libero

Diritto abusato

Diritto abusato

Davide Giacalone – Libero

Dannato il Paese in cui si discute sempre delle stesse cose, commettendo sempre gli stessi errori e non venendone mai a capo. Nell’aprile del 2012 fummo solitari, nel denunciare i pericoli legati all’esercizio della delega fiscale e alla codificazione dell’abuso di diritto. Fino a quel punto il bislacco principio aveva una base esclusivamente giurisprudenziale, senza che vi fosse una legge che prevedesse il cittadino possa essere punito per avere applicato una legge. Non fatelo, urlammo. Inutilmente. Anzi, fecero finta che fosse una gran concessione: l’abuso di diritto non sarà un reato e non sarà contestato in sede penale.

Sono passati due anni, il governo s’accinge a dare esecuzione alla delega fiscale e leggo nelle anticipazioni che l’abuso di diritto non sarà più un reato, ma potrà dare luogo ad ammende e penalizzazioni fiscali. Ma non era già escluso, che fosse un reato? Neanche per idea, perché reato era ed è l’omessa dichiarazione dei redditi, e se tu (o una società) non l’hai presentata perché una legge ti consentiva di non farlo (come nel caso di Dolce Si Gabbana), per la via del supposto abuso di diritto s’arriva dritto al processo penale. Come prevedemmo allora. Un abominio. Nel 2013 intervenne la Cassazione, specificando che quando si contesta a un cittadino l’abuso di diritto si deve almeno avere il buon cuore di specificare quale legge gli si contesta di avere applicato e quale no. Perché, fino a quel punto, manco questo ti dicevano.

Ora, attendiamo di leggere il testo, dato che già allora escludevano quel che non si sono dimostrati capaci d’impedire. Osservo, però, che il concetto stesso di abuso di diritto dovrebbe suggerire un abuso dello Stato, che in quel modo viola i diritti forzando il diritto. Una legge c’è o non c’è: nel primo caso nessuno può contestarmi alcunché, se la seguo; nel secondo nessuno può disturbarmi chiedendomi di fare quel che non sono obbligato a fare. Del diritto può abusare lo Stato, non un individuo. Invece si è stabilito che sia condannato quale abuso di diritto l’uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, e ciò anche nel caso in cui tale condotta sia non in contrasto con alcuna specifica disposizione. Quindi, per non affogare nel sempre uguale, per non pestare l’acqua nel mortaio e l’anima ai cittadini, tornando a riscrivere quelle norme, c’è una sola cosa che possa essere seriamente e decentemente fatta: cancellare il concetto di abuso di diritto, lasciando il principio della buona fede.

Cooperative e società municipalizzate, così funziona la macchina dei voti

Cooperative e società municipalizzate, così funziona la macchina dei voti

Davide Giacalone – Libero

Per sapere che è in corso una campagna elettorale, in Emilia Romagna, devi comprare i giornali. Leggendoli scopri che si parla di tutto, a partire dai riflessi nazionali del voto, ma non di Emilia Romagna. Se giri per le strade non trovi traccia di politica. E sì che questa è la sanguigna terra di Brescello, di Peppone e Don Camillo. Che fine hanno fatto? Non credete a quelli che vi dicono esserci disinteresse e qualunquismo, è che sia la politica che i cittadini sono stati espulsi dalla competizione, ridotta ad affarismo e parolismo.

Se stessimo parlando di cose serie, proponendo agli elettori qualche cosa che abbia a che vedere con il futuro, i vibratori troverebbero posto solo nelle battute marginali. Invece sono lì (giacché fra le spese rimborsate ai consiglieri regionali, in questo caso Pd, a dimostrazione che oltre a fessi sono anche miserabili), ad eccitare solitari i dibattiti. Che manco si fanno. Già, perché non solo sono vuote le piazze, non solo mancano i manifesti, risultando in gran parte vuoti anche i tradizionali tabelloni, ma neanche le televisioni locali si mostrano interessate. Robetta. Normale amministrazione.

Occhio: non succede a caso. Questo effetto-sonno è voluto. Se stessimo parlando di cose serie, infatti, parleremmo delle 500 società partecipate dalla Regione, assieme a un nugolo di enti locali. Matteo Renzi disse che le 8000 municipalizzate sarebbero dovute diventare 1000. Sarebbero ancora troppe, ma, comunque, perché il Pd, in Emilia Romagna, non propone di ridurle a 62 (500 diviso 8)? Perché quelle sono rimaste l’unica ragione per votare Pd. Il tessuto del consenso s’è stracciato, come dimostra il deserto elettorale, rimane solo quello della cointeressenza. Finché regge, vincono. Un esempio? Davanti alla stazione di Fidenza si sarebbero dovute realizzare due torri, per appartamenti. Una l’hanno abbandonata, l’altra è finita, ma semi deserta. Operazione a cura del sistema cooperative, in questo caso Unieco. Operazione fallimentare e fallita. Qual è l’unico appiglio di salvataggio? Il fatto che nella torre prendano uffici il Comune, le altre cooperative, il sindacato. Soldi buttati per salvare compagni falliti. Ci hanno fatto anche un parcheggio per le biciclette, costato un milione di euro (cosa denunciata da Francesca Gamharini). Una rivisitazione neorealista, affinché i ladri non si concentrino sulle biciclette. Questo mostro da socialismo insaccato produce appalti, posti, prebende, cointeressenze. Fa da collante a ciò che s’è sfasciato. Ma impoverisce tutti. Prendete le Terme di Salsomaggiore: già solo il palazzo merita il viaggio ed è attrazione turistica, ma, gestite dagli enti locali, falliscono anche quelle. Hanno fatto vasche per ospitare meno di dieci persone. Lo hanno scambiato per il bagno di casa loro.

Dice Matteo Richetti, esponente del Pd e sfidante affondato prima delle primarie: la gente non sa perché andare a votare. Correggo: lo sanno solo quelli che ci andranno, i meno, i cointeressati. A destra ci si interessa del possibile sorpasso di Forza Italia, a opera della Lega. Ma, scusate, è già avvenuto. Guarderemo dentro le urne, ma se in una Regione così combinata chi dovrebbe rappresentare l’alternativa non ha da proporre un modello diverso, se non martella notte e dì per lo smantellamento di quelle 500 pepite di clientelismo e inciucismo, ha già perso. Anzi: s’è perso. La Lega agita problemi veri usando parole non sempre risolutive. Farà la strada che merita. Sono gli altri ad essere andati fuori strada. Il che, però, lascia orfano l’elettorato ragionevolmente convinto che il presente si debba cambiarlo senza perdere il senso del tempo e dei tempi. Restano orfani i risparmiatori che hanno messo da parte quel che serve a vivere con sicurezza e non intendono esporlo alle avventure monetarie dei propagandisti. Di vecchio e nuovo conio.

Andranno a votare in pochi perché gli altri non sono desiderati, prima ancora che interessati. Perché se andassero avotare in tanti si dovrebbero per forza fare i conti con la realtà. Mentre i militi del voto assicurano a forze spompate e idee approssimate di potere vivere ancora un poco nella realtà surreale di una politica che discuterà di percentuali, quando l’unico numero che conterà sarà quello assoluto. Dei votanti e dei voti. E perderanno tutti.

In 3 anni 40 miliardi di tasse per pagare sussidi ai disoccupati

In 3 anni 40 miliardi di tasse per pagare sussidi ai disoccupati

Claudio Antonelli – Libero

Il sistema di sussidi a chi è rimasto senza lavoro dal punto di vista finanziario non sta più in piedi. Già nel 2010 a lanciare l’allarme è stato il ministero delle Finanze. Nel frattempo anche le novità avviate sotto la competenza di Elsa Fornero non hanno invertito il trend. Nel periodo 2007-2013 la spesa complessiva per il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia è cresciuta in modo rilevante, passando dai 7,9 miliardi complessivi per cassa integrazione guadagni, mobilità e disoccupazione del 2007 ai 23,6 miliardi del 2013, importo che comprende anche le nuove misure introdotte dalla riforma Fornero come le ASPI e mini-ASPI.

Ad analizzare nel dettaglio i numeri dell’intero comparto dei sostegni è stato il Centro Studi ImpresaLavoro, ideato dall’imprenditore del Nord-est Massimo Blasoni. Ne risulta che «la spesa per ammortizzatori sociali è arrivata nel 2013 alla cifra record di 23,6 miliardi di euro (nel 2007 erano 7,9 miliardi)», si legge nello studio. «Il sistema nel suo complesso è finanziato per una quota di circa 9 miliardi di euro annui a carico delle imprese, le quali sono soggette a contribuzione a diverso titolo». Ovviamente fino al 2007 nessuno si è posto il dubbio. Tanto meno si è messo al lavoro per riformare il sistema. D’altronde le uscite eccedenti vanno a carico della fiscalità generale e nel 2007 erano una cifra pari a zero: l’esborso a carico dello Stato è incrementato nel tempo fino ai 14,6 miliardi del 2013. E nel triennio precedente la cifra complessiva è arrivata a 38,1 miliardi. La cifra pesa sull’intera comunità, mentre i beneficiari delle prestazioni corrispondono a un insieme circoscritto di soggetti (alcune categorie di imprese e alcune categorie di lavoratori).

E per di più – si evince dallo studio – non vi è diretta corrispondenza tra flussi di entrata e in uscita nemmeno a livello di misure singole: le contribuzioni a carico delle imprese per la cassa integrazione guadagni ordinaria, ad esempio, coprono regolarmente anche le uscite (a favore dei lavoratori) per l’indennità di mobilità. Senza dimenticare che la rigidità dei contributi ha un effetto deleterio sul mondo del lavoro. Basta pensare che l’Aspi non vincola il disoccupato ad accettare altri posti su scala nazionale.

I tecnici accusano: manovra colabrodo

I tecnici accusano: manovra colabrodo

Franco Bechis – Libero

Finanza creativa come ai bei vecchi tempi e cifre appese in aria a modelli teorici inventati lì per lì. Dalla proroga dello sconto degli 80 euro alla riduzione dell’Irap, dal Tfr in busta paga alla lotta all’evasione, fino ai rischi notevoli contenuti nelle norme sulla tesoreria unica che coinvolgono la Cassa depositi e prestiti, la manovra di Matteo Renzi sembra con i piedi di argilla come raramente è avvenuto negli ultimi anni.

Come era accaduto qualche mese fa con altri provvedimenti economici, i tecnici del Servizio bilancio del Parlamento l’hanno passata incontro luce segnalando numerosi rischi e altrettante incongruenze che potrebbero fare ballare per cifre anche notevoli i conti dello Stato. Allora furono i tecnici del Senato, che per questo loro prezioso lavoro istituzionale furono pubblicamente sbeffeggiati dallo stesso Renzi, poi difesi (non proprio vibratamente) dal presidente del Senato, Piero Grasso. Ora è meglio che si prepari a incrociare la spada Laura Boldrini, perché a fare pezzi la legge di stabilità sono i tecnici del servizio Bilancio della Camera. Ecco come nelle principali voci.

80 euro
Prima osservazione: le simulazioni su cui si basano gli effetti di finanza pubblica del bonus da 80 euro si basano su modelli abbastanza di fantasia. E curiosamente – nonostante la norma identica – divergono non poco dalla relazione tecnica del decreto dell’aprile scorso che concedeva la stessa agevolazione. Attenzione però, perché «la microsimulazione è effettuata con riferimento ai redditi 2012, estrapolati al 2015», avvertono i tecnici della Boldrini, perché da allora a oggi molti possono essere usciti dalla platea dei beneficiari ed altri esservi entrati. Bisogna però sapere quanti sono entrati e quanti sono usciti per fare bene i calcoli.

Sconti Irap
Anche qui il modello di riferimento viene ritenuto piuttosto fantasioso e un po’ improvvisato. I tecnici sono tali e non segnalano temi politici come fa la stampa. Lì si è evidenziata la beffa dello sconto Irap che non c’è, perché retroattivamente vengono tolte le riduzioni di aliquote stabilite proprio con il decreto 80 euro. Una presa in giro delle imprese, però fatto alla carlona come tutte le cose di questo esecutivo. Segnalano i tecnici: «l’abrogazione dell’art. 2 del DL n. 66/2014, che aveva disposto la riduzione delle aliquote IRAP, non determina in via automatica il ripristino delle precedenti maggiori aliquote in base alle quali la relazione tecnica ha quantificato gli effetti positivi di gettito». Detto fra noi:meglio così. L’aumento delle aliquote può essere impugnato dalle imprese, perché la norma è fatta male.

Tfr in busta paga
Non costa niente alle imprese, diceva il governo. Bugia: la relazione tecnica inserisce nuove entrate per il fisco. Come? «Le maggiori entrate sembrerebbero infatti derivare dall’aumento per le aziende interessate degli sgravi contributivi previsti, cui dovrebbero tuttavia corrispondere minori deduzioni fiscali».

Ammortizzatori sociali
Qui c’è un fondo fantasma, perché viene legato al Jobs act, bandiera di Renzi che al momento non c’è. Con la finanza pubblica però non si può giocare: «le disposizioni in esame istituiscono un Fondo di finanziamento per l’attuazione delle modifiche in materia di lavoro e di ammortizzatori sociali, che verranno definite a seguito dell’adozione dei decreti di attuazione all’apposita legge di delega,già approvata dal Senato e attualmente all’esame presso la Camera dei deputati. In proposito non risulta possibile procedere a una verifica di tali effetti non essendo allo stato definita la nuova disciplina relativa alle materie oggetto di delega».

Sistema tesoreria unico
È forse il tema più delicato dell’intera manovra, ed è quello di cui si è parlato meno. I compiti che vengono girati alla Cassa depositi e prestiti hanno un rischio enorme: quello che venga consolidata anche quell’area nei conti dello Stato. Con un’esplosione del debito pubblico: «In merito al trasferimento del Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato presso la Cassa depositi e prestiti», scrivono i tecnici della Boldrini, «andrebbe espressamente escluso che tale operazione possa determinare un rischio di inclusione della Cassa nel perimetro della p.a. con conseguenti effetti negativi sui saldi di finanza pubblica e sul debito».

Evasione fiscale
Anche qui le norme sembrano scritte da principianti. Si prevedono entrate massicce su simulazioni vecchie e fatte su settori che nulla c’entrano con i provvedimenti. E attenzione: «occorrerebbe acquisire elementi volti a verificare che il maggior gettito imputato alle disposizioni in esame abbia effettivamente carattere aggiuntivo rispetto a quello ascritto a provvedimenti di contrasto all’evasione già adottati».

Gettito casa

Gettito casa

Davide Giacalone – Libero

Ci sono le premesse per una nuova tregenda fiscale sulla casa. Solo che i demoni tributari non si danno convegno di notte, come quando ancora si celavano, ma sfilano in pieno giorno, esibendosi e pretendendo di passare per giulive innovazioni. Nella riforma del catasto trovo un concetto, quello dell’“invarianza di gettito”, che tradisce presenze stregonesche.

Il catasto è vecchio e va riformato. Giusto. I valori catastali vanno aggiornati e portati verso quelli di mercato. Bene. Il governo, con un decreto legislativo, ha varato la riforma, subito rilanciata dai giornali. No, questo è esagerato: ha riattivato le commissioni censuarie, che ci vorrà molto tempo perché si compongano e inizino a lavorare (uno o due anni), e ancor di più perché finiscano di censire e valutare (cinque anni). Il tempo per correggere gli errori c’è, dunque. Il rischio è che aumentando le rendite catastali si possano raddoppiare e triplicare le tasse sulla casa facendo finta di lasciarle invariate. Perché cresce la base imponibile. L’antidoto a questa macumba dovrebbe essere l’invarianza di gettito, prevista nella legge. Ma non mi convince. Per due ragioni.

La prima è che se i valori fiscalizzati tendono a seguire quelli di mercato non si vede perché si debba stabilire l’invarianza, laddove, invece, il gettito fiscale dovrebbe diminuire al decrescere del valore di mercato di un immobile. Se non varia il gettito non si capisce perché far variare il valore. È bene che si voglia evitare il rischio prima ricordato, del raddoppio e della triplicazione, ma allora si deve scrivere che il gettito non deve crescere, non che deve restare fisso.

La seconda ragione per cui non mi convince è che due sono i tratti distintivi della riforma: a. l’imposizione sarà (almeno in parte) stabilita dai Comuni; b. la rivalutazione degli estimi porterà alcuni a pagare di più, ma altri a pagare di meno. Domanda: se le aliquote vengono fissate da 8.000 comuni e se sappiamo in partenza che ciascuno potrà vedere cambiare quel che deve al fisco, come si fa a sapere prima che il gettito sarà invariato? Risposta: non si può, è impossibile. Lo sapremo solo dopo, a tasse esatte. Ma siccome esiste un preciso vincolo di legge, che sarà quasi impossibile non violare, ciò metterà in moto la più rodata macchina nazionale, quella del ricorso: i singoli proprietari di casa potranno attivarsi, in autotutela, contestando le nuove rendite presso gli uffici delle entrate, salvo, ove si sentano dare torto, fare ricorso alle commissioni tributarie, e senza escludere il ricorso al Tar, per gli aspetti di legittimità. Se parte un tale inferno altro che cinque, ci metteremo cinquanta anni, per venirne a capo.

Sarebbe saggio dribblare fin da subito l’accusa di volontaria e consapevole violazione della legge, da parte dello stesso Stato che la emana, stabilendo che potendo sapere solo l’anno successivo se il gettito è cresciuto, l’eccedenza sarà restituita, per quota parte, a tutti quei contribuenti che si sono trovati a pagare più dell’anno precedente. Anzi: autorizzandoli a calcolare la differenza e detrarla dai tributi futuri. Questo sempre che si stia giocano un’onesta partita di riforma del catasto e non una disonesta trappola per spremere più soldi dalle case. Anche perché rappresentano la grande parte del patrimonio degli italiani, il cui valore ci rende esemplari nel rapporto con l’indebitamento aggregato (pubblico più privato). Continuare a farlo scendere, mediante fisco mefistofelico, è da sciocchi, ma assatanati di liquidi altrui.

Conti al Colle

Conti al Colle

Davide Giacalone – Libero

Se i conti pubblici italiani fossero in equilibrio non si starebbe parlando delle dimissioni del presidente della Repubblica nei termini in cui se ne parla. Il tema dominante, che ha spinto il Colle a calendarizzare l’uscita di scena, non è quello delle riforme costituzionali o elettorali, ma i conti. Siccome non tornano, e siccome questo avrà conseguenze notevoli nei mesi a venire, è come se il Quirinale dicesse: se siete capaci di sistemarli, fatelo subito, così poi si passa a discutere di Costituzione e sistema elettorale, ma se scantonate e rinviate scordatevi che da qui vi si copra, quando il nodo verrà al pettine. Non ci sarà copertura nei confronti delle istituzioni Ue, da dove giungono rumori inquietanti, altro che scricchiolii. Né ci sarà copertura relativa alla procedure istituzionali interne, elezioni anticipate comprese. Se volete quella roba, allora eleggete un altro presidente, sperando che ne sia capace. Auguri.

Che il settennato non sarebbe stato di sette anni Napolitano lo disse in occasione del suo secondo giuramento. Lo fece dando dell’irresponsabile a una platea parlamentare che lo applaudì con trasporto. La novità, raccolta da un ottimo Stefano Folli, non è che si dimetterà prima della scadenza, ma che ha fissato il riferimento alla fine dell’anno. E senza che sia passato nulla di quel che allora chiese, per poi potersene andare. Qui, negli anni, non ho risparmiato critiche a Napolitano, e le confermo tutte. Ma è corretto che il presidente ponga la questione: non può rinunciare al potere di scioglimento anticipato, perché questa sarebbe una menomazione della Costituzione, ma neanche vuole sciogliere dopo avere creato due governi senza maggioranza elettorale e non avere ottenuto nulla, quindi, se l’irresponsabilità continua si dimetterà in tempo utile perché si elegga il successore e quello possa, ove ne ricorrano le condizioni, sciogliere il Parlamento e portare l’Italia al voto entro primavera. Se non avesse preso l’iniziativa adesso, se si fosse lasciato trascinare dalle dilazioni, si sarebbe poi trovato in una condizione insostenibile: non sciogliere le Camere, pur in presenza della loro incapacità a legiferare e far governare, sarebbe stato come attentare alla Costituzione, scioglierle, però, sarebbe equivalso a darla vinta proprio a chi non aveva voluto tenere conto né di come la legislatura era iniziata né della realtà economica del Paese. Per evitare la trappola, Napolitano si sfila prima.

Tutta la legge di stabilità poggia sul presupposto che il 2015 veda crescere il prodotto interno lordo italiano dello 0.6%. Ad oggi non se ne vedono i presupposti. L’Ocse stima lo 0.2, ovvero un terzo. Moody’s ci vede inchiodati fra -0.5 e + 0.5. Il nulla. In queste condizioni i conti sono sballati. Siccome lo sappiamo già ora, prima che la legge sia discussa in Parlamento, va corretta. E va fatto senza appoggiarsi retoricamente alla dannazione dei vincoli europei, perché così facendo si alimenta un mostro. Semmai è l’opposto: l’incapacità di tagliare la spesa pubblica porta a clausole di salvaguardia capaci di garantire la recessione per altri anni ancora, a cominciare dall’aumento dell’iva. Siccome chi governa preferisce discorrere di regali agli elettori e far finta che la pressione fiscale cali, mentre invece cresce, salvo poi far precipitare tutto con la sceneggiata nazarena, allora il Colle fa sapere che non reggerà il moccolo.

Agli italiani si fa credere che tutto questo sia un balletto di palazzo, anche grazie ai soliti retori perditempo che furoreggiano in politichese invocando concretezza e adesione alla realtà di cui sono privi. Ma questo non è un gioco di palazzo, semmai sui palazzi dove abitiamo, perché più tardi si farà la correzione dei conti più saranno solo nuove tasse, fino alla patrimoniale, tradizionalmente a predilezione abitativa. E se le elezioni si saranno fatte prima potrà cambiare solo l’indirizzo della rabbia collettiva. O dal governo si renderanno complici nel deviare la rabbia verso l’Ue, in un tripudio di follia e populismo stracciamutande.

Sono questi i termini della partita in corso. Il centro della disputa non sono le elezioni anticipate in sé, ma il loro ipotetico uso per non intestarsi la correzione dei conti. Noi lo ripetiamo da mesi: o il nazareno indossa una veste anche economica, o è disallineato rispetto ai tempi dei conti. L’orologio del Colle scandisce quella nostra convinzione. Potrei osservare che si sarebbe dovuto farlo prima. Preferisco annotare che è un bene non si consenta l’incoscienza di abbandonarsi a un indefinito e limaccioso dopo.

Fisco in concorrenza

Fisco in concorrenza

Davide Giacalone – Libero

All’interno dell’Unione europea il fisco è oggetto di concorrenza. Poteva andare bene fino alla fine del secolo scorso, meno avendo in tasca una moneta comune. Il bello della concorrenza è che da qualche parte si paga meno. La concorrenza diventa nociva quando è sleale. Ed è questo che deve essere rimproverato al Lussemburgo, e per esso a chi lo ha lungamente governato e che ora è capo della Commissione europea: Jean Claude Juncker.

Vantaggi fiscali comparati si trovano in molti paesi europei. Mi dispiace che non se ne trovino in Italia. Ne avevamo uno piccolino, relativo al risparmio, e lo abbiamo cancellato. Se vogliamo chiamarli “paradisi fiscali” facciamolo pure, ma ricordiamoci che ce ne sono elementi non solo in Lussemburgo, ma anche in Olanda, Irlanda, Portogallo, Regno Unito, Austria, Malta, Cipro. E non è un elenco completo. Si è indotti a credere che i vantaggi fiscali esistano solo per i ricchi e per le società grosse, ma non è così: il Portogallo offre un vantaggio fiscale (tasse zero) ai pensionati non portoghesi che vanno a vivere colà; nel Regno Unito i fondi accumulati per la pensione, fino ad un tetto, sono totalmente esentasse; in Austria le agevolazioni valgono anche per le piccole aziende che vi traslocano; nelle istituzioni finanziarie che amministrano i vostri fondi pensioni e i vostri risparmi è garantito che ci siano società lussemburghesi, delle quali indirettamente profittate. E così via. Sul lato “ricchi” la Francia non fece a tempo a introdurre una demenziale tassa che già un folto drappello prese residenza in Belgio. Tutti questi paesi sono membri dell’Ue e, naturalmente, concorrono a determinare e popolare le istituzioni dell’Unione. Commissione compresa.

Si devono tenere fermi due concetti: a. lo spazio comune, con libera circolazione di persone, beni e soldi (con prevalenza di valuta unica), comporta una armonizzazione fiscale; b. questo non deve avvenire allineandosi ai peggiori, il paradiso è preferibile all’inferno. Tutto bene, quindi, in capo al Lussemburgo ed a Juncker? No, ma non perché debbano uniformarsi all’inferno, bensì perché lo creano, sotto forma di caos e opacità.

Vediamo perché, senza introdurre complicazioni tecniche. I punti delicati sono due, posto che sui redditi delle persone fisiche si pagano tasse alte (ma è bassa l’Iva): il fatturato interno a un gruppo e gli accordi fiscali preventivi. Immaginiamo un gruppo (ce ne sono centinaia) che ha società italiane e lussemburghesi, siccome in quel Paese si pagano tasse minime, o nulle, sui profitti, scelgono di tenere tutti i costi sui conti italiani e tutti gli utili su quelli lussemburghesi. È una truffa, se riesci a dimostrarlo. Sarebbe folle criminalizzare quelli che hanno società lussemburghesi, ma non è facile dimostrare la falsa fatturazione infragruppo. Specie se le autorità del Granducato non collaborano. E quelle non collaborano perché approfittano di un gettito fiscale altrimenti, per loro, inesistente. Tanto che offrono la possibilità di trattare in anticipo condizioni personalizzate: l’interessato si reca, accompagnato da un buon professionista, presso l’ufficio preposto, espone il tipo di società che vuole trasferire e quanto pensa di volere pagare, quelli considerano e negoziano, raggiungendo un accordo di “tax ruling”. Poi collaborano certo nel metterlo in difficoltà. E questa è concorrenza sleale. Tanto che la Commissione europea ha contestato proprio i vantaggi selettivi, ovvero le regole non scritte ma pattuite, non per tutti ma per alcuni. E chi c’è oggi, a capo della Commissione? Un signore, Juncker, che quel sistema ha lungamente accudito, se proprio non creato.

In tutti i paesi dell’Ue ci sono interessati a lasciare le cose come stanno. In tutti ci sono società che, ove cacciate dal Lussemburgo, non tornerebbero in patria, ma si cercherebbero casa in altri paradisi fiscali. Ciò, però, non può consentire un trucco per ottenere il Paese con il più alto reddito pro capite e il più basso debito pubblico. È difficile non che guidi gli altri, ma che anche solo ci conviva. Questo è il gigantesco problema. Preesisteva alla presidenza Juncker e non è limitato al solo Lussemburgo. Qui lo scriviamo da anni, sia con riferimento a quel Paese (si pensi alla scalata di Telecom Italia) che ad altri (avvertimmo all’epoca del default delle banche cipriote). È divenuto lampante. Bene, ma sempre a patto che si vada verso la diffusione del paradiso, non verso la socializzazione dell’inferno.

Dragare i conti

Dragare i conti

Davide Giacalone – Libero

È in atto una doppia perversione: lo scontro politico più interessante e serio si svolge fra le mura della Banca centrale europea, che non ha, né deve o potrebbe avere, legittimità democratica; come se non bastasse, e in modo grottesco, a rendere più difficile la politica espansiva della Bce sono proprio i paesi che ne avrebbero più bisogno. La cancelliera tedesca non ostacola la Bce, ma neanche muove un dito per fermare la Bundesbank, che ha organizzato un drappello di governatori centrali (Lussemburgo, Olanda, Estonia e Lettonia) in modo da gestire la guerriglia contro Mario Draghi. I capi dei governi francese e italiano, che per primi dovrebbero sostenere i programmi della Bce, s’industriano, invece, per trovare buoni argomenti da fornire alla Bundesbank. Questa è la doppia perversione. Ieri affrontata al meglio, ma che non smette di proiettarsi nel futuro.

L’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), nel suo Economic Outlook (previsioni economiche), preparato per il G-20 del prossimo 15 novembre, porta acqua al mulino di Draghi e di quanti ritengono necessaria una politica monetaria espansionistica: senza quella e senza riforme la crescita europea si fermerà, creando un problema globale. Il board della Bce, dal canto suo, come illustrato dal presidente in una conferenza stampa, è stato unanime nel vedere nero.

Intendiamoci: siamo i soli, nell’Unione europea, a essere ancora in recessione e in deflazione, talché le previsioni Ocse sulla nostra crescita sono ferme all’asfissia: +0,2 nel 2015, contro il +0,6 su cui si reggono (si fa per dire) i conti del governo. Ma Germania, Francia e Italia sono la parte largamente preponderante della ricchezza e della produzione europee, e, sommate, non corrono proprio per niente. A fronte di ciò Draghi ha detto e ridetto che non basta la politica monetaria, per sentire nuovamente il rombo dei motori, ma è necessario che quella sia accompagnata da riforme interne, che aumentino la competitività, la produttività e l’elasticità economica di ciascuno. Tradotto in modo brutale: meno garanzie e più opportunità; meno pensioni sicure e più rispetto per il risparmio; meno spesa pubblica corrente e più investimenti; meno pressione fiscale, senza nessun “più” ad accompagnarla.

Francia e Italia, inchiodate dall’incapacità delle loro classi dirigenti, rese tremule dal crescere di movimenti politici di rifiuto e di protesta (alimentati dall’incapacità di cui sopra), indebolite da una crisi che si allunga anche per i ritardi nel contrastarla, altro non hanno saputo fare che il contrario del necessario, reclamando maggiore deficit e maggiore debito pubblico. Come un dogato che reclami più droga, supponendo sia la migliore ricetta per disintossicarsi. Nell’anno in cui si sarebbe dovuto porre come ineludibile il tema del debito federale, restiamo appiccicati all’incapacità di gestire quello nazionale.

Accanto a questi grandi paesi, che la paura rende miniature, ci sono quelli cui la crisi è stata fatta pagare con il sangue (Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda) e che ora, magari dimenticando che la loro crescita è frutto dei soldi ricevuti (e che noi italiani abbiamo dato), sono alfieri del rigore perché non vogliono che ad altri sia evitato quel che a loro è stato imposto. Oltre la Manica c’è un Regno che ha seriamente rischiato d’essere disunito e la cui guida politica non solo non sa spiegare i danni dell’allontanamento dall’Ue, ma neanche sa presentare i conti dell’immigrazione interna europea: dalla quale guadagnano supponendo di perderci. In questo caos la Germania ancora approfitta d’essersi trovata nella posizione di chi trae vantaggio dalla difesa letterale dei trattati, accrescendo un ruolo egemonico che non ha mai portato fortuna a lei e men che meno all’Europa.

Il solo contrappeso comparso sulla scena è la Bce. Chi sa come e perché il mercato economico comune figliò la moneta unica sa anche il perché: possono esserci paesi forti, non possono esserci paesi che esercitano guida politica. La tragedia è che s’è trasferito dentro la Bce uno scontro politico che doveva trovarsi al Consiglio dei capi di Stato e di governo. Ieri l’esposizione della linea che si seguirà, positiva, ma per tutti impegnativa. La riassumo in cinque punti: 1. restano fermi, al minimo possibile, i tassi d’interesse; 2. il bilancio della Bce crescerà fino ai limiti della sua massima espansione, raggiunti nel 2012, il che significa che circa mille miliardi saranno pompati nel mercato; 3. sono allo studio tutte le possibili misure non convenzionali, compreso l’acquisto di titoli dal mercato (ai riluttanti è stato concesso il concetto di “studio” e l’uso del modo futuro nel coniugare i verbi); 4. i paesi membri devono curare il risanamento dei loro conti pubblici; 5. il patto di stabilità resta la credenziale di credibilità. Inutile sperare nei primi tre punti facendo i furbi sugli ultimi due. Ciò comporta che la legge di stabilità o la riscriviamo subito, o la riscriviamo, in emergenza e debolezza, fra sei mesi.

Vicolo cieco

Vicolo cieco

Davide Giacalone – Libero

Ci siamo infilati in un vicolo cieco. Lo percorriamo con baldanza, ma sempre budello ostruito è. Per rendersene conto si leggano, con attenzione e senza inutili polemiche, le cose dette dal ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, in Parlamento: la pressione fiscale diminuirà nel 2015, ma tornerà a crescere dal 2016. La diminuzione, come si legge nella legge di stabilità, è prevista in appena lo 0,1%. Non solo ci vorrà il microscopio, per vederla, ma sarà annullata dalla crescita delle addizionali locali. Se anche così non fosse, comunque è previsto che cresca dello 0,4 nel 2016. E il cielo non voglia che scattino le clausole di salvaguardia, altrimenti sarà uno schizzo poderoso. Posto che la disoccupazione non è prevista mai in discesa sotto il 12% e il prodotto interno lordo non è previsto mai in crescita più dell’1% (considerato già meta da sogno, comunque insufficiente), se ne trae la conclusione che siamo in un vicolo cieco.

Supporre di servire il debito pubblico, che intanto cresce, usando solo gli avanzi primari, in un’economia che non cresce, non è neanche un vicolo cieco, ma un nodo scorsoio. Di operazioni straordinarie non se ne vedono all’orizzonte. I dossier Cottarelli restano chiusi nel cassetto. Anzi, se Enrico Letta disse di volere usare il cacciavite, non essendo riuscito a trovare l’impanatura, Matteo Renzi ha promesso il caterpillar, ma fin qui siamo alle pinzette per la depilazione.

Sarebbe sciocco, oltre che inutile, attribuire tutte le responsabilità agli attuali governanti. Ma è non meno sciocco, e ancor più inutile, pretendere di negare la realtà. Nella legge di stabilità non solo mancano i tagli profondi della spesa pubblica, ma si opera in deficit senza che questo favorisca la ripresa. Non solo mancano le vendite di patrimonio per abbattere il debito, ma si consentono porcherie come la quotazione di Rai Way, che dismette patrimonio per foraggiare spesa corrente. Dov’è, allora, il punto di rottura oltre il quale si dovrebbe cambiare andazzo, o verso? Rispondere che consiste nelle riforme in cantiere, posto che su quelle (dal lavoro alla giustizia) c’è gran clangore di spade politiciste, gran vociare di pupi avversi, ma opacità profonda circa le concrete misure e i loro effetti nella realtà, è propagandismo spicciolo. Tanto non ha senso, una risposta di quel tipo, che ora si puntano gli occhi sulle manovre europee, a cominciare dai 300 miliardi di cui parla il presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker.

Ammesso (e non concesso) che quei soldi esistano, noi e i francesi stiamo facendo di tutto per dare scuse a chi non vuole utilizzarli. Non è tanto la polemica sui burocrati, che di suo è insensata (piuttosto: nelle istituzioni europee c’è certamente troppa burocrazia, spesso ottusa, come tutte le burocrazie, ma noi italiani manchiamo di alti burocrati capaci e influenti, da quelle parti, avendo continuato a spedirci gli altrimenti non collocabili). Quanto l’ostinarsi a non capire che le politiche espansive, che siano monetarie o frutto d’investimenti pubblici, richiedono rigore nell’amministrazione della spesa pubblica, altrimenti ci si indebita per niente. Tecnica che noi conosciamo bene. Se non si stoppa la spesa corrente improduttiva l’espansione monetaria somiglia alle trasfusioni fatte a un signore con la giugulare aperta: più pompi e più svasi. Vedo medici pazzi che corrono dicendo: più sangue, altrimenti muore. Ne serve uno che sappia cucire, in modo da rendere sensato il sangue trasfuso.

I numeri che il governo stesso mette nero su bianco descrivono una cartella clinica da morte celebrale. Il paziente non reagisce. Poi, per carità, facciamo un regalo all’imminente vedova, con 80 euro al mese, e uno alla figlia, con 80 euro per l’allattamento, ma non si riprende un accidente, dato che prendiamo 81 euro allo zio che ha comprato un appartamento e 82 al cugino che ha dei risparmi. Fatti i conti: a quella famiglia freghiamo i soldi. Fa rabbia, perché una tale sorte non è affatto ineluttabile. Gli strumenti per cambiare direzione di marcia ci sono eccome. Ma qui ci si trastulla litigando, sperando che le mazzate nascondano il vuoto retrostante.

Per gli investitori esteri l’Italia è ancora il regno di burocrazia, tasse e giustizia malata

Per gli investitori esteri l’Italia è ancora il regno di burocrazia, tasse e giustizia malata

Luciano Capone – Libero

L’Aibe, Associazione fra le banche estere in Italia, ha presentato la seconda edizione del suo indice che misura “l’attrattività dell’Italia presso gli investitori esteri”. I risultati non sono positivi, l’Italia viene superata dalla Spagna e fatta 100 l’attrattività dei primi della classe, gli Stati Uniti, l’indice per l’Italia si ferma a 38.

L’Aibe, attraverso un istituto specializzato come Ispo, ha posto una serie di domande ai vertici di grandi investitori internazionali 26 (multinazionali, private equity, investitori industriali) per misurare la loro percezione sull’attrattività del nostro “sistema paese”. Un’opinione molto rilevante per un paese che attrae pochi investimenti e che, vista la carenza di risorse interne, difficilmente potrà riprendersi senza l’arrivo di capitali esteri. L’indice ha segnato un leggero miglioramento rispetto alla rilevazione di sei mesi fa, ma la posizione relativa rispetto agli altri paesi è peggiorata. I miglioramenti derivano dalla maggiore stabilità del sistema politico e dalla percezione che qualcosa si sta muovendo sul fronte della riduzione del costo del lavoro e sulla flessibilità del mercato del lavoro. Nonostante i risultati degli stress test, che hanno segnalato la situazione critica di Mps e Carige, c’è molta fiducia nella solidità del sistema bancario, ma il vero punto di forza è l’elevata qualità delle risorse umane. I segnali positivi si fermano qui.

Per il resto, le criticità evidenziate dai potenziali investitori esteri sono le stesse che sono costretti ad affrontare gli investitori, i lavoratori e i cittadini italiani: eccessivo peso della burocrazia, poca chiarezza del sistema normativo, tempi della giustizia, eccessivo carico fiscale, incertezza sulle regole. Nonostante gli investitori guardino con favore alla maggiore stabilità politica garantita dal governo Renzi, non viene giudicata incisiva l’azione riformatrice: per il 54% l’Italia non è più attrattiva di 6 mesi fa e solo per una minoranza del 46% ha attuato una strategia per attrarre investimenti. La richiesta fatta al governo è quella di concentrarsi sulle riforme strutturali piuttosto che cercare un cambiamento delle politiche economiche europee. «Ciò che risulta inconcepibile agli occhi degli investitori esteri – sottolinea il presidente Aibe Guido Rosa – è la pessima abitudine di approvare norme fiscali retroattive, di decidere a novembre-dicembre di far pagare imposte a partire dal 1 gennaio». Un’abitudine anche di questo governo che ha aumentato retroattivamente l’Irap per il 2014.