Il premier rifà la Rai di Fanfani, gli mancano solo le Kessler
Davide Giacalone – Libero
Back to Mammì. Che sarebbe anche una buona cosa, se non fosse fuori tempo massimo e fuori dalla realtà. In verità il film che Matteo Renzi vorrebbe far trasmettere alla Rai, a reti unificate, è: Back to Fanfani.
Quella che a Renzi sembra una novità è la proposta che il ministro Mammì (il mio amico Oscar, con cui ho lavorato, in una stagione di cui conservo un orgoglioso ricordo) fece nel 1987: sottrarre la Rai all’«ossessione dell’audience» (così la definì) e far sì che una delle tre reti fosse senza pubblicità. Fininvest, che era il nome di allora di Mediaset, avrebbe dovuto rinunciare a una delle sue tre reti. Tale proposta venne bocciata subito. Non dai sostenitori di Fininvest, ma da quelli della Rai. Non dagli amici di Silvio Berlusconi, ma da quelli di Biagio Agnes. In prima fila c’era lui, Uolter Veltroni, che disse: una televisione senza pubblicità non è una televisione. Sì, è lo stesso Uolter che poi sostenne non dovesse «interrompersi un’emozione», cioè non dovesse esserci la pubblicità nei film. Ma che volete, della coerenza ha sempre coltivato la variante africana.
Fu bocciata, dicevo. Poi fu approvata un’elaborazione successiva, che lasciava ai duopolisti tre reti (aprendo il mercato ad altri, però), tutte con pubblicità. E fu approvata con il consenso anche della sinistra democristiana e del Partito comunista (senza offesa, si chiamava così). Quando Mammì fece la sua prima mossa, comunque, la cosa aveva un senso. Intanto perché la Rai aveva tre reti, mentre oggi ne ha quindici. Poi perché non esistevano ancora né Tele+ né Stream, successivamente confluite in Sky. Soprattutto perché eravamo in epoca analogica, mentre oggi c’è il digitale. La domanda è: allora perché, oggi, il grande innovatore recupera un reperto archeologico? Risposta: perché punta ancora più indietro, alla Rai di Amintore Fanfani ed Ettore Bernabei. Alla Rai di governo. Si preparino le gemelle Kessler.
Renzi conta di arrivare al monocolore Rai cambiando il meccanismo di nomina dei consiglieri d’amministrazione. L’idea è che i consiglieri restino sette, come oggi, ma quattro siano eletti dal Parlamento, in seduta congiunta, due dal governo e uno dai dipendenti della Rai. Peccato che: a. le occasioni per le sedute congiunte sono regolate dalla Costituzione, sicché si dovrebbe modificarla (anche in questo), o scimmiottarla puerilmente; b. il Parlamento di cui parla Renzi è quello che stanno riformando, quindi al Senato ci sarebbero i rappresentanti delle Regioni, ma pochi, mentre la Camera sarebbe abitata da tanti di un solo partito, che è anche lo stesso al governo. Detta in modo più chiaro: chi vince le elezioni elegge sei consiglieri su sette. In più il governo nomina il direttore generale (mentre oggi lo elegge il consiglio d’amministrazione). Il potere assoluto. Manco Fanfani ci aveva pensato. Con un tocco di cogestione jugoslava, incarnata dal consigliere delle maestranze, in larga parte reclutate mediante accurata selezione partitica, quindi a vasta presenza di nostalgici a pugno chiuso e bocca aperta. Il maresciallo Tito ne sarebbe compiaciuto.
Renzi è una volpe. Conosce i suoi polli e per questo se li pappa. Infatti veste la sua proposta in questo modo: basta con la Rai dei partiti. Evviva, applausi, tripudio. Peccato che la lottizzazione (copyright Alberto Ronchey) nasce nel 1975, con la riforma che segnò la nascita della sinistra catodica, nonché la fine dell’era censoria e democristianocentrica. In quella in cui i figliuoli di Amintore guidano la sinistra si arriva a tali forme di simpatico sincretismo.
E che si deve fare, allora, conservare la lottizzazione come strumento di pluralismo? Il cielo me ne guardi. Il fatto è che siamo nel mondo digitale, quello che alla Leopolda si ricordava agli altri, salvo scordarsene in proprio. In questo mondo l’offerta è infinita. Il palinsesto te lo costruisci da solo. I più giovani neanche sanno cos’è il consumo televisivo dei propri avi. Dirigere la Rai, quindi, vuol dire controllare quel pezzo di opinione pubblica che s’è assopito davanti alle televisioni generaliste e commerciali, quali la Rai è. Significa puntare alla manipolazione del consenso di quel pezzo arretrato. Lo schermo, e torno a citare il piccolo grande Oscar, concepito come «balcone di piazza Venezia». La soluzione c’è, per non finire a quel modo: venderli. La Rai e il balcone.