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La beffa delle certificazioni

La beffa delle certificazioni

Luca Antonini – Panorama

Molti piccoli imprenditori negli ultimi mesi hanno diligentemente attivato le procedure per ottenere la certificazione dei crediti certi, liquidi ed esigibili vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni, attenendosi a quanto prevede la nuova normativa sulla cessione pro soluto dei crediti certificati e assistiti dalla garanzia dello Stato (art. 37, comma 3 del d.I. n. 66/2014). Ottenuta una notevole pila di carta (le certificazioni) si sono rivolti ai principali istituti bancari accreditati per sottoscrivere il contratto di cessione del credito. Qui però sono iniziati i problemi: non tutte le banche avevano ancora predisposto specifiche procedure interne per gestire le operazioni di smobilizzo del credito certificato, né erano in grado di dire se e quando tali procedure sarebbero state approntate.

Non solo la pila di carta non si è tramutata subito in euro, ma si è aggiunto il danno: le pubbliche amministrazioni per certificare il credito hanno indicato la data prevista di pagamento sfruttando il tempo massimo, 12 mesi, consentito dalla legge (anche nel caso di crediti già ampiamente scaduti) e fino a quel momento per effetto della sottoscrizione dell’istanza di certificazione rimane paralizzata per legge la possibilità di avviare le normali procedure esecutive di recupero crediti. Ma oltre il danno è arrivata anche la beffa: infatti in televisione appariva intanto uno spot informativo della presidenza del Consiglio dove si dichiara che con il provvedimento sopra citato erano stati risolti tutti i problemi di liquidità che affliggono gli imprenditori che lavorano prevalentemente con le pubbliche amministrazioni. Non sappiamo a oggi quante banche siano riuscite ad attivare le procedure.

Non si cresce con questa frittata

Non si cresce con questa frittata

Giorgio Mulè – Panorama

Oramai la frittata è fatta. Mettetevi il cuore in pace e non aspettatevi miracoli dalla legge di Stabilità, l’insieme di misure che avrebbe dovuto far uscire un’Italia Sfinita dalle secche della recessione. Panorama ha provato a far cambiare verso a una manovra che ci è apparsa fin dall’inizio sbagliata alla radice. Per tre motivi innanzitutto: perché tradiva clamorosamente l’impegno di tagliare cum grano salis l’enorme montagna della spesa pubblica, perché non stimolava gli investimenti, perché rubava il futuro ai giovani attraverso l’imbroglio dell’anticipo del Tfr e l’incremento delle tasse sui fondi pensione.

Le nostre analisi e le nostre preoccupazioni hanno trovato puntuale riscontro in tutti i pronunciamenti di chi, in Italia e in Europa, è chiamato a dare un giudizio di merito sulla legge di Stabilità: Banca d’Italia, Istat, Unione europea. La nostra crescita, per il 2015, è stata definita a Bruxelles «tiepida», «fragile» o addirittura «molto fragile», gli effetti della manovra sull’economia «nulli» dall’Istat per il biennio 2015-16, perché il governo metterà in circolo denaro aumentando ancora la spesa pubblica, mentre sulle pensioni Bankitalia ha annunciato l’apertura di un potenziale baratro dovuto alla possibilità di intascare il Tfr per i prossimi tre anni. Per non parlare della mannaia che incombe con le «clausole di salvaguardia», una gragnuola di nuove tasse sotto forma di aumento dell’Iva a cominciare dal 2016 e fino al 2018, e i nuovi balzelli che le regioni (già sul piede di guerra e recalcitranti per i risparmi da fare) potrebbero inventarsi dopo il taglio dell’Irap.

In questa situazione si inserisce il defatigante dibattito tutto interno al Partito democratico sul Jobs act con le lacerazioni e le minacce da una parte e dall’altra che hanno oggettivamente stufato. Chi potrebbe assumere non lo fa a causa della totale incertezza della normativa, chi potrebbe investire si tiene alla larga da un Paese incapace di tradurre in atti concreti gli annunci. Ma insomma: quando si potrà avere una linea chiara, senza bizantinismi e rinvii sine die? Quando si potrà capire se per i licenziamenti disciplinari sarà o meno prevista la possibilità che un giudice intervenga disponendo il reintegro con l’inevitabile indeterminatezza del suo giudizio? Tutto questo senza dimenticare che a ridosso di Natale, tanto per invogliare gli italiani a predisporsi con il migliore auspicio ai consumi, saremo chiamati a saldare il conto dell’Imu e della Tasi, ultimo atto di una tassazione della casa che non conosce eguali nel mondo moderno. E con questo la frittata è completa. Se Renzi, come dichiara a Bruno Vespa, vuol governare fino al 2023, faccia pure. Ma se non cambia registro, siamo fritti.

Tre mine sotto la manovra

Tre mine sotto la manovra

Luca Ricolfi – Panorama

Dopo settimane di indiscrezioni, tabelle, contro-tabelle, slide e tweet, la manovra (o Legge di stabilità) ha finalmente una forma ben definita. anche se suscettibile di ulteriori modificazioni per iniziativa del Parlamento. Che cosa se ne può dire? Devo confessare che sono alquanto perplesso. Intanto perché c’è uno scarto enorme fra le slide per la stampa e le tabelle per l’Europa. Nella sua fase propagandistica Matteo Renzi aveva annunciato 20 miliardi di tagli dei cosiddetti sprechi (più del piano di Carlo Cottarelli) e 18 miliardi di tasse in meno.

La realtà è decisamente diversa: le minori tasse sono pari a circa 11 miliardi (non a 18), le minori spese sono pari a 15 miliardi (non 20) quasi completamente «mangiati» da nuove spese (11 miliardi), per cui alla fine la riduzione della spesa pubblica è di soli 4 miliardi. E poiché le minori spese (4) non bastano a coprire le minori entrate (11), la differenza viene coperta aumentando il deficit di 6-7 miliardi (dopo le correzioni richieste da Bruxelles). Come dire che il grosso della riduzione delle tasse viene finanziato in deficit, il che non è precisamente quel che ci si aspetta quando si parla di contenere l’interposizioue pubblica e il ruolo esorbitante dello Stato. Ma c’e anche una seconda ragione di perplessità ed è che, aldilà del gioco delle tre carte sulle cifre, la manovra è davvero difiicile da valutare. Nella manovra, infatti, sono contenute almeno tre incognite, o forse sarebbe meglio dire tre ordigni a scoppio ritardato, di cui è impossibile valutare ora l’impatto. A seconda di come si comporteranno questi tre ordigni la manovra potrà risultare la svolta positiva che tutti ci auguriamo, oppure 1’ennesima beffa al danno degli italiani.

Vediamo dunque i tre ordigni. Il primo ordigno è l’aumento del deficit. Se i mercati stanno zitti e buoni, nessun problema. O meglio: solo un piccolo problema, qualche miliardo di debiti in più sulle spalle delle generazioni future. Ma se i mercati si risvegliano, perché c’è una nuova tempesta finanziaria in Europa o anche semplicemente perché si accorgono che le riforme promesse stentano a decollare, allora possono essere guai seri per l’Italia. L’andamento positivo dello spread in questi mesi, infatti, è un dato del tutto ingannevole: i rendimenti dei nostri titoli di Stato si sono avvicinati a quelli della Germania, è vero, ma molto meno di quanto hanno fatto quelli degli altri Pigs (Portogallo, Irlanda. Grecia, Spagna). In concreto vuol dire: in caso di crisi siamo più esposti di prima alla speculazione.

Il secondo ordigno è la spending review, un’operazione da 15 miliardi che il governo non sta usando per ridurre il perimetro della Pubblica amministrazione ma per finanziare qualcosa come 11 miliardi di nuove spese (senza contare i 9,5 miliardi del bonus da 80 euro, una voce che l’Europa conteggia fra le spese, e che il governo include invece, secondo me abbastanza giustamente, fra le minori tasse). Ebbene, l`esperienza del passato fa pensare che. in assenza di piani dettagliati di riorganizzazione dei servizi, 15 miliardi di spesa pubblica in un solo anno non si possano tagliare senza tagliare anche i servizi. Quindi lo scenario più verosimile è che regioni, province, comuni. Sindacati impediranno una completa effettuazione dei tagli, il deficit pubblico aumenterà, e scatteranno le «clausole di salvaguardia» annidate nella Legge di stabilità. Di che cosa si tratta? Si tratta di aumenti automatici dell’Iva (e di altre tasse) che andranno a coprire il buco nei conti pubblici generato dai mancati risparmi di spesa. La Legge di stabilità già li prevede in dettaglio: 12,8 miliardi di maggiori tasse nel 2016, 19,2 miliardi l’anno successivo, 21,3 miliardi nel 2018, cui si aggiungono dal 1° gennaio 2018 aumenti della benzina e del gasolio da carburante. E come se non bastasse, al contribuente tocca anche sentirsi le rassicurazioni del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan via Twitter: «l’impegno politico è per il non aumento dell’Iva». Un vero insulto all’intelligenza degli elettori, cui viene chiesto di fidarsi delle promesse di un ministro di cui nessuno può sapere se al momento buono sarà ancora in carica, e che comunque non avrà alcuna difficoltà a tirare fuori la solita penosa tiritera cui i politici ricorrono in questi casi: la situazione è cambiata, allora non potevamo sapere che la crisi sarebbe durata ancora a lungo, nel frattempo sono intervenuti eventi eccezionali, e via giustificando. L’andamento positivo dello spread è un dato ingannevole: i rendimenti dei nostri titoli di Stato si sono avvicinati a quelli della Germania, è vero, ma molto meno di quanto hanno fatto gli altri Pigs.

C’è anche un terzo ordigno, tuttavia. Qui prudenza è d’obbligo, perché mancano ancora troppe informazioni, se non altro perché nessuno può sapere che itinerario seguirà il «Jobs act». Però il dubbio mi sembra non possa essere taciuto: l’impegno ad azzerare i contributi a carico del datore del lavoro per tutte le imprese che assumono a tempo indeterminato nel corso del 2015 rischia di non produrre un numero apprezzabile di «veri» nuovi posti di lavoro, ossia posti che altrimenti, senza la decontribuzione, non sarebbero stati creati. Lo scenario più probabile, a mio parere, è quello di un assalto alla decontribuzione da parte di imprese che cercheranno semplicemente di usufruire del beneficio, senza creare nuova occupazione. La decontribuzione, infatti, non è concentrata sulle imprese che incrementano l’occupazione, e rischia quindi di rivelarsi come una semplice misura di abbattimento dei costi aziendali, senz’altro meritoria ma poco adatta a creare posti di lavoro davvero addizionali. Il rischio, in poche parole, è che il plafond previsto dal govemo (1,9 miliardi) non basti a soddisfare tutte le richieste (perché tutte le imprese vogliono godere dello sconto), e nello stesso tempo i posti di lavoro genuinamente incrementati finiscano per essere assai pochi.

Un bluff i conti del governo

Un bluff i conti del governo

Mario Baldassarri – Panorama

Il governo ha detto che la manovra per il 2015 «pesa» 36 miliardi di euro, con 18 miliardi di tagli di tasse e 15 miliardi di tagli di spesa. Questi numeri sono poi stati diffusi e amplificati pedissequamente da tutti i media. C’è un problema. però. Quei tagli di tasse e di spese sono riferiti ai valori «virtuali» delle previsioni tendenziali per l’anno prossimo, numeri che non sono ancora «entrati» nell’economía reale e finanziaria italiana. Ciò che invece conta per l’economia sono i dati «veri» del prossimo anno, che si avranno «dopo» aver tagliato o aumentato i valori virtuali delle previsioni tendenziali. Se quest’anno ho speso 1.000 euro e prevedo di spenderne 1.200 l’anno prossimo, un «taglio» di 100 euro sui 1.200 «previsti» significa un aumento di 100 euro rispetto a quest’anno e non una diminuzione. I numeri riferiti ai dati tendenziali virtuali del 2015 (che esprimono la manovra da 36 miliardi) e i numeri che si ottengono dopo i tagli di tasse e di spese proposti vanno confrontati con i dati veri dell’anno in corso, cioè il 2014.

Sul fronte delle entrate si vede allora che:
1) Gli 11 miliardi di deficit in più in realtà determinano un deficit pubblico del 2015 esattamente uguale a quello di quest’anno. Quindi. .. nessuna risorsa in più o in meno.
2) I 15 miliardi di spending review sono in realtà 10,3, poiché 2,7 miliardi sono già stati fatti quest’anno e i tagli alle regioni determinano rispetto a quest’anno una riduzione di soli 2 miliardi.
3) Dei 3,6 miliardi di aumento della tassazione sulle rendite finanziarie, 2,2 miliardi sono già stati realizzati nel 2014: il vero effetto sul 2015 è di 1,4 miliardi in più.
4) I 3,8 miliardi da lotta all’evasione si possono contabilizzare dopo averli realizzati e non ex ante (su questo la Commissione europea potrebbe avere da ridire).
5) Il miliardo di riprogrammazione significa solo spostare nel tempo futuro quelle spese e non ha niente a che vedere con il confronto con le spese del 2014.

Sul fronte delle spese si verifica che:
1) Dei 9,5 miliardi di bonus fiscale, 6 miliardi sono già stati dati quest’anno, quindi nel 2015 avremo soltanto 3,5 miliardi in più.
2) Dei 5 miliardi di riduzione Irap, 1,5 miliardi erano già stati dati nel 20l4, quindi le imprese avranno un ulteriore sgravio pari a 3,5 miliardi. Va detto inoltre che il gettito totale Irap è pari a circa 24 miliardi di euro. Il costo del lavoro rappresenta il 50-60 per cento della base imponibile. Se si eliminasse totalmente il costo del lavoro dall’Irap il mancato gettito sarebbe di 12-13 miliardi
di euro. Pertanto, con 5 miliardi si riuscirà a ridurre solo il 35 per cento del costo del lavoro dall’Irap.
3) 1,9 miliardi assegnati alla decontribuzione dei nuovi assumi a tempo indeterminato non possono essere considerati come maggiori spese o minori entrate. Infatti, se si attiverà più occupazione che altrimenti non si sarebbe ottenuta, l’Inps non riscuoterà i relativi contributi, ma lo Stato riscuoterà una maggiore Irpef che controbilancia quasi esattamente il mancato gettito contributivo. Se invece il provvedimento non attivasse nuove assunzioni non ci sarebbe allora alcun onere da parte del bilancio pubblico.
4) L’eliminazione delle maggiori imposte per 3 miliardi che sarebbero scattate l’anno prossimo è cosa «buona e giusta». Ma questo non significa alcuna riduzione di imposte rispetto al 2014 visto che ancora per nostra fortuna non c’erano.
5) La somma messa sugli ammortizzatori sociali per l,5 miliardi sembra essere aggiuntiva. Ma rispetto a cosa? Se, come tutti speriamo, i cassaintegrati si riducono forse dovremo spendere anche meno di quanto speso quest’anno. E se aumentassero?
6) I 3,4 miliardi di «riserva» potrebbero svanire se qualcuno non accettasse di contabilizzare i 3,8 miliardi di lotta all’evasione.
7) I 6,9 miliardi di conferma di provvedimenti della legislazione vigente erano già compresi nei numeri virtuali delle previsioni tendenziali e corrispondono, più o meno, a spese effettuate anche quest’anno.

Nel complesso, nell’economia italiana nel 2015 rispetto al 2014 ci saranno 13,3 miliardi veri in più di entrate (e non 36) e 11,8 miliardi in più di spese «vere» (e non 36). Dei 13,3 miliardi di maggiori entrate ne avremo 10,3 da tagli di spesa e 3 da maggiori tasse. E questi tagli di spesa sugli enti locali sono pressoché lineari. Infatti, non sono mirati alle tre voci di spesa che, in tutti gli enti pubblici, contengono sprechi, malversazioni e ruberie: acquisti di beni e servizi, fondi perduti ed ex municipalizzate. In più c’è il rischio che regioni ed enti locali aumentino le tasse anziché tagliare le spese.

Degli 11,8 miliardi di maggiori spese avremo 4,8 miliardi di sgravi fiscali alle famiglie. Tra questi appaiono 500 milioni di euro che andranno come buono-bebè agli oltre 500 mila bambini che nasceranno nel 2015. Ma se il bonus va dato per 3 anni, allora il costo nel 2016 è pari a l miliardo e dal 2017 in poi a 1,5 miliardi. Da dove si prendono? Ci sono poi 3,8 miliardi di sgravi fiscali alle imprese e 3,2 miliardi di maggiori spese per le assunzioni nelle scuole, per l’allentamento del Patto di stabilità interno, per il cofinanziamento e per le briciole a Giustizia, Roma Capitale e Milano Expo.

Alla luce del peso vero della manovra, appare quindi condivisibile e coerente la previsione del governo che stima, con la legge di stabilità e le riforme strutturali, una maggiore spinta alla crescita pari al più 0,1 per cento nel 2015 e al più 0,2 dal 2016 in poi. Purtroppo però con questi impulsi la disoccupazione aumenta almeno fino al 2016. Da dove verranno allora gli annunciati 800 mila occupati in più?

Le patrimoniali nascoste nella manovra

Le patrimoniali nascoste nella manovra

Oscar Giannino – Panorama

Il problema del fisco in Italia è che continua a dar ragione a Mark Twain. Lui diceva che c’è una sola differenza tra l’impagliatore e l’esattore pubblico: l’impagliatore si accontenta della vostra pelle. Purtroppo, continua a essere vero anche nella bozza di legge di stabilità varata dall’attuale governo, che pure ha il vanto di abbattere di 18 miliardi le entrate, di azzerare la componente lavoro dell’Irap, di aggiungere 1,9 miliardi di incentivi agli assumi a tempo determinato, mezzo miliardo di bonus bebè, confermare gli eco-incentivi e quelli alla ristrutturazione, e via continuando. Che cosa fa storcere il naso a un irriducibile liberale, allora? Parecchie cose. Una certa qual disinvoltura su numeri e saldi, per cominciare. E poi tre scelte di fondo.

Sui numeri è presto detto: se si dice che ci sotto meno entrate per 18 miliardi, quanto meno insieme bisognerebbe dire che ce ne sono di aggiuntive per 3 miliardi e mezzo, che diventano 4 e mezzo a dire il vero se ci aggiungiamo il prelievo straordinario annunciato sui giochi legali (al momento nessuno ci fa caso o quasi, ma per i conti delle aziende concessionarie è una botta clamorosa, visto che lo Stato da loro ha ricavato 8,4 miliardi in tasse nel 2013). Direte voi: non sottilizziamo. Mica vero. In altri tempi, assumere 3,8 miliardi di euro di incassi dalla lotta all’evasione come copertura ex ante di nuova spesa pubblica avrebbe fatto urlare allo scandalo assoluto. Si tratta di questioni di sostanza, di sana e prudente gestione della contabilità pubblica, non di sfumature. Ma le cose più dure da mandar giù sono altre: le tre scelte di fondo che ispirano la filosofia delle entrate della legge di stabilità.

La prima è la stangata sul risparmio previdenziale, venduta come «allineamento alle medie europee». Si passa dall’11,5 per cento di tassazione dei fondi di previdenza integrativa, al 20. Per le casse previdenziali professionali, l’aliquota sale dal 20 al 26 per cento. L’allineamento all’Europa, già utilizzato per elevare al 26 l’aliquota sui conti correnti mentre i titoli di Stato restano tassati al 12,5, non c’entra assolutamente nulla. L’idea vera è quella di scoraggiare gli italiani al risparmio, perché occorre incentivare i consumi. È la tenaglia fiscale che risponde alla stessa filosofia del bonus di 80 euro sul versatile della spesa, confermato per il 2015.

Ma questa idea è profondamente sbagliata. Per almeno due ragioni. La prima è che viviamo in un Paese dove la previdenza pubblica, malgrado il drastico innalzamento dell’età pensionabile disposto dalla legge Fornero, pesa per il 16 per cento del Pil cioè 3 punti più della media europea e oltre 4 rispetto alla media Ocse. E questo bel peso si regge solo grazie a oltre 50 miliardi di euro l’anno che vengono dalla fiscalità generale, rispetto ai contributi raccolti, che sono l’unica fonte per pagare i trattamenti visto che il sistema resta a ripartizione. In un sistema tanto squilibrato, dopo anni trascorsi a tentare di convincere gli italiani a metter da parte quote crescenti del proprio salario per una pensione integrativa che si aggiunga a quella molto più magra di un tempo che maturerà col sistema non più agganciato alle ultime retribuzioni, diamo oggi agli italiani un messaggio totalmente opposto. Spendete cari italiani, perché sulla pensione integrativa lo Stato allunga le mani. Come le allunga sul Tfr sia che decidiate di ritirarlo in busta, visto che vi alzerà il prelievo Irpef complessivo, sia che lo facciate restare accantonato, visto che l’aliquota sale anche in quel caso di 6 punti rispetto a oggi.

Dicono che sia un’impostazione keynesiana. Non è vero per nulla. Dimenticano che per il buon economista invocato dai fautori di Stato e deficit la leva essenziale per uscire dalla crisi sono gli investimenti: e colpire il risparmio previdenziale significa proprio disboscare le masse finanziarie che, accantonate con versamenti rateali, intanto vengono impiegate sui mercati acquistando titoli privati e pubblici, e a sostegno delle imprese.

Ma la cosiddetta stretta sulle rendite finanziarie non è solo sbagliata economicamente, è anche una vera e propria trappola verbale cara alla sinistra. Oggi tornata platealmente di moda, citando a raffica Thomas Piketty e il suo tomo che invoca tasse patrimoniali à gogo. L’aliquota del 26 per cento sul conto corrente, che con il concomitante bollo titoli patrimoniale può arrivare per interesse composto anche a una tassa superiore al 40 per cento del rendimento maturato, colpisce il ceto medio e basso, non certo magnati e industriali. La stessa cosa avviene con lo stellare aumento della tassazione sugli immobili, ascesa in 4 anni da poco più di 9 miliardi annui a, ci scommetto, oltre 28 miliardi in questo 2014 (e occhio alla local tax semplificata annunciata dal governo, perché nelle bozze fino a due settimane fa si parlava di un plafond «contenuto»›, si fa per dire, in 30 miliardi annui di entrata, cioè un ulteriore aumento nel 2015).

E oggi si aggiunge un terzo pilastro: la sberla al risparmio previdenziale. Paragonare risparmi, pensioni e case alla manomorta dei latifondisti da colpire nel Settecento illuminista è un trucco che solo a dei malati di mente può risultare accettabile. Eppure così va il mondo, in un’Italia in cui parole e fatti coincidono in sempre minor misura.

Infine. Ancora una volta nella legge di stabilità lo Stato gioca da baro con la retroattività degli aumenti fiscali. Lo sgravio Irap annunciato per 5 miliardi nel 2015 in realtà vale poco più della metà, perché contestualmente si rialza al 3,9 per cento l’aliquota e lo si fa retroattivamente, cioè a partire dal primo gennaio 2014 quando alle imprese si era detto che quest’anno pagavano un 10 per cento in meno, sgravio che ovviamente scompare. Idem dicasi per gli aggravi di aliquota sul risparmio previdenziale. Anche quelli retroattivi dal 2014. Con tanti saluti alla delega fiscale innovativa, allo Statuto del contribuente, all’impegno di retrocedere al contribuente onesto almeno parte dei proventi della lotta all’evasione invece usati per coprire nuova spesa.

Peccato. Peccato continuare a prevedere clausole di garanzie con ulteriori aumenti fiscali nel triennio a venire: se i governi toppano sui conti dovrebbe bloccarsi automaticamente la spesa come negli Usa, non aumentare automaticamente le entrate. Peccato che le imprese ancora non saldate dallo Stato non siano ammesse a compensazione fiscale immediata. Peccato non far pagare all’Agenzia delle entrate un 15 per cento del petitum al contribuente come ristoro del danno e tempo perso, se è questi a vincere. Niente di tutto questo. Speriamo di essere ancora in grado di pagare qualcosa, quando il fisco italiano deciderà di cambiare strada e di non essere un impagliatore di cadaveri.

Il gufo di se stesso

Il gufo di se stesso

Giorgio Mulè – Panorama

Adesso noi dovremmo essere soddisfatti, darci di gomito in redazione e idealmente con voi che ci leggete. Perché quattro giorni dopo aver denunciato in copertina, dati alla mano, l’incapacità del governo di attuare i tagli alla spesa previsti, lunedì 13 ottobre Matteo Renzi ha annunciato l’aumento della spending review nel 2015 da 10 miliardi scarsi a 16 miliardi. Avevamo scritto: «La strada per diminuire seriamente le tasse e destinare fondi agli investimenti c’è, e Panorama la predica in maniera ossessiva: i tagli alla spesa pubblica».

Beh, ci sarebbe di che essere contenti. E invece mentre ascoltavamo l’ennesimo annuncio del premier, in redazione ci siamo guardati smarriti. Perché Renzi, soltanto il 7 ottobre, aveva spiegato che la manovra sarebbe stata di circa 23 miliardi (adesso è di 30) e che i tagli non avrebbero raggiunto quota 10 miliardi (ora lievitati a 16). Il nostro smarrimento nasce dalla considerazione, suffragata da anni di esperienza, che la revisione della spesa pubblica è una cosa seria e non s’improvvisa: va pianificata nel tempo per avere risultati, altrimenti è una presa in giro. Esempio: si decide di abolire le 34mila centrali di acquisto di beni e servizi per ridurle a 34 con l’evidente finalità di risparmiare. Peccato che questo provvedimento, il quale da solo potrebbe valere circa 13 miliardi (il comune X non potrebbe più comprare un computer, ma lo farebbe un unico ufficio istituito a livello centrale per tutti i comuni italiani, strappando condizioni e sconti assai maggiori dalle imprese che garantiscono le forniture), per produrre effetti già il prossimo anno doveva entrare in vigore a luglio scorso mentre è stato rimandato proprio dal governo (!) al gennaio 2015 per gli acquisti di beni e servizi e al 1° luglio 2015 per gli appalti sui lavori pubblici (!!). Addirittura nel provvedimento di rinvio della presidenza del Consiglio si legge che «l’area vasta che avrà funzioni anche di centrale di committenza sarà operativa soltanto dal 1° ottobre 2015» (!!!). Non è finita. I comuni hanno già fatto sapere di volere una deroga per gli «acquisti in economia (sono quelli che non hanno bisogno di una gara d’appalto, ndr) fino a 40 mila euro e per interventi di somma urgenza» (!!!!).

Non voglio tediarvi oltremodo con i dannati punti esclamativi e mi fermo qui. Di sicuro non sono queste le premesse per una spending review affidabile, qui siamo alle comiche. Ma l’annuncio sui 16 miliardi non è un episodio da trascurare politicamente. Ci dice che la realtà, cruda e crudele dei nostri conti impone già a Matteo Renzi di cambiare metodo. Il premier che camminava tre metri sopra il cielo, il facilone che pensava di mettere tutto a posto con gli annunci è tornato sulla terra. Ha preso finalmente atto che le parole non bastano più nell’Italia disastrata e paralizzata;e che per ripartire la strada obbligata è quella di eliminare sprechi e mangiatoie come noi gufi gli ripetiamo da quando è arrivato a Palazzo Chigi senza alcun mandato popolare. Non è mai troppo tardi. Per fortuna, anzi, Matteo Renzi è diventato il gufo di se stesso. E questa sì che è una grande soddisfazione.

Fingere di tagliare aumentando le spese

Fingere di tagliare aumentando le spese

Mario Baldassarri – Panorama

Firmando la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def), Matteo Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan hanno onestamente detto quattro verità. La prima verità è che il maggiore Pil stimato dall’Istat, che aveva indotto qualche buontempone a parlare di «maggiori margini di manovra», ha un peso del tutto irrilevante. Affiancato alla revisione al ribasso, sia della crescita che dell’inflazione, l’effetto Istat si esaurisce subito e dal 2016 in poi l’andamento del Pil è «inferiore» a quello previsto prima della rivalutazione.

La seconda è forse una verità contabile, che però pone domande e attende spiegazioni. Rispetto al Def di aprile, nella Nota di aggiornamento di settembre i dati del 2013 della spesa e delle entrate pubbliche sono stati cambiati in misura rilevante. Ad aprile il consuntivo per lo scorso anno riportava una spesa pubblica totale pari a 799 miliardi di euro balzata a 827 a settembre, con un aumento di 28 miliardi. Il totale delle entrate era pari a 752 miliardi balzato a 782, con un aumento di 30 miliardi. Senza la rivalutazione Istat del Pil la spesa sarebbe volata oltre il 52 per cento e le entrate avrebbero sfiorato il 50 per cento. I 28 miliardi di maggiori spese sono dovuti per 17 miliardi a spesa corrente al netto degli interessi, per 4 miliardi a minori spese per interessi e per 15 miliardi a maggiore spesa in conto capitale. I 17 miliardi in più di spesa corrente al netto degli interessi risultano per 15 miliardi alla voce «altre spese correnti» (?) che, per lo stesso anno 2013, passa da 61 a 76 miliardi di euro.I 15 miliardi in più delle spese in conto capitale sono dovuti per 11 miliardi a investimenti fissi lordi (nel 2013 abbiamo fatto più investimenti di quelli che risultavano a consuntivo ad aprile!) e 4 miliardi a contributi in conto capitale (abbiamo cioè erogato più fondi perduti?). I 30 miliardi in più di entrate risultano provenire per 18 miliardi da quelle tributarie (più 4 dalle dirette e più 14 dalle indirette) e per 12 miliardi da «altre entrate» (ma cosa sono le altre entrate?). In sintesi, abbiamo scoperto a settembre che, nel 2013, abbiamo avuto più Pil, più spesa pubblica e più tasse! Certo, ci potranno essere ragioni «tecnico-contabili», ma che queste spostino i numeri in modo così rilevante merita certamente «spiegazioni e approfondimenti».

La terza verità conferma la mistificatoria metodologia che si applica in Italia da oltre trent’anni quando si parla di tagli alle spese. Infatti, come si dimostra in tutti i Def, quando si parla di tagli alle spese ci si riferisce ai dati «tendenziali previsti» per gli anni futuri e scritti sulla carta. Non si fa cioè riferimento alla spesa storica e vera di quest’anno che è effettivamente «entrata» nell’economia. Pertanto, se quest’anno ho speso 100 euro, i tagli non sono riferiti a questi 100 euro, bensì alla previsione di spesa per il prossimo anno che magari è «stimata» (come? da chi?) pari a 130 euro. Allora se si propone un taglio di 20 euro rispetto a quei teorici 130, si sta riducendo l’aumento di spesa «previsto» di 30 euro, ma di fatto si aumenta la spesa da 100 a 110 euro!

La controprova di questo è data dagli stessi numeri della Nota di aggiornamento. Infatti, nel 2018 rispetto al 2013, la spesa totale «aumenta» di 69 miliardi (se ci si riferisce al dato del Def di aprile), e 41 miliardi (se ci si riferisce al dato di settembre), con dentro una spesa corrente al netto degli interessi che aumenta di 63 o 46 miliardi nei due casi. Quest’ultima differenza è tutta dovuta ai 15 miliardi di maggiori «altre spese correnti» scoperte per il 2013 tra aprile e settembre. Queste «altre spese correnti» rappresentano un calderone ignoto e intonso che cresce nei prossimi anni fino a poco meno di 80 miliardi all’anno. Cosa c’e dentro? Per contro, le entrate totali «aumentano» di 102 miliardi sempre in riferimento ai dati di aprile e di 72 miliardi rispetto a quelli di settembre. In sintesi, da qui al 2018, avremo più tasse, più spesa corrente, minori investimenti, nonostante la minore spesa di interessi sul debito.

Per questo è facile spiegare la quarta verità. In queste condizioni, è corretta e onesta la stima degli effetti della politica economica che vengono indicati in una tabella della Nota di aggiornamento (tav. II. 4 a pagina 18). Stima, però, talmente prudente e oggettiva da rappresentare quasi una dichiarazione di impotenza. Nella suddetta tabella si indica che:
– il bonus degli 80 euro (stimato a 7 miliardi invece dei precedenti 10) aumenterà il Pil dello 0,1 per cento all’anno fino al 2017 e zero nel 2018;
– la riduzione fiscale per le imprese determinerà un aumento di Pil dello 0,1 nel 2015 e nel 2016 e zero negli anni successivi;
– il resto della legge di stabilità ridurrà il Pil dello 0,1 per cento l’anno prossimo e avrà effetto zero sugli anni successivi;
– le quattro riforme «strutturali» (giustizia, pubblica amministrazione, competitività, Jobs act) avranno effetto zero nel 2015, attiveranno un aumento di Pil dello 0,2 nel 2016 e dello 0,4 dal 2017 in poi;
– nella stessa tabella, viene reiterata la famigerata clausola di salvaguardia, di tremontiana invenzione. Ma che cos’è? Semplice, ci si impegna, se i conti non tornano, a far scattare automaticamente una riduzione delle detrazioni e deduzioni fiscali. Si chiama «tax expenditure», ma i comuni mortali capiscono che, se le detrazioni si riducono, si pagheranno più tasse. Ebbene, questa clausola di salvaguardia, già incorporata nelle stime, riduce il Pil del 2016 dello 0,2 per cento, quello del 2017 dello 0,3 e quello del 2018 dello 0,2. Ecco allora che gli effetti della politica economica vengono indicati in una maggiore crescita del Pil dello 0,1 per cento nel 2015 e dello 0,2 negli anni successivi. Come direbbero gli anglofoni di casa nostra… peanuts, cioè bruscolini!

Questi sono i dati «ufficiali» scritti nero su bianco dal governo dieci giorni fa. Poi ci sono i numeri sparati come fuochi artificiali nelle conferenze stampa: una legge di stabilità di 30 miliardi, tagli di spesa per 16 miliardi, tagli di tasse per 18 miliardi ecc.. Ma questi numeri sono riferiti alle previsioni future o ai dati storici del 2013? Sono tutti in un anno o sono la somma dei prossimi tre o quattro anni? Solo con il testo finale della legge di bilancio sarà possibile avere una risposta. Nel frattempo… incrociamo le dita!

E intanto si sprecano le vere occasioni

E intanto si sprecano le vere occasioni

Michele Tiraboschi – Panorama

Garanzia giovani: se Matteo Renzi l’avesse fatta funzionare ora sarebbe molto più autorevole su art. 18 e.Iobs act. Perché se la svolta epocale sta nel passaggio dalla vecchia idea del posto fisso alle moderne tutele sul mercato del lavoro, occorre saper rassicurare i lavoratori che perdere l’impiego non è più un dramma. Ciò almeno nella misura in cui politiche di ricollocazione e riqualificazione professionale esistono davvero, attraverso una robusta ed efficiente rete di servizi al lavoro su cui l’Italia mai ha potuto contare anche dopo la fine del monopolio statale del collocamento. Gli oppositori del Jobs act hanno sempre obiettato a Renzi che, per superare il regime di apartheid tra garantiti e precari, il nodo centrale è quello delle risorse che non ci sono (o comunque non in misura sufficiente) per l’avvio di politiche attive del lavoro. Eppure non è esattamente così. Lo dimostra il fallimento di Garanzia giovani che si sta consumando in questi mesi nell’indifferenza della politica e del sindacato, anche perché offuscato dalla contesa sull’art. 18.

Il piano, pensato dall’Europa per fronteggiare disoccupazione e inattività giovanile, porta in dote all’Italia ben 1,5 miliardi di euro. Però il nostro Paese non ha saputo far altro che organizzare centinaia di convegni, promuovere qualche triste spot pubblicitario che mai i ragazzi vedranno e riattivare la storica polemica tra Stato e regioni sulle colpe della inefficienza dei nostri Centri per l’impiego. La lista di intese, protocolli, piani di attuazione è infinita. Si firma a ogni livello: nazionale, regionale, locale. Senza però che alle parole seguano i fatti. E cosi una azienda che voglia dare una vera occasione a un giovane, ancora oggi non riesce a capire se i fondi a disposizione siano attivi o no. Anche nel migliore dei casi, poi, la complessità per accedere agli stanziamenti è tale che il più delle volte viene voglia di lasciar perdere. A farne le spese sono ovviamente i giovani: vittime sacrificali dell’ennesimo annuncio che alimenta timide speranze che, subito, si traducono in rabbia e delusione. Per loro Garanzia giovani è oggi unicamente un grigio portale internet, costruito male tecnicamente e per di più incomprensibile. Le offerte di lavoro o di tirocinio sono contenute in quasi 500 pagine da consultare online, costruite senza ordine e logica. Orientarsi è pressoché impossibile.

I problemi informatici sono comunque poca cosa rispetto alla qualità degli annunci contenuti. Nessuno sembra occuparsi di verificare quanto immesso nel portale governativo. E così basta scavare un po’ più a fondo per accorgersi che il sito www.garanziagiovani.gov.it non fa altro che rimbalzare offerte già presenti su altri siti. Il programma è pensato per giovani disoccupati, da tempo inattivi o comunque alle prime armi. Ma quasi tutte le offerte del portale, generalmente veicolate da agenzie di lavoro interinale, pongono come requisito l’esperienza pregressa nella mansione o nel settore. Alcuni esempi tra i tanti? «Cerchiamo meccanico con esperienza per gestire autonomamente la manutenzione di escavatori cingolati, gommati, pale auto, furgoni e camion». E ancora: «Cerchiamo per azienda cliente operaio specializzato produzione di calzature. Si richiede esperienza pregressa e pluriennale». Per non parlare del «fotografo, dotato di propria macchina fotografica professionale», che viene ricercato per un lavoro giornaliero. Un piano europeo di 1,5 miliardi si traduce così in un grande spot nazionale maldestramente alimentato da un modesto motore di ricerca di quel poco che è già presente sulla rete, senza farsi carico dell’orientamento dei nostri ragazzi e senza mantenere l’impegno, importantissimo per un giovane, rispetto alla parola data: e cioè la promessa di non lasciarli soli.

La battaglia sull’art. 18 avrà un vincitore certo: quel Matteo Renzi abile nel mettere con le spalle al muro quanti hanno saputo dire solo «no» a ogni cambiamento. Il rischio, tuttavia, è che all’esito della battaglia Renzi avrà perso la parte migliore del suo esercito: i tanti ragazzi italiani sempre più scoraggiati e delusi dalle istituzioni e dalla politica. Ragazzi che hanno smesso di sognare il loro futuro anche perché privati dell’unica garanzia possibile: quella di poter dimostrare a qualcuno che meritano fiducia e anche rispetto.

Non c’è scampo, le riforme vanno imposte dall’alto

Non c’è scampo, le riforme vanno imposte dall’alto

Ester Faia – Panorama

Gli Stati Uniti d’America hanno attraversato molte crisi dell’unione prima di raggiungere il punto attuale. Lo stesso succede e succederà per l’Europa fino al momento in cui l’unione sarà completa. Il referendum scozzese dimostra che nessuno Stato o regione appartenente a un’unione vuole tornare indietro: i costi sono troppo alti e le persone imparano a capirsi meglio stando insieme. Si può solo andare avanti. La situazione attuale con alcuni paesi, come l’Italia e la Francia, che non riescono a mantenere gli impegni di bilancio e altri come la Germania, che hanno un surplus eccessivo di partite correnti, è solo un’altra crisi di questo processo di integrazione.

Quando la crisi finanziaria ha mostrato la debolezze del sistema europeo, in cui il controllo dei rischi così come i meccanismi di risoluzione degli istituti di credito in crisi non erano omogenei tra i paesi dell’area, la soluzione adottata è stata la creazione dell’unione bancaria. Un passo avanti che ha indotto molte banche a ricapitalizzare e rendersi più sicure. Ma per capire quale dovrebbe essere il prossimo passo (che non è necessariamente l’unione fiscale, non attuabile in questo momento secondo il principio per il quale non ci può essere tassazione senza rappresentanza) bisogna analizzare le ragioni degli attuali squilibri di bilancio.

La ragione per cui alcuni paesi soffrono squilibri nei bilanci pubblici e altri nei bilanci delle partite correnti è paradossalmente la stessa. La mancanza di efficienza nella produzione di beni e servizi. Nel caso dell’Italia questo genera scarsa crescita facendo quindi scendere le entrate fiscali e salire il rapporto debito-pil. Nel caso della Germania l’inefficienza del settore dei servizi tiene bassa la domanda interna e spinge i tedeschi a investire all’estero: è il flusso di capitali verso l’estero che tiene alto il surplus delle partite correnti. Problemi diversi ma con la stessa diagnosi: la mancanza di efficienza. Per migliorare quest’ultima c’è bisogno di riattivare il processo avviato dal Trattato di Lisbona (noto anche come trattato di riforma) rimasto dormiente fino a oggi in quanto nessuna crisi aveva reso palese la necessità di questo ulteriore passo verso l’integrazione.

Le riforme necessarie per liberalizzare il mercato di beni e servizi o per migliorare e uniformare l’investimento in educazione sono difficili da attuare tramite il normale processo politico. I governi tendono a evitare parti delle riforme che possono scontentare le loro piattaforme elettorali. Ma se le riforme sono indicate dall’alto, così come e avvenuto per la moneta unica, che ha fermato i processi inflattivi di alcuni paesi, o l’unione bancaria, che ha già indotto molte banche a ricapitalizzare, allora la loro attuazione diventa più facile. Non solo, ma il coordinamento tra paesi nell’attuare le riforme aiuterebbe a ridurre la sensazione di disparità tra cittadini europei. Riforme imposte a un solo paese per volta provocano reazioni negative nei residenti. Allo stesso modo riforme attuate senza sincronia temporale possono garantire ad alcuni paesi posizioni dominanti in alcuni settori. Il coraggio richiesto ai politici per andare verso il processo di integrazione (riducendo quindi il loro potere) è più forte e più duraturo del coraggio necessario per attuare le riforme stesse. Queste ultime sono state spesso fatte ma anche modificate a breve distanza per esigenze di elettorato; al contrario dal processo di integrazione non si torna indietro.

Tutti i lavori che hanno un futuro (e quelli che svaniranno)

Tutti i lavori che hanno un futuro (e quelli che svaniranno)

Guido Fontanelli – Panorama

Consulenti fiscali, agenti trasporto merci, tecnici in scienze agrarie. Ma anche croupier, riparatori di biciclette, archivisti. Se appartenete a una di queste categorie, attenti: nei prossimi dieci anni è probabile che il vostro posto di lavoro svanirà. O, se andrà bene, non vedrete aumenti di stipendio decenti. Se invece siete direttore delle risorse umane, dentista, ingegnere meccanico o psicoterapeuta, la vostra poltrona è al sicuro. E se vostro figlio vi dirà che vuole diventare coreografo, prima di mettervi le mani nei capelli sappiate che potrebbe essere una professione sicura e di successo.

Come facciamo a saperlo? Grazie a un viaggio nel futuro del mondo del lavoro che ha intrapreso la società di consulenza tedesca Roland Berger, una delle più importanti al mondo. Il think tank interno alla società, il Roland Berger Institute, ha condotto un’indagine in Francia e una in Italia (in esclusiva per Panorama) con l’obiettivo di scoprire quali professioni rischiano di essere travolte dalle nuove tecnologie e quali invece sono più al sicuro. Innovazioni come il web, l’intelligenza artificiale, la disponibilità a poco prezzo di un’immensa mole di dati permettono infatti a poche persone di svolgere più compiti e rendono obsolete funzioni di routine. Così tanti lavori sono destinati a scomparire mentre altri resteranno necessari.

I ricercatori della Roland Berger hanno individuato oltre 600 professioni diverse diffuse in Europa (che non coincidono con le categorie contrattuali italiane) e a ognuna è stata assegnata una percentuale: più alto è questo numero, maggiore è l’impatto negativo che la tecnologia avrà su quel particolare mestiere. «Naturalmente l’impatto dipende dalla velocità con cui ciascun paese adotterà le nuove tecnologie» mette le matti avanti Roberto Crapelli, amministratore delegato della Roland Berger Italia e da oltre 30 anni attivo nella consulenza internazionale. «Le faccio un esempio concreto: già oggi alcune attività che svolge un infermiere in ospedale possono essere affidate a un robot. Ma se il sistema sociale si rifiuta di adottare questa tecnologia. il cambiamento si sposta più avanti nel tempo». Che cosa emerge dall’indagine? «A grandi linee, avranno un futuro i mestieri legati al tempo libero e alla cura delle persone, e le attività impiegatizie superiori dove si decide e si gestisce» dice Crapelli. «Mentre sono più in pericolo i lavori impie- gatizi intermedi, i contabili, i mestieri legati ai trasporti, alla meccanica, al mondo delle costruzioni, grazie al crescente uso di strutture modulari e standardizzate».

Per i servizi sociali, per le professioni sanitarie superiori, per l’istruzione, per i programmatori il cambiamento sarà meno brusco; mentre chi svolge funzioni amministrative e contabili e chi lavora nei settori della trasformazione alimentare o nell’agricoltura, soffrirà di più per l’avvento delle nuove tecnologie. Tra le sorprese, la probabile scomparsa della manicure, sostituita da una macchina, e la tenuta invece dei mestieri legati allo spettacolo.

Resta però un grande dubbio: internet e la digitalizzazione dell’economia distruggono più posti di lavoro di quanti ne creano di nuovi? Erik Brynjolisson e Andrew McAfee della Sloan school of management del Mit di Boston sostengono che è così: i due ricercatori hanno scoperto che fino al 2000 nell’economia veniva rispettata la classica regola secondo cui l’aumento di produttività provocato dalle nuove tecnologie produce nuova ricchezza che alimenta a sua volta nuova attività economica e quindi crea occupazione. Ma dal 2000 il meccanismo si è inceppato, almeno negli Stati Uniti: la curva della produttività cresce a ritmi impetuosi, mentre quella dell’occupazione si affloscia e le due linee divergono in modo preoccupante. Secondo un’analisi di Andrew Cates, economista dell’Ubs, la crescente dematerializzazione dei beni sta riducendo la produzione di oggetti di consumo: «Analizzando i dati sull’economia americana, risulta evidente che, dalla comparsa di internet nella metà degli Anni 90, i volumi di spesa hanno inciso sempre meno sulla produttività. La produzione industriale, del resto, ha subìto una contrazione significativa anche nel Regno Unito, sia in termini assoluti che di creazione di beni capitali. La diffusione di device elettronici e tecnologie di consumo ha acuito questo trend». Crapelli non è così pessimista: «Nella mia esperienza tutte le rivoluzioni tecnologiche hanno aumentato i posti di lavoro. La robotica ha reso inutili gli operai che saldavano i pezzi di un’auto, ma ha fatto aumentare la produzione di veicoli e ha fatto nascere le fabbriche che costruiscono i robot. E se la parte più noiosa di quello che fa un contabile non sarà più necessaria, lui potrà diventare un consulente che ottimizza le spese aziendali. E poi va tenuto conto che in futuro saranno importanti i mestieri ad alto contenuto artigianale: l’Italia qui ha ancora molto da dire».