giuseppe pennisi

Il grande equivoco sul “tesoretto” dell’Italia

Il grande equivoco sul “tesoretto” dell’Italia

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Nel fine settimana appena trascorso, editorialisti grandi e piccoli, uomini politici grandi e piccoli e intellettuali grandi e piccoli hanno stappato bottiglie di champagne a proposito di due notizie: l’approvazione da parte del Parlamento tedesco del Programma greco di riassetto strutturale; le stime Istat secondo cui nel primo trimestre 2015 il Pil potrebbe segnare un aumento dello 0,1% e la fine della recessione. Le due notizie sembrano, a una lettura veloce, distinte e distanti. Sono invece strettamente connesse. L’esultanza al fatto che Berlino abbia dato la fiducia (per così dire) ad Alexis Tsipras e al suo Governo vuol dire che ormai la democrazia (non solo quella parlamentare ma ogni forma di democrazia) appartiene al passato.

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Investimenti pubblici, così Lupi e Madia possono zittire le nuove polemiche

Investimenti pubblici, così Lupi e Madia possono zittire le nuove polemiche

Giuseppe Pennisi – Formiche

Le leggera, e flebile, indicazione di una possibile ripresa economica, e le voci (peraltro incontrollate ed inconsulte data la situazione generale della finanza pubblica) potrebbero fare prospettare un graduale aumento dell’investimento pubblico. In tutta Europa – lo si è visto su Formiche.net del 24 febbraio – la spesa in conto capitale è quella che è stata maggiormente compressa dall’inizio del percorso verso la moneta unica iniziato nel 1992.

Il Piano Juncker – abbiamo visto sempre il 24 febbraio – per ora contiene soltanto alcune promesse e numerose illusioni. “In Italia,- ha scritto Paolo Coccia di Bnl-Bnp su Formiche-net del 15 novembre 2014 – i pochi investimenti pubblici si accompagnano ad un non adeguato livello delle infrastrutture. Su 17mila chilometri di rete ferroviaria, solo il 5,4% è ad alta velocità, mentre in Francia si raggiunge il 6,7% e in Spagna il 13,5%. Il ritardo interessa anche il comparto tecnologico: la fibra ottica risulta ancora poco diffusa e la velocità media per lo scarico dei dati raggiunge livelli pari solo a poco più della metà di quelli francesi”.

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Ma cosa è questa austerità?

Ma cosa è questa austerità?

Giuseppe Pennisi – Formiche

I successi elettorali dei movimenti, se non apertamente anti-europei, quanto meno contrari alle specifiche assunte da politiche, strategie, programmi e misure adottate nell’unione monetarie impongono si approfondire cosa si intenda con austerità, vocabolo centrale nel lessico dei dibattiti di politica economica europei e nazionali in corso in questi giorni. E’ facilmente intuibile che uno degli esiti sarà una differente declinazione del termine austerità.

In questo approfondimento, possono essere di grande aiuto i saggi sul tema prodotti nella letteratura economica. Ma occorre fare attenzione. Il tema dell’austerità è diventato merce di largo consumo tanto nel mondo accademico quanto nella pubblicistica giornalistica. Ha prodotto una vera e propria piccola industria che sforna paper, libri, articoli come se fossero hamburger; occorre distinguere con cura tra quelli che dicono qualcosa di nuovo, basato su vera ricerca, e quelli che scopiazzano i lavori di chi ha pubblicato appena prima di loro. O, peggio ancora, si rivolgono al Prof. Google.

Tra i 150 saggi sull’argomento usciti nell’ultimo mese, tre sono parsi di interesse per i lettori di Formiche. Il primo è un lavoro preparato per l’Economic Policy Panel dell’EIEF (Einaudi Institute of Economics and Finance) tenuto a Roma a fine 2014 ed i cui atti saranno pubblicati tra qualche mese. E’ uno studio collettaneo di Alberto Alesina, Francesco Giavanni e Matteo Paradisi, con la collaborazione di uno stuolo di loro ricercatori. Definita austerity essenzialmente come ‘consolidamento fiscale’ (riduzione della spesa ed aumento dell’imposizione tributaria per ridurre deficit e, quindi, debito), il lavoro analizza, con una strumentazione quantitative, se il ‘consolidamento’ effettuato a partire dal 2009 nell’eurozona ha avuto effetti recessivi sull’eurozona. Le conclusioni sono due: a) gli effetti ci sono stati ma non superiori a quelli quantizzati in altri casi di ‘consolidamento’; b) le implicazioni su produzione ed occupazione sarebbero state notevolmente inferiori a quelle effettivamente computate se si fosse agito sul lato della spesa (riducendola) piuttosto che su quello delle entrate (aumentandole).

Harris Dellas e Dirk Niepelt, ambedue della Università di Berna, partono da una differente accezione del termine austerity – la riduzione dei consumi dai livelli desiderati causata dalla capacità di servizio del debito. In tal modo, austerity diventa essenzialmente uno strumento per ottenere dal mercato migliori condizioni finanziarie (e per il rimborso del debito e per avere fresh money , nuovi finanziamenti). E’ un segnale, quindi, per conquistare credibilità o per migliorare quella che già si ha. Ha funzionato nell’attuale crisi dell’eurozona? Per Dellas e Niepelt è un segnale ‘costoso’, aggettivo qualificativo eloquente.

Molto interessante il saggio rivolto specificatamente ai Paesi dell’Europa centrale, orientale e meridionale pubblicato sul Journal of Economics and Business dell’Università di Rijka, in Croazia, e firmato da Anita Čeh Časni, Ana Andabaka Badurina e Martina Basarac. L’analisi utilizza una batteria di indicatori per il periodo 2000-2011. Il concetto di austerity è strettamente collegato a quello di incidenza del debito pubblico sul Pil, L’esito dei vari test effettuata nell’Università croata è che occorre incidere sulla causa non sui suoi esiti. Le proposte sono che una politica ‘credibile’ di ‘consolidamento fiscale’ deve essere coniugata con politiche che favoriscano crescita ‘duratura di lungo periodo’, quali ‘promuovere lo sviluppo industriale, incoraggiare la crescita e creare un clima per attrarre e favorire investimenti’, unitamente a ‘programmi di riduzione del debito’.

L’Europa convalescente

L’Europa convalescente

Giuseppe Pennisi – Startmag.it

Il settimanale Americano “The National Review”, di orientamento conservatore, definisce l’Europa “Convalescente”. Cosa preoccupa oltreoceano dello stato di salute dell’UE? Su ‘The National Review’ , settimanale americano di orientamento conservatore , Michael Bird chiama l’Europa ‘convalescente’. I suoi strali sono orientati principalmente alla Gran Bretagna ma con riferimenti all’intera eurozona. E’ un segno di miglioramento in quanto in passato l’Unione Europea veniva chiamata ‘ il vecchio ammalato della comunità internazionale’.

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Quanto è liberale il programma di Tsipras?

Quanto è liberale il programma di Tsipras?

Giuseppe Pennisi – Formiche

Alla fine delle lunghe notti di Bruxelles non sorge sempre il sole. Specialmente a febbraio, quando l’alba è di solito nebbiosa e piovosa. Lo era anche alle 16 del 24 febbraio quando l’Eurogruppo ha approvato il programma presentato dalla Grecia. Se non sorge sempre il sole, cosa si fa dopo giornate (e nottate) di negoziati? Prima di andare a riposare, gli eurocrati usano andare a “La Morte Subite” (un nome che è tutto un programma), una birreria aperta nel 1910 ubicata nel centro storico che è diventata ora ristorante di lusso. Lì si tracannano birra ed alcol più pesanti (oltre che vini di pregio) sino alle ore piccolissime.

L’ultima parola (tedesca)

La sera del 24 febbraio il commento più frequente era, in toni un po’ sprezzanti, “il nouveau bail à court terme avec la Grèce”, letteralmente “il nuovo contratto di locazione a breve termine con la Grecia”. Si sotto-intendeva che era stato firmato per stanchezza, che comunque alcuni Parlamenti nazionali (specialmente quello tedesco) hanno l’ultima parola, che Tsipras non riuscirà a tenere gli impegni con il resto dell’eurozona e, al tempo stesso, mantenere tranquillo il fronte interno.

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Che fine ha fatto il Piano Juncker?

Che fine ha fatto il Piano Juncker?

Giuseppe Pennisi – Formiche

Che fine ha fatto il Piano Juncker per rilanciare l’anemica economia europea? Se ne parlò molto con tanto clamore lo scorso novembre quando venne presentato. Si sarebbe trattato di un programma  ambizioso di 315 miliardi di euro, nell’arco di tre anni a partire dal giugno 2015, per promuovere l’occupazione e la crescita.

La Commissione europea (Ce) ha proposto un Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis), che sarà istituito in stretto partenariato con la Banca europea per gli investimenti (Bei), ma la Ce di proprio ha messo sul piatto solamente 21 miliardi di euro (anche se una cinquantina di miliardi di euro sono stati in parte “promessi” ed in parte “impegnati” tra novembre e metà febbraio). Al Fondo sarà associato un organismo di consulenza – lo European Investment Advisory Hub – che aiuterà gli Stati dell’Ue a mettere a punto i progetti più efficaci. Il Fondo dovrebbe costituisce, secondo i comunicati della Ce, “il fulcro dell’offensiva sugli investimenti” del Presidente Juncker, che mobiliterebbe almeno 315 miliardi di euro di investimenti pubblici e privati in tutta l’Unione europea. Saranno sostenuti soprattutto gli investimenti strategici, ad esempio nella banda larga e nelle reti energetiche, e le imprese di dimensioni più piccole.

La proposta istituisce inoltre un Polo europeo di consulenza sugli investimenti per contribuire all’individuazione, la preparazione e lo sviluppo di progetti in tutta l’Unione. Una riserva di progetti di investimento europei migliorerà infine l’informazione degli investitori sui progetti esistenti e futuri. Infine, secondo alcune interpretazioni, gli investimenti del Piano Juncker non verrebbero contabilizzati ai fine di parametri quali il rapporto tra l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni ed il Pil, sarebbe, quindi, un cavallo di Troia per quella golden rule (esenzione della spesa pubblica in conto capitale dal computo del vincolo al deficit annuale) a cui diversi governi (quello italiano in prima linea) mirano da tempo. Con il doppio obiettivo di illustrare il Piano (vero fiore all’occhiello di una Ce che appare sempre più pallida e sbiadita) il vice presidente della Ce, Jirki Katainen, sta facendo un road show che entro settembre lo porterà in 28 Paesi. In gennaio ha visitato per due giorni Roma ed incontrato esponenti del governo, dei sindacati e delle associazioni imprenditoriali.

Già allora è stato sottolineato che sul Piano permangono seri dubbi. Agli occhi della Ce, l’Italia è tra i Paesi che più hanno bisogno di un rilancio degli investimenti pubblici e privati per sostenere la ripresa economica, scalfire il pericolo della deflazione, aiutare la riduzione del debito. L’obiettivo del Feis è di attirare capitale privato. Molti investitori però sono cauti all’idea di partecipare all’iniziativa, anche se il Feis si sobbarcherebbe i rischi insieme al settore privato (assumendosi la prima perdita, ndr). C’è una differenza nel profilo di rischio tra i prestiti della Bei e i prestiti del Feis. A questo riguardo, per dotare il bilancio comunitario di un cuscinetto di liquidità, la Ce intende creare un fondo di garanzia che attraverso contributi regolari provenienti dal proprio  bilancio dovrebbe raggiungere gli otto miliardi di euro entro il 2020. L’obiettivo della Commissione è sempre di assicurare al Fondo un effetto leva di 15. Troppo? Molti lo temono. L’esecutivo comunitario nota però che il recente aumento di capitale della Bei ha generato un effetto leva di 18.

Altro nodo riguarda il governo del Feis. Bruxelles vuole che la selezione dei progetti sia nelle mani di esperti indipendenti, mentre gli Stati membri vogliono influenzare le scelte, e per certi versi condizionano i loro versamenti nel capitale iniziale ad assicurazioni su questo fronte. La trattativa già in gennaio era in salita. Un colpo al Piano è stato inferto il 23 febbraio dal presidente della Bei Werner Hoyer: “Se vogliamo tornare a crescere abbiamo bisogno di un’azione regolatoria per rendere l’Europa un ambiente più favorevole alla imprese di come è oggi”. Ciò sarebbe molto più importante di un’azione sugli investimenti pubblici.

Tanti progetti, poche certezze. Tanti impegni pubblici, pochi privati. Ma soprattutto poca innovazione. Il Piano Juncker lascia più di qualche perplessità alla Bei, l’istituto chiamato a un ruolo centrale nell’attuazione della strategia dell’esecutivo di Bruxelles. Ma al di là dei numeri di rito, è sugli scenari futuri che si concentra l’attenzione della Bei. “L’obiettivo del 2015 è passare dalla ripresa economica al rilancio della competitività attraverso investimenti e innovazione”, sottolinea Hoyer. Ma a Lussemburgo – sede della Bei – non mancano perplessità. “Non vedo abbastanza progetti per il settore privato”, ammette Hoyer. Un problema, visto che serve il coinvolgimento dei privati perché il piano Juncker funzioni. “Vedo progetti orientati principalmente verso il settore pubblico”.

Ma c’è di più. “Si è evidenziato tanto il gap di investimenti, ma in Europa c’è un problema maggiore di gap di innovazione”. Il gap dii investimenti in innovazione, da sola, vale, secondo la Bei, 130 miliardi di euro, circa la metà del piano Juncker (che vale 315 miliardi). L’innovazione oggi la fanno le imprese, dunque i privati. Per cui a detta della Bei “occorre fare in modo che progetti privati in ricerca e sviluppo, quelli che permettono di avere innovazione, possano avere accesso agli strumenti finanziari dell’Ue”.

Qui serve un cambio di strategia politica. La Bei coopera con i commissari interessati, vale a dire Jyrki Katainen (Crescita e investimenti), Pierre Moscovici (Affari economici) e Valdis Dombrovskis (Euro), ma è il caso “iniziare a collaborare di più con Frans Timmermans e Kristalina Georgieva”, commissari rispettivamente per la Migliore legislazione e il Bilancio. “Il Feis per gli investimenti da solo non risolve i problemi”, sottolinea Hoyer. “Se vogliamo tornare a crescere abbiamo bisogno di un’azione regolatoria per rendere l’Europa un ambiente più favorevole alla imprese di come è oggi”.

Perché Hoyer parla solamente adesso? Le ragioni sono almeno tre:

a) Da un lato, a Bruxelles ed in alcuni capitali europee (tra cui Roma) non si è mai voluto ammettere che sette anni di recessione hanno avuto effetti deleteri sulla preparazione di progetti. Le imprese combattevano per sopravvivere più che per ampliare gli impianti esistenti o crearne di nuovi. La spesa in conto capitale si è fatta sempre più piccola: in Italia è passata dal 3% del Pil negli Anni Ottanta a meno dell’1% e appena il 20% dell’apposito fondo per la progettazione creato nel 1999 è stato utilizzato. Quindi, semplicemente mancano i progetti “pronti”, “cantierabili” e con effettive ricadute positive sull’economia del Paese.

b)  Da un altro, la nuova crisi greca (e l’opposizione nei confronti dell’unione monetaria crescente in molti Paesi) ha reso tutti più cauti. La  alma dei mercati finanziari viene interpretata come la quiete prima della tempesta. Su ciò pesa la situazione degli istituti di credito; le voci della possibile istituzione di una bad bank non incoraggiano certo ad investire.

c) Da un altro ancora, la situazione ad Est (leggi Ucraina) e nel Mediterraneo (leggi Libia). Nessuno ha sino ad ora smentito le stime che un eventuale intervento in Libia contro l’Isis costerebbe 15 miliardi di euro al mese, che cadrebbero in gran misura sui contribuenti europei, spiazzando altri obiettivi. In questo quadro, il Piano è quanto meno una “vittima collaterale”.

Il “Jolly” da 25 miliardi in mano ad Atene

Il “Jolly” da 25 miliardi in mano ad Atene

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

La conclusione della riunione dell’Ecofin del 20 febbraio ha lasciato molte bocche amare, poiché appare difficile che nell’arco di quattro mesi, pur con il supporto dell’Ocse, il Governo della Repubblica ellenica riesca a preparare un programma di riassetto strutturale tale da convincere i partner dell’Eurogruppo. Appare ancora più difficile che i lineamenti di tale piano siamo pronti e consegnati a Bruxelles nel corso della giornata di oggi e discussi (e approvati) domani da un’altra riunione collegiale.

C’è, senza dubbio, grande attesa per quali saranno i contenuti nella lettera che entro stasera dovrebbe arrivare alla Commissione europea e all’Eurogruppo. C’è anche – occorre dirlo – una buona dose di scetticismo, almeno negli editoriali dei quotidiani economici e nelle dichiarazioni di esponenti grandi e piccoli delle istituzioni europee. L’impressione generale è che si è solamente guadagnato tempo per evitare una probabile uscita della Grecia dell’eurozona e il caos sui mercati finanziari mondiali che ciò causerebbe. La settimana scorsa – com’è noto – si è mossa anche Washington, spesso negli ultimi tempi poco attenta ai problemi europei (a ragione di quelli in altre parti del mondo) per incidere soprattutto su Atene affinché si giungesse a un accordo.

Ma se ci fossero informazioni nuove e tali da cambiare le carte in tavola? Un dato nuovo, e non irrilevante, è stato portato all’attenzione di un gruppo ristretto di economisti e specialisti di finanza, il 18 febbraio a Londra in una riunione riservata (ma non troppo) tenuta nei piani alti della torre di Morgan Stanley a Londra. Sono i calcoli di Paul B. Kazarian, economista e finanziere Usa di origine armena, che ha lavorato a lungo per Goldman Sachs prima di creare una propria finanziaria a Providence, Rhode Island, (Japonica Partners con cui ha assestato un paio di colpi fortunati). Ora, cinquantanovenne, è ricchissimo e ha un portafoglio gonfio di bonds greci (quelle che la Banca centrale europea considera quasi-spazzatura) nella convinzione che gli porteranno un’enorme guadagno. A suo avviso, il debito “netto” greco è notevolmente inferiore a quanto indicato nelle cifre ufficiali e il Paese ha tutti i numeri per rimettersi in cammino.

La materia è molto tecnica. Quindi, va spiegata con ordine. Il debito sovrano greco è stimato in 318 miliardi di euro, applicando metodologie e procedure Eurostat che sono essenzialmente le stesse di quelle applicate da Banca mondiale, Fondo monetario internazionale e Ocse. Kazarian sostiene che se ciò che in ballo è il fallimento della Repubblica ellenica, al fine di valutare la consistenza effettiva del debito e il suo peso sull’economia occorre impiegare strumenti di contabilità aziendale, per l’appunto gli International accounting standard (Ias), in vigore da diversi anni negli Usa e in Europa.

Gli Ias hanno due colonne: il dare e l’avere. Nella colonna del dare, soprattutto, tengono conto del valore attuale dell’indebitamento. I numerosi riassetti del debito greco effettuati dal 2010 fanno sì che il valore attuale dell’indebitamento sia inferiore al debito nominale computato da Eurostat e altri. Sino a questo punto, il ragionamento di Kazarian tiene: è confermato indirettamente dal fatto che – come notato su queste pagine – il servizio del debito incide sul Pil greco meno di quanto non incidano i servizi del debito di Italia, Spagna e Portogallo sui relativi prodotti nazionali.

La colonna dell’avere contiene stime del valore del patrimonio pubblico greco: dai beni demaniali, alle partecipazioni statali, a beni culturali (quali il Partenone). Ritengo che non si debba tenere conto della colonna dell’avere, sarebbe come se nella contabilità dell’indebitamento italiano si computassero i 3800 miliardi di euro di risparmi delle famiglie e anche il valore del Colosseo e del Duomo di Milano. Se ci sofferma però sul dare, il peso del debito greco scende di 20-25 miliardi di euro. E un percorso di riassetto strutturale appare maggiormente fattibile.

Con criteri di contabilità diversi il debito pubblico della Grecia potrebbe risultare ben più basso

Con criteri di contabilità diversi il debito pubblico della Grecia potrebbe risultare ben più basso

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Nel gioco a due livelli in cui è impegnata Atene, le misure previste riguardano da un lato un maggiore impegno nella lotta all’evasione e nella produttività dell’amministrazione (‘credibilità’ rispetto ai partner dell’eurogruppo), dall’altro nell’aumento delle pensioni più basse (‘popolarità’ di fronte ai propri elettori). Un vero e proprio esercizio di equilibrio giacché Tsipras aveva fatto ben altre promesse in campagna elettorale.

Tuttavia, un supporto importante (per Tsipras) potrebbe venire da nuove stime sulla consistenza del debito. Secondo l’economista e finanziarie Paul B. Kazarian, che ha lavorato a lungo per Goldman Sachs prima di creare una propria finanziaria con la quale ha acquistato alla grande titoli del debito pubblico greco, se si applicano criteri di contabilità aziendale (gli International Accountin Standards) e non quelli della contabilità economica nazionale il debito ‘netto’ della Grecia risulta notevolmente inferiore ai computi correnti. Pur non condividendo molti punti del documento di Kazarian, occorre ammettere che i numerosi riassetti effettuati dal 2010 fanno sì che il valore attuale del debito sia inferiore al valore nominale: ciò è confermato indirettamente dal fatto che il servizio del debito incide sul Pil greco meno di quanto non incidano i servizi del debito di Italia, Spagna e Portogallo sui relativi prodotti nazionali. A spanne, si può dire che il peso del debito greco sul Pil scende da 318 miliardi di euro a circa 290 dando maggior spazio a tempi per l’aggiustamento strutturale.

Occorre però chiedersi se le misure contemplate nel documento della Grecia sono tali da favorire quella crescita accelerata che rimane l’unico rimedio per risolvere nel lungo periodo i nodi del Paese. Oggi viene pubblicato un documento del centro studi ImpresaLavoro che ha coordinato dieci pensatoi economici europei (ma non ce n’è alcuno greco) secondo cui l’ingrediente essenziale consiste nell’ampliare la libertà d’impresa. A conclusioni analoghe giunge un documento, diramato il 23 febbraio, in cui le banche nazionali di Belgio, Francia, Finlandia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Olanda, e la stessa Bce commentano (unitariamente) i primi due anni di applicazione di nuove regole del Fondo monetario sulla vigilanza e analisi economica in Europa.

Ferrovie e non solo, il discreto charme delle privatizzazioni

Ferrovie e non solo, il discreto charme delle privatizzazioni

Giuseppe Pennisi – Formiche

Nell’ultimo mese, una serie di articoli su Formiche.net hanno cercato di fare il punto sulle privatizzazioni. È venuto il momento di arrivare ad alcune conclusioni. Almeno per ora, la materia è in rapida evoluzione e non è detto che non ci siamo svolte improvvise. In una direzione o in un’altra.

Per tre lustri, redigo il capitolo sulle privatizzazioni del Rapporto Annuale sulla Liberalizzazione della Società Italiana pubblicato dall’editore Rubbettino. Mi sono gradualmente convinto che in Italia le privatizzazioni hanno, come la borghesia del noto film di Bunuel, uno ‘charme discreto’: affascinano tutti ma quanto si arriva al dunque viene fatto molto meno di quanto sperato. Oppure – ancora peggio – si nazionalizza più di quanto non si privatizzi. A fine 2014, il più diffuso quotidiano italiano dedicava tre pagine alle privatizzazione in programma per il 2015, iniziato da poche settimane. Dimenticava, però, di dire che i Governi ed i Parlamenti succedutesi dal 2011 hanno portato a termine unicamente la privatizzazione dell’UNICI, l’unione degli ufficiali in congedo, in pratica un circolo ricreativo. È stata, invero, portata in Borsa Fincantieri ma ha ottenuto giusto i fondi (350 milioni) per sostenere il suo piano di sviluppo.

Cdp Reti – che ingloba le partecipazioni di controllo di Terna e Snam già in portafoglio di Cdp – ha fruttato 2,1 miliardi con la cessione del 35% alla State Grid of China, ma serviranno altri passaggi come un dividendo straordinario per far tornare quelle risorse ai soci. Dopo molti tentennamenti, ha varcato la porta di Palazzo Mezzanotte anche RaiWay, essenzialmente però per rendere possibile una riduzione dei contributi pubblici a quella Rai che, come si è visto nel primo di questi articoli, dovrebbe essere “la madre di tutte le privatizzazioni”, secondo un documento dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa, organismo internazionale distinto e distante dalle nostre beghe.

Il Governo Renzi ha annunciato privatizzazioni per 11,2 miliardi all’anno fino al 2017, contro gli 8 miliardi fino al 2016, contemplati dal Governo Letta. Tuttavia, oggi è ancora meno chiara di dieci-quindici anni fa quella che gli economisti chiamano la funzione obiettivo delle privatizzazioni: in che misura vengono invocate per ‘fare cassa’ ed alleggerire il debito pubblico ed in che misura per rendere più efficiente il sistema complessivo ed aumentare la produttività multifattoriale. Allora la priorità della riduzione del debito pubblico era chiara ed iscritta nella normativa, tanto che i proventi delle privatizzazione venivano direttamente incanalati in un fondo speciale per alleggerire il fardello del debito. Adesso, anche ove in tre anni si privatizzasse per 33-34 miliardi, si scalfirebbe appena uno stock di debito pubblico attorno a 2.200 miliardi. A maggior ragione, quindi, occorre essere chiari sugli obiettivi. Altrimenti, lo charme discreto diventa come quella catenine d’argento che si regalano per i Battesimi, “così fini, così fini – diceva Petrolini – che non si vedono nemmeno”.

Inoltre, allo charme discreto delle privatizzazioni si contrappongono mani pubbliche sempre più tentacolari. È di questi giorni il ritorno alla grande del Tesoro come azionista del Monte dei Paschi di Siena. Aumentano le voci di una bad bank pubblica per alloggiare (sulle spalle dei contribuenti) le sofferenze di istituti di credito privati. È ormai scontato un intervento pubblico “temporaneo” per l’Ilva. È in fase avanzata il progetto di un fondo per l’ingresso anche esso ‘temporaneo’ nel capitale di aziende in crisi. Lo “charme” rischia di diventare troppo discreto.

Un «conto» da 15 miliardi al mese che affonderebbe le finanze europee

Un «conto» da 15 miliardi al mese che affonderebbe le finanze europee

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Le guerre si possono vincere o perdere. Anche se va fatto ogni sforzo perché non si combattano. Quale che sia l’esito, è comunque certo che comportano pesanti costi sia in termini di vittime sia economici. Quanto costerebbe un’eventuale guerra nel Mediterraneo? Gli avvenimenti sono stati così rapidi e convulsi che nessuno, sinora, ha predisposto stime – come accadde, invece, per le due guerre del Golfo, che ebbero una lunga premessa di lavorio democratico. Inoltre, mentre alcuni centri studi americani – come la Rand Corp in California e la Rac a Washington – sono specializzati in questa tipologia di analisi, in Europa solo alcune università britanniche dedicano risorse a ricerche del genere, ponendo attenzione particolare, però, agli studi sull’economia del terrorismo piuttosto che sull’economia della guerra – tema che da 70 anni appare desueto e privo di interesse.

Occorre chiedersi quali sarebbero le implicazioni di politica economica per i Paesi maggiormente coinvolti nel conflitto in generale, e per quelli dell’Ue mediterranea in particolare. Alcuni parametri ci sono e possono essere utilizzati. Ai tempi della seconda guerra del Golfo, le prime stime di fonte americana (elaborate dell’ormai defunta banca d’affari Lehman Brothers) parlavano di un costo  finanziario” in senso stretto di 5,4 miliardi al mese. Tali stime riguardavano esclusivamente l’onere “finanziario”  del dispiego delle forze Nato, e non comprendevano né le spese, sempre “finanziarie”, per il sostentamento dei profughi, né quelle per riparare e rimettere in funzione strutture danneggiate. Non comprendevano né i costi umani (in termini di perdite di vite, di mutilazioni, di dislocazioni) né i costi “economici” (in termini di effetti sulla produzione, sul reddito e sull’occupazione dei Paesi coinvolti).

Non solo, dopo pochi mesi si rivelarono errate del 300%, su base mensile, ma il conflitto che sarebbe dovuto durare poche settimane è ancora in corso. Allora, gli Usa esponevano un tasso di aumento del Pil tra il 2,75% ed il 3,5% l’anno, e un saggio di disoccupazione pari a solo il 4,2% della forza di lavoro. E gran parte del costo finanziario era sul loro bilancio. Prendendo come base minima (molto prudenziale) 15 miliardi di euro al mese, e ipotizzando che gran parte dell’onere graverebbe sull’eurozona (che tra l’altro dovrebbe noleggiare parte degli armamenti), è legittimo chiedersi quali sarebbero le implicazioni in termini sia di finanza pubblica sia d’economia reale. Specialmente in una fase in cui l’area dell’euro sta faticando ad uscire da una lunga e pesante recessione che ha sfiancato il sistema manifatturiero di numerosi Paesi e portato al 12% il tasso medio di disoccupazione.

La guerra sarebbe indubbiamente “una circostanza eccezionale e straordinaria” per rivedere in modo marcato il Fiscal Compact (o la sua interpretazione) in quanto tutti gli Stati dell’area dovrebbero aumentare spesa pubblica sia di parte corrente che in conto capitale. Potrebbe anche diventare il grimaldello per consentire l’applicazione di quella golden rule in base alla quale l’investimento viene esentato dal computo di alcuni parametri. Al tempo stesso, comporrebbe un forte storno di risorse dal civile al militare. Non solamente salterebbe il già traballante Piano Juncker ma si porrebbero seri problemi di valutazione della spesa per assicurare che vengano adottati principi di efficienza, efficacia ed economicità. Tentativi in questo senso vennero effettuati circa 23 anni fa (nel 1991-92) ma i risultatati non sono mai stati pubblicati e non si sa se il gruppo di studio esista ancora. Sarebbe l’occasione giusta per riattivarlo.