tasse

Se il fisco manda il scena il teatro dell’assurdo

Se il fisco manda il scena il teatro dell’assurdo

Il Sole 24 Ore

A volte sembra che il fisco italiano sia al centro di una grande rappresentazione teatrale, seppure con un numero piuttosto ristretto di protagonisti. Facciamo l’esempio di un primo atto, con tre scene ambientate nei primi mesi del 2014.

Gli amministratori di un ente non commerciale (una fondazione, un trust) incontrano il loro commercialista: l’ente possiede una partecipazione in una società italiana che intende distribuire dividendi. Il commercialista non ha dubbi: l’ente tasserà il 5% del dividendo incassato, e dato che l’Ires è al 27,5, il livello di tassazione finale sarà pari all’1,375 per cento. Forti di questa risposta, gli amministratori decidono di dare parere favorevole alla partecipata, che distribuisce i suoi dividendi.

Nella seconda scena, a maggio 2014, una società estera si rivolge a un commercialista italiano per pianificare investimenti produttivi nel nostro paese. Tra le varie domande rivolte al consulente, una riguarda l’Irap. Puntuale la risposta: grazie a un decreto appena entrato in vigore (il Dl 66/14), l’aliquota Irap è ridotta al 3,5 per cento. L’impresa straniera decide di costituire una società in Italia, e inizia a lavorare.

Nella terza scena, è autunno inoltrato. una compagnia di assicurazione contatta gli eredi di un proprio assicurato, appena defunto, beneficiari di una polizza sulla vita. Questi chiedono se dovranno pagare imposte sulle somme che riceveranno e il funzionario della compagnia li rassicura: tutte le somme saranno esenti da imposta.

A questo punto si passa al secondo atto: le cose si capovolgono e tra i protagonisti va in scena un dialogo cosi surreale da far impallidire Samuel Beckett e il suo teatro dell’assurdo.

Prima scena. Siamo agli inizi del 2015. Gli eredi del titolare della polizza hanno appena ricevuto la liquidazione delle somme dalla compagnia di assicurazione, e hanno subìto una ritenuta che non si aspettavano. La compagnia spiega che ha dovuto liquidare l’Irpef su una parte dei capitali. Aveva spiegato loro che erano tutti esenti, e a quel tempo era così; poi, pero,è arrivatala legge di stabilità per il 2015 e ha cambiato le regole. Anche per i contratti stipulati prima del 2015.

Seconda scena. Alla scadenza delle dichiarazioni dei redditi, gli amministratori della fondazione si presentano dal commercialista, pronti a pagare l’1,375% dei dividendi. Il consulente, però, presenta ben altro conteggio: l’Ires è diventata il 21.3785% dei dividendi, perché la tassazione ora agisce sul 77,74% di quanto percepito. Agli amministratori sbigottiti spiega che non è un errore, e che anche la vecchia risposta non era sbagliata: è la legge di stabilità per il 2015 che ha cambiato la tassazione. Dal 2014.

Terza scena. L’amministratore estero della società costituita in Italia verifica con il consulente il calcolo delle imposte per il 2014 e gli fa notare un piccolo errore: ha applicato l’Irap al 3,9% anziché al 3,5%, dimenticandosi della risposta che lui stesso aveva dato un anno prima. Il consulente ha l’ingrato compito di spiegare a un cittadino di un altro paese che entrambe le risposte sono giuste. Lo farà in modo tecnicamente ineccepibile, argomentando che le aliquote sono state modificate dalla legge di stabilità per il 2015. Dal 2014.

Cala il sipario sullo sconcertante finale. Vladimiro ed Estragone (i personaggi di Beckett) sono ancora in scena a domandarsi cosa sia successo e ad aspettare come sempre Godot, che non arriverà mai. E Godot è un fisco leale che non si permetta di cambiare le regole del gioco retroattivamente, cioè quando i giochi sono già iniziati.

La local tax, scommessa ad alto rischio per i cittadini

La local tax, scommessa ad alto rischio per i cittadini

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Le tasse sull’abitazione principale sono una delle passioni più intense della politica di questi anni, con il risultato che in sette città su 10 la Tasi sulla casa media è più cara dell’Imu 2012 (e il quadro peggiora se si guarda ai centri minori, dove le detrazioni sono ancora più rare), e che gli appartamenti più modesti sono anche i più penalizzati rispetto al passato. Basterebbe questo per chiedere a partiti e Parlamento di occuparsi d’altro. Al di là della battuta, però, l’ennesima riforma del Fisco sul mattone è indispensabile, perché fra i tanti difetti delle regole scritte pochi mesi fa c’è anche il fatto di non aver saputo guardare più in là del proprio naso: tetti di aliquota e mini-aiuti statali sono stati previsti solo per quest’anno, lasciando campo libero nel 2015 ad aumenti record. Senza modifiche, l’anno prossimo si potrebbe imporre alla prima casa un prelievo del 6 per mille senza detrazioni, il doppio rispetto a oggi.

Anche la fantasia fiscale, però, ha dei limiti, e la «tassa unica» su cui sta lavorando il Governo rappresenta nei fatti un ritorno all’Imu, con aliquote e sconti un po’ più bassi ma con lo stesso impianto. Appurato che soldi per esentare tutte le abitazioni non ce ne sono, la scelta non è sbagliata, perché riporta un minimo di progressività al carico fiscale. Sugli altri immobili, però, il rischio è che la nuova aliquota massima al 12 per mille si traduca in un’altra tornata di rincari, dopo che quest’anno i Comuni hanno potuto arrivare fino all’11,4 per mille. Né si può fare troppo affidamento sulla capacità di discriminare tra i diversi immobili. Da un lato, l’esperienza insegna che quando il sindaco è in difficoltà finanziarie (o non sa tagliare le spese) l’aliquota sale su tutti i tipi di fabbricati. Dall’altro, è difficile sostenere che una casa sfitta – magari perché non si trova un inquilino – “merita” l’aliquota al 12 per mille più di un negozio affittato, ad esempio. La nuova tassa tutta comunale, insomma, è una scommessa sull’autonomia. Purché a perderla non siano i contribuenti.

Alluvionati e tassati

Alluvionati e tassati

Il Foglio

Chirurgici come cecchini ieri Libero e Panorama hanno assestato un colpo ferale all’idea governativa di creare un sistema assicurativo universale contro le calamità naturali: pagherete altre tasse. Ai vertici dell’esecutivo, in realtà. non c’è chiarezza sul da farsi. Le dichiarazioni del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio – “si ragiona sull’ipotesi di un”assicurazione obbligatoria” – sono da leggere come voce dal sen fuggita che le truppe renziane a Palazzo Chigi si sono affrettate a smentire: “Non c’è alcuna ipotesi, siamo contrari a nuove tasse, non ci sarà un`altra Imu”, riporta il sito formiche.net. La proverbiale pezza più grande del buco: pronunciare la parola “tasse” in questo ambito e un boomerang, per di più fuorviante.

Un’assicurazione universale obbligatoria o semi-obbligatoria – se ne discute da vent’anni – non comporta necessariamente un aumento della pressione fiscale. Dipende dal criterio, ma in linea di principio si tratta di spalmare il rischio catastrofale sulla totalità dei cittadini col risultato di abbassare il costo medio della polizza per tutti (e magari renderlo deducibile dalla dichiarazione dei redditi). Sono oltre l’80 per cento i Comuni a rischio e, secondo l’Associazione delle imprese assicuratrici (Ania), assicurare un’abitazione di 90-100 mq costerebbe in media 100 euro l’anno.

Ovvio ci sono obiezioni (perché chi abita in Brianza dovrebbe pagare chi dorme sotto il Vesuvio?), controindicazioni (chi garantisce che i premi non aumenteranno senza controllo?) e perplessità (è comprensibile la diffidenza verso le assicurazioni nel paese meno assicurato d’Europa dove il costante rincaro dell’obbligatoria Rc Auto è odioso e odiato). Tuttavia sarebbe un sistema basato sulla mutualità sperimentato in ventuno paesi industrializzati: pagare tutti per pagare meno e soprattutto ricostruire in fretta. E poi la riscossione del premio è certa e puntuale. Se vogliamo parlare di tasse e calamità allora guardiamo ai balzelli delle accise sulla benzina. Aumentate sempre ma senza criterio all’indomani dei terremoti: soldi dei cittadini “motorizzati” che non hanno sistemato né L’Aquila né l’Irpinia. “Se finora la politica non s’è mossa – dice al Foglio Antonio Coviello, esperto di assicurazioni del Cnr – forse è perché sul fiume di soldi pubblici elargiti per le calamità non c’è controllo e fa comodo a molti. Il problema è che i soldi sono finiti”.

Il rubinetto che salva le casse dello Stato

Il rubinetto che salva le casse dello Stato

Jean Marie Del Bo – Il Sole 24 Ore

Un Fisco “rubinetto”. Da aprire e chiudere a seconda di quanto è necessario far arrivare nelle casse statali. L’incubo dei contribuenti non è solo la complessità, talvolta naturale, della normativa fiscale. Ma anche la tendenza a usare la valvola tributaria come uno strumento “idraulico” da aprire o chiudere ai seconda delle esigenze dei conti pubblici. Nessuno discute le necessità che possono avere i bilanci statali e quelli locali così come il fatto che l’obbligo generale di solidarietà richieda talvolta di far fronte alle situazioni di emergenza con misure speciali. Contribuenti, imprese e professionisti hanno saputo fronteggiare in passato situazioni difficilissime. Quello che fa riflettere è, invece, la tendenza a vivere in permanenza in una situazione straordinaria, facendo dell’emergenza la regola e svuotando, così, di qualunque significato le parole. Una politica dei due tempi permanente, in cui il sacrificio di oggi si accompagna sempre alla promessa di un nuovo rapporto Fisco-contribuente da attuare domani. E la sensazione è che il domani non arrivi mai. Certo, l’alta infedeltà fiscale non aiuta chi deve muoversi all’interno del sistema fiscale per cercare di dargli ordine e di renderlo meno opprimente. Ma l’evidenza – condivisa anche dall’amministrazione finanziaria – è che serva davvero un cambio di passo. Per evitare che il Fisco sia solo un “rubinetto” che contribuisce a prosciugare le risorse.

Terreni, macchinari e capannoni: il conto delle patrimoniali nascoste

Terreni, macchinari e capannoni: il conto delle patrimoniali nascoste

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Dall’Imu sui terreni che fino a oggi erano considerati esenti perché montani alle tasse sui capannoni ingigantite dai cambi continui di regole e dai paradossi dei calcoli che trattano i macchinari come il mattone e moltiplicano così la base imponibile, il fisco immobiliare ha ormai scalato la classifica delle tasse «ostili» al contribuente. A spingerlo in vetta è stata la sua caratteristica principale, assunta negli ultimi tre anni: un caos normativo interminabile che si è puntualmente tradotto in rincari, spesso retroattivi, per coprire questo o quel problema di bilancio.

L’ultimo episodio della saga arriva con l’addio all’esenzione totale per i terreni agricoli in 2mila Comuni, in base al decreto che il ministero dell’Economia ha preparato e che a meno di ripensamenti dell’ultima ora dovrebbe vedere la luce a breve. Il nuovo provvedimento attua un capitolo del decreto Irpef di aprile, che aveva promesso una stretta sulle esenzioni oggi in vigore nei Comuni considerati «montani» dall’Istat con l’obiettivo di raggranellare «una somma non inferiore a 350 milioni di euro». Nel frattempo i mesi sono passati, le regole attuative (che avrebbero dovuto vedere la luce entro il 22 settembre) hanno tardato, ma proprio il fatto che i 350 milioni di euro siano già stati messi a copertura sul bilancio 2014 rende improbabile un altro rinvio.

Nelle loro infinite contorsioni di questi ultimi tre anni, però, le tasse immobiliari hanno raggiunto risultati paradossali anche su contribuenti già abituati a fare i conti con l’Ici. È il caso, in particolare, di capannoni, alberghi e centri commerciali: nel tentativo almeno di ammorbidire i maxi-aumenti che hanno colpito queste categorie produttive, l’ultima legge di Stabilità ha provato la strada della deduzione dalle imposte sui redditi di quanto versato a titolo di Imu e poi di Tasi. Peccato, però, che per far quadrare i conti la deducibilità sia stata ridotta al minimo, con il risultato che mentre il bonus attribuisce uno sconto effettivo del 5,5%, l’ulteriore aumento lineare delle basi imponibili nel 2013 è stato dell’83 per cento, e l’arrivo della Tasi quest’anno ha assestato un colpo ulteriore. Una beffa, che per di più ha escluso ogni aiuto per le imprese in perdita, per le quali la deducibilità si trasforma in un credito d’imposta futuribile. Tutti questi fenomeni si ripresentano ingigantiti sulle imprese che si vedono attribuire la rendita catastale anche ai macchinari come le presse, i forni e gli altri strumenti di lavorazione, e che anche su questi pagano Imu e Tasi. Nel cantiere della manovra dell’anno scorso l’allora ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato disse che era in- concepibile «far pagare la patrimoniale a un tornio». È esattamente quello che accade.

Ma la ricerca dei problemi fiscali sul mattone non può ignorare l’abitazione principale, oggetto di un dibattito intenso quanto inconcludente da ormai nove anni. Anche in questo caso, il Fisco ha bussato a sorpresa alla porta di contribuenti fino a un momento prima “graziati” dalle vecchie tasse. Lo ha fatto con la Tasi, che a causa dell’assenza degli sconti fissi tipici di Ici e Imu ha presentato per la prima volta il conto anche ai proprietari di abitazioni di valore fiscale molto basso, per questa ragione sempre trascurati dalle vecchie imposte. Il risultato paradossale è stato che dopo un dibattito infinito sul «superamento» delle imposte sull’abitazione principale, milioni di abitazioni principali che non avevano mai versato né Ici né Imu sono state obbligate a pagare la Tasi. Anche in questo caso, nemmeno il calendario ha giocato a favore dei contribuenti, permettendo loro almeno di abituarsi all’idea e di capire con comodo quanto e come pagare.

Vecchi e nuovi balzelli

Vecchi e nuovi balzelli

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

Che cosa rende una tassa insopportabile? In primo luogo, sicuramente il suo “peso” e qui – come sappiamo – siamo da tempo in gara per il titolo di campioni del mondo. Ma non è solo questo. Una tassa è insopportabile anche quando è complicata, quando è retroattiva e quando è assurda, quando cioè non se ne coglie la logica.

Il peso delle imposte; le complicazioni nelle regole per determinare le basi imponibili e per calcolare i versamenti; il vizietto delle novità e delle modifiche sempre a effetto retroattivo, con crescita esponenziale dell’incertezza per i contribuenti in termini di pianificazione fiscale; le difficoltà di trovare un nesso logico tra la tassa e ciò che la tassa colpisce. Sono quattro caratteristiche che appartengono da troppo tempo al nostro sistema fiscale, passate in eredità da un governo all’altro. Anzi, talvolta vien da pensare che siano proprio questi i difetti che lo contraddistiguono e che continuano a orientarlo. Infinite promesse di cambiare passo, di cambiare verso, di voltare pagina. Ma poi ci si ritrova sempre allo stesso punto.

Si prenda il nervo scoperto della retroattività delle norme fiscali (per inciso, Il Sole 24 Ore ha calcolato che solo negli ultimi tre anni la deroga alla retroattività ha comportato maggiori tasse e/o anticipi di tasse a carico dei cittadini e delle imprese per oltre 10 miliardi di euro). Proprio ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha ricordato in Parlamento che «la delega fiscale fornisce l’occasione per rivitalizzare i principi dello Statuto del contribuente, con il vincolo di irretroattività delle norme tributarie in sfavore». Bene, ma perché aspettare le delega visto che abbiamo già lo Statuto? Perché non fare subito qualcosa per evitare questa deriva? Tanto più che le ultime settimane, in questo senso, sono state pesanti. Non bastavano le invenzioni del disegno di legge di stabilità che, come sappiamo, riporta per il 2014 l’Irap all’aliquota del 3,9%; o che tassa in misura maggiorata gli investimenti dei fondi pensione o i dividendi percepiti dagli enti non commerciali o, ancora, che introduce per gli eredi una tassazione parziale per alcune tipologie di polizze vita.

L’ultima trovata – per carità, nulla di illegittimo, trattandosi di una norma di legge approvata la scorsa estate – riguarda l’Imu sui terreni nei comuni montani, che con un decreto non ancora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale costringerà moltissimi proprietari a un tour de force per pagare entro dicembre un’imposta che nessuno aveva preventivato di dover pagare. Per non dire dei capannoni che tra moltiplicatori, aliquote dei comuni e combinazioni di imposte (Imu+Tasi) sono sottoposti a una pressione fiscale assolutamente esorbitante (con l’aggravante dell’indeducibilità dall’Irap e di una deducibilità limitata per le imposte dirette), soprattutto se si considera che si tratta di beni strumentali all’attività delle imprese. Cosa che rende ancor più incomprensibile il motivo per cui alcuni macchinari – presse, forni, magazzini automatici ancorati al suolo – debbano essere trattati alla stregua di un bene immobile assoggettato (due volte) a Imu e Tasi. Il tutto sulla base di una controversa norma che risale a 75 anni fa e che, nonostante gli sforzi di chiarezza della Cassazione, resta uno dei grandi misteri del fisco italiano.

Il fisco italiano non merita fiducia: il caso degli investimenti in ricerca

Il fisco italiano non merita fiducia: il caso degli investimenti in ricerca

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Nei paesi avanzati le norme fiscali retroattive non sono pensabili. In sistemi fiscali meno rispettosi dei diritti dei contribuenti può accadere che un contribuente scopra a fine anno che la sua fiscalità è stata modificata con effetti che si iniziano a produrre dal precedente gennaio, mai nei paese dell’Ocse. L’Italia, purtroppo, rappresenta un’eccezione anche a questa regola di civiltà.Il governo Renzi, ad esempio, con l’ultima legge di Stabilità ha modificato con effetto retroattivo almeno tre norme fiscali: quella sulla riduzione dell’Irap del 10%; quella sul regime fiscale di fondi pensione e della casse previdenziali private; quella relativa al credito di imposta sugli investimenti in ricerca. Il caso dell’abrogazione retroattiva per l’intero 2014 del credito di imposta sulle spese di R&D è, poi, perfino paradossale nella sua attuazione. Perché penalizza due volte le imprese che hanno creduto nella serietà della Repubblica italiana.

Il governo Letta aveva introdotto, con decreto legge, data l’urgenza e l’importanza della materia, un credito di imposta del 50% sugli investimenti incrementali rispetto alla media del triennio 2011/13 per l’anno 2014. Supponiamo, come è sicuramente accaduto, che un’impresa abbia investito nel 2014 in attività di ricerca 500mila euro per dotarsi di una nuova offerta per vendere all’estero, visto lo stallo della domanda interna. L’impresa, nel fare il calcolo del costo effettivo del suo investimento e del periodo di payback, ha sicuramente incluso i 250mila euro di credito di imposta (supponiamo che non avesse fatto alcun investimento in R&D nel triennio precedente). Ora, in assenza del credito di imposta, il periodo di recupero dell’investimento raddoppia e quindi la convenienza in termini di cash flow generato si riduce di molto. A fine 2014, poi, la stessa impresa ha scoperto che il governo Renzi ha abrogato retroattivamente la norma che era stata determinante per indurla a investire in innovazione e l’ha lasciata da sola nel dover fronteggiare la copertura finanziaria dei 250mila euro che mancano nel suo piano. Con l’aggravante che, avendo creduto nella serietà fiscale dell’Italia, adesso di ritrova anche 500mila euro di investimenti in ricerca che entrano nel computo del nuovo triennio di franchigia introdotto dal governo Renzi. Se investirà altri 500mila euro in ricerca nel 2015 non avrà diritto ad alcun credito di imposta, stante la legge di stabilità attuale, e per recuperare i 250mila, teoricamente a lei spettanti nel 2014, dovrà investire addirittura 1,5 milioni di euro nel 2015: il credito di imposta è stato dimezzato al 25% e va decurtata la franchigia di 500 mila euro. Insomma cornuto e mazziato. Poi Renzi non può meravigliarsi se l’Italia fa poca innovazione e il pil ristagna.

Diritto abusato

Diritto abusato

Davide Giacalone – Libero

Dannato il Paese in cui si discute sempre delle stesse cose, commettendo sempre gli stessi errori e non venendone mai a capo. Nell’aprile del 2012 fummo solitari, nel denunciare i pericoli legati all’esercizio della delega fiscale e alla codificazione dell’abuso di diritto. Fino a quel punto il bislacco principio aveva una base esclusivamente giurisprudenziale, senza che vi fosse una legge che prevedesse il cittadino possa essere punito per avere applicato una legge. Non fatelo, urlammo. Inutilmente. Anzi, fecero finta che fosse una gran concessione: l’abuso di diritto non sarà un reato e non sarà contestato in sede penale.

Sono passati due anni, il governo s’accinge a dare esecuzione alla delega fiscale e leggo nelle anticipazioni che l’abuso di diritto non sarà più un reato, ma potrà dare luogo ad ammende e penalizzazioni fiscali. Ma non era già escluso, che fosse un reato? Neanche per idea, perché reato era ed è l’omessa dichiarazione dei redditi, e se tu (o una società) non l’hai presentata perché una legge ti consentiva di non farlo (come nel caso di Dolce Si Gabbana), per la via del supposto abuso di diritto s’arriva dritto al processo penale. Come prevedemmo allora. Un abominio. Nel 2013 intervenne la Cassazione, specificando che quando si contesta a un cittadino l’abuso di diritto si deve almeno avere il buon cuore di specificare quale legge gli si contesta di avere applicato e quale no. Perché, fino a quel punto, manco questo ti dicevano.

Ora, attendiamo di leggere il testo, dato che già allora escludevano quel che non si sono dimostrati capaci d’impedire. Osservo, però, che il concetto stesso di abuso di diritto dovrebbe suggerire un abuso dello Stato, che in quel modo viola i diritti forzando il diritto. Una legge c’è o non c’è: nel primo caso nessuno può contestarmi alcunché, se la seguo; nel secondo nessuno può disturbarmi chiedendomi di fare quel che non sono obbligato a fare. Del diritto può abusare lo Stato, non un individuo. Invece si è stabilito che sia condannato quale abuso di diritto l’uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, e ciò anche nel caso in cui tale condotta sia non in contrasto con alcuna specifica disposizione. Quindi, per non affogare nel sempre uguale, per non pestare l’acqua nel mortaio e l’anima ai cittadini, tornando a riscrivere quelle norme, c’è una sola cosa che possa essere seriamente e decentemente fatta: cancellare il concetto di abuso di diritto, lasciando il principio della buona fede.

Oltre le tasse, la difficoltà di scrivere buone regole

Oltre le tasse, la difficoltà di scrivere buone regole

Cristiano Dell’Oste – Il Sole 24 Ore

Facciamo un po’ di storia. Alla fine del 2011 la manovra salva-Italia introduce l’Imu. Negli anni seguenti, le compravendite di abitazioni – già in discesa rispetto alle 877mila del 2006 – arrivano fino alle 407mila del 2013, con un trend ancora in calo quest’anno. Nel frattempo, non si allenta la stretta sui mutui, crollano gli investimenti in nuove costruzioni e aumenta la morosità degli inquilini. Intendiamoci, non è solo colpa delle tasse. Ma è evidente che la pressione fiscale sul mattone, unita alla crisi economica, costringe i proprietari di immobili e le imprese di costruzioni a barcamenarsi in una situazione di equilibrio sempre più precario. Il rischio concreto è quello di avvitarsi in una spirale recessiva sempre più grave, dove la crisi chiama altre tasse, che a loro volta generano altra crisi, e così via all’infinito.

I dati elaborati da Assimpredil, però, consentono anche di sviluppare una riflessione in chiave positiva. Se è vero che le imposte oggi erodono buona parte dell’investimento immobiliare realizzato da un’impresa di costruzioni, è altrettanto vero che questo investimento – se il contesto regolatorio e fiscale fosse ottimizzato – potrebbe tradursi in un gioco a somma positiva: riqualificazione urbana, nessun consumo di suolo, imposte per lo Stato e i Comuni, profitti per i costruttori, nuove abitazioni (o uffici, o negozi) per i privati. Chiedersi perché questo non avvenga, è la domanda chiave.

Deve far riflettere, in questo senso, la leggerenza con cui i parlamentari nelle scorse settimane hanno ipotizzato un emendamento allo “sblocca Italia” – poi liquidato dal ministro delle Infrastrutture – che avrebbe aumentato al 22% l’Iva sugli acquisti dal costruttore. Non proprio il massimo della lungimiranza, in un periodo come questo. Allo stesso modo, deve far riflettere – nel bene e nel male – l’esperienza della detrazione del 65% per il risparmio energetico, che il Ddl di stabilità si propone di prorogare anche per il 2015: dopo anni di tira-e-molla, ci si è resi conto che l’agevolazione si ripaga praticamente da sola, tra incremento dei cantieri, contrasto al lavoro nero e sostegno alle imprese del settore. Eppure, il catalogo dei lavori premiati è quasi identico a quello stilato dalla Finanziaria 2007, e i piani per estenderne l’utilizzo sono sempre rimasti nel cassetto.

Anche i continui ritocchi alla disciplina dei permessi edilizi – ultimo in ordine di tempo quello dettato dallo “sblocca-Italia”- lasciano qualche perplessità. Da un lato, va detto che servirebbe un intervento organico. Dall’altro, bisogna ricordare che spesso le procedure non si inceppano al livello del Testo unico dell’edilizia, ma negli uffici comunali. Insomma, se il circolo virtuoso non si innesca, non è solo perché non si possono abbassare le tasse. È anche perché scrivere buone regole, abbandonare vecchie abitudini amministrative e disciplinare al meglio i bonus fiscali esistenti si rivela spesso troppo complicato. Una lezione da non dimenticare mentre ci si prepara a scrivere la nuova local tax che sostituirà Imu e Tasi.

Bene la stretta fiscale, ma occhio al pressing delle multinazionali

Bene la stretta fiscale, ma occhio al pressing delle multinazionali

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Saremo sempre a giocare a “gatto e topo”, ossia a rincorrere chi ricorre continuamente a nuove astuzie – ci dice Pascal Saint-Amas che dirige il centro per la Politica e l’amministrazione tributaria dell’Ocse –  tuttavia oggi esistono autostrade non viottoli per evitare di pagare tasse e imposte. Il sistema tributario internazionale è obsoleto. Con questa intesa cominciamo a porre le basi per modernizzarlo». Un giudizio, quindi, equilibrato da chi da anni lavora per una migliore trasparenza in materia tributaria e per evitare scappatoie molto facili (come il transfer pricing, ossia la creazione di filiali, oppure di case madri più o meno fittizie, in Paesi a bassa tassazione).

L’accordo, raggiunto poco più di un mese fa in seno all’Ocse e ora sostenuto dal G20, prevede essenzialmente scambi di informazione e una più stretta collaborazione tra le autorità tributarie a tutti i livelli (da quello della formulazione delle politiche a quello della loro applicazione). È un passo importante perché per lustri si è tentato di giungere ad una formulazione che accontentasse i maggiori Stati della comunità internazionale. Lo stesso Segretario Generale dell’Ocse, Angel Gurrìa, afferma che «siamo solo a metà del cammino », anche perché, come documentato da una recente inchiesta sul New York Times, tutte la maggiori multinazionali (iniziando da quelle dell’economia digitale, come Google, Facebook, Astrazeneca) e le principali banche e assicurazioni hanno accentuato la campagna di pressioni sui governi e sui Parlamenti (che hanno il compito di tradurre l’accordo in leggi e regolamenti nazionali) per introdurre “misure di flessibilità”, ove non proprio per spalancare le finestre e consentire di continuare ad operare con le abitudini che hanno fatto la loro fortuna (riducendo il peso tributario sui loro conti).

«Non vedremo cambiamenti radicali nell’immediato», afferma Judith Freedman che dirige il centro di tassazione sulle imprese dell’Università di Oxford, aggiungendo che «senza questo passo non si sarebbe neanche potuto pensare a un percorso verso una maggiore equità e trasparenza tributaria internazionale». I governi che, in questi ultimi anni, si sono succeduti alla guida dell’Italia, sono sempre stati tra i sostenitori più coerenti dell’accordo. Tuttavia, uno dei maggiori specialisti in materia, Joel Slemrod, sorride nel dire che «si sono presi spesso in giro di soli» poiché i suoi studi sull’economia dell’evasione concludono che quanto più un sistema tributario è complicato e sempre in cambiamento tanto più è facile eludere ed evadere.