, che la radicale semplificazione delle regole sul mercato del lavoro era promessa e contenuta nei documenti e nel decreto “Destinazione Italia”, risalenti al settembre 2013. Scelte poi confermate in “Impegno Italia”, del febbraio 2014. Quindi, a parte la fantasia perversa di dare nomignoli all’attività di governo, investitori e osservatori internazionali sanno già qual è il valore concreto di quelle tonitruanti affermazioni: nullo. Servono i fatti, che non ci sono.

Relazionando in Parlamento Renzi ha detto di volere cancellare la dualità del mercato del lavoro italiano, con troppe garanzie in capo a pochi e poche (o nessuna) in capo a troppi. Sante parole, ma solo parole. Non è lo stesso governo che ha varato il decreto Poletti, nel quale si escludono garanzie per i nuovi contratti, nei primi tre anni? Decreto che trovo giusto, ma pur sempre l’opposto del ridurre la dualità. Per aggredirla occorre rivedere le troppe garanzie, cosa che provoca l’opposizione degli stessi che approvarono i due citati provvedimenti, governante Enrico Letta. Come si vede, la coerenza è una merce rara. Per rendersi conto di quanto non basti dire e serva, invece, fare, propongo a tutti, e in particolare al presidente Renzi, un piccolo gioco: condividete o meno, le seguenti affermazioni? “Per dare un’immagine plastica della condizione attuale, bisogna dire che la nostra società si divide in due vaste zone. Nell’una, ci sono coloro che hanno un patrimonio, un reddito, un lavoro, e che sembrano voler difendere con ogni mezzo e con energico spirito corporativo quello che hanno. Alla porta di tale zona si affolla l’altra, costituita da disoccupati, giovani e adulti, da categorie debolissime, da abitanti di zone depresse. Se le forze politiche e sociali continuano a occuparsi soltanto della prima zona, secondo i propri interessi politici, di classe o di ceto, trascurando la seconda, non usciremo dal problema”. Vado a capo, per dare il tempo di rispondere. Sono parole di Ugo La Malfa, risalenti al 1977. Da allora ad oggi siamo andati in direzione opposta al necessario, blaterando di diritti acquisiti e perdendo competitività. Spero sia chiaro il perché servono fatti non annunci. Le sole parole belle rischiano d’essere balle. Il jobs act un jobs joke.

La modernità delle nuove partite Iva ma il legislatore se ne dimentica

La modernità delle nuove partite Iva ma il legislatore se ne dimentica

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Senza voler minimamente sottovalutare le novità contenute nel Jobs Act e le discontinuità che mette in moto, va detto che ancora una volta il lavoro autonomo è rimasto fuori dalla porta. Culturalmente il legislatore resta sempre ancorato alla vecchia diarchia del Novecento imperniata sul rapporto imprenditori-dipendenti, la società moderna invece non sta ferma e cammina assai più velocemente.

Le ristrutturazioni industriali legate alla Grande Crisi hanno portato ad esternalizzare molti servizi, le filiere si sono allungate e le relazioni di fornitura ampliate. Professioni, come quella dei giornalisti, che una volta erano totalmente strutturate nel rapporto di dipendenza vedono ormai una crescita esponenziale dei freelance. Il tutto avviene tra mille difficoltà legate alla stasi del mercato interno, alla contrazione dei compensi e anche al ritardo dei pagamenti laddove il committente è la pubblica amministrazione. Aggiungo che il trend in direzione del lavoro autonomo lo si riscontra ormai anche nella ricerca della prima occupazione; si può stimare che un giovane su quattro invece di mettersi in fila nei centri per l’impiego il lavoro se lo inventa o nei settori più tradizionali (commercio e ristorazione) oppure dando vita alle start up. L’apertura di nuove partite Iva va avanti, nonostante tutto, al ritmo di 40-50 mila al mese.

Insomma il lavoro autonomo non è un residuo storico che un giorno o l’altro verrà spazzato via ma diventa una delle forme della modernità perché socializza il rischio e la responsabilizzazione in un’epoca in cui Pantalone non paga più. Ed è lampante che si tratta di un mercato del lavoro irregolare dove il coinvolgimento individuale non è minimamente paragonabile alle tutele presenti e future. Anzi si riscontra la beffa di contribuzioni previdenziali più alte rispetto ai dipendenti con una scarsissima probabilità di avere, al termine della carriera, pensioni dignitose. Allora quando la politica tira in ballo la sacrosanta esigenza di rimodernare lo Statuto dei lavoratori non può cadere vittima di una clamorosa amnesia e dimenticare gli indipendenti.