lavoro

7 a 0 per Renzi

7 a 0 per Renzi

Enrico Cisnetto – Il Foglio

«Uno scalpo per i falchi della Ue». Susanna Camusso credeva di colpire al cuore Renzi sottolineando che l’abolizione dell’articolo 18 rappresenta un prezzo pagato dal governo alle aspettative di Ue, Bce e Germania, ma in realtà gli ha fatto un grande favore. Sì, l’emendamento all’articolo 4 della legge delega sul mercato del lavoro, che di fatto supera la disciplina dei licenziamenti senza giusta causa – per cui le nuove assunzioni a tempo indeterminato verranno fatte con contratti a tutele crescenti in base all’anzianità di servizio – e più in generale il “jobs act” che consente al governo di scrivere un testo unico semplificato che “pensiona” il vecchio (e superato) Statuto dei lavoratori, sono riforme (tardive) che servono al paese ma, soprattutto, rappresentano agli occhi dell’Europa quella certificazione di credibilità politica che serve al premier per evitare che gli venga chiesta entro fine anno una manovra correttiva dei conti.

Non che la riforma del lavoro comporti riduzioni del deficit, ma proprio perché il governo riuscirà, forse, a rimanere sotto il 3 per cento (diciamo 2,99 per cento per capirci) ma certo non entro quel 2.6 per cento per il quale era stato assunto un impegno formale certificato nel Def – sosterremo la tesi che la recessione ci esenta da quella riduzione – ecco che Renzi e Padoan cercheranno di barattare l’una cosa con l’altra. Della serie: vedete che stiamo facendo sul serio realizzando una riforma del lavoro di cui si parla inutilmente da 15 anni e che è carica di significati politici. Ora, questa è la migliore delle garanzie che proseguiremo con il risanamento finanziario e le riforme, perciò non penalizzateci proprio adesso che stiamo facendo questo sforzo. Ecco perché gli strepiti dei sindacati – a proposito, dispiace vedere che nel coro ci siano anche quelli moderati – fanno il gioco del governo, e tanto più i decibel sono alti, tanto maggiore è il valore politico della riforma agli occhi di Bruxelles, Berlino e Francoforte.

Non solo. Siccome nel corteo di chi si straccia le vesti per il tabù infranto dell’articolo 18 ci sono i diversi gruppi interni al Pd – più o meno gli stessi che in questi giorni stanno impedendo la fumata bianca per la Corte costituzionale – anche a costoro non dovrebbe essere difficile capire che il loro ostruzionismo è un grande regalo a Renzi. Perché se è vero, come molti dicono e come è lecito e sensato pensare, che il premier intende andare al più presto alle elezioni anticipate (marzo), ecco che la riforma bloccata dai rigurgiti ideologici della sinistra old style rappresenta la più ghiotta delle occasioni per far saltare il banco e andare alle urne, per di più potendo dire agli italiani, e in particolare a quelli moderati che hanno assicurato a Renzi il balzo al 41 per cento alle scorse europee, che la sua testa è stata fatta saltare dai comunisti e dai rottamati contrari ai suoi progetti di modernizzazione del paese. Viceversa, se la riforma passa e Renzi prosegue nel suo percorso di “mille giorni” – magari anche perché Napolitano gli preclude la strada delle elezioni anticipate, eventualmente dimettendosi a inizio anno (dopo la fine del semestre europeo a presidenza italiana) – ecco che ugualmente questo governo segnerebbe un punto pesante a suo favore, sia per aver dimostrato in Europa che è credibile sia perché metterebbe a tacere, almeno in parte, coloro che in questi mesi si sono lamentati dei tanti annunci e delle poche decisioni prese e portate fino in fondo.

Insomma, per come si è messa la partita, Renzi, piaccia o non piaccia, vince 7-0 come l’Inter con il Sassuolo. Con un doppio warning per lui, però. Entrambi in nome degli interessi generali (cioè i nostri). Il primo è: occhio alle elezioni anticipate. Anche ammesso e non concesso) che il Quirinale dia il via libera, e pur partendo dal presupposto, fondato, che Renzi le vincerebbe alla grande, esse rappresenterebbero un ulteriore rinvio di quella svolta in economia di cui l’Italia ha assoluto bisogno e che, alla fine, sarebbe la vera garanzia di successo per l’ambizione politica di Renzi. Il secondo “avviso di pericolo” è: se la riforma del lavoro passa e il governo prosegue – cioè se elezioni anticipate non ci sono – occhio che non basta abolire l’articolo 18 per far ripartire l’economia. Intanto perché la situazione è così deteriorata che il rilancio non puo che passare da un concorso di circostanze, anche abbastanza ampio. Per il mercato del lavoro, per esempio, occorrerebbe superare anche lo strumento della cassa integrazione – che salva posti di lavoro nella maggior parte dei casi non piu esistenti – e arrivare a una forma di salario di sostegno per i disoccupati che consenta una ristrutturazione del sistema produttivo più profonda e più virtuosa di quella prodotta dalla crisi. E poi perché, nello specifico, l’abolizione dei vincoli contrattuali in uscita ha più un valore simbolico che pratico. Infatti, come ha dimostrato uno studio della Cgia di Mestre, l’articolo 18 interessa solo il 2,4 per cento delle aziende (anche se il 57,6 per cento dei lavoratori dipendenti del settore privato), perche solo 105.500 di esse, su circa 4.426.000 in totale, hanno più di 15 addetti.

L’irrilevanza di Confindustria di fronte all’offensiva renziana sul lavoro

L’irrilevanza di Confindustria di fronte all’offensiva renziana sul lavoro

Il Foglio

In Viale dell’Astronomia, la sede di Confindustria, non si sta preparando alcuna campagna o una qualsiasi iniziativa pubblica e condivisa a sostegno della riforma renziana del mercato del lavoro che invece sta motivando la mobilitazione dei sindacati. A invocare manifestazioni di piazza, e si vedrà con che modalità – magari solo con dei gazebo dai quali distribuire materiale informativo sulle “vertenze e i problemi del lavoro” – sono la Cgil di Susanna Camusso e la Cisl di Raffaele Bonanni parallelamente alla Fiom di Maurizio Landini. Per quanto le sigle sindacali siano affette dalla “annuncite” quando si tratta di proclamare uno sciopero generale (“ne annunciano a prescindere”, ha detto Renzi) in questi giorni stanno confinando il dibattito pubblico alla sola difesa dell”articolo 18. Con l’idea di far passare un messaggio preciso: come si può con il tasso di disoccupazione al 12,6 per cento fare così a mani basse strage di lavoratori? Quando invece si tratterrebbe di incentivare la flessibilità del mercato e, infine, adottare quella linea tracciata dall’ad di Fiat-Chrysler nel 2011 per favorire la prevalenza dei contratti aziendali su quelli nazionali, senza i quali sindacati e Confindustria non avrebbero ragion d’essere.

In verità non sono mancate in questi giorni le prese di posizione confindustriali sul punto più controverso dello Statuto dei lavoratori e sulla necessità di trasformare un mercato del lavoro che ha ingessato imprese e investimenti: dichiarazioni a sostegno sono arrivate dal direttore generale dell’Associazione, Marcella Panucci, e dal presidente di Federmeccanica, una delle strutture principali dell’associazione, Fabio Storchi (“l’articolo 18, come l’insieme delle nostre regole sul mercato del lavoro, non è più ammesso dalla realtà globale in cui le aziende si muovono”). Ma al netto di sparute interviste e dell’apertura di credito piuttosto netta del quotidiano confidustriale di ieri (“Renzi ha rotto gli indugi sull’ultimo tabù della sinistra e sul mondo del lavoro”) non s’ode una voce stentorea o il rumore dei passi di imprenditori marcianti.

Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che ieri mattina ha incontrato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, continua anche giustamente a criticare il “pessimismo che si coglie da tante parti”, a denunciare tutti gli ostacoli esterni all’attività imprenditoriale sintonizzandosi con la platea che si trova innanzi (ieri il problema era il divario digitale esposto a un convegno sulle telecomunicazioni) e a sottolineare come l’Italia “non è un ecosistema favorevole alle imprese, agli investimenti e al rischio privato” e “ne abbiamo controprove quotidiane”, ha detto. Questo forse non basta ora che si prepara una rivoluzione per un paese abituato al consociativismo e che necessita di mettersi in linea non tanto con l’Europa – dove pure il lavoro è al centro delle esortazioni della Banca centrale europea e della Commissione, oltre che del Fondo monetario – quanto rispetto ai concorrenti internazionali, dentro e fuori dall’area Ocse.

Quando nel 2002 la Germania era in recessione e rischiava la procedura di infrazione per deficit eccessivo, gli industriali diedero un contributo decisivo attraverso una campagna pubblica ad ampio spettro per invocare riforme improntante alla flessibilità dell’impiego, quelle che poi il cancelliere socialista Gerhard Schröder affidò alla regia dell’allora capo della Volkswagen Peter Hartz. Da Viale dell’Astronomia si è spesso dato prova di sapere curvare il dibattito con tambureggianti iniziative d’impatto. Alcune discutibili (il “Fate presto” del Sole 24 Ore nel 2011 a governo Berlusconi morente), altre capaci di motivare la mobilitazione degli imprenditori “innamorati dell`Italia” (nel febbraio del 2014). Forse ora varrebbe la pena di fare altrettanto.

Dalla ragione su tutto alla ragione su niente

Dalla ragione su tutto alla ragione su niente

Italia Oggi

Un tempo i matti erano gli altri, i «destri», quelli che ignoravano l’Abc del retto pensiero progressista in tema di cinema, d’economia, di balletto classico, di cucina, di filosofia e soprattutto di lavoro. Adesso i matti sono loro. A dirglielo è il loro stesso segretario generale: avete torto su tutto, sulla cultura, sull’economia e sul balletto classico, sui formaggi tipici e sul cinema, ma soprattutto avete torto in fatto di lavoro.

Per trent’anni non hanno mai smesso di difendere l’art. 18 (è l’articolo dello Statuto dei lavoratori, aprendo una parentesi, che negli anni settanta i comunisti avevano avversato di più) e adesso Renzi lascia che se ne parli come d’un malato terminale: due fiori, una prece e amen, si torna alle regole del mercato. Sono diventati tutti dei «Fassina chi» e dei «Bersani cosa». A lungo, per esempio nelle fantasie letterarie degli opinionisti di Repubblica, i progressisti sono stati dipinti come X-Men dei fumetti: mutanti, antropologicamente superior, una o due spanne sopra l’homo sapiens. Tutti pendevano dalle loro labbra. Adesso parlano e nessuno li capisce più. Sono sbertucciati da tutti. Dal Comico, dal loro stesso segretario, tra un po’ anche da Repubblica.

Prima o poi ci arrivano

Prima o poi ci arrivano

Raffaele Marmo – La Nazione

«Prima o poi ci arrivano, magari ma ci arrivano. Il problema è che non si guardano mai indietro e non contano mai i danni fatti nel frattempo». La chiosa è di un vecchio sindacalista che ne ha viste tante, quando parla della Cgil e dell’attuale sinistra Pd. È stato così proprio con lo Statuto dei lavoratori, non votato dall’allora Pci e mal visto dalla stessa Cgil e oggi difeso come fosse il frutto migliore della loro storica azione. Ma è stato cosi anche con il decreto di San Valentino sul taglio della scala mobile, contrastato sempre da Pci e Cgil-tendenza Botteghe Oscure fino a giungere al referendum dell’85 (clamorosamente perso, per inciso): salvo poi sostenere che la politica dei redditi, con annessa concertazione, aveva salvato l’Italia dalla bancarotta. Manca ancora un po’ e analoga sorte toccherà alla Legge Biagi, quando magari verrà messa pragmaticamente in discussione perché superata o superabile.

Ma fermiamoci qui. Sarebbe lungo l’elenco degli appuntamenti con la storia rispetto ai quali la sinistra-sinistra politico-sindacale, è arrivata con decenni di ritardo. E, dunque, non poteva che essere così anche nel passaggio cruciale di questi giorni nei quali vengono poste le premesse per il superamento dell’articolo 18. Senonché, a fare oggi la differenza, è che il presunto «attacco» ai diritti dei lavoratori non viene dalla «destra» sostanziale o formale (Craxi, Berlusconi) o dai «padroni», ma da colui che, fino a prova contraria, è il leader del loro partito. Da qui il disorientamento, la complicazione del quadro di riferimento, anche l’incapacità del «che fare» che attanaglia la sinistra di estrazione Ds-Cgil.

È saltato, insomma, il vecchio modello, all’interno del quale era agevole distinguere «buoni» e «cattivi», salvo accorgersi poi, a distanza, che i «cattivi» magari avevano avuto ragione. Questo è sicuramente un merito – il più importante a oggi – di Matteo Renzi: aver fatto saltare il comodo e confortevole schema di gioco che ha permesso alla sinistra poco riformista e tanto massimalista di non dover fare i conti con i propri errori. Non a caso è il primo vero atto blairiano del suo governo, all’insegna di quel passaggio – la rottura con la sinistra interna – che segnò la nascita del New Labour, perché, come avvisò Tony Blair nel 1995, «values don ‘t change, but times do», i valori non cambiano, ma i tempi sì.

Nel resto d’Europa le tutele sono di natura monetaria

Nel resto d’Europa le tutele sono di natura monetaria

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Reintegra o risarcimento? L’Italia prova a superare la tutela reale dell’art. 18 nei contratti a tempo indeterminato per i nuovi assunti. In Europa cosa succede? Che l’obbligo del reintegro, come si evince dalla schede qui sotto, è già un’opzione marginale: in pratica per tutti i licenziamenti senza giusta causa (anche economici) le tutele sono essenzialmente monetarie. «La reintegra è facoltativa in Spagna, dopo la riforma Rajoy – ha spiegato il giuslavorista Massimo Lupi dello studio «Lupi&Associati» di Milano – e anche in Germania la tutela reale non è automatica per tutti i casi di licenziamento». Qui, in particolare, c’è un giudizio soggettivo dei giudici. Ma la scelta della tutela reale non è affatto a maglie larghe: «È legata alla possibilità di un ritorno in azienda del lavoratore», ha spiegato il professore di diritto del lavoro a Modena e Reggio Emilia, Michele Tiraboschi. Del resto «in tutti i paesi europei dove è lasciata al giudice la possibilità di prevedere la reintegra – ha aggiunto il professore di diritto del lavoro alla Luiss, Roberto Pessi – l’ipotesi è circoscritta ai casi di nullità dell’atto risolutivo secondo le regole del diritto comune dei contratti».

FRANCIA
Tetto delle sei mensilità
In Francia, per un licenziamento «sans cause réelle et sêerieuse» (cioè, senza una causa reale e seria), il datore di lavoro può opporsi alla reintegra e quindi il giudice può disporre a favore del lavoratore solo un indennizzo non inferiore alle 6 mensilità. La sanzione della reintegra del lavoratore illegittimamente licenziato non è quindi obbligatoria ed è prevista solo per il licenziamento discriminatorio. Vale a dire quando il licenziamento è nullo per motivazioni attinenti alla sfera privata del lavoratore o intimato a seguito di molestie. In questi casi la reintegra è di diritto per i dipendenti. In tutti gli altri casi scatta invece un risarcimento monetario, un indennizzo, cioè, che aumenta a seconda dall’anzianità di servizio del lavoratore.

GERMANIA
Reintegro non obbligatorio
Qui le tutele si applicano nelle aziende con più di 10 dipendenti, e per i licenziamenti è necessaria una consultazione con il comitato di impresa che, se lo ritiene illegittimo, ricorre al giudice. Che può scegliere tra reintegro e risarcimento. Quindi il reintegro è possibile (ma non obbligatorio) ma è applicato in pochi casi. Questo perché la giurisprudenza tedesca opta per la tutela piena e reale solo se c’è una proficua ripresa della collaborazione tra datore di lavoro e lavoratore. Quando cioè è possibile un effettivo ritorno in azienda. Un licenziamento è considerato illegittimo quando è basato su fattori inerenti la capacità o le qualità o la condotta del lavoratore. Inoltre per i licenziamenti non economici non è prevista una indennità di licenziamento salvo diversa previsione dei contratti collettivi.

REGNO UNITO
Discrezionalità del giudice
Nel Regno Unito la reintegra del dipendente (in un medesimo posto, «reinstatement», o in un posto diverso e comparabile a parità di retribuzione, «reengagement») è prevista dalla legge ma applicata molto raramente. C’è una forte discrezionalità del giudice (nell’ordine di reintegra). Ma se il giudice ritiene non praticabile il reintegro opterà per una sanzione economica di tipo risarcitoria. La prassi evidenzia come molto spesso i giudici preferiscano condannare al pagamento di una somma di denaro piuttosto alta e che viene ulteriormente incrementata qualora il datore non abbia rispettato la procedura prescritta per il recesso. Il riconoscimento economico (per i licenziamenti ingiustificati) ha dei limiti e comunque varia a seconda dell’anzianità di servizio.

SPAGNA
Dopo la riforma Rajoy
La reintegra è divenuta facoltativa in quanto l’imprenditore può optare per il solo risarcimento del danno in favore del lavoratore corrispondendo una somma che al massimo non può superare i 33 giorni per anno di lavoro invece dei 45 precedenti. La riforma Rajoy in Spagna è intervenuta cercando di rendere meno rigido il mercato del lavoro, in primis innalzando da 6 mesi a un anno il periodo massimo di prova durante il quale è consentito alle parti il libero recesso. Il dipendente a tempo pieno, poi, può essere licenziato anche senza giusta causa. L’azienda è tenuta solo a versargli un risarcimento. Il giudice può emettere sentenza di reintegra in caso di licenziamento illegittimo ma l’impresa può non reintegrare il dipendente pagando un indennizzo

ITALIA
Con la legge Fornero
Nel 2012 è stato modificato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. L’obiettivo era quello di marginalizzare la reintegra. Ma l’intervento è stato troppo complesso, e soprattutto troppo interpretabile da parte dei giudici. La norma oggi prevede tante conseguenze diverse a seconda del licenziamento. Per i discriminatori c’è la reintegra più un risarcimento; per i disciplinari, di base, solo indennità tra 12 e i 24 mesi, ma se il disciplinare è fondato su fatti falsi scatta la reintegra più indennità fino a 12 mesi. Se il licenziamento è fondato su motivi fisici: reintegra più indennità fino a 12 mesi. Se economico: solo indennità (ma se manifestamente insussistente, reintegra più indennità). Per i collettivi: reintegra se si violano i criteri di scelta; per gli altri casi, indennità.

Il falso mito delle garanzie sul lavoro e i veri numeri

Il falso mito delle garanzie sul lavoro e i veri numeri

Oscar Giannino – Il Messaggero

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 è un mito, e per questo da decenni è diventato un tabù da non toccare. Perché i miti hanno forza evocativa, sono bandiere di valori, stendardi di visioni ideologiche. Per questo è così difficile mutarli. Non si piegano alla logica dei numeri. Rimbalzano sulla realtà dei fatti. Perché si misurano con il metro delle utopie, non della realtà che per definizione non soddisfa l’idealista. Ecco perché da una parte è buona cosa che Matteo Renzi abbia dato un forte impulso alla possibilità di modificarlo, usando a sua volta termini «valoriali», e proclamando «basta con l’apartheid dei diritti». Dall’altra parte però bisogna saperlo: ora per una parte non trascurabile della sinistra e per i sindacati si ripropone lo stesso campo di battaglia sul quale hanno vinto e rivinto da 50 anni a questa parte, respingendo ogni volta chi voleva scalfire il mito.

Se guardiamo alla realtà, i termini della questione dovrebbero essere del tutto diversi. Per evitare l’ennesima riforma al margine delle regole sul lavoro – ogni governo italiano pasticcia con incentivi e disincentivi per questo o quel contratto, credendo di far bene e complicando solo la distorsione generale che su domanda e offerta di lavoro esercitano migliaia di pagine di norme – pochi numeri dovrebbero essere posti al centro. Se guardiamo alla popolazione tra i 15 e i 64 anni, a fine 2013 il tasso di occupazione italiano era fermo al 49,9%, mentre quello tedesco era al 72,3 percento. Se depuriamo i dati dai cassintegrati e disoccupati “ufficiali” che risultano come lavoratori, “attivi” che cercano lavoro, e assumiamo come base l’intera popolazione nazionale, da noi lavora un italiano su tre, in Germania due tedeschi su tre. Questo è il problema numero uno: abbiamo un’enorme gap di occupabilità rispetto al quale rimuovere ostacoli. a cominciare da giovani, donne e over-55. Secondo problema, altrettanto grave: la produttività. Da noi i salari registrano da molti anni un andamento totalmente scollegato rispetto alla produttività: se guardiamo alla manifattura e considerando base 100 il 2000, la produttività oraria è salita solo verso quota 110 e i salari orari sono arrivati oltre quota 155, mentre nell’eurozona la produttività oraria è passata da 100 a 140 e i salari a 145. Una buona riforma del lavoro dunque deve unire l’identificazione e rimozione sia degli ostacoli all’occupabilità sia quelli alla produttività.

Naturalmente, per gli idealisti dell’utopia questi numeri sono invece da respingere. Descrivono un mondo sbagliato perché vuole remunerare anche il capitale per produrre, mentre bisogna che le norme affermino un mondo dove non contano gli interessi, ma solo i valori. Se fate loro osservare che l’articolo 18 si applica oggi a una minoranza netta rispetto ai 22,4 milioni di lavoratori italiani ufficiali – visto che i dipendenti a tempo pieno e parziale sopra la soglia dei 15 per azienda sono circa 9,4 milioni, e dunque ha ragione Renzi a dire «basta apartheid» visto che ne sono esclusi i contratti a termine, i cocopro, gli autonomi, le partite Iva – ti rispondono che al contrario è un buon motivo per estendere l’articolo 18 a tutti i lavoratori: perché è questione di principio. E poco importa se l’estensione delle forme di lavoro meno tutelate per intere generazioni di più giovani è stata dovuta all’effetto-disincentivo rappresentato dall’elevato costo-fisso del rapporto di lavoro acceso «per sempre», in aziende che oggi devono rispondere a una domanda che varia a settimana. Ti diranno che è colpa della globalizzazione, e a quel punto non c’è più confronto possibile, visto che è proprio sull’export verso il mondo che l’Italia deve puntare a breve per tornare alla crescita, mentre per rianimare la domanda interna serviranno tempi più lunghi. Di conseguenza. la battaglia sarà dura. E il rischio è che ancora una volta si perda di vista l’obiettivo più importante.

Con la delega emendata dal governo – e che in Parlamento susciterà un duro contrasto anche nel Pd – si mira a un codice semplificato del lavoro che prevede un contratto d’inserimento triennale incentivato fiscalmentee a tutele crescenti, che prevede per i nuovi assunti in caso di licenziamento il superamento della reintegra giudiziale, che nella riforma Fornero convive ancora con la possibilità dell’indennizzo per i licenziamenti economici. Resterebbe solo l’indennizzo, proporzionato alla durata dell’impiego sinora svolto. Ma senza più distinzione di soglia dei 15 dipendenti, ed esteso anche agli ambiti di lavoro e contrattuali oggi esclusi.

Non è ancora chiaro se l’indennizzo resterebbe per i licenziamenti economici anche dopo i tre anni. Se si limita l’indennizzo per i licenziamenti economici a soli 30 mesi, come sembra di capire, in realtà si segmenterebbe ulteriormente l’apartheid italiana del lavoro. Ma il governo intende questo come “uno” dei pilastri, non “il” pilastro: perché si affianca a un nuovo strumento universale di sostegno al reddito per chi perde il lavoro, volto alla formazione e alla rioccupabilità tramite il nuovo “contratto di ricollocazione”, superando cioè in toto il sistema Cig e la sua illusione di difendere il lavoro “com’era e dov’era”; e alla rivisitazione profonda – speriamo coraggiosa – dei vecchi uffici provinciali del lavoro, creando un sistema di incrocio tra domanda e offerta aperto agli intermediari privati accreditati, e incentrato anch’esso su crediti di formazione per il reimpiego.
Da questo schema resta ancora fuori la produttività: occorre una svolta vera a favore dei contratti decentrati, dando loro la possibilità di prevalere sul contratto nazionale di categoria anche per la parte salariale, lasciando alla contrattazione nazionale solo le tutele e i minimi salariali, cioè i “diritti”, ma scegliendo di trattare turni, orari e salari nelle aziende, compartecipando ai lavoratori premi retributivi sostanziosi quando le cose vanno bene, e decrementi a tutela dell’occupazione quando le cose vanno male.

E c’è anche un’altra insidia. Perché il nuovo contratto d’inserimento sarà interpretato dagli utopisti come una forma che deve sfociare comunque nell’assunzione a tempo indeterminato per tutti. Sbagliando due volte. Primo perché le imprese hanno bisogno anche dei contratti a tempo determinato. E secondo perché la strada maestra per l’inserimento al lavoro dovrebbe essere quella dell’apprendistato professionalizzante, affiancando scuole e università alle imprese sin dall’istruzione superiore, come avviene con enorme successo in Germania.

Siamo reduci dal fallimento degli incentivi al tempo indeterminato voluti da Letta e Giovannini, ed è in corso una colossale presa per i fondelli a 200 mila giovani che avevano creduto a Garanzia Giovani, e che in nove casi su dieci non hanno ottenuto sinora neanche un colloquio di orientamento. Ecco i nuovi frutti dell’utopismo calato dall’alto su troppe regole disincentivanti. Poiché è molto difficile aspettarsi dal governo un energico taglio delle imposte su imprese e lavoro, almeno ci si risparmino scioperi generali sull’articolo 18. Perché, con rispetto parlando, davvero non è il problema centrale dell’Italia, ma solo un mito che i numeri respingono.

Una norma nata per caso che ha resistito 45 anni

Una norma nata per caso che ha resistito 45 anni

Enrico Marro – Corriere della Sera

Comparso quasi per caso 45 anni fa, l’articolo 18 ha resistito a tutti gli attacchi, compresi due tentativi di referendum: nel 2000, promosso dai Radicali per abrogarlo, e nel 2003 da Rifondazione comunista per estenderlo alle piccole imprese (entrambi falliti per mancato quorum dei votanti). Solo nel 2012, con l’Italia sull’orlo del commissariamento, la riforma Fornero ne ha attenuato il grado di protezione. Un tira e molla ultradecennale. Tra destra e sinistra, imprese e sindacati. E pensare che nel testo originale dello Statuto dei lavoratori l’articolo 18 neppure c’era.

La norma che vieta i licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo, non faceva parte del disegno di legge presentato il 24 giugno 1969 dall’allora ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini, socialista, già vicesegretario della Cgil di Giuseppe Di Vittorio. Il provvedimento sulle «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell?attività sindacale nei luoghi di lavoro» fu messo a punto dal giovane e brillante capo dell’ufficio legislativo di Brodolini, il giuslavorista Gino Giugni, di provata fede socialista anche lui. Il governo era guidato dal democristiano Mariano Rumor. In materia di reintegro nel posto di lavoro lo Statuto prevedeva solo l’articolo 10 che, richiamando l’articolo 4 della legge 604 del 1966 che stabiliva la nullità dei licenziamenti discriminatori (per ragioni di credo politico o fede religiosa, o per l’appartenenza al sindacato), aggiungeva «l’obbligo del datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro».

L’estensione del diritto al reintegro ai casi di licenziamento senza giusta causa e giustificato motivo fu invece il frutto dei lavori in Senato e della pressione degli avvenimenti sociali, con l’escalation degli scioperi, spesso spontanei, cioè non controllati dalle centrali sindacali. Tanto che nella seduta di giovedì 11 dicembre 1969, nell’Aula di Palazzo Madama, il sottosegretario al Lavoro, Leandro Rampa, democristiano, dichiarava: «Il governo ha ritenuto di dovere presentare un emendamento sostitutivo dell’importante articolo 10, dopo aver riconsiderato, sulla scorta anche di indicazioni già emerse in commissione, alcune esigenze che ci sembravano essenziali allo scopo di garantire ulteriormente i diritti dei lavoratori nell’eventualità del licenziamento». In realtà il grosso del lavoro era stato fatto nella commissione presieduta da un altro socialista, Gaetano Mancini. Il diritto al reintegro (significa che il licenziamento è nullo dall’inizio) prendeva il posto della precedente disciplina (legge 604) che dava facoltà al datore di lavoro di riassumere il lavoratore (non gli paga però il dovuto per il periodo in cui è stato senza lavoro) o di versargli un’indennità.

La conquista era solo una delle tante e non apparve neppure tra le più importanti ai sindacati e ai lavoratori, che con lo Statuto ottenevano «l’effettivo ingresso nelle fabbriche dei diritti fondamentali della persona sanciti dalla Costituzione» (rappresentanze sindacali, diritto di opinione, di assemblea, permessi). Definizione questa che – molti si stupiranno – è di Maurizio Sacconi, ministro del Lavoro del Pdl quando presentò il progetto di legge di «Statuto dei lavori», il progetto di riforma che si rifaceva ai documenti del giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalle Brigate rosse nel 2002. Altri due socialisti di formazione, Sacconi e Biagi, convinti però che lo Statuto, e in particolare l’articolo 18, non fosse più utile né alle imprese né ai lavoratori di un’Italia che non era più quella delle grandi fabbriche del Nord, ma un’economia postindustriale e globalizzata.

Lo Statuto dei lavoratori giungeva al termine dell’autunno caldo del 1969, stagione di lotte sindacali, ma fuori dai cancelli delle fabbriche perché fino ad allora ai sindacati era impedito di entrarvi. Il conflitto imperversava. Quello sociale era sano, segno di crescita. Purtroppo era anche il tempo delle trame oscure: il 12 dicembre, il giorno dopo il via libera del Senato allo Statuto, l’Italia viveva una delle pagine più buie con la strage di piazza Fontana. Nei mesi successivi, alla Camera, l’articolo 18 non fu messo in discussione e lo Statuto, la legge 300 del 1970 passò il 14 maggio con 217 voti favorevoli (Dc, Psu, Pri, Pli), 10 contrari e 125 astensioni: Msi, ma anche il Pci e il Psiup. I comunisti ritenevano il testo squilibrato a favore delle imprese. La legge entrò in vigore il 20 maggio. A condurla in porto era stato un nuovo ministro del Lavoro, Carlo Donat Cattin, democristiano della sinistra sociale. Brodolini, già gravemente malato quando presentò il disegno di legge, morì poco dopo. Negli ultimi giorni, preoccupato per la piega che stava prendendo il dibattito, affidò a Giugni questo messaggio: «Fa in modo che lo Statuto dei lavoratori non diventi lo Statuto dei lavativi».

Massimo Blasoni a “Fatti e Misfatti” – TgCom24

Massimo Blasoni a “Fatti e Misfatti” – TgCom24

Il presidente di ImpresaLavoro interviene nella rubrica “Fatti e Misfatti” del TgCom24, condotta dal giornalista Paolo Liguori. Partecipano anche il senatore Pietro Ichino, Francesca Re David (Comitato Centrale Fiom) e il segretario generale della CISL Raffaele Bonanni.

 

Tutti i lavori che hanno un futuro (e quelli che svaniranno)

Tutti i lavori che hanno un futuro (e quelli che svaniranno)

Guido Fontanelli – Panorama

Consulenti fiscali, agenti trasporto merci, tecnici in scienze agrarie. Ma anche croupier, riparatori di biciclette, archivisti. Se appartenete a una di queste categorie, attenti: nei prossimi dieci anni è probabile che il vostro posto di lavoro svanirà. O, se andrà bene, non vedrete aumenti di stipendio decenti. Se invece siete direttore delle risorse umane, dentista, ingegnere meccanico o psicoterapeuta, la vostra poltrona è al sicuro. E se vostro figlio vi dirà che vuole diventare coreografo, prima di mettervi le mani nei capelli sappiate che potrebbe essere una professione sicura e di successo.

Come facciamo a saperlo? Grazie a un viaggio nel futuro del mondo del lavoro che ha intrapreso la società di consulenza tedesca Roland Berger, una delle più importanti al mondo. Il think tank interno alla società, il Roland Berger Institute, ha condotto un’indagine in Francia e una in Italia (in esclusiva per Panorama) con l’obiettivo di scoprire quali professioni rischiano di essere travolte dalle nuove tecnologie e quali invece sono più al sicuro. Innovazioni come il web, l’intelligenza artificiale, la disponibilità a poco prezzo di un’immensa mole di dati permettono infatti a poche persone di svolgere più compiti e rendono obsolete funzioni di routine. Così tanti lavori sono destinati a scomparire mentre altri resteranno necessari.

I ricercatori della Roland Berger hanno individuato oltre 600 professioni diverse diffuse in Europa (che non coincidono con le categorie contrattuali italiane) e a ognuna è stata assegnata una percentuale: più alto è questo numero, maggiore è l’impatto negativo che la tecnologia avrà su quel particolare mestiere. «Naturalmente l’impatto dipende dalla velocità con cui ciascun paese adotterà le nuove tecnologie» mette le matti avanti Roberto Crapelli, amministratore delegato della Roland Berger Italia e da oltre 30 anni attivo nella consulenza internazionale. «Le faccio un esempio concreto: già oggi alcune attività che svolge un infermiere in ospedale possono essere affidate a un robot. Ma se il sistema sociale si rifiuta di adottare questa tecnologia. il cambiamento si sposta più avanti nel tempo». Che cosa emerge dall’indagine? «A grandi linee, avranno un futuro i mestieri legati al tempo libero e alla cura delle persone, e le attività impiegatizie superiori dove si decide e si gestisce» dice Crapelli. «Mentre sono più in pericolo i lavori impie- gatizi intermedi, i contabili, i mestieri legati ai trasporti, alla meccanica, al mondo delle costruzioni, grazie al crescente uso di strutture modulari e standardizzate».

Per i servizi sociali, per le professioni sanitarie superiori, per l’istruzione, per i programmatori il cambiamento sarà meno brusco; mentre chi svolge funzioni amministrative e contabili e chi lavora nei settori della trasformazione alimentare o nell’agricoltura, soffrirà di più per l’avvento delle nuove tecnologie. Tra le sorprese, la probabile scomparsa della manicure, sostituita da una macchina, e la tenuta invece dei mestieri legati allo spettacolo.

Resta però un grande dubbio: internet e la digitalizzazione dell’economia distruggono più posti di lavoro di quanti ne creano di nuovi? Erik Brynjolisson e Andrew McAfee della Sloan school of management del Mit di Boston sostengono che è così: i due ricercatori hanno scoperto che fino al 2000 nell’economia veniva rispettata la classica regola secondo cui l’aumento di produttività provocato dalle nuove tecnologie produce nuova ricchezza che alimenta a sua volta nuova attività economica e quindi crea occupazione. Ma dal 2000 il meccanismo si è inceppato, almeno negli Stati Uniti: la curva della produttività cresce a ritmi impetuosi, mentre quella dell’occupazione si affloscia e le due linee divergono in modo preoccupante. Secondo un’analisi di Andrew Cates, economista dell’Ubs, la crescente dematerializzazione dei beni sta riducendo la produzione di oggetti di consumo: «Analizzando i dati sull’economia americana, risulta evidente che, dalla comparsa di internet nella metà degli Anni 90, i volumi di spesa hanno inciso sempre meno sulla produttività. La produzione industriale, del resto, ha subìto una contrazione significativa anche nel Regno Unito, sia in termini assoluti che di creazione di beni capitali. La diffusione di device elettronici e tecnologie di consumo ha acuito questo trend». Crapelli non è così pessimista: «Nella mia esperienza tutte le rivoluzioni tecnologiche hanno aumentato i posti di lavoro. La robotica ha reso inutili gli operai che saldavano i pezzi di un’auto, ma ha fatto aumentare la produzione di veicoli e ha fatto nascere le fabbriche che costruiscono i robot. E se la parte più noiosa di quello che fa un contabile non sarà più necessaria, lui potrà diventare un consulente che ottimizza le spese aziendali. E poi va tenuto conto che in futuro saranno importanti i mestieri ad alto contenuto artigianale: l’Italia qui ha ancora molto da dire».

Costoso, efficace e severo: ecco il modello che piace all’Italia

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Tonia Mastrobuoni – La Stampa

Come un fiume carsico, di tanto in tanto nell’inconcludente dibattito sulle riforme del mercato del lavoro è emerso in questi anni il termine “flexicurity”, associato al cosiddetto modello danese. In realtà, è stato coniato da un sociologo olandese, Hans Adriaansens, e sperimentato in Danimarca e nei Paesi Bassi negli anni Novanta, quelli dell’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio Wto, dell’euforia per la globalizzazione e della spinta delle imprese a liberalizzare l’occupazione. Addirittura, l’Unione europea lo adottò come modello di riferimento per eventuali intenti di riforma negli accordi di Lisbona del 2000, ma fu allegramente ignorato da molti Paesi, Italia in testa. L’idea della “flexicurity”, crasi dei termini inglesi “flessibilità” e “sicurezza”, era che per venire incontro alle esigenze delle imprese di licenziamenti più facili, bisognasse trovare il modo di conciliarli con un adeguato paracadute per i lavoratori.

E qui si pone il primo, serio problema di un confronto italiano con l’esempio scandinavo: è un sistema costosissimo. In Danimarca il sussidio di disoccupazione è universale: bisogna sottoscrivere un fondo, la A-Kasse, gestito dai sindacati e finanziato in parte dai lavoratori stessi (il contributo ammonta a circa 500 euro) ma garantito nella gran parte dallo Stato. Il risultato è che copre 1’80% dei lavoratori; e in ogni caso, anche chi non ha sottoscritto l’assicurazione, ha diritto ad un’indennità sociale comunale. Anni fa gli economisti de Lavoce.info fecero una stima sul costo di un’indennità di disoccupazione universale in Italia: circa 12-13 miliardi all’anno. E chissà ora, con i tassi di disoccupazione alle stelle, soprattutto tra i giovani. La flessibilità significava invece garantire al datore di lavoro la possibilità di licenziare senza particolari ostacoli, con il solo obbligo di un minimo di preavviso che varia da uno a sei mesi, a seconda dell’anzianità di impiego. Il lavoratore può addirittura lasciare il suo lavoro con soli otto giorni di preavviso. E in virtù della conciliazione riuscita tra una maggiore flessibilità in uscita e un paracadute generoso, in Danimarca il 30% degli occupati cambia posto di lavoro e in media non restano per più di otto anni nella stessa azienda.

L’altro aspetto problematico, nel confronto con i Paesi Bassi o con gli altri Paesi che hanno adottato la “flexicurity”, è il reimpiego. Presuppone un sistema di politiche attive efficientissimo, cioè il contrario dell’esempio italiano. La Danimarca spende circa un punto e mezzo di Pil per fare in modo che i disoccupati trovino un nuovo lavoro nel minor tempo possibile. Il collocamento è affidato ai job center comunali, ma a favorire l’incontro tra domanda e offerta concorrono anche accordi tra questi modernissimi centri di reimpiego e sindacati, imprese, istituti di ricerca, scuole o onlus. Gli uffici di collocamento aiutano anzitutto i disoccupati a formulare un curriculum decente, entro tre settimane dal licenziamento, e cercano di capirne le potenzialità, ma sono previsti anche programmi di reimpiego o aggiornamenti. I job center, tuttavia, attuano anche un monitoraggio strettissimo degli sforzi dei senza lavoro e prevedono addirittura corsi che insegnano a cercare un’occupazione. E se nei nordici uffici di collocamento si rendono conto che il disoccupato compie sforzi troppo deboli per trovare un nuovo impiego, le conseguenze sono pesanti: la perdita dell’assegno di disoccupazione.