massimo blasoni

Basta con lo stato immobiliarista

Basta con lo stato immobiliarista

Massimo Blasoni – Metro

Alloggi occupati illegalmente, famiglie che avrebbero diritto a una casa popolare che rimangono per strada, patrimonio immobiliare pubblico dato in affitto a prezzi stracciati agli amici degli amici: la cronaca, romana e non solo, ci propone ciclicamente una pletora di esempi di come lo Stato imprenditore nel settore immobiliare sia completamente fallito. E questo vale sia per gli immobili che Comuni, Regioni, enti pubblici possiedono come proprio patrimonio e fanno rendere pochissimo (lo si venda subito, piuttosto che concederlo a prezzi irrisori a partiti, associazioni amiche, parlamentari dello stesso colore politico) sia con riferimento al più generale tema delle politiche abitative.

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Basta con lo Stato immobiliarista!

Basta con lo Stato immobiliarista!

Massimo Blasoni – Metro

Alloggi occupati illegalmente, famiglie che avrebbero diritto a una casa popolare che rimangono per strada, patrimonio immobiliare pubblico dato in affitto a prezzi stracciati agli amici degli amici: la cronaca, romana e non solo, ci propone ciclicamente una pletora di esempi di come lo Stato imprenditore nel settore immobiliare sia completamente fallito. E questo vale sia per gli immobili che Comuni, Regioni, enti pubblici possiedono come proprio patrimonio e fanno rendere pochissimo (lo si venda subito, piuttosto che concederlo a prezzi irrisori a partiti, associazioni amiche, parlamentari dello stesso colore politico) sia con riferimento al più generale tema delle politiche abitative.

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Spread, la crisi ci è costata 50 miliardi

Spread, la crisi ci è costata 50 miliardi

di Antonio Signorini – Il Giornale

La crisi dello spread, cioè l’esplosione degli interessi sul debito pubblico italiano, è costata alle casse dello Stato 50 miliardi di euro. Cifra che rappresenta la differenza tra la spesa degli interessi nel clou dell’emergenza e quanto lo Stato avrebbe pagato per il servizio del debito in una situazione normale. La stima è contenuta in una analisi realizzata centro studi ImpresaLavoro. Gli anni presi in considerazione sono quelli dal 2008 al 2015. Il primo picco della crisi nel 2011, con i tassi dei Btp decennali a rendimenti di cinque punti superiori rispetto a quello dei Bund tedeschi. Il governo Berlusconi fu costretto alle dimissioni e si insediò Mario Monti. Gli spread tornarono comunque a salire fino a quota 537.

Per capire cosa ha significato per le casse pubbliche, quindi per i cittadini, ImpresaLavoro ha ipotizzato uno scenario diverso, applicando al periodo 2011/2013 la media del prezzo cedolare e del prezzo di aggiudicazione del periodo 2011/2013, su tutti i titoli di Stato. La differenza in spesa per interessi che emerge è appunto 50 miliardi. Una spirale che ci avrebbe portato a picco, se Mario Draghi non avesse proposto e ottenuto il Fondo salva Stati annunciando che la Bce avrebbe fatto «tutto il necessario» per salvare 1’euro. Cinquanta miliardi sono la misura della sfiducia degli investitori internazionali nei confronti dell’Italia.

E il sostegno di Francoforte non può essere l’unica soluzione, sottolinea Massimo Blasoni, presidente del centro studi ImpresaLavoro. «Nei primi undici mesi del 2015 – sottolinea l’imprenditore – il nostro debito pubblico è aumentato di ulteriori 76 miliardi di euro e per ora scende soltanto nelle previsioni del governo, tutte da confermare, per gli anni a venire. Una riedizione di quanto avvenuto nel 2011 è stata sin qui scongiurata dall’attivismo della Bce e di Draghi ma l’alto debito pubblico del nostro paese ci espone costantemente al rischio di finire in balia delle turbolenze dei mercati finanziari con costi molto alti, sia dal punto di vista economico che politico». Il Quantitative Easing non può influire sulla «debolezza delle nostre banche che è un riflesso della debolezza di un paese troppo indebitato». Quindi, sottolinea Blasoni, l’unico modo per evitare altre crisi è «rimettere in ordine i nostri conti pubblici, riducendo il nostro debito. Un’operazione che, numeri alla mano, al governo non sta riuscendo».

Qualche segnale dei possibili rischi emerge anche dalle tabelle dello studio. Nel 2015 la media del prezzo dei Btp a dieci anni è sempre sopra 100, così come la richiesta di titoli. Ma entrambi gli indici sono in calo di circa tre punti rispetto al 2014. La sfiducia rischia di essere più forte della Bce.

Renzi da Merkel senza paura!

Renzi da Merkel senza paura!

Massimo Blasoni – Metro

L’incontro domani a Berlino tra il nostro premier Renzi e la cancelliera tedesca Merkel non si annuncia facile. In gioco vi è soprattutto la richiesta italiana di ottenere la necessaria flessibilità per far quadrare i nostri conti pubblici. C’è da scommettere che molti osservatori dipingeranno il primo come uno scolaretto irruento e sbadato al cospetto dell’inflessibile maestrina dalla penna rossa che (di fatto) governa l’Europa. Eppure, per certi aspetti, l’Italia non dovrebbe soffrire di alcun complesso di inferiorità. Negli ultimi 15 anni, infatti, abbiamo contribuito al budget dell’Unione europea con più risorse (213 miliardi di euro) di quante che ne sono state poi accreditate dai diversi programmi comunitari (poco più di 141 miliardi). Un contributo netto complessivo di 72 miliardi che ci fa rientrare a pieno titolo nel club dei Paesi che pagano un biglietto di prima classe per l’Ue. Anzi, in rapporto al Pil, siamo quelli che fanno maggiori sacrifici.

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Truffe e tasse, perché da noi è così difficile vendere online

Truffe e tasse, perché da noi è così difficile vendere online

di Gianluca Baldini – Il Venerdì di Repubblica del 22 gennaio 2016

Se volete aprire un sito di e-commerce forse l’Italia non sembra essere il Paese che fa per voi. Negli ultimi 12 mesi, secondo una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Eurostat, solo il 26 per cento dei cittadini italiani di età compresa trai 16 e i 74 anni ha effettuato online l’acquisto di almeno un bene o servizio. Il nostro Paese si colloca cosi al quart’ultimo posto di questa particolare classifica europea, appena sopra Cipro (23 per cento), Bulgaria (18) e Romania (11). Ai vertici della graduatoria 2015 si collocano invece i consumatori di Regno Unito (81 per cento), Danimarca l79), Lussemburgo (78) e Germania (73). 

«In Italia usiamo poco il computer e Internet in genere», spiega al Venerdì Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Incidono fattori tecnici come la scarsa velocità della rete ma anche e soprattutto aspetti psicologici: gli italiani non si fidano ad acquistare online, sono abituati a usare il contante piuttosto che le carte di credito e temono le truffe digitali». Analizzando le scelte dei consumatori negli ultimi tre mesi, si osserva poi come resti bassissima la frequenza degli acquisti (quasi sempre uno o due acquisti a testa, solo il 5 per cento ne ha effettuato da 3 a 5) e comunque per importi che non superano quasi mai la soglia dei 500 euro. Nell’ultimo anno i beni più acquistati dagli italiani sono stati viaggi e vacanze (11 per cento) e vestiti (10). Curiosamente, solo il 2 per cento ha deciso di affidarsi alla rete per l’acquisto di tecnologia o servizi di telecomunicazione.

Ma qualcosa sta cambiando. «Da una parte è vero che negli ultimi anni in Italia si sta seguendo un trend di crescita positivo. Una crescita simile a quella degli altri Stati europei che però sono più avanti in termini assoluti», spiega Dario Tana, consulente di e-commerce che aiuta le aziende a fare business in rete. «Dall’altra alcune aziende italiane hanno un sito che però utilizzando come una semplice vetrina senza nessuna strategia per farlo diventare un business. Inoltre aprire un’azienda in Italia che voglia vendere online non e facile: colpa della troppa burocrazia e della tassazione elevata».

Massimo Blasoni a “Virus” – Rai Due

Massimo Blasoni a “Virus” – Rai Due

Il presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, è intervenuto ieri a “Virus”, su RaiDue, ospite di Nicola Porro. In collegamento, insieme a lui: Maurizio Belpietro, direttore di Libero, e Filippo Taddei, responsabile economico del Partito democratico.

Massimo Blasoni a Virus (Rai2)

Il presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, ospite di Nicola Porro ieri sera a "Virus" (Rai2)

Posted by ImpresaLavoro on Friday, January 22, 2016

Edilizia, serve velocizzare

Edilizia, serve velocizzare

Massimo Blasoni – Metro

In Italia per un permesso a costruire si attendono mediamente 233 giorni, in Germania 96, in Danimarca 64, negli Stati Uniti 78, nel Regno Unito 105. Negli ultimi 5 anni la richiesta di costruzione si è dimezzata per la crisi (dal 2008 a oggi il comparto ha registrato un calo del 23,78% degli occupati, pari a 464mila posti di lavoro) ma i tempi per l’ottenimento di una licenza edilizia non sono cambiati. È un evidente controsenso: il numero degli addetti pubblici non è diminuito e la mole di lavoro si è dimezzata. Con evidenti ricadute negative per i cittadini, per le imprese, per il nostro Pil che non riparte.

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Lavoro: i livelli pre-crisi sono ancora lontani

Lavoro: i livelli pre-crisi sono ancora lontani

di Massimo Blasoni*

Parallelamente a quando accade con il Pil, anche l’occupazione nel nostro paese è ben lontana dai livelli pre-crisi. La ripresa in atto è debole e rischia di non tradursi in un sensibile recupero dei posti di lavoro che si sono persi dal 2008 ad oggi. Nell’ultimo anno il combinato di Jobs Act e decontribuzione ha garantito un aumento dell’occupazione di 150mila unità, a ulteriore dimostrazione che i benefici fiscali e contributivi garantiti alle nuove assunzioni a tempo indeterminato sono serviti principalmente a trasformare contratti. Alcuni timidi segnali di ripresa, tuttavia, si intravedono: al sud si è quantomeno fermata l’emorragia di occupati anche se non si può dimenticare che nel mezzogiorno del paese la crisi ha bruciato il 10% dei posti di lavoro esistenti. E questo in territori con tassi di occupazione generale già straordinariamente bassi.

*imprenditore, presidente Centro Studi ImpresaLavoro

Negli ultimi 35 anni Italia prima tra i paesi OCSE per aumento della pressione fiscale

Negli ultimi 35 anni Italia prima tra i paesi OCSE per aumento della pressione fiscale

L’Italia detiene un record molto particolare in campo economico: tra i paesi monitorati dall’OCSE, infatti, è quello in cui la pressione fiscale è cresciuta di più dal 1979 ad oggi. Prima degli anni ’80 il peso delle tasse nel nostro paese superava di poco il 25% del Prodotto Interno Lordo mentre nel 2014, secondo i calcoli dell’OCSE, si è stabilito al 43,6%. Un balzo in avanti di più di 18 punti di Pil che non ha eguali tra i paesi sviluppati. Solo Turchia, Grecia, e Portogallo fanno segnare performance simili, ma comunque inferiori, alle nostre mentre esistono paesi come gli Stati Uniti o il Regno Unito che vedono sostanzialmente stabile l’incidenza del prelievo fiscale sulla ricchezza prodotta. Per tacere di chi, come la Germania, paga oggi un po’ meno tasse (-0,2%) che nel 1979. A crescere negli ultimi 35 anni sono state tutte le principali tipologie di imposte: il prelievo sui redditi è aumentato dell’82,6%, quello sui consumi del 64,5% e le tasse sulla proprietà sono cresciute del 164,1% assorbendo oggi 1,6 punti percentuali di Pil. “L’elaborazione – spiega Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – dimostra che al di là degli scostamenti dello zero virgola, la questione fiscale nel nostro paese rimane una vera e propria emergenza che si può affrontare solo tagliando decisamente la spesa. La spending review è, invece, rimasta solo un annuncio: se non vogliamo accontentarci di tagli fiscali solo sulle slide, avremo bisogno di una revisione e di una riduzione coraggiosa del perimetro dello Stato”.

Il Bel paese delle tasse. Dal ’79 nessuno al mondo le ha alzate come l’Italia

Il Bel paese delle tasse. Dal ’79 nessuno al mondo le ha alzate come l’Italia

di Antonio Signorini – Il Giornale

Sono passati 35 anni, 15 governi e due repubbliche, ma poco è cambiato. Il vizio della politica italiana di risolvere tutto aumentando le tasse non è passato di moda e il risultato è che siamo il paese Ocse (organizzazione che riunisce le economie più sviluppate del pianeta) dove la pressione fiscale è aumentata in misura maggiore. È decollata negli anni Settanta, quando un po’ ovunque si pensava che il fisco servisse a redistribuire ricchezza, ma è cresciuta anche negli Ottanta, quando nel resto del mondo tutti si erano accorti che aumentando le tasse non si fa altro che danneggiare imprese e famiglie. Nulla è cambiato nemmeno negli anni Novanta né con il terzo millennio.

La fondazione ImpresaLavoro, approfittando delle serie storiche della pressione fiscale rese disponibili dalla stessa Ocse, è arrivata alla conclusione che l’Italia detiene saldamente il primato degli aumenti delle tasse. Nel 1979 il peso delle tasse nel nostro paese superava di poco il 25% del Prodotto Interno Lordo, nel 2014 si è stabilito al 43,6%. Un balzo in avanti di più di 18 punti di Pil che non ha eguali tra le economie avanzate. Seguono a distanza Paesi come la Turchia con aumenti del 16,9% e la Grecia con il 14,6%. La Francia, statalista e burocratica, nello stesso periodo ha infierito sui contribuenti solo per il 7,1%. La media Ocse è del 4,4%, quattro volte inferiore alla poco invidiabile performance italiana. Dai dati Ocse emerge che ci sono economie che hanno lasciato la pressione fiscale più o meno invariata. Sono le democrazie di tradizione più solida e antica: il Regno unito (più 1,88%) e gli Stati Uniti (più 0,83%). Ma ci sono anche stati che possono vantare una riduzione della pressione fiscale. E non sono dei «mostri» del liberismo selvaggio. La Germania, culla del welfare, ha registrato un calo dello 0,2 per cento. Svezia e Norvegia, hanno registrato un calo dell’1,2%. Nel 1979 la pressione fiscale italiana era simile a quella degli Stati Uniti, poco sopra il 25%, la Germania era al 36%. Oggi il superstato riunificato è sempre sulla stessa percentuale, noi otto punti sopra. Avevamo un vantaggio competitivo e ce lo siamo mangiato.

«Al di là degli scostamenti dello zero virgola – spiega Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – il dato dimostra che la questione fiscale nel nostro paese rimane una vera e propria emergenza che si può affrontare solo tagliando decisamente la spesa. La spending review è, invece, rimasta solo un annuncio: se non vogliamo accontentarci di tagli fiscali solo sulle slide, avremo bisogno di una revisione e di una riduzione coraggiosa del perimetro dello Stato». Una volontà che, stando ai fatti, non c’è. Le imposte sulla proprietà dal 1979 al 2015 sono aumentate del 164%. Quelle sui redditi e sui profitti dell’82,6%. Il partito della patrimoniale non ha mai vinto le elezioni. Ma il suo obiettivo l’ha raggiunto lo stesso: ha trascinato giù tutto il Paese.